questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta su La Stampa.
di Raffaele Avico
A 40 anni dalla promulgazione della legge 180, che avrebbe smontato l’idea del manicomio come istituzione totale e consegnato Franco Basaglia alla memoria dei posteri come il “liberatore” dei pazienti psichiatrici in Italia, può essere utile provare a capire in che modo la legge 180 riorganizzò la psichiatria territoriale, cosa resta e cosa è stato realmente superato del manicomio come istituzione totale, sopravvissuto fino a fine anni ’70.
La legge 180 promosse lo smantellamento del manicomio come istituzione unica in favore, in primo luogo, di una capillarizzazione e di una frammentazione dei servizi psichiatrici sul territorio, regolamentati, regione per regione, da norme e consuetudini simili seppur con alcune diversità contestuali. In paziente si trova di fronte a un iter simile: accettazione, presa in carico, diagnosi, impostazione del piano di cura e ricollocazione -eventuale- del paziente stesso. Questo è stato, prima di tutto, il grandissimo apporto prodotto dalla cascata di cambiamenti messi in moto dalla legge Basaglia: un iter unico, uno standard di presa in carico capillare e trasversale alle singole regioni, che consentisse una gestione dei pazienti sul territorio in qualche modo tutelata da standard di minima, in contrasto con la gestione “verticale” della cura che era invece caratteristica delle istituzioni manicomiali.
I servizi attuali sono reti di strutture tra di loro, in teoria, collegate, i cui nodi nevralgici sono i dipartimenti di salute mentale che decidono per il piano di cura da impostare con il singolo utente. Se la persona necessita di un ricovero perchè in uno stato di acuzie, viene proposto un ricovero presso un reparto ospedaliero (che a volte avviene per accesso diretto da pronto soccorso); se invece la persona necessita di effettuare un vero e proprio percorso, esistono delle strutture residenziali che possono ospitare la persona per periodi più o meno lunghi, con caratteristiche diverse a seconda del tipo di problema da trattare. Infine, esistono dei luoghi a frequentazione diurna o ambulatoriale, che consentono all’utente di usufruire di consulenze medico/psicoterapiche senza doversi isolare nel contesto di strutture protette.
La rete di servizi attuale è la riformulazione territoriale e frammentata dei servizi di salute mentale che prima della legge 180 erano catalizzati e isolati: questo isolamento era espressione/lascito dell’esigenza di “igiene” sociale, espressione della spinta espulsiva e difensiva messa in atto dalla popolazione “sana” e dalle istituzioni, per ragioni di “protezione” -teorica- della popolazione dai rischi (di fatto inesistenti) del contatto con la popolazione invece affetta da turbe psichiche.
Queste tendenze espulsive espresse storicamente e ciclicamente non solo dal mondo della psichiatria, ma in generale dalla società civile, sono molto difficili a morire, e questo Basaglia lo sapeva bene: la promulgazione della legge 180 penetrò – scardinandole- alcune barriere concettuali che resero l’Italia un esempio europeo di promozione (almeno tentata) di buone prassi psichiatriche. Eppure, esistono forme di nuova cronicità.
NUOVE FORME DI CRONICITA’?
Di recente alcuni articoli hanno promosso la sanità italiana a un livello molto alto (Lancet, probabilmente une delle più prestigiose testate al mondo, la classifica globalmente al dodicesimo posto in termini di rapporto efficienza/qualità dei servizi erogati/costi); per quanto riguarda la psichiatria, essa si distingue per un’impronta democratica e la scomparsa -teorica- delle istituzioni manicomiali.
Eppure, siamo lontani dal proporre soluzioni definitive di gestione della malattia mentale, e questo sia per insufficienza di risorse, sia per evidenti risposte definitive in senso scientifico con ancora troppe incognite su come origini e si possa gestire al meglio un problema di tipo psichiatrico. Inoltre, la società non trova lo spazio per una reale convivenza con l’utenza psichiatrica: i turbamenti prodotti dall’osservare da vicino le difficoltà di un paziente psicotico, per esempio, producono spesso diffidenza, spavento, paura del diverso. Mancano contenitori sociali che, su larga scala e per tempi allargati, prevedano una “reale” ri-collocazione dei pazienti nella struttura sociale che sia efficacemente abilitante e comunitaria.
