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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

20 novembre 2018

LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE

di Matteo Respino

Un recente articolo pubblicato su The Journal of Social and Clinical Psychology mostra come la riduzione quotidiana dell’uso dei social si accompagni a una riduzione dei livelli di solitudine e di depressione. Sebbene a tutti coloro che usano i social ciò possa apparire intuitivo, sono in realtà pochi gli studi che ad oggi hanno investigato tale relazione.

In più, questo studio è longitudinale e pertanto fornisce indicazioni aggiuntive sul nesso di causalità tra uso dei social e stati affettivi negativi.

Gli Autori hanno studiato 2 gruppi di soggetti, in tutto 143 studenti dell’Università della Pennsylvania. Un gruppo di controllo ha mantenuto costante l’uso dei social media per un periodo di 3 settimane. Il gruppo sperimentale ha invece ridotto l’uso di Facebook, Instagram o Snapchat a non oltre 10 minuti al giorno per lo stesso periodo di tempo. I livelli di ansia, umore, ed altre variabili cliniche sono state valutate all’inizio e poi settimanalmente. I risultati hanno mostrato che da un lato in entrambi i gruppi si sono ridotti i livelli d’ansia (il che potrebbe suggerire un ruolo benefico aspecifico del “self-monitoring”, ovvero del monitoraggio regolare sulle proprie condizioni psico-emotive). Inoltre, nel caso di coloro che hanno ridotto l’uso dei social media si è assistito a una riduzione significativa dei livelli di solitudine e depressione.

Tale studio è interessante ed in linea con la percezione comune (ovvero, che limitare l’uso dei social media possa migliorare le condizioni psichiche di un individuo) ma presenta comunque importanti limiti, quali ad esempio un importante attrition effect, cioè la perdita di soggetti durante lo studio, che ha come conseguenza un campione numericamente molto limitato al follow-up e una capacità limitata di trarre conclusioni definitive su quanto osservato.

Nonostante tali limiti, la rilevanza sociale e clinica dell’argomento trattato ha portato sia l’emittente CNBC sia l’APA (American Psychiatric Association) a pubblicizzare lo studio ed i suoi risultati sulle rispettive pagine online. Lo studio titola “No more FOMO: limiting social media decreases loneliness and depression”.

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12 novembre 2018

IL PTSD IN VIDEO

di Raffaele Avico

La vita sotto PTSD diviene, gradualmente, un incubo da svegli, popolato da fantasmi e pensieri disturbanti da cui sembra difficilissimo emanciparsi. I pensieri che hanno a che vedere con il trauma, si ripresentano alla coscienza e producono cambi del colorito emotivo, veri e propri intrusi che hanno il potere di smontare la “coreografia” del presente per farci tornare alla realtà del nostro trauma.

Rendiamoci conto che la sintomatologia del PTSD è forse una delle più disturbanti e allo stesso tempo facili da riconoscere, di tutta l’ampia gamma della psicopatologia per come la conosciamo. Il PTSD è una sindrome dai contorni molto nitidi: non è nè un disturbo d’ansia in senso stretto (seppur porti con sè senso di panico e accelerazione, cosa che potrebbero far pensare a un disturbo d’ansia) nè un disturbo dell’umore (seppur porti con sè viraggi e sbalzi del tono emotivo): ha più a che vedere con l’alterazione dello stato della coscienza, che diviene permeabile ai contenuti traumatici.

Osserviamo il tentativo che qui è stato fatto per rappresentare, in senso soggettivo, il PTSD. Il video tenta di raccontare cosa succede a chi attraversa un periodo potentemente traumatico:

Nel suo romanzo breve Le notti bianche, Fedor Dostoevskij, fine conoscitore della psicologia umana, racconta di quattro notti e di un mattino trascorse dal suo personaggio senza nome (“Il sognatore”) alle prese con una relazione sentimentale appena nata ma già destinata a finire. A seguito di appunto quattro notti trascorse nella speranza di aver infine risolto il suo stato di mancata appartenenza e solitudine (grazie a una donna incontrata, una notte, a St.Pietroburgo), nel rendersi conto che l’amata è in realtà già destinata a qualcun altro, il sognatore immagina la scena terribile di  lui stesso, quindici anni più tardi, nel medesimo stato di isolamento sofferto nel momento presente: Dostoevskij descrive qui un vero viraggio in senso depressivo dello stato emotivo, simile tuttavia a ciò che succede a chi, soffrendo di PTSD, forzosamente venga costretto a “tornare” con la mente al terribile contenuto traumatico.

Nel PTSD, anche un solo pensiero, il ricordo di qualcosa di doloroso o spaventoso, diviene la porta, il “trigger” che ci ripiomba nell’insicurezza e nella paura, tanto da divenire un vero e proprio persecutore interno, al cospetto del quale ci sentiamo sempre impotenti e indifesi (pensiamo alle vittime di stalking o bullismo, e a come la paura parta da qualcosa di “esterno” per entrare dentro e divenire generalizzata e costante). Leggiamo cosa vive il sognatore:

Rilessi più volte la lettera; discendevano le lacrime dagli occhi. Alla fine mi cadde dalle mani, e mi coprii il viso.
«Caro, ehi, caro!», inizio Matrëna.
«Cosa, vecchia?»
«Quella ragnatela l’ho tolta tutta dal soffitto; adesso sposati pure, invita gente, sarebbe l’ora…»
Guardai Matrëna. Era ancora in gamba, una vecchia giovane, ma, non so perché, all’improvviso mi apparve con lo sguardo spento, con le rughe sul viso, ingobbita, decrepita… Non so perchè, all’improvviso mi sembrò che anche la mia camera fosse invecchiata come la vecchia. Le pareti e il pavimento erano sbiaditi, tutto si era offuscato; di ragnatele ce n’erano ancora di più. Non so perché, quando guardai dalla finestra, mi sembrò che la casa di fronte anche fosse diventata decrepita e si fosse a sua volta offuscata, che gli stucchi sulle colonne si fossero staccati e fossero caduti, che i cornicioni si fossero anneriti e coperti di crepe e le pareti da un colore giallo scuro brillante fossero diventate a chiazze…
Forse un raggio di sole, dopo aver fatto improvvisamente capolino da dietro una nuvola, si nascose di nuovo sotto la nube carica di pioggia, e tutto di nuovo si offuscò ai miei occhi; o, forse, davanti a me balenò così sgradita e triste tutta la prospettiva del mio futuro, e io vidi me stesso cosi come ora, esattamente tra quindici anni, invecchiato, nella stessa camera, ugualmente solo, con la stessa Matrëna, che non era diventata più intelligente in tutti quegli anni”

Come è stato giustamente notato, Dostoevskij qui (ma anche altrove), usa in modo molto frequente l’avverbio “improvvisamente” per raccontare l’andamento apparentemente irrazionale del flusso dei pensieri, dalle più alte vette di felicità e unione mistica fino ai baratri dello sconforto e della solitudine esistenziale vissuta dai personaggi dei suoi lavori. È molto vivida, in questa descrizione, la sensazione dello “sbalzo” emotivo prodotto dalla visione del sè futuro  -isolato e solo-, e la ri-significazione in chiave depressiva della realtà da lui esperita, come se la stessa venisse svuotata di vita.

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9 novembre 2018

PILLOLE DI EMPOWERMENT

di Raffaele Avico


Si parla oggi molto di empowerment. Cosa significa, per punti?

  1. il termine indica il processo di CONFERIRE POTERE a qualcun altro: il fine ultimo di questo processo, dovrebbe essere in teoria il fatto che chi è “empowered” sperimenta maggiore senso di controllo e (auto)efficacia -cioè fiducia di poter essere “incisivo” sulla propria realtà
  2. qui potere va inteso non tanto come potere sulle altre persone, ma come potere DI, ovvero potere di fare, di dire, di affermarsi, di cambiare la carte in tavola nel contesto di una certa situazione: di fatto questo potere si accompagna a una maggior libertà percepita e un senso di maggiore “fiducia” nel fatto che le cose possano cambiare
  3. questo potere lo si può “concedere”, “attribuire” agli altri (una madre con suo figlio, una capo con il suo sottoposto, un professore con il suo alunno, ovunque ci sia una relazione a-simmetrica in cui qualcuno ha potere su qualcun altro). In che modo?
    1. RESPONSABILIZZAZIONE: cosa intendiamo per responsabilizzazione? Qui va inteso con la capacità di delegare dei compiti a qualcun altro, concedendogli fiducia, facendo sì che la persona stessa si senta responsabile di ciò che sta facendo o ha fatto. “Far fare, più che fare”, mettendosi da parte, cosicchè la persona si senta responsabile delle decisioni e delle scelte che deve compiere. Capiamo bene come, in un’ottica organizzativa, questo modello contempli tutto ciò che di solito NON accade quando il leader è troppo “accentratore”: qui il punto chiave è quindi “delegare”, e le parole chiave sono RICONOSCIMENTO e PARTECIPAZIONE ATTIVA.
    2. TRASMISSIONE DI COMPETENZE PRATICHE: questo è un aspetto importante perchè l’acquisire delle competenze nuove, ci rende subito più incisivi (per esempio pensiamo a quanto sia spendibile, in società, imparare a far un buon uso degli strumenti informatici; oppure, pensiamo a cosa vuol dire imparare un mestiere “a bottega”, emulando qualcuno che ci trasmetta quella competenza pratica, che poi potremo spendere in altri ambiti della nostra vita; chiunque si spenda per traferire delle competenze pratiche a un altro, fa empowerment nel senso più reale e applicato del termine)
  4. Sentirsi potenti, ed efficaci, ha a che fare inoltre con la questione dell’appartenenza. Per questo, il fatto che le organizzazioni promuovano un forte uso di “artefatti” al fine di spingere i loro membri a sentirsi “appartenenti”, riguarda un processo di empowerment. Sentirsi parte di un qualche progetto condiviso, indossare una certa maglia di un certo colore, o qualsiasi divisa professionale (camici, divise vere e proprie), presenziare a eventi esclusivi per i soli membri di un qualche circolo, sentirsi riconosciuti in un certo slogan, sono tutti strumenti di empowerment effettuato attraverso il senso di appartenenza.

