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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

30 settembre 2020

L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo articolo fa parte del pacchetto Patreon, dedicato a trauma e dissociazione

Questo editoriale (Maxfield, 2019, clinician’s guide to EMDR’s efficacy) uscito per un numero speciale della rivista Journal of emdr practice and research a 30 anni dalla prima applicazione dell’EMDR (1989), vuole raccogliere una serie di ricerche il più possibile rigorose (RCT, review sistematiche fatte su articoli con campioni numerosi e pazienti correttamente diagnosticati) a proposito dell’efficacia dell’EMDR sia per disturbi post-traumatici, che relativa ad altre problematiche psichiche.

Ecco i risultati, in breve, distinti per “target” clinico:

  • DISTURBI TRAUMA E STRESS-CORRELATI: esistono 44 studi RCT su pazienti adulti e non, sofferenti di disturbi connessi a trauma e stress post traumatico, divisi come riportato nell’immagine sottostante. Come si nota, dei 44 studi citati quelli più “solidi” in termini metodologici sono gli studi relativi al PTSD “semplice” su pazienti adulti. A riguardo di questi ultimi lavori, nell’editoriale vengono evidenziati risultati pressoché non contestabili: “The evidence for EMDR treatment for PTSD appears to be solid, consistent, and well established, and the treatment guideline committee of the International Society for Traumatic Stress Studies gave EMDR a strong recommendation for adults and children with PTSD and a standard recommendation for early intervention (ISTSS Guidelines Committee, 2018)”. Manca una folta letteratura sul PTSD nei bambini (solo 4 studi RCT). Non ne esistono al momento su PTSD complex, vista anche l’ampiezza e i contorni “fumosi” della categoria diagnostica
  • DEPRESSIONE: nell’editoriale vengono quindi presi in considerazione altri ambiti clinici; viene fatto notare che nel momento in cui siano evidenti benefici prodotti dall’EMDR anche su altre patologie, questo potrebbe interrogare i clinici sull’eziologia dei disturbi stessi, potenzialmente di natura traumatica. Questo ragionamento diagnostico effettuato usando un criterio ex adiuvantibus che, seppur debole in termini logici e di metodologia di ricerca (dato che si sa poco sul meccanismo di funzionamento effettivo, reale, dell’EMDR) interroga i clinici su quali “aspetti” del sintomo o del disturbo l’EMDR vada a “toccare”, supponendo -in caso di risultati positivi- l’esistenza di una radice “traumatica” del disturbo stesso.
    A riguardo della depressione, viene citata una review su 7 studi RCT prodotti tra il 2001 e il 2019, da cui risulterebbe un’efficacia dell’utilizzo dell’EMDR per la depressione uguale o superiore all’efficacia della psicoterapia CBT. Gli autori concludono osservano come l’EMDR potrebbe essere integrato in modo efficace alla psicoterapia “standard” CBT.
  • DISTURBO BIPOLARE: gli autori osservano come esista un solo studio RCT che abbia indagato l’impatto dell’EMDR sul disturbo bipolare, con risultati poco significativi al momento
  • PSICOSI: Esistono delle linee di ricerca che vorrebbero indagare l’efficacia dell’uso dell’EMDR sul trattamento degli aspetti post-traumatici della psicosi. Chi fa ricerca in questo ambito contempla l’esistenza di “nervature” o aspetti PTSD nel disturbo psicotico, o almeno l’esistenza di comorbilità tra disturbo psicotico e PTSD (e, in questo caso, l’uso dell’EMDR sarebbe giustificato). Gli studi sono in una fase preliminare. Gli autori sottolineano infine come limitarsi nell’utilizzo di EMDR per paura di esacerbare i sintomi psicotici, sia insensato.
  • DISTURBI D’ANSIA: vista la grande eterogeneità dei disturbi d’ansia in sè, l’argomento si presenta qui molto ampio. L’editoriale in questione presenta questo articolo di Faretta e Dal Farra (Elisa Faretta in particolare è impegnata da molti anni nell’approfondire le implicazioni cliniche dell’uso di EMDR nell’attacco di panico), che sintetizza lo stato dell’arte. I risultati ci raccontano di un utilizzo dell’EMDR particolarmente efficace per quanto riguarda panico e disturbi fobici specifici
  • DOC: nessun risultato significativo
  • DISTURBI DA ADDICTION: l’EMDR appare in questi casi non controindicato, ma neanche significativo
  • DOLORE: l’editoriale in questione cita 6 studi RCT effettuati negli ultimi 10 anni sull’utilizzo dell’EMDR per il dolore cronico. I risultati vengono definitivi “impressive”, ma da prendere in considerazione con cautela, visti i grossi bias metodologici che gli studi portano con sè. L’utilizzo quindi dell’EMDR per il dolore o il dolore cronico viene definito ai suoi “albori”, promettente ma ancora poco sorretto da dati di ricerca rigorosi. Si ripresenta qui il problema “hard” relativo ai meccanismi di funzionamento profondi dell’EMDR, non ancora chiari (per cui non risulta pienamente chiaro il suo funzionare o meno con disturbi diversi)

Come si osserva, l’EMDR conserva il suo posto elettivo nel trattamento dei disturbi inerenti il trauma: non ha senso usarlo ovunque. In particolare, è bene ricordarlo, l’EMDR va usato laddove siano presenti dei ricordi target particolarmente intrusivi che faticano a essere elaborati in senso mnestico, nel contesto di un percorso di psicoterapia di tipo trifasico.

Visti inoltre gli ambiti dove l’EMDR sembri meglio funzionare (trauma e fobia), è logico supporre che l’EMDR non agisca tanto sulle generiche memorie traumatiche, quanto sulla fear response nei confronti di un oggetto fobico: servirebbe dunque ad aiutare il paziente ad affrontare meglio, di petto, il confronto mentale con un oggetto di fobia (per esempio una memoria traumatica molto impattante, e in grado di procurare la fear response, oppure il pensiero di un oggetto fobico specifico). La fear response è la reazione di allarme di fronte a uno stimolo ignoto o con particolari caratteristiche di salienza, presente ovunque in natura, anche in animali “basici”, con un sistema nervoso molto semplice.

Sappiamo che l’affacciarsi mentalmente a un contenuto traumatico, procura nel soggetto una reazione di forte allarme (la fear response, appunto), un po’ come succede a un individuo fobico esposto al suo oggetto di paura (per esempio un individuo che abbia fobia dei ragni che se ne trovasse uno molto vicino): l’emdr, in entrambi i casi, “placherebbe” la fear response consentendo una migliore esposizione allo stimolo stesso.


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2 settembre 2020

FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI

di Raffaele Avico, Luca Proietti

Abbiamo intervistato Bernardo Paoli a proposito di terapia breve e terapia a distanza.

Emergono alcuni punti che meritano di essere tenuti in considerazione:

  • la terapia breve, non equivale a dire terapia strategica. La terapia strategica è un portato teorico tutto italiano, ruotante intorno alla figura di Giorgio Nardone presso la Scuola di Psicoterapia breve strategica di Arezzo; il costrutto strategico affonda le sue radici nei teorici di Palo Alto, e discende da alcune figure particolarmente carismatiche: Paul Watzlawick e Milton Erickson sopra gli altri. Abbiamo recensito Change di Watzlawick qui per chi volesse approfondire
  • Occuparsi di terapia breve, al di là della questione strategica, significa spostare l’attenzione sul presente, chiedendo a noi stessi come clinici cosa mantenga in piedi l’insieme dei sintomi sviluppati da un paziente. Passando quindi dal “perchè” al “come”
  • Con buona pace dei detrattori (per lo più psicoanalisti), queste terapie ottengono risultati eccellenti, soprattutto con certi tipi di problemi, in tempi rapidi. Questo vuol dire che impegnarsi in psicoterapie lunghe equivale a spendere, in alcuni casi, moltissimi soldi in modo inutile. 10 sedute con uno psicoanalista astensionista, silenzioso, potrebbero equivalere a una seduta di un terapeuta interventista preparato che lavori in modo interattivo con il suo paziente. Non esistono al momento tuttavia, almeno in ambito strategico, outcome di ricerca possano supportare questi risultati, il che rappresenta il vero tallone d’Achille dell’approccio (e questo Paoli lo chiarifica molto bene nell’intervista)
  • lavorare a distanza si può, e questo lo testimonia lo stesso stile di lavoro di Paoli. La decisione di intervistarlo ha avuto come obiettivo, tra gli altri, approfondire se e in che modo la psicoterapia possa prendere forme e modi diversi. Qui, come noterete, assistiamo a un’esplosione del setting. Addirittura osserviamo un terapeuta che viaggia, lavorando via telefono, adottando un setting per lo più costruito erigendo dei limiti solamente “temporali” (anche qui, Paoli sottolinea, con eccezioni: le sedute possono avere durata variabile); la questione “luogo” è irrilevante. Il tutto è molto in linea con l’attuale progressivo smaterializzarsi del corpo in favore della sopravvivenza del solo “dato”, del solo contenuto.