Dove sono, quindi, oggi, i pazienti? In parte, sono a casa loro, tra gli affetti che sono loro rimasti; una parte di essi, consumatesi le possibilità famigliari (per invecchiamento dei genitori, o per difficoltà degli stessi di farsi carico di pesi a volte gravosi), viene inserita nel circuito della psichiatria residenziale territoriale. Purtroppo, i trattamenti residenziali non sono mai “lineari”: ad esempio, un paziente che necessiti di un intervento sostanziale entra in una struttura terapeutica, da qui viene alloggiato in un gruppo appartamento, spesso per poi tornare a una struttura residenziale, come in un loop che conduce a percorsi lunghissimi, seppure variegati nella loro essenza. Questo viene spesso frammentato da un certo numero di ricoveri in strutture ospedaliere per le fasi di maggiore acuzie. Aggiungiamo che le famiglie alle spalle dei pazienti sono spesso in evidenti difficoltà gestionali. La questione della rete di familiari diviene un problema di ordine da strettamente clinico a sociale, visto che i pazienti psichiatrici più in difficoltà necessitano di una forma di genitorialità protratta che da qualche parte deve essere garantita, se non si vuole lasciare il soggetto isolato o nell’impossibilità di sopravvivere in autonomia. Il circuito della psichiatria canonica è al momento il contenitore più ragionevole e sensato, quand’anche non perfettamente efficace o totalmente risolutivo.
Sono poche le alternative ai circuiti canonici della psichiatria che consentano un’applicazione reale del mandato basagliano, nel tentativo di scongiurare il rischio di queste nuove forme di cronicità: tra questi, i tentativi di inserimento etero-familiare di adulti psichiatrici adulti, sperimentazioni presenti in tutta Europa e in Italia conosciute come progetto IESA. Il progetto IESA inserisce pazienti psichiatrici entro famiglie di volontari ospitanti (qui un approfondimento).
IESA
Abbiamo posto alcune domande al Dott. Aluffi, direttore scientifico di Dymphna’s Family (la rivista scientifica europea sullo IESA):
- Dott. Aluffi, quali ritiene siano i vantaggi che un progetto come lo IESA reca al territorio?
Un progetto come lo IESA che mira all’inclusione sociale di soggetti in difficoltà, valorizza le risorse presenti nel territorio, inducendo il contesto sociale a farsi carico delle sue parti più fragili. Va ad attivare le reti sociali già presenti, ne potenzia le capacità di integrazione, offrendo agli ospiti un contesto di vita non istituzionalizzato, non alienato dalla quotidianità in cui ciascuno di noi è inserito e in cui ciascun soggetto ha diritto di vivere. Inoltre la presenza di un rimborso spese per l’accoglienza corrisposto alle famiglie che generosamente aprono le porte delle loro case e mettono a disposizione il loro tempo per sostenere un ospite, può essere visto come una virtuosa ridistribuzione di risorse che ha come ricaduta positiva secondaria il fatto di evitare una massimizzazione del profitto devolvendo denaro esclusivamente in strutture protette. Lo IESA quindi segue un principio equo, ecologico e solidale, sostenendo il territorio e i cittadini.
- Cosa ha notato, nella sua esperienza, in termini di vantaggi ai pazienti?
Numerose ricerche scientifiche mettono in luce i parametri di efficacia dello strumento IESA. Innanzitutto è evidente una riduzione dei giorni di ricovero per cause psichiatriche, favorito da un maggior contenimento affettivo e un supporto più puntuale e continuativo garantito dalle famiglie ospitanti con l’aiuto degli operatori dell’équipe IESA; questo è sicuramente un indicatore di benessere e produce inoltre un risparmio dal punto di vista della gestione del denaro pubblico, attraverso una maggiore disponibilità di risorse di cura residenziale per i cittadini in stato di necessità, grazie all’ottimizzazione della spesa.