Per quanto riguarda invece l’EMPOWERMENT in medicina, vi consigliamo la lettura di questo articolo molto chiaro e completo pubblicato da State Of Mind.

Wikipedia, infine, dà una definizione molto completa del costrutto.

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6 novembre 2018

SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI

di Raffaele Avico

Cercare di leggere un esordio psicotico o i meccanismi che sottendono a un disturbo psicotico attraverso il modello della “salienza aberrante” può aiutarci a fare un po’ di chiarezza o almeno fornirci di ipotesi plausibili a proposito di un problema clinico così complesso e oscuro; l’articolo storico di Kapur, citato ovunque si legga del “framework” definito appunto della “salienza aberrante”, prende in esame aspetti neurobiologici, psicologici e psicofarmacologici inerenti la schizofrenia, e formula un’ipotesi patogentica di questo invalidante disturbo a partire da un squilibrio in termini di concentrazione di dopamina, in questi casi, Kapur osserva, presente a livelli più alti del normale.

La comparsa di sintomi psicotici (sintomi positivi della schizofrenia) è stata osservata in concomitanza con l’assunzione di sostanze (come la cocaina) che producono un forte rilascio di dopamina negli spazi intersinaptici, Kapur scrive, così come di converso alcuni psicofarmaci che frenano il rilascio di dopamina sembrano diminuire la potenza in termini di impatto sulla coscienza – il “volume”- del sintomo psicotico.

Nell’articolo leggiamo: “la dopamina è il vento del fuoco psicotico”, a indicare le evidenze che fanno di questo neuromediatore un protagonista nella comparsa di sintomi “produttivi” della sindrome schizofrenica (Kapur aggiunge che questo stato iper-dopaminico di fondo non sarebbe presente sempre, ma solo nelle fasi appunto produttive della sindrome, che come sappiamo si presentano in modo intermittente, intervallate a fasi invece di assenza di sintomi produttivi).

Kapur, nel suo articolo, parla non solo di deliri (tentativi di dare un senso, “unendo i puntini” dei percetti aberranti e iper-salienti indotti dalla sregolazione dopaminergica, che arriverebbero agli occhi dei clinici dopo una lunga gestazione prodromica iniziale), ma anche di allucinazioni, che alla luce di questo modello di lettura sarebbero percetti “interiori” a enorme salienza (salienza sempre indotta dallo squilibrio dopaminergico).

Sempre a riguardo dei farmaci antipsicotici, Kapur osserva come un loro uso accurato con funzione di freno dopaminergico, conduce non a una scomparsa dei sintomi, ma alla diminuzione della loro salienza, abbassando il loro grado quindi di “potenza perturbante”. I sintomi rimangono, quindi, ma vengono meglio tollerati: entro questo modello, essi si configurano come tentativi messi in atto, e poi acquisiti dal soggetto, di dare un senso alla salienza di ciò che esperisce: una volta diminuita questa salienza, diviene possibile il lavoro psicoterapico finalizzato al loro “scioglimento”, in uno schema come segue:

SALIENZA

Osserviamo l’immagine sopra riportata: a fronte di un numero alto di stimoli, di oggetti riprodotti, ognuno vede, per primi, solo alcuni di questi: per un verso, vedrà per primi quelli che sono smaccatamente in contrasto con lo sfondo per colore o impatto (per esempio gli uccelli neri), per un altro, vedrà invece ciò che il suo stato mentale, in quel momento, gli “suggerirà” di cogliere per primo (per esempio, un soggetto che viva una condizione di stress post traumatico, tenderà per primo a vedere gli oggetti, nella figura, a contenuto minaccioso; quando siamo affamati, usando un altro esempio, tendiamo a vedere per primi gli stimoli che rimandano alla possibilità di cibarsi, come pubblicità o immagini a contenuto alimentare).

Tutto questo rimanda al concetto di salienza, ovvero di “appetibilità” degli stimoli che osserviamo intorno a noi, di “contrasto” tra gli stimoli e sfondo e di “affordance” (cioè di richiamo) degli oggetti sensoriali nel nostro campo percettivo. Quindi, la salienza ha valore sia oggettivo che soggettivo (dipende anche da come ci sentiamo e da quale emozione sperimentiamo in quel momento): è un concetto quindi dinamico, non statico.

In questo articolo, che riprende quello “storico” di Kapur prima citato, redatto dal dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Firenze, gli autori compiono un excursus sulla questione della salienza in ambito psicopatologico, collegando le formulazioni teoriche di molteplici autori di grandissima caratura in senso clinico, che hanno nel tempo descritto uno stato di salienza “anomala” precedente lo sviluppo di un disturbo psicotico (intendendo con quest’ultimo la comparsa dei sintomi positivi della schizofrenia, come deliri e allucinazioni), di alcuni loro pazienti.

Il tratto comune, sembrava essere appunto la presenza prodromica di una visione “alterata” e profondamente perturbante della realtà vissuta da questi soggetti: in quest’ottica, i deliri sarebbero stati un tentativo successivo di “organizzare” in modo strutturato questa visione trasfigurata della realtà, come prima già osservato.

Il punto centrale in senso di “esperienza”, tuttavia, sembrava essere quello della salienza, ovvero di un impatto enorme della realtà ai sensi di questi soggetti, appunto intrappolati in una sorta di teatro assurdo in cui “tutto è troppo forte” in termini di impatto sulla coscienza (da qui il termine “salienza aberrante”).

Da cosa dipende la salienza? Per capire come funziona la salienza dobbiamo rifarci al concetto di circuito di reward (qui approfondito), mediato come sappiamo dal neuromediatore dopamina.

La “scarica” dopaminergica in concomitanza di un certo evento, ne aumenta l’appetibilità in termini emotivi: essere esposti per lunghi periodi al consumo di cocaina, viste le grandissime quantità di dopamina liberata, aumenta potentemente ai nostri sensi la salienza del concetto “cocaina”, in tutte le sue forme. Per un cocainomane, tutto il “concetto” di cocaina diviene dominante, viene sempre per primo, è “visto”, percepito per primo, anche quando magari solo alluso, intravisto in un determinato contesto.

L‘attivarsi del circuito di reward, è connesso quindi alla creazioni di una maggiore salienza intorno a un determinato stimolo. Il tutto, assurge a una funzione evolutiva: senza queste ricompense, non ripeteremmo esperienze per noi “piacevoli” o, nel bene e nel male, portatrici di gratificazione sensoriale.

In senso neurobiologico, possiamo quindi fare un collegamento tra la questione dopaminergica, e il senso di salienza; su questo concetto di base si fonda la teoria della salienza aberrante: da uno scompenso iniziale, una sregolazione dopaminergica, deriverebbe il vissuto di trasfigurazione della realtà che precede, spesso, un esordio psicotico.

Questo articolo, come si nota, mette insieme questioni osservate in ambito di ricerca neurobiologica, ad aspetti che concernono l’esperienza soggettiva del singolo. Questo punto di incontro ha simbolicamente grande importanza laddove la psicopatologia categoriale stia facendo spazio a una nuova concettualizzazione della psicopatologia, fondata su elementi transdiagnostici e dimensionali (per esempio, in questo caso, la questione delle disregolazione dopaminergica come elemento in comune a diverse forme di sofferenza mentale). Qui un approfondimento.

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2 novembre 2018

COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO

di Raffaele Avico

La costruzione e la nascita della Rappresentazione del Sé è stata studiata in modo approfondito negli studi di Gallup (1970) su scimmie di diverse specie, negli studi di Lewis e Brook (Lewis & Brook, 1979) e più recentemente negli studi di Povinelli sul riconoscimento alla specchio, effettuati in prevalenza su bambini (Povinelli et al., 1997).

Gallup si propose di osservare se esemplari di scimmia estrapolati da specie diverse fossero in grado di riconoscersi allo specchio, scoprendo che solo alcune delle specie prese in considerazione erano in grado di farlo (orangutan, scimpanzé e bonobo): nei suoi esperimenti gli esemplari di scimmia capaci di riconoscersi utilizzavano lo specchio per osservare le proprie espressioni facciali e per esplorare parti del corpo altrimenti inaccessibili alla vista. Gallup ritenne a partire da queste osservazioni che la capacità di riconoscersi allo specchio dell’animale indicasse la presenza di una coscienza di sé nello stesso: non esplicitò tuttavia le motivazioni sottese al fatto che solo alcuni esemplari appartenenti a specie differenti di scimmia sembrassero esserne dotati, e quali elementi a livello filo- e ontogenetico potessero averne influenzato l’evoluzione in questa direzione (Gallup, 1970).