Come si noterà dalla visione del video, emergono alcuni punti di domanda che interrogano la psicoterapia breve s e strategica  (ma farebbero lo stesso anche con la CBT) sulla sua stessa metodologia terapeutica:

  • che fare con i soggetti che manifestino un disturbo depressivo di tipo melanconico?
  • Che fare con un paziente che soffra di narcisismo? Lo stesso Paoli ragiona su questo, sottolineando come nella scuole di psicoterapia strategica alcuni quadri sintomatologici sembrino non esistere, o essere ignorati
  • che fare con un paziente psicotico, o con un bambino?

Le domande fatte:

  1. Bernardo, ci dici chi sei e di cosa ti occupi?
  2. Terapia online e pazienti difficili: la terapia cosa perde e cosa guadagna?
  3. Quali sono le situazioni più complicate che ti sei trovato ad affrontare online?
  4. Il tuo approccio e il tuo percorso formativo? dal tuo punto di vista, cosa mancava e manca alla strategia e cosa hai aggiunto?
  5. Limiti e futuro della terapia strategica
  6. Cosa pensi della comunicazione online e sugli effetti delle”bolle” informative Club psicologici: cosa sono?
  7. Le tue routines
  8. ASPETTI CLINICI: qual è il tuo punto di vista sul fenomeno del disturbo di panico?
  9. ASPETTI CLINICI: esistono elementi di “distorsione” o “errore” che rintracci in modo ricorrente, trasversalmente, come cause di malessere nei tuoi pazienti?
  10. ASPETTI CLINICI: l’uomo in lotta con se stesso, o con parti di sè: quali sono le conseguenze?
  11. ASPETTI CLINICI: cosa significa “stare bene” in senso psichico?
  12. Felicità in psicoterapia? Obiettivo corretto o no?
  13. Quali percorsi/libri senti di consigliare?

Buona visione:


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31 agosto 2020

SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO

di Raffaele Avico

Il circuito di reward, come qui descritto, è il sostrato neuroanatomico di un meccanismo “profondo” che produce comportamenti di dipendenza, in qualunque forma questa si manifesti. Il circuito di reward, funziona per mezzo di un neuromediatore chiamato dopamina, che viene rilasciato ogni volta proviamo gratificazione (per esempio, un buon pasto produce un rilascio di dopamina, ma anche lo zucchero, una notifica su facebook, un “tiro” di cocaina, in quantità e tempi diversi). Se il problema dell’addiction è un problema incentrato sulla dopamina, chi riuscisse -ipoteticamente- a indurre un suo rilascio nel cervello di un cliente, ne farà un cliente “che ritorna”: esiste a proposito di questo un “mercato della dopamina”, appunto, creato da chi, consapevole dei meccanismi che regolano l’addiction, produce prodotti a forte rilascio di dopamina, che quindi inducono nell’utente un forte legame di dipendenza. Pensiamo per esempio al mercato degli snack dolci, allo zucchero contenuto nei cibi venduti dai fast food, al junk food, etc.: tutto così gratificante da creare dipendenza. La domanda centrale che si pone chi lavora nel mercato della dopamina, sarà dunque: come posso fare a creare un prodotto che procuri forte gratificazione (e quindi un rilascio di dopamina, e di conseguenza un ritorno probabile del cliente al consumo)?

Consideriamo che il circuito di reward coinvolge anche la memoria, che imprime il ricordo gratificante nella mente di chi l’ha vissuto, per far sì che l’esperienza gratificante venga ripetuta.

Senza dopamina, non mangeremmo, né cercheremmo attivamente partner sessuali, ma neanche scivoleremmo in una dipendenza da cocaina o da smartphone.

Esistono due tipologie di gratificatori:

  1. i gratificatori naturali (le esperienza connesse al cibo, alla sessualità, alle relazioni sociali)
  2. i gratificatori artificiali (che procurano un rilascio di dopamina a partire da qualcosa di innaturale o costruito ad hoc, come il saccarosio contenuto nel junk food, o il meccanismo con cui è creato un social network -attraverso ricompense e stimoli a forte salienza come luci e colori, stesso meccanismo con cui funziona una slot machine-, o ancora le sostanze stupefacenti)

Quando una dipendenza si installa, e quando diviene altamente patologica, i gratificatori artificiali prendono tutto il posto dei gratificatori naturali: passa tutto in secondo piano (come la sessualità e appetito) per lasciar posto al singolo gratificatore artificiale. Uscire da una dipendenza del genere, vuol dire rimettere i gratificatori naturali al loro posto originario, scalzando quelli artificiali: per questo nelle strutture di recupero, per esempio, si lavora per estirpare comportamenti patogeni ricollegando la persona tossicodipendente ai suoi “piaceri” primari, che esistevano prima della tossicodipendenza.

Visti questi aspetti, è importante capire che ci “controlla” il mercato della dopamina, produce consumatori fedeli e grandemente dipendenti, il che genera un enorme introito di denaro collegato al consumo. Abbiamo chiesto a Valerio Rosso, psichiatra psicoterapeuta di Genova ed esperto di psichiatria d’avanguardia che sul suo canale YouTube discute sul mercato della dopamina e di molti altri temi trasversali per la psichiatria e le neuroscienze, un approfondimento su alcune di queste questioni  a proposito del fenomeno:

  1. Valerio, quanto è alto il valore prodotto dai beni “ad alto rilascio” di dopamina?
    Se si considera il totale del business della dopamina, legale ed illegale, si parlano di diverse centinai di miliardi di dollari. Pensate solo ad alcol, nicotina e droghe illegali in europa: si parla di un totale di almeno 300 miliardi di euro per l’alcol, 150 miliardi di euro per il tabacco e circa 20 miliardi di euro per le principali droghe illegali. Aggiungete il business dei Junk Food e vedrete ancora molti miliardi di euro in gioco. Non parliamo poi dei comportamenti disfunzionali che coinvolgono i social network. Inoltre il business della dopamina, nelle sue vecchie e nuove declinazioni, è stabile nel tempo e non risente delle fluttuazioni della crisi, anzi, instabilità e incertezza in qualche maniera lo alimentano perché favoriscono i bisogni anomali delle persone.
  2. Quali sono le fasce della popolazione più colpite?
    Si tratta di un business piuttosto trasversale anche se a subirne le conseguenze dirette e le influenze di marketing sono le fasce più deboli e meno abbienti. Il business della dopamina ha un marketing preciso stimolare la risposta del reward in più persone possibili tramite stimoli accessibili in primis alla grande massa della popolazione, non alle elite. Zucchero, social media, tabacco, alcol sono esempi lampanti di gratificazione dopaminergica a poco prezzo.
  3. Qual è il meccanismo con cui ci si può difendere?
    Come sempre, l’unico meccanismo di difesa contro le dipendenze ed il bisogno anomalo è la consapevolezza che deriva dalla conoscenza. Se uno conosce cosa accade intorno a lui, può riuscire a trovare delle proprie buone ragioni per cambiare un comportamento disfunzionale.
  4. Cosa pensi, in breve, del futuro della salute mentale?
    La psichiatria, per progredire e per rispondere alle richieste della popolazione, dovrà uscire dalla posizione un pochino arroccata ed aristocratica che ha mantenuto per tutto il ‘900. Dovrà uscire dai suoi schemi, farsi contaminare da nuovi linguaggi e dalla rivoluzione del digitale, come la grande innovazione dell’intelligenza artificiale che sta per cambiare tutta la medicina per sempre.

Sul problema “dipendenze”, consigliamo Psicoattivo.


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14 luglio 2020

ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF)

di Raffaele Avico

Qui è possibile scaricare un estratto in PDF dalla rubrica Grounding su Psychiatry on Line, a proposito di Trauma e Dissociazione.

Ecco il sommario degli articoli presenti sul PDF:

  1. NERVATURE DI STRESS POST TRAUMATICO
  2. L’OMISSIONE DI SOCCORSO COME TRAUMA: IL NEGLECT
  3. MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc)
  4. INSONNIA E PTSD: CHE FARE?
  5. GIOVANNI LIOTTI, ATTACCAMENTO, DISSOCIAZIONE: da un articolo di Benedetto Farina
  6. IL PTSD COME PATOLOGIA DELLA MEMORIA
  7. PTSD COMPLESSO: DI CHE SI TRATTA?

Buona lettura!

Article by admin / Aggiornamento / psichiatria, PTSD, raffaeleavico

10 luglio 2020

STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo articolo è un estratto dai contenuti esclusivi a tema trauma inviati mensilmente tramite il nostro progetto Patreon

Questo articolo scritto da Lanius e collaboratori circa un anno fa, rappresenta una fonte di eccezionale qualità a riguardo della neurobiologia del trauma e presenta un modello a “cascata” che sintetizza brevemente le reazioni di un individuo a un trauma subìto.