Lo stesso ragionamento vale per un altro parametro che emerge dalle ricerche che evidenziano una riduzione dei dosaggi di benzodiazepine al bisogno.
Infine il vantaggio maggiore è l’aumento della qualità della vita per i pazienti che possono riacquisire un ruolo sociale e familiare nel nuovo contesto, hanno la possibilità di ricostruirsi una rete di amici, incontrano nuove possibilità di formazione, lavoro e svago al di fuori del circuito psichiatrico e dunque dello stigma che ne deriva.
- Quanto ci allontaniamo dagli esempi europei (mi riferisco per esempio al progetto SHARED LIVES o alla stessa città di Geel)?
Il modello italiano, ispirato a quello tedesco, è profondamente diverso da quello belga di Geel nel quale i posti letto offerti dalle famiglie ospitanti sono considerati alla stregua di quelli messi a disposizione dalla clinica, che governa i progetti, semplicemente “dislocati” sul territorio anziché all’interno delle mura ospedaliere, mentre il modello seguito da Shared Lives risulta più vicino al nostro. La grande differenza sta nei numeri, poiché in Italia i progetti attivi sul territorio nazionale risultano ancora molto bassi rispetto a quelli delle esperienze citate, a causa di carenze di tipo culturale che vanno colmate, parlando di IESA e trasmettendo le potenzialità di tale proposta di cura, sia tra i professional, sia all’interno della popolazione. In questa operazione anche le istituzioni quali ad esempio le università dovrebbero farsi carico della responsabilità di inserire la formazione sullo IESA nei vari corsi potenzialmente interessati da tale pratica, anziché insistere su modelli di cura residenziale ancora legati a logiche massificatorie e separatorie basate sul concetto di terapia esclusivamente o quasi coincidente con l’assunzione di farmaci.
- Cosa sogna per il progetto IESA, nel futuro?
La funzione del sogno è per me molto importante e non nascondo che un approccio visionario, man mano sempre più sostenuto da evidenze, mi accompagna sin dai primi momenti in cui mi sono affacciato al mondo dello IESA. Era appunto un sogno nel lontano 1996, anno in cui mi trovavo nel sud della Germania e lavoravo a una ricerca proprio sullo IESA, poter portare un giorno nel mio paese questo modello di lavoro e questo approccio alla cura del disagio psichico. Questo sogno si è realizzato parzialmente in questi ultimi 20 anni, vedendo via via la nascita e la diffusione di diversi progetti IESA presso le ASL nazionali. La realizzazione del sogno per completarsi necessita ancora di una diffusione capillare di Servizi IESA sul territorio nazionale, che offrano un prodotto di qualità secondo precisi parametri condivisi e accreditati, un maggiore investimento da parte delle gestioni delle aziende sanitarie locali e delle Regioni, e dunque maggiori possibilità per i pazienti di accedere ad un supporto, ma mantenendo il più possibile una quotidianità “normale”. A sostegno di tutto questa occorrerà l’approvazione di una legge nazionale sul metodo IESA come strumento di cura residenziale in ambito psichiatrico ma non solo.
- Quali sono i vostri obiettivi operativi nel prossimo futuro?
Continuare a svolgere bene il nostro lavoro sul territorio dell’ASL TO3 con un investimento sempre maggiore e realizzare una corretta diffusione di questo tipo di strumento su tutto il territorio regionale piemontese, così come previsto dalla recente normativa in materia di riorganizzazione della residenzialità in psichiatria. Sto inoltre lavorando all’elaborazione di una proposta di legge nazionale sullo IESA che spero di vedere trasformata in legge entro la fine dell’attuale legislatura. Insieme a valorosi collaboratori abbiamo preparato un testo che ha già incontrato l’apprezzamento di alcuni parlamentari. Da qui in poi molto dipenderà dall’effettivo orientamento del parlamento a sostenere un modello di cure che mette al primo posto gli interessi della cittadinanza e dei potenziali fruitori. Speriamo in bene…