Anni dopo, Povinelli si occupò delle stesse tematiche, approfondendo gli aspetti della questione legati alle vicende evolutive che avessero portato alcune specie di scimmia e non altre a sviluppare un’autocoscienza e quindi la capacità di riconoscersi allo specchio (Povinelli & Cant, 1995).

L’autore ipotizzò che uno degli aspetti che potevano aver differenziato il percorso evolutivo nelle diverse specie fosse un’acquisita e maggiorata coscienza chinestesica, inerente il corpo, di sè, sviluppatasi a partire da mutamenti nelle condizioni ambientali contestuali alla vita di alcune specie di scimmia.

Queste specie di scimmia sembravano, nel corso dell’evoluzione, essere state forzate a una vita maggiormente sedentaria e meno caratterizzata dalla necessità di effettuare spostamenti veloci (per esempio sugli alberi), che si sarebbe risolta nel tempo in un aumento della massa corporea. A questo secondo l’autore avrebbe fatto seguito lo sviluppo di una rappresentazione corporea più elaborata e adatta a rispondere alle richieste dell’ambiente in modo più efficiente (Povinelli descrive questo processo a partire dal costrutto teorico definito Self Evolved for Locomotor Flexibility). Questo salto evolutivo avrebbe secondo Povinelli dato il via al processo di costruzione di un concetto di Sé in questi esemplari, che avrebbe poi trovato piena maturazione nel percorso evolutivo della specie umana.

Ciò che Povinelli sottolinea è in particolare l’importanza della presa di coscienza del corpo, considerata antecedente alla nascita dell’autocoscienza,per mezzo dell’osservazione di sé allo specchio (processo cognitivo in un certo modo accostabile a quello sotteso alle reazioni circolari teorizzate da Piaget nell’osservazione dello sviluppo del bambino, caratterizzate dall’elaborazione di feedback chinestesici e informazioni propriocettive per arrivare alla presa di coscienza di una propria potenzialità sensomotoria. (Piaget et al., 1966)).

Povinelli sostiene inoltre che il riconoscimento di sé non sarebbe, in questi esperimenti, da ricondurre alla conoscenza di come funziona uno specchio, cioè alla consapevolezza della capacità dello stesso di riflettere le cose (so che lo specchio riflette = imparo a conoscere il mio corpo a partire dall’immagine che vedo riflessa). Secondo l’autore la consapevolezza autonoetica manifestata di fronte allo specchio si tradurrebbe invece in una sequenza di pensiero più simile a:

l’immagine allo specchio = il mio corpo,

senza sequenze di pensiero intermedie (Mitchell, 1993).

Ciò che emerge dagli studi di Povinelli, inoltre, è che il bambino comincerebbe a riconoscersi con continuità, cioè a costruire una Rappresentazione del Sé come costante e duratura nel tempo, solo a partire da un’età superiore ai 4 anni, quindi successivamente rispetto all’acquisizione della nozione di possessione del corpo (Povinelli, 2001).

Per arrivare a queste conclusioni, i ricercatori hanno effettuato su un campione di bambini la prova del riconoscimento allo specchio, inserendo però una variante metodologica che testasse l’acquisizione della Rappresentazione del Sé estesa nel tempo, la presentazione cioè al bambino di lui stesso videoripreso, ma in differita di alcuni secondi. Sottoponendo bambini di diverse età a questa prova, si è osservato che solo i bambini di età uguale o superiore ai 4 anni sembravano riconoscersi nelle immagini video ritardate, cosa che poteva far pensare a una raggiunta acquisizione di una Rappresentazione del Sé estesa nel tempo nel bambino (Povinelli, Landau & Perilloux, 1996).

DUE FASI

Ciò ha portato i ricercatori coinvolti nello studio ad ipotizzare la presenza di due livelli o fasi consecutive del processo di costruzione della Rappresentazione del Sé: una più precoce e legata all’acquisizione della nozione di possesso del corpo a partire da feedback sensoriali chinestesici semplici (riconosco che quello è il mio corpo, lo vedo, si muove con me), l’altra, più tardiva, legata invece all’acquisizione di una Rappresentazione del Sé costante nel tempo e svincolata dalla necessità di appoggiarsi su feedback sensoriali (quello sono io, mi riconosco, e rimango io nel tempo).

Interessante a questo proposito l’osservazione fatta dagli autori del suddetto studio sul comportamento di una bambina di 3 anni di fronte alla propria immagine ritardata nel video: di riconoscimento in un primo tempo, ma subito dopo di “presa di distanza” dall’immagine di Sé, esplicitata attraverso la richiesta “ma come mai indossa la mia maglia?”. Questo manifesterebbe secondo gli autori il conflitto insito alla fase di transizione verso un’acquisizione completa della Rappresentazione del Sé da parte della bambina: quest’ultima sarebbe stata in altre parole in grado di riconoscersi solo in parte, o solo in alcuni momenti (gli autori suggeriscono per spiegare questo fenomeno la presenza, in una determinata fase dello sviluppo, di più dimensioni del Sé, solo in parte rappresentate cognitivamente dal soggetto) (ibidem).

MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

I processi cognitivi sottesi allo sviluppo della Rappresentazione del Sé non possono essere pensati come indipendenti da quelli concernenti l’attività di rievocazione di ricordi autobiografici, così come da quelli sottesi al funzionamento del linguaggio.

Vigotskij (1932) a questo proposito teorizzò il concetto di linguaggio normativo, un linguaggio cioè avente un’importante funzione regolativa nei processi cognitivi dell’individuo. Senza l’utilizzo del linguaggio (verbalizzato o interno), secondo l’autore non ci sarebbe possibilità di costruire un’immagine di Sé coerente né di organizzare i ricordi in forma narrativa. La Memoria Autobiografica, cioè, sarebbe senza l’utilizzo del linguaggio interno un insieme disarticolato di immagini e impressioni sensoriali non fruibile dal punto di vista cognitivo. Vigotskij sostiene l’esistenza di una tendenza umana a “fare ordine” attraverso il linguaggio interno, comunicando con se stessi, a parlare a se stessi in modo pedagogico e a conferire un significato alle proprie azioni attraverso la narrazione (ibidem).

Il linguaggio risulterebbe da questo punto di vista uno strumento cognitivo indispensabile al buon funzionamento di alcuni tra i processi cognitivi più importanti per il mantenimento della salute psichica, quali la memoria e la costruzione della Rappresentazione del Sé.

In letteratura si considera che la Rappresentazione del Sé venga influenzata durante lo sviluppo anche dall’attribuzione di valore fatta dal bambino a se stesso a partire dai giudizi verbali o meno provenienti dagli adulti.

Secondo la prospettiva cognitivista la modalità con cui il bambino forma un’immagine di sé avente più o meno valore dipenderebbe in larga parte da come il bambino recepisce ed elabora tali giudizi. La costruzione di un profilo psicologico riferito al Sé comincerebbe in età molto precoce, e il successivo rendersi conto delle differenze tra il sé reale e il sé ideale darebbe origine nel bambino alla capacità autoriflessiva.

Alcuni autori hanno descritto il processo di costruzione della Rappresentazione del Sé in relazione alle interazioni multiple con la famiglia d’origine in età molto precoce (Thompson, 1998). Secondo questi studi tali interazioni multiple quotidiane fornirebbero al bambino un laboratorio sociale, una “scuola” in cui imparare a gestire le differenti possibili situazioni interpersonali, come la negoziazione del conflitto, la manifestazione dell’umore, la finzione del gioco, ecc.

Una descrizione dello sviluppo della Rappresentazione del Sé costruito a partire dalle interazioni multiple è anche quella proposta nel modello teorico formulato da Guidano e Liotti (Guidano e Liotti, 1983).

Secondo questi autori il percorso di sviluppo della Rappresentazione del Sé avverrebbe a partire da un’attività cognitiva ancora più precoce e basilare per l’individuo: la costruzione di schemi.

I due autori infatti concepiscono l’uomo come una struttura conoscitiva iper-complessa che fin dalla nascita crea una serie di schemi cognitivi che lo aiutano nell’esplorazione della realtà. Il concetto di schema cognitivo potrebbe essere semplificato utilizzando il termine convinzione: nel corso dell’esperienza l’individuo accumula una serie di informazioni da cui trae conclusioni o inferenze che gli permettano di prevedere i fatti nella realtà da cui è circondato.

La capacità cognitiva di creare schemi è considerata dai due autori una risorsa fondamentale e indispensabile alla vita sociale dell’individuo. La persona è in questa prospettiva considerata un’attiva costruttrice di convinzioni, cioè schemi cognitivi inferiti a partire da situazioni relazionali, contingenze e in generale situazioni di interazione con l’ambiente.

Guidano e Liotti sostengono che tra questi schemi uno dei più importanti sia appunto quello riferito al Sé e alla rappresentazione cosciente che ne ha l’individuo.