Ruth Lanius è una delle ricercatrici più interessanti, al momento, a riguardo della neurobiologia del trauma e del PTSD.

Vediamo alcuni punti di interesse:

  1. il fenotipo dissociativo del PTSD è presente dal 15% al 30% dei casi totali di PTSD (esistono due tipologie di PTSD, con e senza sintomi dissociativi, come qui descritto)
  2. le risposte al trauma, possono essere di due tipi: attive (risposta simpatica) con attacco/fuga, e passive (risposta parasimpatica) con immobilità tonica, sintomi dissociativi e spegnimento (qui troviamo un punto di coerenza con la Teoria Polivagale qui sintetizzata); il “luogo” anatomico in grado di regolare le une o le altre risposte, gli autori ipotizano essere la sostanza grigia periacqueduttale. Questo centro anatomico parte del cervello medio, gli autori sostengono, dovrebbe essere incluso negli studi a riguardo del trauma, in quanto potenzialmente importante nello sviluppo di PTSD nelle sue varianti.
  3. Viene sottolineato come a tipologia di evento traumatico (singolo, oppure ripetuto) corrispondano con maggiore frequenza le due tipologie di risposta: da iperarousal per l’evento singolo, da spegnimento per il trauma multiplo. La reazione di spegnimento sembrerebbe quindi un indicatore forte per la variante dissociativa del PTSD.

MODELLO A CASCATA

Gli autori presentano quindi il “modello a cascata” per quanto riguarda le risposte di difesa all’evento traumatico. Sono coinvolti, in questo, tre attori, coordinati come prima si accennava entro l’area della sostanza grigia periacqueduttale:

    1. gli organi coinvolti “effettori”
    2. il sistema nervoso autonomo
    3. i circuiti neuronali che regolano la sensazione di dolore

Il modello a cascata presenta diversi stadi di risposta. A seguito dell’evento traumatico, avremo molteplici livelli di risposta, progressivi, nel tempo. In particolare, come si osserva in figura, le tappe del comportamento peri-traumatico, sono:

  1. una risposta di orientamento (preceduta da quella che qui avevamo definito neurocezione, ovvero una risposta non cosciente e istantanea a riguardo del livello di minaccia del contesto), che nel linguaggio comune chiameremmo “congelamento” o “sospensione”; lo stato di valutazione istantanea di una minaccia, con immobilità, stabilizzazione della postura e abbassamento del ritmo cardiaco (“During the orienting response, muscles have increased tone, body posture is stabilized, and respiration and heart rate are reduced slightly and then increase gradually as the monitoring continues”).
  2. la risposta di flight/fight, mediata, gli autori ipotizzano, da un’anomala concentrazione di endocannabinoidi. Questa ipotesi (il fatto che una concentrazione di endocannabinoidi anomala sia responsabile del mantenimento di una condizione di accensione protratta), viene chiamata “endocannabinoid deficiency hypothesis”, ed è qui riassunta.
  3. la risposta di immobilità tonica. In questo caso, quando la risposta di flight/fight fallisce, interviene una condizione di immobilità tonica. Ne abbiamo già scritto qui a proposito degli animali (galline, conigli). In questa condizione anomala, il corpo si irrigidisce e si paralizza. Gli autori sottolineano come sembri esserci un simultaneo utilizzo di due branche del sistema nervoso autonomo opposto: il sistema nervoso simpatico, e quello parasimpatico, sotto quello che viene chiamato “coordinamento” da parte della sostanza grigia periacqueduttale (“Here, the “braking” mechanism is thought to be coordinated by activation of the ventro‐lateral subunit of the periaqueductal gray in humans and animals alike”). Viene quindi sottolineato come un effetto analgesico e di numbing, in conseguenza del rilascio di oppioidi endogeni e di altri meccanismi neurobiologici (qui approfonditi), promuova una sostanziale alterazione della coscienza, che gli autori associano alla dissociazione (intesa come detachment, non come dissociazione strutturale della personalità). Si parlerebbe quindi di dissociazione peritraumatica (in concomitanza dell’evento traumatico e del vissuto di immobilità tonica). Questa fase è da considerarsi collegata alla quarta fase: lo shut-down emozionale.
  4. shut-down emozionale: ovvero, “spegnimento”. Parliamo qui dell’ultimo stadio della risposta peri-traumatica, ovvero del collasso, della “finta morte”, con una serie di sconvolgimenti a livello corporeo, di percezione del dolore modificata dal rilascio di neurotrasmettitori specifici, e di sensazioni di coscienza alterata mediata sempre dall’uso di oppioidi endogeni, con le conseguenze soggettive di uno stato di “dissociazione”, o di generale alterazione della coscienza.

Quindi, gli autori passano a una rassegna a riguardo del tema “neuroimaging”  del PTSD.

In primo luogo osservano come il “resting state” possa essere difficilmente accessibile a soggetti colpiti da PTSD; quindi ragionano su un modello che, sulla base di molteplici evidenze legate a neuroimaging, potrebbe essere sintetizzato tramite la differenziazione tra PTSD bottom-up e PTSD top-down. Questo modello è stato formulato da Mobbs, in questo articolo apparso su Science. Mobbs propone un modello incentrato sulla distanza rappresentata dal soggetto, nei confronti dello stimolo minaccioso. Quando l’individuo rappresenta lo stimolo come distante, il processo neurobiologico seguirebbe logiche top-down; all’avvicinarsi dello stimolo (anche solo immaginato), il processo assumerebbe “forme” bottom-up (meno mediate, più istintive e difficilmente gestibili in modo “razionale” dell’individuo).

Sebbene questo modello rappresenti un importante punto di svolta nella comprensione del funzionamento neurobiologico dello stress post traumatico, gli autori sottolineano come debba essere integrato con tutto ciò che concerne la risposta da “spegnimento” peritraumatica, che tornerebbe a essere di nuovo un atto cerebrale di tipo top down, secondo uno schema del tipo:

  1. stimolo distante: PROCESSO TOP DOWN
  2. stimolo vicino: PROCESSO BOTTOM UP
  3. stimolo soverchiante/paura senza sbocco: PROCESSO TOP DOWN (nuovamente)

Ne abbiamo già scritto qui a proposito della doppia natura del PTSD.

Gli autori sollecitano quindi lo sviluppo di filoni di ricerca che integrino il cervello “medio” e la sostanza grigia periacqueduttale (dimostratasi centrale come ente di coordinamento nelle risposte al trauma) nella letteratura sul PTSD, al fine di oltrepassare il modello “corteccia-centrico” del PSTD (che trovava nella funzione modulatrice della corteccia mediale prefrontale il nucleo concettuale dello sviluppo di uno stress post traumatico).

Infine, lanciano alcune questioni cliniche, a riguardo di:

  • uso di THC sintetico nel trattamento del PTSD
  • uso di antagonisti degli oppioidi (come il naloxone) per contrastare gli effetti dissociativi mediati dal rilascio di oppioidi endogeni (come prima approfondito)
  • uso di terapie basate sul respiro
  • uso di terapia incentrate sull’uso del corpo come strumento di regolazione neurofisiologica

Quali conclusioni trarre da questo articolo, molto ricco?

Quello che è importante sottolineare è che la reazione a un trauma, può prendere vie differenti, assumendo forme cliniche molto diverse. Per una diagnosi differenziale, tuttavia, occorre che venga fatta una distinzione iniziale tra una reazione al trauma da iperarousal (accensione protratta), e una reazione invece da spegnimento/collasso. Due facce quindi della stessa medaglia, con tuttavia vissuti soggettivi differenti, e modelli di presa in carico specifici.


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1 luglio 2020

MDMA PER IL TRAUMA: VERSO LA FASE 3 DELLA SPERIMENTAZIONE

di Raffaele Avico

Sappiamo che la psicoterapia del PTSD si giova dell’approccio trifasico: in un primo passaggio del lavoro con lo stress post traumatico, l’obiettivo è quello di regolare i sintomi più disturbanti. Sappiamo anche che uno, se non il principale ostacolo al trattamento del PTSD, è l’accesso a ricordi target particolarmente disturbanti, di difficile accesso. Alcuni contenuti mnestici sembrano particolarmente ostici, indigeribili dalla mente.

Già qui abbiamo scritto a proposito dell’uso di MDMA per il PTSD, che si prospetta essere riconosciuto dalla FDA americana nel 2021. Il razionale dell’intervento con l’MDMA sembra essere la creazione, tramite gli effetti dell’MDMA, di un terreno “favorevole” all’esplorazione psicoterapica, intervenendo l’MDMA su quelli che potremmo chiamare effetti “secondari” del ricordo traumatico, cioè le disregolazione neurofisiologiche e l’iperarousal. L’idea cioè è che l’MDMA consentirebbe di creare le migliori condizioni per un’esplorazione guidata delle memorie traumatiche (spesso irraggiungibili dalla coscienza dell’individuo, proprio perché in grado di scatenare disregolazioni distraenti troppo potenti).