La costruzione della Rappresentazione del Sé si manifesta dunque in questo modello come un processo di semplificazione di una realtà complessa come il Sé attraverso la costruzione di schemi cognitivi più o meno rigidi. La psicopatologia è spiegata in questo modello a partire dal grado di rigidità di queste convinzioni su sé e gli altri, nel senso che convinzioni troppo rigide o modelli operativi interni poco flessibili porterebbero a meccanismi disfunzionali dal punto di vista emotivo e sociale.

Per il processo di costruzione del Sé, Guidano e Liotti considerano di primaria importanza le esperienze precoci dell’attaccamento, tanto da considerarle come il “paradigma integrativo dello sviluppo” (Guidano e Liotti, 1983). Le primissime interazioni con le figure di riferimento costituirebbero, infatti, la base su cui verrebbero create dal bambino le prime convinzioni rispetto a cosa aspettarsi dalle relazioni future e i primi schemi su come considerare se stesso.

Le fasi di sviluppo delineate dal modello di Guidano e Liotti rispetto alla costruzione della Rappresentazione del Sé in relazione alle esperienze di attaccamento sono quattro:

  1. La prima infanzia (0-2 anni)

In questa prima fase della vita il bambino non possiede secondo Guidano e Liotti un Sé psicologico, ma solo un sé biologico che si manifesta in comportamenti istintivi a base innata, come appunto il comportamento di attaccamento. Seppur non possedendo una rappresentazione di sé come essere dotato di individualità e caratteristiche proprie, il bambino possiede già alla nascita la capacità potenziale di costruire la conoscenze e di provare emozioni. La costruzione della Rappresentazione del Sé avviene in questa fase attraverso un processo definito da Popper “learning to be a Self”, un procedimento cioè di natura imitativa con cui il bambino impara a “essere un Sé” attraverso gli altri Sé che trova intorno a lui. A questo proposito gli autori osservano che evidenze cliniche dimostrano che i bambini cresciuti in isolamento non raggiungono una piena conoscenza di Sé. Il processo di costruzione del Sé e della Rappresentazione del Sé si configura quindi come, inizialmente, un atto di natura sociale.

Gli autori sostengono che nelle prime fasi della vita la Rappresentazione del Sé sia costruita di riflesso ai comportamenti e alle caratteristiche psicologiche dei genitori: in un certo senso il Sé si rispecchierebbe, durante l’infanzia, nelle figure primarie di attaccamento. Gli autori descrivono questa attività di rispecchiamento del Sé del bambino in quello dei genitori introducendo l’ipotesi secondo cui il bambino compirebbe un’elaborazione cognitiva dei differenti aspetti della personalità dei care-givers, riunendo in un “mosaico” i diversi frammenti della personalità degli stessi.

In questa prima fase di sviluppo Guidano e Liotti considerano fondamentale sia il processo interattivo di relazione con gli altri, sia l’attività di selezione da parte del bambino delle informazioni in entrata.

A partire poi dalla dalle interazioni di natura affettiva con i genitori, a seconda cioè di quanto i modelli operativi interni siano connotati da una coloritura affettiva positiva, il bambino si aspetterà, anche nelle relazioni future, di trovare figure d’attaccamento disponibili, percependo se stesso come degno d’amore e comprensione.

  1. La seconda infanzia (2-5 anni)

In questa fase il bambino ha già formato un’immagine stabile di sé e delle figure di riferimento. A partire dalle aspettative sviluppate nel corso della prima infanzia, il bambino partirà alla “conquista dell’ambiente”, tendendo a generalizzare ad altre figure le convinzioni e gli schemi primari di attaccamento. Guidano e Liotti inoltre manifestano particolare attenzione al processo opposto all’attaccamento, cioè al processo di distacco. Secondo gli autori in questa fase dell’infanzia il bambino, se cresciuto in modo sano, sarà particolarmente portato a distaccarsi dalle figure di attaccamento, che considererà come “basi sicure”, per esplorare l’ambiente e finalmente differenziarsi dalla madre.

  1. La fanciullezza (6-11 anni)

La maturazione cognitiva conosciuta dal bambino a partire dalla formazione scolastica, dalle prime esperienze sentimentali e delle aumentate interazioni sociali, gli permette di raggiungere un livello di maggiore articolazione dell’identità di sé. Tra i processi psicologici fondamentali utilizzati dal bambino  in questa fase di sviluppo vi sono l’imitazione e l’identificazione con i modelli.

  1. L’adolescenza

Secondo Guidano e Liotti questa fase coincide con un periodo cruciale della vita. Emerge infatti in questa fase una capacità metacognitiva mai raggiunta, e attraverso la riflessività l’adolescente è in grado di mettere in discussione gli schemi precostruiti, creandone di nuovi. La Rappresentazione del Sé acquisterebbe a seguito di questa fase una stabilità ulteriore e una straordinaria resistenza al cambiamento.

Gli studi di Guidano e Liotti teorizzano quindi una costruzione della Rappresentazione del Sé molto vincolata dai processi di attaccamento e dalla qualità degli stessi.

A partire da queste considerazioni è opportuno considerare la Rappresentazione del Sé come influenzata nel suo sviluppo da fattori di natura temperamentale (per esempio una particolare sensibilità ai giudizi negativi, e di conseguenza la costruzione di un’immagine di sé più fragile o negativa) e da fattori di natura maggiormente psico-sociale e relazionale (come la trasmissione di una particolare immagine stereotipata di “maschio” o “femmina”).

Inoltre, come la nascita della Memoria Autobiografica risulta influenzata da fattori relazionali legati all’utilizzo del linguaggio, così la Rappresentazione del Sé si dimostra sensibile a un utilizzo più o meno consapevole del linguaggio verbale da parte dei genitori nel comunicare con il bambino.

Questo può essere spiegato da un punto di vista cognitivo sia considerando la qualità dei giudizi dati al bambino (positivi o negativi, svalutanti o meno), sia considerando la modalità comunicativa prevalente da parte della madre. E’ stato dimostrato infatti che un tipo di comunicazione aperta e democratica basata sulla negoziazione dei significati e sulla possibilità di critica reciproca creerebbe nel bambino una predisposizione all’interazione sociale positiva e favorirebbe un’interiorizzazione più sana dei valori genitoriali (Hoffman, 1975; Maccoby & Martin, 1983), cosa che influirebbe sulla costruzione della Rappresentazione del Sé.

Questi studi inoltre hanno evidenziato che l’utilizzo da parte della madre di un tipo di linguaggio orientato alla spiegazione dei meccanismi psicologici sottesi alle interazioni sociali (un tipo di comunicazione “orientata all’altro”), porterebbe alla costruzione di una migliore teoria della mente nel bambino (ibidem).

A livello di processi cognitivi interni il linguaggio viene utilizzato secondo Vigotskij in modo regolativo, permette al bambino cioè di comunicare con se stesso nell’organizzare pensieri e ricordi: il linguaggio in questo caso avrebbe una funzione sociale anche nel caso in cui venga utilizzato nella comunicazione con il Sé (linguaggio interno). Nell’osservazione del comportamento infantile sono spesso stati riscontrati fenomeni di creazione di “compagni immaginari”, a cui è stata attribuita una funzione simile a quella del Sé come interlocutore: sarebbero entrambi meccanismi attraverso cui il bambino controlla e gestisce se stesso sperimentando le nuove tecniche relazionali apprese nell’interazione con le figure di riferimento. Questi compagni immaginari durante la crescita assolverebbero l’importante funzione di confidente privilegiato e di agente socializzatore non ansiogeno, poiché creato dal Sé.

Appare evidente che l’utilizzo del linguaggio risulta di primaria importanza nella messa in atto di questi processi cognitivi, che manifestano una tendenza del bambino alla comunicazione interna (definita appunto regolativa da Vigotskij) e alla metaconoscenza di sé.

Qui un bellissimo video illustrativo della questione:

BIBLIOGRAFIA

disponibile su richiesta scrivendo a avico.raf@gmail.com

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30 ottobre 2018

IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?

di Luca Proietti

La caffeina è una delle sostanze più amate e dibattute. Elisir dalle proprietà benefiche o vera e propria droga? Dannosa per l’organismo e il sistema nervoso secondo alcuni, innocua e irrinunciabile secondo altri. Qual è la realtà? Un gruppo di ricercatori cinesi ha raccolto e analizzato i dati presenti in letteratura per provare a fornirci una risposta definitiva.

Rispetto al consumo abituale di caffè e il rischio di sviluppare demenza alcuni studi hanno riscontrato un effetto protettivo mentre altri un aumento del rischio relativo. Un gruppo di ricercatori cinesi ha raccolto e analizzato i dati sull’argomento presenti in letteratura dal 1966 al 2016 sintetizzandoli in una metanalisi. I loro risultati sono stati pubblicati su Nutrition nel 2016 in un articolo dal titolo “Habitual coffee consumption and risk of cognitive decline/dementia: A systematic review and meta-analysis of prospective cohort studies”, scritto da Liu e collaboratori.

Gli autori hanno incluso nella loro analisi 11 studi prospettici per un totale di 29.155 partecipanti, nel tentativo di rispondere ai seguenti quesiti: bere caffè aumenta il rischio di sviluppare demenza o rappresenterebbe un fattore protettivo? É possibile stabilire una relazione proporzionale tra la dose giornaliera di caffeina e il rischio di demenza?  L’effetto protettivo è solo a breve termine, come alcuni studi indicano? Che implicazioni hanno altri fattori come il tipo di demenza o il genere dei partecipanti?