La ricerca e la promozione di questo tipo di psicoterapia è stata spinta negli ultimi anni dalla MAPS (Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies), e si dirige ora alla fase 3 della sperimentazione, avendo pubblicato a riguardo della fase 2 e raccolto più di 10 milioni di dollari su questo obiettivo. La MAPS si occupa non solo di MDMA per il PTSD, ma genericamente dell’utilizzo di psichedelici in psichiatria, spingendosi verso limiti molto estremi che potrebbero porre questioni etiche in termini di rischi (per esempio a riguardo dell’uso di LSD), riprendendo le fila di un discorso che negli anni ‘70 aveva già fatto presa sull’immaginazione collettiva e sull’interesse della comunità scientifica.

La fase 3, è bene ricordarlo, prevede l’estensione della sperimentazione di un farmaco a grandi campioni di popolazione, attraverso studi randomizzati (RCT), i più solidi in termini statistici. Il fatto che l’MDMA venga sperimentata in questo modo, ci dice qualcosa di cosa è probabile vedremo in Italia tra qualche anno.

Per un approfondimento, questo podcast. Qui invece un video per farsi un’idea del tipo di psicoterapia che integrerebbe al suo interno l’MDMA:


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Article by admin / Aggiornamento, Generale / psicotraumatologia, PTSD

5 giugno 2020

STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace

PREMESSA: questo articolo rappresenta l’introduzione all’Ebook pubblicato da AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione), qui scaricabile

di Paolo Calini e Giovanni Tagliavini

Il periodo che stiamo attraversando, l’emergenza determinata dalla pandemia di SARS-Cov2, nella sua eccezionale complessità sta creando situazioni di fondamentale importanza, che richiedono attente riflessioni.
Da settimane ormai sentiamo utilizzare apertamente dai mass media termini come guerra, eroe, trincea, campo di battaglia, coprifuoco. Le parole che utilizziamo sono importanti, perché definiscono aree di significato e precisi orizzonti di senso che, a loro volta, strutturano la realtà in cui ci troviamo immersi: stiamo combattendo contro un nemico sconosciuto e invisibile, mutevole ed estremamente aggressivo.

Questo è l’ambito all’interno del quale tutti noi viviamo da diverse settimane: da questo ambito deriva il vissuto di minaccia (pervasiva sia nello spazio che nel tempo) e la risposta da formulare, con tutto il suo carico di responsabilità, a tutti i livelli (personale, terapeutico, politico, sociale).

Minaccia e risposta alla minaccia: questo, in estrema sintesi, è il tema che desideriamo affrontare in questo ebook.

La minaccia, comunemente intesa, è qualcosa che accade all’esterno, al di fuori di noi; un evento, quindi, su cui non possiamo esercitare controllo. La risposta, per contro, è quanto accade dentro di noi in termini di reazioni fisiche (nel nostro corpo), emozionali e psicologiche.

Dal momento che l’essere umano è un organismo particolarmente complesso, tutte queste reazioni sono sempre sovrapposte e compenetrate tra loro: si influenzano reciprocamente e si estendono a cascata coinvolgendo aspetti relazionali, sociali, culturali, etici. Da qui deriva la straordinaria complessità della risposta alla minaccia che gli esseri umani sono capaci di mettere in campo.

Questo grande “ventaglio” comprende anche la risposta di negazione, che da tante parti abbiamo sentito all’inizio della pandemia.

In contesti di normalità, di quotidiana routine, la nostra percezione della realtà è stabile: di solito vengono confermate le aspettative che abbiamo sui comportamenti, nostri e degli altri. Quando, ad esempio, arrivo sul luogo di lavoro la mattina e saluto un collega con un sorriso, so anticipatamente che quel collega mi risponderà o meno con un sorriso in funzione dell’esperienza che io ho di lui e dell’esperienza che lui ha di me: la sua risposta è funzione della qualità del nostro rapporto, che conosco bene. Questo si traduce in un senso di mastery (padronanza), di possibilità di controllo sulla realtà. Il filosofo tedesco Edmund Husserl, padre fondatore della fenomenologia filosofica, nel 1931 scriveva: “il mondo reale esiste solo nella presunzione costantemente prescritta che l’esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo” (Meditazioni cartesiane).

Ci aspettiamo, quindi, che, in generale, le cose “vadano come ci aspettiamo”.

Condizioni eccezionali e straordinarie, come la pandemia SARS-Cov2, disarticolano e alterano completamente questa linearità dell’esperienza, la presunzione dell’aspettativa attesa, il suo stile costitutivo: conseguentemente disarticolano il mondo reale per come lo viviamo.

Non è certo l’obiettivo di questo ebook approfondire oltre questo tema così complesso. Ma, nell’evidenza della trasformazione del mondo reale così come lo conosciamo e così come ci attendiamo che sia (basti fare riferimento all’obbligo del distanziamento sociale come misura protettiva contro l’infezione, distanziamento che, per lo meno nella nostra cultura, è piuttosto innaturale), concetti come minaccia, risposta alla minaccia, stress, adattamento allo stress, evento potenzialmente traumatico e trauma possono assumere un significato più ampio, se volete meno tecnico: assumono certamente uno spessore più esistenziale e più vicino al nostro vissuto quotidiano.

Da alcuni mesi siamo di fronte ad una minaccia che altera completamente la nostra percezione del mondo e che impone la prescrizione di stili di esperienza innaturali, non consolidati, del tutto nuovi e pertanto non prevedibili. Anche se rimaniamo nel tessuto socioculturale, sia micro che macro, in cui siamo immersi, la risposta che metteremo in atto è del tutto personale e peculiare: essa, in ogni caso, rappresenta il nostro tentativo di adattamento integrativo ad un mondo trasformato e sconosciuto, un tentativo finalizzato a recuperare il senso di mastery (padronanza sul reale).

In questo senso, ognuno di noi risponde alla minaccia trasformativa in corso utilizzando gli strumenti che gli sono propri, che derivano dal proprio modo di fare esperienza, modo che ha molte diverse componenti: qualità e quantità delle risorse a disposizione, basi biologiche (in psichiatria biologica si direbbe: in funzione del temperamento), aspetti soggettivi legati alla percezione di sé all’interno delle relazioni e alla percezione dell’altro rispetto a sé stessi. Nel tentativo di ripristinare il senso di mastery e la prevedibilità del mondo, ognuno di noi cerca di “neutralizzare” lo stimolo nuovo e sconosciuto e prova a integrarlo nel proprio mondo di esperienze: ogni individuo lo farà in modo del tutto personale, individuale, idiosincrasico.

Da ciò deriva che, nel fronteggiare una minaccia, ogni individuo avrà una reazione propria ed unica.

Di fronte ad un evento abnorme e minaccioso, quindi, saltano i nostri schemi precostituiti di anticipazione delle risposte ad una data situazione. Questo impone cautela nella valutazione delle risposte che potremo osservare negli altri: semplificando, dovremo considerare “normale” ogni reazione emotiva, anche molto intensa, se a causarla sono eventi come quelli che stiamo vivendo nelle ultime settimane. Questo, naturalmente, non significa accettare con passività qualunque cosa osserviamo nelle reazioni nostre e altrui, procrastinando possibili interventi atti a gestirla: non significa, cioè, abdicare al proprio senso etico e deontologico di curanti. Su questo tema, si ritornerà più avanti in questo ebook, nel tentativo di mettere in luce un possibile agire finalizzato e dotato di senso.

Una conclusione legata a queste prime osservazioni è quindi la seguente: la reazione ad un evento abnorme può essere di qualunque tipo e di qualunque intensità.

Ma di cosa stiamo parlando quando usiamo la parola “evento”?

Troppo spesso viene operata una equivalenza di significato tra trauma ed evento che lo ha scatenato. In questo modo si incorre nell’errore di diagnosticare una sindrome postraumatica solo in funzione del fatto che una persona sia stata esposta a uno o più eventi estremi (intendendo con estremo un evento caratterizzato da una minaccia reale alla propria o altrui integrità fisica e vita). Si arriva quindi alla equivalenza (errata) per cui se un soggetto è stato esposto ad un evento estremo e manifesta sintomi a livelllo emozionale, psicologico e/o comportamentale, allora vuol dire che è stato traumatizzato.

L’aspetto problematico fondamentale in questo modo di ragionare è che non vengono poste due domande di essenziale importanza: quali sintomi presenta la persona di cui stiamo parlando? E, ancora più importante, quale dinamica correla l’esposizione all’evento con i sintomi presentati?

Per rispondere a queste domande bisogna ripartire dalla questione, basilare, delle reazioni psicofisiche individuali agli eventi stressanti.

Tutti noi, di fronte ad un evento fortemente stressante, manifestiamo una reazione psicofisica più o meno intensa e di durata variabile (pensiamo alla reazione che abbiamo quando siamo testimoni, per esempio, di un incidente stradale), tuttavia solo una parte degli individui esposti ad eventi estremi sviluppa una sindrome postraumatica stabilizzata.

Di per sé, l’evento estremo ed abnorme ha quindi la potenzialità di indurre una sindrome traumatica; ma essere coinvolti in un evento estremo non significa automaticamente avere la certezza che tale sindrome si avveri, cioè che si inneschi il meccanismo patogenetico detto traumatizzazione.

Possiamo quindi ridenominare gli eventi ad alto livello di stress come “eventi potenzialmente traumatizzanti” (notare l’enfasi sull’avverbio, potenzialmente): è assolutamente fisiologico e normale che tali eventi causino risposte psicofisiche piuttosto intense e particolari, che fisiologicamente richiedono un certo lasso di tempo per diminuire, calmarsi ed estinguersi.

La descrizione dei vari aspetti di tali risposte è raggruppata nella definizione di risposta acuta da stress.

La base corporea di tale risposta si fonda sul funzionamento del nostro sistema nervoso autonomo: in particolare, per comprendere i meccanismi fisiologici ortosimpatici e parasimpatici (e la loro modulazione) che sono in azione in caso di minaccia grave e gravissima risulta preziosa la Teoria Polivagale di Stephen Porges, che verrà descritta in un altro capitolo di questo ebook.

La risposta acuta da stress, per quanto intensa, attiva fisiologicamente tutte le risorse (biologiche, emotive, psicologiche, relazionali, affettive, sociali) dell’individuo, legate alla sua sopravvivenza e al suo benessere: collettivamente queste risorse possono essere raccolte sotto l’ampio concetto “ombrello” di resilienza.

Essendo tutto il genere umano (Homo sapiens) dotato di notevole resilienza, nella maggior parte delle situazioni le risorse di resilienza prevalgono: questo porta la maggior parte degli individui a ritrovare uno stato di equilibrio in modo abbastanza rapido (da qualche ora fino a qualche giorno), con un ritorno del nostro arousal (livello di attivazione del sistema nervoso autonomo) allo stato precedente all’esposizione all’evento stressante. In tal caso, l’evento, seppur estremo, intenso, altamente stressante, non è stato traumatizzante, non ha attivato il meccanismo patogenetico che chiamiamo traumatizzazione. Un esempio: per alcuni giorni dopo l’esposizione a un evento molto stressante è possibile avere importanti disturbi del sonno ed un livello di allarme costante, come se ci sentissimo sempre in pericolo, nonostante sappiamo perfettamente che il pericolo è passato. Questi segnali possono gradualmente attenuarsi fino a scomparire completamente ed in modo spontaneo.

La risposta acuta da stress non deve quindi essere in alcun modo considerata come un disturbo, rientrando in tutto e per tutto in una normale risposta fisiologica ad un evento abnorme.

Gli studi e le conoscenze psicofisiologiche e psicoterapiche su tutti i tipi di stress da una parte permettono di affermare che la resilienza degli esseri umani è potente e molto versatile (previene in molti casi il meccanismo di traumatizzazione), dall’altra ci aiutano a identificare situazioni in cui la resilienza durante lo stato di crisi acuta (come ad es. nel disturbo acuto da stress, vedi sotto) sia stata superata, “spezzata”, e si sia instaurata la traumatizzazione con tutto il suo corteo sintomatologico (come nel disturbo da stress post-traumatico o PTSD).

Se desideriamo diventare più consapevoli della presenza di dinamiche traumatiche, di crisi o superamento della resilienza, dobbiamo quindi porre molta attenzione a quelle situazioni in cui i segnali/“sintomi” che hanno caratterizzato la fase di risposta acuta non scompaiono in pochi giorni ma invece rimangono numerosi, intensi, si consolidano e permangono per un periodo di tempo più lungo.

Questa condizione viene definita come Disturbo acuto da stress.

I sintomi possono essere molto vari, andando da vissuti di intrusione sensoriale (immagini, odori, rumori che erano associati all’evento, come ad esempio il vedere i fari dell’automobile con cui ho avuto un incidente frontale, sentire il rumore dello schianto delle lamiere, avere nel naso l’odore ed in bocca il sapore del sangue), alterazioni dello stato emotivo (come vissuti di profonda ed intensa tristezza o incapacità di tollerare frustrazioni o anche gratificazioni e momenti di felicità), comportamenti di evitamento delle situazioni che in qualche modo richiamano l’evento a cui siamo stati esposti (non riuscire più a guidare o a salire su un’automobile), sintomi di attivazione simpatica (disturbi del sonno, irritabilità, ipervigilanza, ecc.) fino ad arrivare a sintomi più complessi, e soggettivamente molto inquietanti, come si verifica in alcune esperienze dissociative (come ad esempio vedersi fuori dal proprio corpo o avere la percezione di un’espansione abnorme del tempo, che non passa mai, o che al contrario “ci sfugge” a causa di amnesie più o meno lunghe in durata).

I sintomi dell’area intrusività, più degli altri, sono quelli che maggiormente caratterizzano le dinamiche di traumatizzazione come riattualizzazioni dell’evento passato nella quotidianità odierna.

É presente un “corto-circuito” tra passato e presente, poiché l’intrusione di una parte del passato nel presente mi fa vivere di nuovo il passato, perdendo, in qualche modo (talora parziale e breve, talora completo e/o prolungato) la “presa” sul presente e la distinzione, fondamentale, che ciò che è passato è terminato e non è più attivo nella sua compente di minaccia, inquietudine, senso di impotenza, disperazione, ecc. L’intrusività del passato è indubbiamente una delle cifre essenziali di qualunque esperienza autenticamente traumatica: l’evento traumatizzante viene rivissuto, non semplicemente ricordato. Girando nell’altro senso la stessa riflessione: quando un evento è traumatizzante non può venire ricordato in modo normale (è rimasto non elaborato, non digerito, come un corpo estraneo all’interno della psiche), e verrà di conseguenza evitato il più possibile. Ma più viene evitato, più tale evento “si carica di energia” (per venire ricordato e realmente elaborato) e tale energia crea una irruzione del contenuto traumatico nella vita psicofisica della persona, sotto forma di ri-vissuto, di ri-viviscenza traumatica.

Per convenzione, una durata inferiore a 30 giorni di questi disturbi viene definita e diagnosticata come disturbo acuto da stress. É una condizione che richiede attenzione clinica, almeno sotto forma di una consulenza/ valutazione da parte di un professionista (psicologo psicoterapeuta o psichiatra) esperto. Se intrusioni, evitamento, disregolazione dell’arousal (attività del sistema nervoso autonomo) e disregolazione emozionale (rabbia, paura, tristezza, vergogna, senso di colpa) persistono oltre i 30 giorni, va valutata la possibile presenza di un disturbo da stress post-traumatico (PTSD, vedi le prossime pagine e i prossimi capitoli dell’ebook).

Va subito sottolineato che risultare traumatizzati da un evento o da una serie prolungata di situazioni estreme non è un segno di debolezza psicologica: come spesso afferma un grande maestro della psicotraumatologia contemporanea, il professor Onno van der Hart, “ognuno di noi ha il suo punto di frattura” che viene raggiunto e soverchiato dall’insieme della esperienza traumatizzante in corso. La dinamica di traumatizzazione riguarda un aspetto di fragilità che è certamente parte della condizione umana, vissuta da ognuno di noi, dal primo all’ultimo giorno della nostra vita (vedi il mito del “tallone d’Achille”, perfetta descrizione mitologica di tale condizione), condizione che non è assolutamente riconducibile a una banale dicotomia tra “forti psicologicamente” e “deboli psicologicamente”.

Al contrario, la dinamica della traumatizzazione (ovvero il superamento delle capacità di resilienza) è sempre il risultato di una complessa interazione tra l’evento, la situazione del momento, le vulnerabilità della persona (sia precedenti l’evento sia attivate dall’evento stesso) e le sue risorse disponibili (fisiche, psicologiche, relazionali) in quel preciso istante.

Dalla lettura di questi ultimi paragrafi possiamo iniziare a comprendere meglio come mai, pure essendo state esposte allo stesso evento abnorme, alcune persone vadano incontro ad una risposta acuta prolungata o ad un vero e proprio disturbo da stress post-traumatico, mentre altre possano ripristinare in maniera soddisfacente il proprio livello di attivazione simpatica in qualche ora.

L’evento di per sé, ripetiamolo, ha la caratteristica di essere potenzialmente traumatizzante per tutti gli individui esposti. Nuovamente, ribadiamo che non dobbiamo cercare nell’evento in sé la cifra del trauma. Un evento diventa effettivamente traumatizzante nel momento in cui soverchia la possibilità dell’individuo di adattarsi alla stimolazione eccessiva insita nell’evento stesso; ovvero, l’evento diventa traumatizzante quando il suo impatto sovrasta ed annienta la resilienza dell’individuo, che vive questo peculiare stato come annichilimento, impotenza totale, come essere in totale balìa di quanto ci accade senza poterne avere alcun controllo, come usurpazione della propria volontà da parte dell’evento.