REPORT

I risultati della metanalisi dimostrano che il consumo abituale di caffè non aumenta il rischio di sviluppare demenza o declino cognitivo in generale, anzi in coloro che consumano più caffè il rischio specifico di sviluppare demenza di Alzheimer si riduce del 27%. Tale effetto protettivo non è presente nei confronti di altre forme di demenza e risulta essere indipendente da sesso, durata del follow-up, regione geografica di appartenenza (Asia o Europa) e dal fatto di essere portatori di mutazioni genetiche che predispongono allo sviluppo di demenza di tipo Alzheimer (ApoE ε4). Non è stato tuttavia possibile quantificare la dose giornaliera precisa di caffè necessaria per ridurre il rischio di sviluppare Alzheimer. Nel complesso quindi assumere caffè non solo non aumenterebbe il rischio di sviluppare demenza, ma anzi avrebbe un effetto protettivo nei confronti della malattia di Alzheimer.

Nella loro disamina gli autori riportano i limiti dello studio: ad esempio nell’analisi andrebbero compresi anche altri alimenti e bevande che contengono caffeina come thè, drink alla caffeina e energy drink, cioccolato con alta percentuale di cacao. Sicuramente gli studi futuri dovranno porre attenzione a questo fatto.

Va anche tenuto conto che il caffè sia in realtà una complessa miscela contenente non solo caffeina, ma anche vari polifenoli bioattivi. Di questi alcuni potrebbero avere effetti benefici mentre altri potrebbero essere potenzialmente dannosi per il sistema nervoso centrale; sarebbe pertanto opportuno studiare separatamente gli effetti dei singoli componenti.

In ogni caso appare plausibile che l’assunzione di caffè protegga, tramite meccanismi neurobiologici, dal rischio di sviluppare Alzheimer. A riprova di ciò la dose equivalente a 5 caffè al giorno è risultata efficace nella prevenzione e nel trattamento di un modello di Alzheimer nei topi.

Il meccanismo responsabile dell’effetto protettivo sembrerebbe coinvolgere il blocco dell’antagonismo, dunque la dis-inibizione, dei recettori dell’adenosina; questo fenomeno potrebbe limitare i danni causati dal deposito di β-amiloide, precursore proteico tossico che si accumula nel cervello dei pazienti con Malattia di Alzheimer. Un’altra ipotesi chiama in causa la relazione tra il consumo abituale di caffè, una maggiore sensibilità all’insulina e una riduzione del rischio di sviluppare diabete. Questa patologia metabolica è infatti uno dei fattori di rischio più importanti per lo sviluppo e la progressione del declino cognitivo.

É ancora da vedere se l’effetto protettivo sia limitato nel tempo. L’efficacia protettiva del caffè sembra infatti maggiore in studi con follow-up della durata minore di 4 anni. Gli autori affermano che questo dato potrebbe dipendere dal fatto che col tempo chi sviluppa declino cognitivo potrebbe essere portato, se non stimolato, a ridurre l’assunzione abituale di caffè.

BIBLIOGRAFIA

Liu et al., “Habitual coffee consumption and risk of cognitive decline/dementia: A systematic review and meta-analysis of prospective cohort studies”. Nutrition 2016, 32. 628-636.

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23 ottobre 2018

PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?

di Luca Proietti

Qual è il rapporto tra autostima e narcisismo? Per avere una buona autostima dobbiamo avere dei tratti narcisistici?  Un articolo, “Separating narcisism from Self-Esteem” di Brummelman, Thomaes e Sedikides, uscito su Current Directions in Psychological Science nel 2016, ci chiarisce la relazione tra autostima e narcisismo.

REPORT

È luogo comune pensare che le persone con tratti narcisistici abbiamo una forte autostima: ciò è sicuramente dovuto anche all’influenza della letteratura scientifica, che in passato ha definito il narcisismo come “un’esagerata forma di alta autostima”, “un’autostima gonfiata” o “una forma di alta autostima difensiva”. Anche i mass media hanno dipinto i narcisisti come individui la cui autostima è “troppo alta” o “ipertrofica”. Queste credenze verosimilmente derivano dai primi lavori psicoanalitici, in cui i termini “narcisismo” e “alta autostima” venivano utilizzati in maniera intercambiabile.

È degli ultimi anni il tentativo di definire meglio i concetti di autostima e narcisismo, al fine di coglierne le differenze; l’ autostima e il narcisismo sembrano differire per manifestazioni, conseguenze relazionali, traiettorie di sviluppo e cause di origine.

MANIFESTAZIONI

Una prima differenza è quella per cui l’autostima riguarda il considerarsi adeguati, di valore, l’essere insomma soddisfatti di se stessi; mentre nel narcisismo questi aspetti si fondano sul ritenersi superiori agli altri. Ciò spiegherebbe come mai molti narcisisti avrebbero in realtà una scarsa autostima: si vedrebbero sì superiori agli altri, ma non sarebbero soddisfatti di loro stessi. Allo stesso modo le persone con una buona autostima, ma senza tratti narcisistici, si considererebbero adeguati e di valore, senza bisogno di risultare superiori nel confronto con gli altri.

IMPLICAZIONI RELAZIONALI

Per quanto appena detto i narcisisti cercano di superare gli altri e dominarli, tentano infatti di servirsi dell’altro per vedere riconosciuto uno status sociale, senza mostrare interesse nel costruire legami intimi, profondi e duraturi. Per questo, quando il narcisista non riesce a primeggiare, ad ottenere rispetto e ammirazione, diventa aggressivo fino al poter compiere azioni delinquenziali. Alla base di questo fenomeno vi è un meccanismo proiettivo per cui il narcisista proietta sugli altri la propria sensazione di sentirsi inadeguato e in difetto, l’altro viene quindi percepito come inadeguato e di poco valore. Tale meccanismo nei disturbi di personalità più gravi, definiti narcisismo maligno, può arrivare fino alla paranoia persecutoria (Kernberg, 1998). Per contro, le persone con alta autostima prive di tratti narcisistici non presentano nessuna di queste caratteristiche.

Possiamo dire quindi, riguardo alla modalità di intendere le relazioni, che il narcisista aspiri ad arrivare davanti, sopra agli altri; mentre chi ha un’alta autostima desideri andare insieme.

SVILUPPO DEI TRATTI DI PERSONALITÀ

Sia l’autostima che i tratti narcisistici si svilupperebbero intorno ai 7 anni di età, periodo in cui si acquisisce completamente la capacità di auto-valutazione globale, quella cioè di autogiudicarsi e di paragonarsi socialmente. Le traiettorie di sviluppo dei due tratti tuttavia sembrano differire, anzi presenterebbero un andamento opposto: il narcisismo sarebbe infatti alto nell’adolescenza per poi decrescere gradualmente nel tempo, mentre l’autostima presenterebbe livelli più bassi nell’età adolescenziale per poi crescere con l’età.

ORIGINI

Anche i meccanismi che sottendono allo sviluppo dei due tratti sono tra loro differenti. Il narcisismo è nutrito dall’ “sopravvalutazione genitoriale”, cioè da quanto più i genitori vedono i propri figli come individui speciali e meritevoli di privilegi; esempi semplici ma esemplificativi sono la scelta di un nome di battesimo particolare o il sopravvalutare le performance e le qualità dei propri figli.

L’autostima invece è nutrita dal “calore genitoriale”, cioè da quanto i genitori trattano i loro bambini con affetto e attenzioni; questi sentimenti esprimono predilezione e favoriscono lo sviluppo della consapevolezza di valere, indipendentemente dal confronto con gli altri.

L’interazionismo simbolico afferma che i bambini giungono a vedere se stessi nel modo in cui credono di essere visti da “altri significativi”. In tal senso narcisismo e autostima sono simili in quanto entrambi originano in parte dall’interiorizzazione del rispetto da parte di altri significativi; la differenza sta che nel primo caso il rispetto deriva dall’essere riconosciuti e sentirsi superiori, mentre nel secondo dal sentirsi apprezzati e di valore.

È per questo che il narcisista, a differenza di chi ha autostima, è alla costante ricerca di ammirazione, il senso di superiorità in lui risulta infatti più precario del senso di valore in chi ha autostima; il narcisista è dunque impegnato in un gioco a somma zero, in cui è condannato a dover verificare perennemente di essere un vincente.

I TRATTI NARCISISTICI AIUTANO A FARE COLPO?

Ma alla fine il narcisista ha successo nell’ottenere validazioni esterne o no? Le persone con importanti tratti narcisistici vengono a prima vista percepite come affascinanti, ma col tempo, a causa della loro necessità di risultare superiori, tendono a porsi in maniera antagonista nei confronti degli altri, risultando quindi infine sgradevoli, arroganti e manipolativi. Sono proprio questi aspetti che compaiono con il progressivo approfondirsi delle relazioni, che li portano dunque a perdere quell’approvazione che tanto bramano.

PROSPETTIVE TERAPEUTICHE

Evidenziare che autostima e narcisismo sono due fenomeni diversi, anzi se vogliamo opposti nel modo di relazionarsi agli altri, ha importanti implicazioni non solo concettuali ma anche in ottica di intervento. Gli autori infatti sottolineano come un lavoro volto ad implementare l’autostima non corra il rischio di aumentare i tratti narcisistici come in passato si riteneva, ma anzi li possa prevenire o ridurre; ciò è avvalorato dalla differenza dei processi che portano a sviluppare i due tratti.