In psicotraumatologia, il concetto di resilienza pertanto non è sinonimo di semplice adattamento, nel senso comune di capacità passiva di plasmarsi sui cambiamenti che la vita ci impone (si pensi al diffuso adagio popolare: ci si abitua a tutto) e non è solo la capacità di avere una risposta uguale e contraria finalizzata ad azzerare il cambiamento imposto dall’esterno.

La resilienza è, piuttosto, una funzione attiva dell’individuo, a volte volontaria e consapevole, a volte basata su capacità psicofisiche autonome e automatiche (strumenti innati e acquisiti) capace di ripristinare la risposta fisiologica che il nostro corpo mette in atto di fronte a condizioni cariche di energia e che possono potenzialmente soverchiare il nostro intero funzionamento corporeo e psichico.

Date queste premesse, a seguito dell’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico -cioè un evento che possieda le caratteristiche intrinseche di soverchiare la resilienza dell’individuo esposto-, potremo osservare una restitutio ad integrum in alcuni individui (la maggior parte); in altri lo sviluppo di una sintomatologia che può essere anche invalidante ma che tende in breve tempo (al massimo entro quattro settimane dall’esposizione) a risolversi, anche grazie all’aiuto e alla consulenza di un professionista esperto; in altre persone ancora osserveremo invece il consolidamento di questa sintomatologia -dopo un periodo, considerato “standard”, di 30 giorni dall’esposizione all’evento.

In quest’ultimo caso parleremo di Disturbo da Stress Postraumatico (PTSD) caratterizzato dai gruppi sintomatologici dell’intrusione (di aspetti sensoriali estranei e connessi più o meno direttamente all’evento, che entrano nel campo di coscienza dell’individuo in condizione sia di veglia – immagini, rumori, suoni, odori o sapori esperiti durante l’evento che si ripresentano tali e quali a distanza di tempo- che di sonno -incubi notturni), dell’evitamento (di tutte le situazioni che in qualunque modo richiamino l’evento in sé), della disregolazione dell’arousal (sistema nervoso autonomo) e della disregolazione emozionale.

Arrivati a questo punto, ci si pone un ulteriore problema, che la pandemia SARS-Cov2 ci presenta in tutta la sua dirompente potenza. Tutto quello che abbiamo detto fino ad ora si applica in maniera piuttosto semplice se l’evento potenzialmente traumatico è singolo e puntiforme (come accade per un incidente stradale), oppure se è possibile prendersi una pausa di osservazione dalle situazioni di stress continuativo in corso, riuscendo a valutare con un minimo di chiarezza e competenza i sintomi in corso, su se stessi o sulle persone che ci chiedono un parere o una consulenza in quanto sanitari.

Dobbiamo constatare, purtroppo, che la situazione è più complessa. La pandemia di SARS-Cov2 è tutt’altro che puntiforme e singola: ci stiamo convivendo e ne siamo esposti ormai da mesi. La pandemia sta ancora continuando, in parte nella sua parte più chiaramente epidemica, in parte attraverso le sue conseguenze, che stanno lentamente emergendo e che riguardano la salute, le relazionali sociali, la situazione economica di miliardi di esseri umani in tutto il pianeta. Dopo tutto questo tempo (mesi) di reazione al virus siamo ancora ben lontani dal poter ipotizzare e considerare una completa smobilitazione dall’emergenza: nell’emergenza siamo ancora immersi. Di conseguenza, siamo ancora ben lontani dal poterci pensare di nuovo al sicuro e protetti.

Il livello di stress a cui siamo stati acutamente esposti non sta calando completamente, anche se lo desidereremmo: in parte rimane immutato, in parte si sta trasformando, in quanto iniziamo a dover affrontare scenari diversi, legati non solo a una protezione e cura dell’aspetto più acuto dell’infezione (fase 1), ma anche alla necessità di ripristinare un livello più usuale di vita socio-lavorativa, mentre in virus è ancora in circolo (fase 2).

Anche le équipes sanitarie si trovano in questa doppia situazione, da una parte con l’obiettivo di mantenere le metodologie e le prassi operative necessarie per affrontare la patologia ancora in corso, dall’altra di ripristinare una quotidianità clinica e un lavoro di équipe conosciuto e messo in atto da anni -legato a un ritorno alla “normalità”.

Mentre alcune persone stanno già vivendo, dolorosamente, una situazione di traumatizzazione (come disturbo da stress acuto o come PTSD), tutti noi siamo immersi in una difficoltà reale e molto umana, legata alla oggettiva fatica ad adattarci a condizioni pesanti e in gran parte imprevedibili, a eventi abnormi (emergenze, lutti gravi) e in gran maggioranza non usuali, di difficile decifrazione. Parliamo in questo non di problemi traumatici (nei quali la resilienza viene sopraffatta e il funzionamento dell’individuo in qualche modo si “spezza”), ma di problemi di adattamento nei quali la resilienza è “affaticata”, ma non soverchiata, e il funzionamento dell’individuo (o dei gruppi familiari, sociali, lavorativi) muta, si “deforma”, ma non si spezza. Utilizzando una analogia abbastanza precisa mutuata dall’ortopedia (un’altra branca medica competente, non a caso, di traumi), possiamo dire che un ambito sono le fratture (dove il disturbo acuto da stress è una frattura composta e il PTSD una frattura più netta, talora complessa, che necessita di un intervento specialistico, magari semplice ma mirato ed esperto come un gesso), un altro ambito sono le contusioni, che in primis hanno bisogno di una terapia sintomatica (riposo, ghiaccio, anti-infiammatori, attenzione e cura delle parti colpite, da parte del contuso in primis ma anche di chi gli sta intorno).

Solo in caso di contusioni multiple e invalidanti è necessario un intervento specialistico mirato: spostandoci di nuovo in ambito psicodiagnostico, utilizziamo in tal caso la descrizione clinico-diagnostica di disturbo dell’adattamento, o DdA.

Approfondiamo un attimo il tema, molto ampio, delle dinamiche legate all’adattarsi/abituarsi a situazioni e periodo stressanti. Osservando cosa ci sta accadendo in attualità, questi temi si ripropongono con forza: stiamo infatti tentando di riprendere il controllo della situazione, in una condizione durevole che implica, con regolarità, una minaccia solo un poco più conosciuta di quanto fosse alcune settimane fa. Ci si chiede di continuare ad andare avanti a vivere, riprendendo modalità sospese per 2-3 mesi, pur sotto la costante minaccia della morte, della malattia, della discontinuità, dell’interruzione dei ritmi, delle ritualità e delle consuetudini. Dobbiamo costruirci delle difese per sopravvivere nel costante pericolo del contagio e delle sue conseguenze. Ci troviamo quindi nella necessità di trovare un equilibrio fra i continui stimoli che tendono a soverchiare le nostre capacità di resilienza e la necessità di andare avanti nella quotidianità.

In qualche modo dobbiamo regolare il nostro sistema autonomo; non possiamo esporci continuamente ad un tale livello di stress senza poterci autoregolare. L’abituazione ci permette di raggiungere questo obiettivo ma ad un prezzo non sempre accessibile. Certamente, come dice il popolare adagio: ci si abitua a tutto. Molto spesso è vero (tranne per ciò che ci risulta traumatico), ma c’è sempre un costo a questo abituarsi, e a volte il costo risulta troppo alto e faticoso: in tal caso è utile poter dire che lo sforzo di abituarsi si trasforma in una situazione che richiede cura specifica, che convenzionalmente chiamiamo disturbo d’adattamento.

Utile fare un esempio di una fatica da adattamento in ambito lavorativo sanitario. Un operatore di rianimazione (medico o infermiere) è abituato a gestire la sofferenza e la morte del paziente e le conseguenze di questo evento potenzialmente traumatizzante sui famigliari e su se stesso in quanto operatore; da operatore esperto e professionale svolgerà i suoi compiti con umanità ed attenzione, prestando cure che vanno ben oltre gli aspetti prettamente tecnici rappresentati da un esame clinico-diagnostico o da una procedura terapeutica: lo fa occupandosi il più possibile della persona, garantendone la dignità, la riservatezza, l’autodeterminazione, prestando attenzione ai bisogni anche psicologici. Ciò che caratterizza ogni operatore sanitario esperto ed efficace è proprio questa capacità di rispondere, abbastanza contemporaneamente, a vari livelli e tipologie di bisogno dei pazienti.