Per concludere, l’idea che il narcisismo sia un’estrema manifestazione di alta autostima è intuitiva, ma profondamente inesatta.

BIBLIOGRAFIA

Brummelman, S. Thomaes, C. Sedikides “Separating narcisism from Self-Esteem”, Current Directions in Psychological Science, 2016

O.F Kernberg, “Narcisismo patologico e disturbo narcisistico di personalità: background teorico e classificazione diagnostic” Tr. It. In Ronningstam E.F.(a cura di), i disturbi del narcisismo. Raffaello Cortina, Milano, 2001.

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19 ottobre 2018

LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel

di Raffaele Avico

Il libro La mente adolescente di Daniel Siegel è un viaggio all’interno della psicologia dei ragazzi dai 14 fino ai 24 anni, affrontato da più punti di vista, con importanti contributi neuroscientifici che si assommano a una lettura il più possibile umana alla questione, cifra di un po’ di tutti i libri di Siegel.

Nel libro sono presenti molti esempi tratti dalla pratica clinica dell’autore, così come riferimenti alla sua vita personale. Inoltre, ricompaiono dei punti fermi del suo lavoro divulgativo, per esempio la teoria del cervello tripartito di MacLean, su cui fonda in pratica tutto il suo razionale di intervento clinico e che mira a uno stato di integrazione totale delle diverse parti del cervello (istintuali, emotive, neo-corticali, gli emisferi destro e sinistro del cervello).

Il libro alterna sezioni teoriche a pagine che contengono esercizi applicabili in senso clinico, ma anche utilizzabili dal lettore senza una preparazione clinica professionale.

L’adolescenza, Siegel ci spiega, è un periodo di trasformazioni, in senso sia fisico (la pubertà), che psicologico (l’adolescenza in sé). Qualcosa cambia nel cervello e nei pensieri del giovane, in parallelo a una trasformazione fisica così rapida da poter essere paragonabile, come “velocità” di metamorfosi, a quella che avviene nei primi anni di vita di un neonato. Inoltre, anche a livello psichico, accadono così tante cose da consentirci di mettere a paragone il periodo adolescenziale con i primi tre anni di sviluppo del bambino (i famosi 1000 giorni, che un po’ tutti concordano nel ritenere gli anni della fondazione della personalità dell’individuo)-

Se i primi anni sono anni di “imprinting”, gli anni dell’adolescenza sono anni fertili, estremamente fertili, e questo grazie al processo di sfoltimento (“potatura”, o “pruning”) delle sinapsi neuronali, che concorre a creare e a rimarcare reti neuronali che verranno “marchiate” a fuoco nella mente dell’individuo per tutta la vita. Per questo è importante che, per esempio, chi voglia insegnare ai propri figli a suonare il pianoforte, ve lo introduca in infanzia, ma si assicuri che il ragazzino continui a suonarlo negli anni dai 13/14 fino ai 20, anni insomma grandemente influenti su tutta la via futura (qui troviamo un approfondimento interessante sulla neurobiologia dell’adolescenza).

Siegel ci illustra i quattro grandi cambiamenti che avvengono in età adolescenziale:

  1. aumenta la ricerca di novità. Siegel qui fa riferimento alla questione dopaminergica, che come è noto sta alla base del meccanismo che ci consente di buttarci su cose nuove, di cercare sensazioni diverse, grazie a quello che viene chiamato circuito di reward (ne abbiamo scritto qui) -che premia il cervello con scariche di dopamina, e in questo modo aumenta l’appetibilità (l’affordance) dell’esperienza stessa, che verrà ricercata nuovamente. Siegel parla anche di un livello di dopamina tendenzialmente più basso negli anni dell’adolescenza, ma con picchi più alti quando vi siano sensazioni nuove e potenti, che producono un comportamento più “impulsivo”. Questi sono anche gli anni della strutturazione delle dipendenze più difficili da sradicare, proprio in ragione di questo particolare panorama neurochimico in cui è centrale il ruolo della dopamina, sempre coinvolta in tutto ciò che riguarda il problema “addiction”
  2. vi è la ricerca di un maggior coinvolgimento sociale. Se l’adolescenza rappresenta l’arco temporale che consente a un individuo di sperimentarsi e di attraversare un periodo, per usare delle parole mutuate dalla psicologia dello sviluppo, di “separazione/individuazione”, ciò significa che l’investimento iniziale effettuato dal bambino, in senso affettivo, verso la coppia genitoriale, lascia il posto a un progressivo distacco e a un investimento questa volta verso l’esterno, verso il gruppo dei pari, che come un magnete trascina a forza il ragazzo al di fuori del contesto di origine. Questo processo avviene per gradi, e con tempi diversi: quel che è certo è che contiene in sé un lutto reciproco vissuto da genitori e figli, che in questo modo, inevitabilmente, si allontanano
  3. le emozioni vengono esperite con maggiore intensità. Su questo punto Siegel fa riferimento alla questione già citata della dopamina, e in più parla di una sorta di “iper-razionalità” che caratterizza in questa fase della vita il pensiero dei ragazzi. Per iper-razionalità, Siegel intende una specifica forma del pensiero che certo si complessifica in ragione dello sviluppo cerebrale, che in questa fase assume particolare rilevanza, ma che tuttavia rimane per certi versi “limitato” a delle considerazioni parziali a riguardo della realtà. Questo vuol dire, in altre parole, che l’adolescente esegue delle valutazione parziali sulle esperienze che vive e di ciò che intende fare, in particolare con uno sbilanciamento tra quelli che sono i “pro” e i “contro” relativi alle diverse esperienze. Siegel fa l’esempio della roulette russa, per un adulto normale gioco rischiosissimo e assurdo, per un adolescente invece gioco “con alte probabilità di vincere” vista  la possibilità di non trovare il proiettile in canna 5 volte su 6 (Siegel usa questo esempio estremo per cercare di far capire al lettore che l’adolescente estremizza e assolutizza la valutazione dell’esperienza, negando o non integrando alcune parti o certi rischi connessi ad un’esperienza: è infatti noto che in questa fase avviene il maggior numero di decessi per comportamenti a rischio, che non sono valutati a fondo, ma vissuti con velocità e non ponderati). Questo pensiero iper-razionale ha quindi la “colpa” di accendere nell’adolescente quegli slanci all’azione che a volte possono metterlo a rischio
  4. aumenta l’esplorazione creativa. In questa fase aumenta potentemente la spinta dell’individuo a vedere e sperimentare cose nuove: questo ha una funzione anche evolutiva (senza la spinta a uscire dal nucleo famigliare, la famiglia stessa rischierebbe di ripiegarsi su sé stessa, evitando di fatto di compiere quei “salti” evolutivi che sono alla base della buona riuscita dell’evoluzione della specie umana, che per evolvere bene deve mischiarsi). Inoltre, lo sviluppo cerebrale porta il ragazzo a complessificare il suo stesso pensiero, in grado ora di astrarre e mettere in discussione le cose, approfondendole. Sono anni, Siegel ci spiega, di grande maturazione intellettuale e di maggiore consapevolezza, pur sempre però minacciata dal senso di confusione e di diffusione identitaria che con sé porta. Per questo resta così importante la “presenza” di figure stabili che traghettino, come “sacerdoti del passaggio”, il ragazzo verso uno stato di maggiore fermezza identitaria. In adolescenza è forte lo scollamento tra quello che il/la ragazzo/a dice di volere, e quello di cui invece ha bisogno. Assecondare le spinte di un adolescente senza mettergli limiti, è lasciarlo in balìa di sé stesso, perso in una libertà sconfinata che è solo caos. Siegel mette l’accento sul fatto che, in ogni caso, in questa fase resta forte il bisogno di accudimento e di “guida” da parte di persone autorevoli, nel mare della complessità di una fase di transizione così delicata per l’individuo che la vive.

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16 ottobre 2018

TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE

di Luca Proietti

Dalla Relazione del Professor  Alessandro Padovani dal titolo “ La depressione nei pazienti con Demenza: dalla diagnosi al trattamento quali aspetti clinici considerare ?” al Congresso  “La depressione nelle patologie neurologiche: evidenze e real life”, Milano, 9 Maggio 2018

Abbiamo appurato, nel post precedente, che la depressione nell’anziano va trattata con l’obiettivo di una remissione, anche quando ci troviamo di fronte a una comorbidità con una demenza neurodegenerativa. Quali sono allora le indicazioni terapeutiche supportate dalle evidenze?

Per trattare la depressione nell’anziano come primo farmaco in genere potrebbe essere scelto un SSRI: tra i più tollerabili per questi pazienti vi sono il Citalopram e la Sertralina, in ogni caso è da tener presente l’adagio “start low and go slow”, parti basso e vai piano.