In molti modi la pandemia di SARS-Cov2 ha provocato uno stravolgimento delle nostre competenze e della nostra professionalità di curanti. Uno dei (purtroppo molti) aspetti è legato a questioni basilari di protezione e sopravvivenza. Va ricordato che nella descrizione dei bisogni di ogni individuo, proposta da Abraham Maslow tramite una famosa figura a piramide, alla base troviamo il bisogno di essere al sicuro e venire protetti. Il personale ospedaliero, in particolare quello dei reparti intensivi e subintensivi, è stato coinvolto in una realtà, durata molte settimane, di continuo stravolgimento di tali bisogni, sia per un aumento delle situazioni che necessitavano cure ad alto livello di intensità e specializzazione, sia per un incremento del numero dei decessi a cui neanche gli operatori di rianimazione erano abituati.

Già solo questo livello di stravolgimento ha portato intensa fatica di adattamento.

Ad esso si sono sommate molte altre situazioni di stravolgimento della vita ordinaria nella vita di ogni operatore, sia a livello professionale che personale e familiare (citiamo solo ad esempio quante preoccupazioni di infezione, mai prima vissute, sono nate riguardo al tornare ogni giorno a casa dall’ospedale e incontrare il partner, i propri bambini o familiari anziani).

Risulta ovvio che è e sarà alto il costo fisico ed emotivo di occuparci dei bisogni di sicurezza e protezione dei nostri pazienti nel momento in cui ci troviamo nel paradosso che, per poter concretizzare questa nostra mission professionale, stiamo mettendo in discussione i nostri personali bisogni di sicurezza e protezione. Pensando concretamente a questo costo come a una spesa energetica, osservando la colonna delle “uscite” sul mio conto corrente, riuscirò a fare un bilancio, riuscirò a rendermi conto se sto “andando in rosso”?

Questa domanda è cruciale e incoraggiamo ognuno a farsela, non appena la situazione emergenziale al lavoro recederà.

Il rischio, se non valutiamo la nostra fatica di adattamento, sarà, nella migliore delle ipotesi affrontare il lavoro tornato “abbastanza normale” senza l’energia sufficiente, quindi sentendoci costantemente “col fiato corto”. Nella peggiore delle ipotesi non daremo importanza a sensazioni, vissuti, comportamenti che sono già da considerarsi come sintomi (cioè aspetti problematici che richiedono cura) di un vero e proprio disturbo dell’adattamento che porta danno a noi e all’ambiente intorno a noi (soprattutto: lavorativo, familiare e amicale).

Un possibile segnale di fatica di adattamento è la nascita di una sorta di fatalismo cinico: pensare “tanto tutti moriamo prima o poi, è soltanto arrivata la sua ora” indubbiamente ci permette di riprendere la nostra quotidianità (di autoregolarci) ma a scapito della ricchezza e della profondità che avevamo prima nel nostro lavoro. Il cinismo costituisce uno dei primi segnali di difficoltà di adattamento a condizioni di stress estremo in ambito lavorativo (oltre al primo segnale di una prossima capitolazione del nostro ruolo professionale di curanti). Perdere di vista la deontologia ed il senso etico durante un lavoro, perdere di vista il proprio ruolo, significa perdere la propria identità professionale, e di conseguenza lesionare anche parte del senso di identità personale.

La sindrome da burn-out, con perdita talora completa di motivazione in ambito professionale -fino a un senso di alienazione-, è un buon paradigma per descrivere, osservare e diagnosticare molti aspetti di disturbo dell’adattamento (DdA) conseguente a grave stress lavorativo.

Se desideriamo applicare le conoscenze sul burn-out nel campo del lavoro sanitario (sia per noi stessi, per valutare il nostro livello di fatica di adattamento, sia per l’ambiente intorno a noi, al fine di pianificare interventi di miglioramento dello stress tra i sanitari) è utile conoscere anche il concetto, sempre proveniente dalla letteratura anglosassone di compassion fatigue, termine sicuramente più suggestivo, evocativo ed efficace del suo corrispettivo italiano di trauma vicario. La osservazione e valutazione della compassion fatigue3 può certamente portare beneficio per molte delle condizioni di “malessere professionale”, in cui assistiamo ad un soverchiamento della resilienza sia individuale che gruppale ed organizzativa (pensiamo alle riorganizzazioni degli ospedali per approntare reparti Covid che hanno determinato lo scioglimento di équipes consolidate ed il loro rimescolamento, comportando per necessità proprio il rischio di riduzione della resilienza offerta dal gruppo).

Oltre al burn-out e alla compassion fatigue, nella valutazione del disturbo di adattamento (DdA) nel personale sanitario va aggiunta particolare attenzione all’allargamento “a macchia d’olio” dei sintomi al di fuori dell’ambito lavorativo.

Molti segni e sintomi di DdA coinvolgono infatti: 1) il funzionamento individuale soprattutto riguardo alla regolazione corporea (con insonnia, dolori migranti, somatizzazioni talora gravi, esordio di malattie o aggravamento di patologie pre-esistenti, ad es. ipertensione, diabete, nevralgie, problemi autoimmuni) e riguardo alla regolazione emozionale (con manifestazioni in particolare ansiose e depressive); 2) la vita relazionale e affettiva, con estensione a livello personale e familiare delle difficoltà nate sul lavoro (senso di estraneità e distanza con persone prima a noi care, atteggiamento cinico o polemico coi nostri familiari, aumento della litigiosità e irritabilità nei loro riguardi, fino alla violenza verbale o fisica, ecc.).

Molto frequente, come modalità auto-prescritta di “autocura” del disagio emotivo da DdA, il ricorso a sostanze d’abuso (tranquillanti, alcool, cannabis, cocaina) e a dipendenze comportamentali (gioco d’azzardo, dipendenza da internet, ipersessualità, sensation seeking grave con comportamenti ad alto rischio).

In conclusione, parlare di stress, resilienza, adattamento (e i suoi disturbi) e traumatizzazione significa muoversi all’interno di un ambito ampio e complesso, ma esplorabile mediante punti di repere e utilizzando strumenti di orientamento specifici.

Ogni sanitario ha la possibilità (e aggiungeremmo il dovere) di utilizzare le proprie competenze di cura, già presenti e a disposizione grazie alla propria formazione professionale, per informarsi in merito, anche tramite questo ebook, e procedere innanzitutto ad una auto-valutazione del proprio livello di stress e di fatica di adattamento.

Il passo ulteriore, sempre utilizzando le proprie competenze terapeutiche, è quello di decidere di mettere in atto un piano di cura personale, piano che potrà o meno includere l’intervento di un professionista competente nell’area dello stress e del trauma.

Incoraggiamo Voi lettori a chiedere il consiglio di un esperto se doveste avere dubbi sulla completezza della Vostra indagine auto-valutativa sullo stress percepito e vissuto; se persone care intorno a Voi Vi segnalassero Vostre modalità di sofferenza emotiva e/o comportamentale prima non presenti; se il livello di fatica di adattamento fosse globalmente alto o se i segnali di tale fatica fossero pochi ma intensi (probabile presenza di disturbo dell’adattamento), se Vi doveste riconoscere nella descrizione di professionista in burn-out o con compassion fatigue, se dopo oltre un mese dall’inizio degli eventi stressanti viveste in modo stabile gran parte o tutti i sintomi di PTSD (intrusione, evitamento, disregolazione emozionale e della attività del sistema nervoso autonomo).

Allo stesso modo, incoraggiamo i lettori che hanno responsabilità di coordinamento e di management/direzione di équipe ad attivare lo stesso pensiero valutativo-terapeutico focalizzandolo non sul singolo ma sulle modalità di funzionamento e il livello di stress/disturbo di adattamento/trauma della équipe che dirigono.

Nelle prossime pagine approfondiremo molti temi accennati in questo capitolo, con la speranza di arricchire il vostro bagaglio di conoscenze riguardo a cura del corpo, dello stress e dei problemi post-traumatici.

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Article by admin / Aggiornamento / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD

28 maggio 2020

AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY

di Raffaele Avico


Cos’è la moral injury?

“Moral injury“, letteralmente “lesione morale”, è una definizione che descrive una tipologia particolare di trauma, incentrata su aspetti etico/morali. Viene spesso usata in contesto militare, per raccontare di uno stress peculiare a seguito di scelte molto difficili compiute durante operazioni di guerra.

Una persona con valori cattolici radicati, per esempio, potrebbe trovare devastante in senso morale dover obbedire all’ordine relativo all’uccisione di un’intera famiglia di persone innocenti durante un bombardamento. Oppure, un medico militare potrebbe dover decidere, per via di un triage rapido, se salvare un amico in difficoltà o un bambino ferito. Una scelta di questo tipo potrebbe porre l’uomo di fronte a un dilemma dilaniante in senso morale che, una volta superato, potrebbe impiantarsi nel ricordo come un evento traumatico su un piano, appunto, morale.

Abbiamo spesso sottolineato qui come il trauma trovi il suo terreno di sviluppo in contesti difficili di attaccamento in seno a sviluppi traumatici, o a seguito di eventi unici e forti al di fuori della persona, nel suo ambiente di vita: il tema “moral injury” sposta la questione su un conflitto interiore così difficile da divenire traumatico.