Nel caso in cui la risposta al trattamento non sia efficace abbiamo di fronte tre diverse alternative:

  • Lo Switch:  il passaggio ad un altro farmaco antidepressivo della stessa o diversa classe
  • L’Augmentation o Add-on: l’aggiunta al trattamento in atto di un farmaco di un’altra categoria (antipsicotici, stabilizzatori dell’umore): questi potenziano l’effetto degli antidepressivi, ma non sono usati da soli nella terapia della depressione.
  • La Combinazione: l’uso sinergico di due antidepressivi, con diverso meccanismo d’azione, utilizzati  anche singolarmente nel trattamento della depressione.

Quando intraprendiamo una di queste tre strade dobbiamo ricordare l’adagio citato poc’anzi, ma con un’aggiunta: “start low, go slow, but go all the way”:  in caso di mancata risposta alla terapia, anche se il paziente è anziano, quando le condizioni mediche lo consentono è importante che il trattamento venga portato fino al dosaggio massimo, se ben tollerato. (Karp & Reynolds, 2004)

Prendiamo come esempio la Duloxetina, che è un antidepressivo con azione duale, cioè potenzia il tono noradrenergico e serotoninergico tramite l’inibizione della ricaptazione di questi neurotrasmettiori; il suo dosaggio massimo è di 120 mg/die. Dosi di Duloxetina fino a 120 mg al giorno si sono rivelate efficaci e ben tollerate per il trattamento della depressione in anziani che non rispondevano a inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI) . (Karp et al., 2008)

Recentemente è entrata in commercio la Vortioxetina, un farmaco antidepressivo che presenta un’ azione multimodale cioè agonista sul alcuni recettori e antagonista su altri; presenta un buon profilo di tollerabilità e sembra migliorare i deficit cognitivi nell’anziano indipendentemente dall’effetto sulla sintomatologia depressiva (Stahl, 2016).

N.B. alcuni dosaggi in Italia non sono approvati per pazienti sopra i 65 anni ad esempio: Escitalopram max 10mg/die per; Bupropione 300 mg/die; Citalopram 20 mg/die, (da foglietto illustrativo).

DUNQUE SWITCH, AUGMENTATION O COMBINAZIONE ?

Risposta parziale → Augmentation

Nessuna risposta → Switch o combinazione

AUGMENTATION O ADD-ON

Quando vi è stata una risposta solo parziale alla terapia antidepressiva per potenziarla è indicato associare in augmentation un altro principio attivo alla terapia antidepressiva (Karp et al., 2004). La letteratura riporta principi attivi di prima e seconda linea da associare in Augmentation con due livelli differenti di evidenza:  livello 1:più sopportato; livello 2:con meno evidenze.

Trattamenti di prima linea:

  • Litio 150–400 mg/die  con dosaggio ematico (litiemia) a 0.3–0.5 (livello 1)
  • Aripiprazolo a basso dosaggio (livello 1)
  • Olanzapina a basso dosaggio   (livello 1)
  • Risperidone a basso dosaggio  (livello 2)

Trattamenti di seconda  linea:

  • Olio di pesce ricco di omega 3 (livello 1)
  • Quetiapina (livello 2)
  • Ormone tiroideo controindicato nei cardiopatici (livello 2)
  • Psicoterapia Interpersonale (IPT) e cognitivo comportamentale (CBT) (livello 2)

Trattamenti di seconda  linea:

  • Buspirone (livello 2)
  • Modafinil (livello 2)
  • Folati (livello 2)

SWITCH

Una volta prescritto un SSRI a dosaggio efficace, se non vi è stata alcuna risposta è indicato lo switch: il trattamento di seconda linea prevederebbe l’utilizzo di un altro SSRI o duloxetina o vortioxetina, per poi passare ad un altro tipo di antidepressivo (Venlafaxina,NAsSa,NDRI) in caso di mancata risposta.   (Karp & Reynolds, 2004)

Le indicazioni sono le seguenti:

  • Mirtazapina (max 30-45/die) se abbiamo sintomatologia caratterizzata da insonnia, ansia e  iporessia, anche utilizzabile in combinazione a 15-30 mg/die.
  • Bupropione (max 300-400 mg/die) se prevale sintomatologia con rallentamento psicomotorio o apatia
  • Venlafaxina (max 300-400 mg/die) se la sintomatologia è caratterizzata da aspetti più di tipo melanconico (anedonia, risveglio precoce, angoscia depressiva, sentimenti di colpa). In questo caso se non si verifica risposta alla venlafaxina si può passare a:
    • Antidepressivi Triciclici (Notriptillina max 75-150 mg/die)
    • Inibitori delle MAO (Fenelzina max 30-75 mg/die) se è presente anche sintomatologia depressiva atipica (Ipersonnia, iperfagia).

COMBINAZIONE

Combinare due antidepressivi con diverso meccanismo d’azione rappresenta un’opzione da percorrere con cautela nell’anziano: le strategie di switch o augmentation risultano infatti più sicure e comunque efficaci. Con la combinazione infatti si aumentano le possibili interazioni farmacologiche in una terapia che spesso è già una politerapia.

Nel caso in cui le strategie di Switch e Add-on siano risultate inefficaci è possibile tentare una terapia con combinazione, prestando particolare attenzione alle seguenti associazioni:  gli SSRI aumentano i livelli ematici degli antidepressivi Triciclici, l’associazione di Bupropione e Paroxetina può aumentare il rischio di cadute. Sono particolarmente utilizzate associazioni con SSRI/SNRI e Mirtazapina, o SNRI/SSRI con Bupropione (Lam et al., 2009).

BIBLIOGRAFIA

Karp J & Reynolds 3rd C, Pharmacotherapy of Depression in the Elderly: Achieving and Maintaining Optimal Outcomes, Primary Psychiatry. 2004;11(5):37-46

Karp J, Whyte E, Lenze E, Dew M, Begley A, Miller M, Reynolds 3rd C, Rescue pharmacotherapy with duloxetine for selective serotonin reuptake inhibitor nonresponders in late-life depression: outcome and tolerability. J Clin Psychiatry. 2008 Mar;69(3):457-63.

Lam R, Kennedy S, Grigoriadis S, McIntyre R, Milev R, Ramasubbu R, Parikh S, Patten S, Ravindran A, Canadian Network for Mood and Anxiety Treatments (CANMAT) Clinical guidelines for the management of major depressive disorder in adults. III. Pharmacotherap, Journal of Affective Disorders 2009, 117 S26–S43

Stahl S., Neuro Psicofarmacologia essenziale. Basi neuroscienti?che e applicazioni pratiche, Edi-ermes, Bologna, 2016

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12 ottobre 2018

COSA RESTA DELLA LEGGE 180?

questo articolo è stato pubblicato in forma ridotta su La Stampa.

di Raffaele Avico

 

A 40 anni dalla promulgazione della legge 180, che avrebbe smontato l’idea del manicomio come istituzione totale e consegnato Franco Basaglia alla memoria dei posteri come il “liberatore” dei pazienti psichiatrici in Italia, può essere utile provare a capire in che modo la legge 180 riorganizzò la psichiatria territoriale, cosa resta e cosa è stato realmente superato del manicomio come istituzione totale, sopravvissuto fino a fine anni ’70.

La legge 180 promosse lo smantellamento del manicomio come istituzione unica in favore, in primo luogo, di una capillarizzazione e di una frammentazione dei servizi psichiatrici sul territorio, regolamentati, regione per regione, da norme e consuetudini simili seppur con alcune diversità contestuali.  In paziente si trova di fronte a un iter simile: accettazione, presa in carico, diagnosi, impostazione del piano di cura e ricollocazione -eventuale- del paziente stesso. Questo è stato, prima di tutto, il grandissimo apporto prodotto dalla cascata di cambiamenti messi in moto dalla legge Basaglia: un iter unico, uno standard di presa in carico capillare e trasversale alle singole regioni, che consentisse una gestione dei pazienti sul territorio in qualche modo tutelata da standard di minima, in contrasto con la gestione “verticale” della cura che era invece caratteristica delle istituzioni manicomiali.

I servizi attuali sono reti di strutture tra di loro, in teoria, collegate, i cui nodi nevralgici sono i dipartimenti di salute mentale che decidono per il piano di cura da impostare con il singolo utente. Se la persona necessita di un ricovero perchè  in uno stato di acuzie, viene proposto un ricovero presso un reparto ospedaliero (che a volte avviene per accesso diretto da pronto soccorso); se invece la persona necessita di effettuare un vero e proprio percorso, esistono delle strutture residenziali che possono ospitare la persona per periodi più o meno lunghi, con caratteristiche diverse a seconda del tipo di problema da trattare. Infine, esistono  dei luoghi a frequentazione diurna o ambulatoriale, che consentono all’utente di usufruire di consulenze medico/psicoterapiche senza doversi isolare nel contesto di strutture protette.

La rete di servizi attuale è la riformulazione territoriale e frammentata dei servizi di salute mentale che prima della legge 180 erano catalizzati e isolati: questo isolamento era espressione/lascito dell’esigenza di “igiene” sociale, espressione della spinta espulsiva e difensiva messa in atto dalla popolazione “sana” e dalle istituzioni, per ragioni di “protezione” -teorica- della popolazione dai rischi (di fatto inesistenti) del contatto con la popolazione invece affetta da turbe psichiche.

Queste tendenze espulsive espresse storicamente e ciclicamente non solo dal mondo della psichiatria, ma in generale dalla società civile, sono molto difficili a morire, e questo Basaglia lo sapeva bene: la promulgazione della legge 180 penetrò – scardinandole- alcune barriere concettuali che resero l’Italia un esempio europeo di promozione (almeno tentata) di buone prassi psichiatriche. Eppure, esistono forme di nuova cronicità.

NUOVE FORME DI CRONICITA’?

Di recente alcuni articoli hanno promosso la sanità italiana a un livello molto alto (Lancet, probabilmente une delle più prestigiose testate al mondo, la classifica globalmente al dodicesimo posto in termini di rapporto efficienza/qualità dei servizi erogati/costi); per quanto riguarda la psichiatria, essa si distingue per un’impronta democratica e la scomparsa -teorica- delle istituzioni manicomiali.

Eppure, siamo lontani dal proporre soluzioni definitive di gestione della malattia mentale, e questo sia per insufficienza di risorse, sia per evidenti risposte definitive in senso scientifico con ancora troppe incognite su come origini e si possa gestire al meglio un problema di tipo psichiatrico. Inoltre, la società non trova lo spazio per una reale convivenza con l’utenza psichiatrica: i turbamenti prodotti dall’osservare da vicino le difficoltà di un paziente psicotico, per esempio, producono spesso diffidenza, spavento, paura del diverso. Mancano contenitori sociali che, su larga scala e per tempi allargati, prevedano una “reale” ri-collocazione dei pazienti nella struttura sociale che sia efficacemente abilitante e comunitaria.

Dove sono, quindi, oggi, i pazienti? In parte, sono a casa loro, tra gli affetti che sono  loro rimasti; una parte di essi, consumatesi le possibilità famigliari (per invecchiamento dei genitori, o per difficoltà degli stessi di farsi carico di pesi a volte gravosi), viene inserita nel circuito della psichiatria residenziale territoriale. Purtroppo, i trattamenti residenziali non sono mai “lineari”: ad esempio, un paziente che necessiti di un intervento sostanziale entra in una struttura terapeutica, da qui viene alloggiato in un gruppo appartamento, spesso per poi tornare a una struttura residenziale, come in un loop che conduce a percorsi lunghissimi, seppure variegati nella loro essenza. Questo viene spesso frammentato da un certo numero di ricoveri in strutture ospedaliere per le fasi di maggiore acuzie. Aggiungiamo che le famiglie alle spalle dei pazienti sono spesso in evidenti difficoltà gestionali. La questione della rete di familiari diviene un problema di ordine da strettamente clinico a sociale, visto che i pazienti psichiatrici più in difficoltà necessitano di una forma di genitorialità protratta che da qualche parte deve essere garantita, se non si vuole lasciare il soggetto isolato o nell’impossibilità di sopravvivere in autonomia. Il circuito della psichiatria canonica è al momento il contenitore più ragionevole e sensato, quand’anche non perfettamente efficace o totalmente risolutivo.

Sono poche le alternative ai circuiti canonici della psichiatria che consentano un’applicazione reale del mandato basagliano, nel tentativo di scongiurare il rischio di queste nuove forme di cronicità: tra questi, i tentativi di inserimento etero-familiare di adulti psichiatrici adulti, sperimentazioni presenti in tutta Europa e in Italia conosciute come progetto IESA. Il progetto IESA inserisce pazienti psichiatrici entro famiglie di volontari ospitanti (qui un approfondimento).

IESA

Abbiamo posto alcune domande al Dott. Aluffi, direttore scientifico di Dymphna’s Family (la rivista scientifica europea sullo IESA):

  1. Dott. Aluffi, quali ritiene siano i vantaggi che un progetto come lo IESA reca al territorio?

Un progetto come lo IESA che mira all’inclusione sociale di soggetti in difficoltà, valorizza le risorse presenti nel territorio, inducendo il contesto sociale a farsi carico delle sue parti più fragili. Va ad attivare le reti sociali già presenti, ne potenzia le capacità di integrazione, offrendo agli ospiti un contesto di vita non istituzionalizzato, non alienato dalla quotidianità in cui ciascuno di noi è inserito e in cui ciascun soggetto ha diritto di vivere. Inoltre la presenza di un rimborso spese per l’accoglienza corrisposto alle famiglie che generosamente aprono le porte delle loro case e mettono a disposizione il loro tempo per sostenere un ospite, può essere visto come una virtuosa ridistribuzione di risorse che ha come ricaduta positiva secondaria il fatto di evitare una massimizzazione del profitto devolvendo denaro esclusivamente in strutture protette. Lo IESA quindi segue un principio equo, ecologico e solidale, sostenendo il territorio e i cittadini.

  1. Cosa ha notato, nella sua esperienza, in termini di vantaggi ai pazienti?

Numerose ricerche scientifiche mettono in luce i parametri di efficacia dello strumento IESA. Innanzitutto è evidente una riduzione dei giorni di ricovero per cause psichiatriche, favorito da un maggior contenimento affettivo e un supporto più puntuale e continuativo garantito dalle famiglie ospitanti con l’aiuto degli operatori dell’équipe IESA; questo è sicuramente un indicatore di benessere e produce inoltre un risparmio dal punto di vista della gestione del denaro pubblico, attraverso una maggiore disponibilità di risorse di cura residenziale per i cittadini in stato di necessità, grazie all’ottimizzazione della spesa.

Lo stesso ragionamento vale per un altro parametro che emerge dalle ricerche che evidenziano una riduzione dei dosaggi di benzodiazepine al bisogno.

Infine il vantaggio maggiore è l’aumento della qualità della vita per i pazienti che possono riacquisire un ruolo sociale e familiare nel nuovo contesto, hanno la possibilità di ricostruirsi una rete di amici, incontrano nuove possibilità di formazione, lavoro e svago al di fuori del circuito psichiatrico e dunque dello stigma che ne deriva.

  1. Quanto ci allontaniamo dagli esempi europei (mi riferisco per esempio al progetto SHARED LIVES o alla stessa città di Geel)?

Il modello italiano, ispirato a quello tedesco, è profondamente diverso da quello belga di Geel nel quale i posti letto offerti dalle famiglie ospitanti sono considerati alla stregua di quelli messi a disposizione dalla clinica, che governa i progetti, semplicemente “dislocati” sul territorio anziché all’interno delle mura ospedaliere, mentre il modello seguito da Shared Lives risulta più vicino al nostro. La grande differenza sta nei numeri, poiché in Italia i progetti attivi sul territorio nazionale risultano ancora molto bassi rispetto a quelli delle esperienze citate, a causa di carenze di tipo culturale che vanno colmate, parlando di IESA e trasmettendo le potenzialità di tale proposta di cura, sia tra i professional, sia all’interno della popolazione. In questa operazione anche le istituzioni quali ad esempio le università dovrebbero farsi carico della responsabilità di inserire la formazione sullo IESA nei vari corsi potenzialmente interessati da tale pratica, anziché insistere su modelli di cura residenziale ancora legati a logiche massificatorie e separatorie basate sul concetto di terapia esclusivamente o quasi coincidente con l’assunzione di farmaci.

  1. Cosa sogna per il progetto IESA, nel futuro?

La funzione del sogno è per me molto importante e non nascondo che un approccio visionario, man mano sempre più sostenuto da evidenze, mi accompagna sin dai primi momenti in cui mi sono affacciato al mondo dello IESA. Era appunto un sogno nel lontano 1996, anno in cui mi trovavo nel sud della Germania e lavoravo a una ricerca proprio sullo IESA, poter portare un giorno nel mio paese questo modello di lavoro e questo approccio alla cura del disagio psichico. Questo sogno si è realizzato parzialmente in questi ultimi 20 anni, vedendo via via la nascita e la diffusione di diversi progetti IESA presso le ASL nazionali. La realizzazione del sogno per completarsi necessita ancora di una diffusione capillare di Servizi IESA sul territorio nazionale, che offrano un prodotto di qualità secondo precisi parametri condivisi e accreditati, un maggiore investimento da parte delle gestioni delle aziende sanitarie locali e delle Regioni, e dunque maggiori possibilità per i pazienti di accedere ad un supporto, ma mantenendo il più possibile una quotidianità “normale”. A sostegno di tutto questa occorrerà l’approvazione di una legge nazionale sul metodo IESA come strumento di cura residenziale in ambito psichiatrico ma non solo.

  1. Quali sono i vostri obiettivi operativi nel prossimo futuro?

Continuare a svolgere bene il nostro lavoro sul territorio dell’ASL TO3 con un investimento sempre maggiore e realizzare una corretta diffusione di questo tipo di strumento su tutto il territorio regionale piemontese, così come previsto dalla recente normativa in materia di riorganizzazione della residenzialità in psichiatria. Sto inoltre lavorando all’elaborazione di una proposta di legge nazionale sullo IESA che spero di vedere trasformata in legge entro la fine dell’attuale legislatura. Insieme a valorosi collaboratori abbiamo preparato un testo che ha già incontrato l’apprezzamento di alcuni parlamentari. Da qui in poi molto dipenderà dall’effettivo orientamento del parlamento a sostenere un modello di cure che mette al primo posto gli interessi della cittadinanza e dei potenziali fruitori. Speriamo in bene…

Article by admin / Editoriali, Formazione / neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, raffaeleavico

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  • Raffaele Avico, psicologo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino
  • Matteo Respino, medico psichiatra, New York
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