Molteplici articoli e fonti mettono a paragone lo stress post traumatico (PTSD) con la moral injury.

Tra le fonti migliori troviamo:

  • 1
  • 2
  • in italiano

Il tema della moral injury ben si presta a essere usato, come prima accennato, anche in ambito medico (pensiamo per esempio alla questione degli operatori sanitari coinvolti in difficili triage durante l’esplosione dell’epidemia di Covid19, nel marzo/aprile di quest’anno). In quest’ambito il concetto viene allargato e adottato come espansione del concetto di compassion fatigue; la Compassion fatigue potrebbe essere definita come la risposta a un soverchiamento delle capacità di resilienza di un operatore sanitario, di fronte a persone colpite da trauma. In italiano il termine scelto per riferircisi è trauma vicario.

Al di là della definizione del problema, le caratteristiche generali della stato di moral injury potrebbero essere sintetizzate in:

  • presenza di senso di colpa, vergogna e tradimento sperimentati. In questa definizione viene esplicitato come il senso di tradimento avvenga in ragione di un conflitto creatosi tra i valori del soggetto e i comportamenti da lui/lei messi in atto, che confliggono con quegli stessi valori (essere obbligati a fare qualcosa in aperto contrasto con il proprio codice di comportamento morale, per esempio)
  • è possibile che, dal piano morale, la questione si sposti sul piano spirituale quando vi sia un’evidente auto-tradimento di precetti religiosi interiorizzati prima dell’evento traumatizzante
  • se comparato con il PTSD, nella moral injury non sono necessariamente presenti sintomi da iper-arousal o da grande minaccia percepita, dato che il luogo dove si esprime il trauma, è solamente interiore (il centro del problema coincide come si diceva con un senso di rottura rispetto a profonde convinzioni morali)
  • la presenza di una moral injury viene rintracciata o testata per via di scale specifiche, come la Moral Injury Questionnaire
  • per quanto riguarda il trattamento, molti approcci simili a quelli usati per il normale PTSD (primo fra tutti la CBT orientata al trauma) vengono consigliati, pur non esistendo al momento un gold standard dedicato. Viene osservato come sia consigliabile muoversi entro una cornice definita bio-psico-socio-spirituale, come qui approfondito

La letteratura in ambito è ampia. Gli scenari sono sostanzialmente due:

  • ambito militare
  • ambito sanitario

Per quanto riguardo l’ambito militare, questo articolo rappresenta un tentativo di analisi qualitativa di 8 interviste fatte a veterani aderenti al programma Road Home della Rush University di Chicago. Ci si chiedeva, in generale: quali sono i temi principali che emergono da interviste fatte a soggetti colpiti da moral injury? Vennero in questo articolo a questo proposito isolati cinque domini semantici:

  1. il tema del tempo in cui avvenne la violazione del codice morale interno, e il tempo della comparsa dei sintomi
  2. i fattori contestuali alla violazione morale: situazioni di guerriglia civile in frangenti caotici e frenetici (il tradimento del proprio codice morale avvenne in un momento di caos, sotto la pressione di superiori in situazioni di forte stress in battaglia); il dover sottostare a ordini in aperto contrasto con il proprio codice morale; la necessità di dimostrare di “essere come gli altri”, calpestando in questo modo convinzioni proprie e molto radicate in senso morale
  3. le reazioni alla moral injury: 1) cognizioni negative 2) ruminazione 3) uso di alcol con funzione di autocura 4) isolamento ed evitamento 5) non comunicazione del “segreto” -cioè l’evento 6) tentativi di riparazione attraverso l’espiazione della “colpa” -volontariato, azioni prosociali, etc.
  4. tentativo di cercare un significato all’accaduto e uno scopo di vita; qui emergono alcune questioni centrali: 1) non sarà possibile tornare al “vecchio Sè” 2) la sensazione è che l’evento abbia trasformato l’individuo in un “mostro” 3) l’evento sembrerebbe aver prodotto una caduta nello “scopo” di vita, come se avesse interrotto l’idea di combattere per qualcosa verso il futuro; si ha l’impressione cioè di una stasi temporale, di un blocco nel percorso di vita connesso appunto alla mancanza di scopo, cosa tra l’altro tipica di qualunque trauma percepito in quanto tale
  5. momento dell’apertura, della comunicazione agli altri: più difficile con i famigliari e i non-professionisti, più semplice, terapeutico ed efficace se fatto con altri veterani

Come si osserva, questo studio mette in luce come l’appartenere a una struttura umana costituita da gerarchie interne, possa confliggere con assunti morali altamente individuali e intimi. La legge di un esercito, può entrare in dissonanza profonda con la legge del singolo, procurando traumi che, pur relativi alla dimensione morale (e non a quella della sicurezza, come di solito siamo abituati a pensare quando parliamo di trauma), saranno in grado di esitare in modo clinicamente rilevante sulla vita del singolo. I temi della prevaricazione, dell’immobilità e della sottomissione, che troviamo un po’ dovunque ci sia trauma (ricordiamo l’assunto di Peter Levine per cui trauma=immobilità+paura senza soluzione), tornano qui a farsi vedere, declinati però nel contesto di una  struttura umana dove il punto di vista del singolo viene “piegato” da un ente umano superiore, da una logica gerarchica monolitica.

Sempre stando sul tema “prevaricazione” e sottomissione, il secondo grande ambito di espressione e possibile nascita di una moral injury, è quello della sanità, organizzato anch’esso da logiche altamente gerarchizzate, con però -spesso- maggiore spazio di scelta individuale.

Se pensiamo al tema “moral injury” in ambito sanitario, viene subito alla mente il tema “triage”, attuale in questo periodo di pandemia Covid.

In questo articolo è stata fatta nel 2018 un revisione della letteratura sul tema Moral Injury in ambito sanitario, con l’obiettivo di chiarire sovrapposizioni e differenze tra moral injury stessa e PTSD. Sembra utile in questo senso proporre un chiarimento tra le diverse forme di stress post traumatico, così da averne una visione chiara.

Esistono differenti forme/risposte di stress post traumatico, a seconda della durata dello stesso e delle caratteristiche intrinseche del disturbo:

  1. risposta acuta da stress (sotto i 30 giorni)
  2. disturbo acuto da stress (sotto i 30 giorni)
  3. disturbo dell’adattamento (sopra i 30 giorni)
  4. PTSD (sopra i 30 giorni)
  5. moral injury (piano morale/spirituale)
  6. compassion fatigue (trauma vicario, o secondario)

Per quanto riguarda invece il momento storico attuale, un articolo interessante è questo editoriale. Il tema della moral injury è qui declinato in ambito di lavoro per lo più ospedaliero, quando l’operatore sanitario stesso si trovasse a dover gestire appunto situazioni estreme, di scelta tra pazienti su cui intervenire, di triage “da guerra”, o obbligato a turni di lavoro estenuanti, con il rischio di sviluppare i sintomi della prima citata compassion fatigue. AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione) ha recentemente pubblicato un Ebook a proposito dei rischi connessi al lavoro degli operatori in giorni di epidemia e di intenso lavoro clinico.

Per un approfondimento, questo articolo firmato da Ruth Lanius, oppure: https://www.voa.org/moralinjury-faq


NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

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25 marzo 2020

PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT

di Raffaele Avico


                            “Per ciò che riguarda la psiche non posso dir molto di preciso: è certo che per molti mesi sono vissuto senza alcuna prospettiva, dato che non ero curato e non vedevo una qualsiasi via d’uscita dal logorio fisico che mi consumava. (…) mi pare di poter dire che questo stato d’animo non è ossessionante come nel passato. D’altronde esso non può cessare con uno sforzo di volontà; intanto dovrei essere in grado di fare questo sforzo, o di sforzarmi di sforzarmi ecc. A parole è semplice, nei fatti ogni sforzo conseguente diventa subito un’ossessione e un orgasmo. [..] Le allucinazioni sono completamente passate e anche è diminuita la contrazione o rattrazione degli arti, specialmente delle gambe e dei piedi”                       (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere)

 

 

La psicologia della carcerazione può allo stato attuale delle cose offrire interessanti spunti di riflessione. Può essere utile comprendere quali siano gli strumenti di preservazione della salute mentale adottati da carcerati e persone costrette a un regime di costrizione non per settimane o mesi, ma per anni.

Leggendo qua e là un po’ di letteratura e lavori sul tema, ci si imbatte in contenuti più rigorosi con elencazioni di patologia psichiatriche sviluppate nel contesto chiuso della cella, ma non è semplice raccogliere e sistematizzare contenuti che abbiano come oggetto centrale il semplice: che fare?

Uno dei siti forse più istruttivi, è Ristretti.it, incentrato sulle testimonianze dirette di carcerati e reclusi, costretti a un lavoro di costante e faticoso adattamento alle restrizioni della vita carceraria.

Ricordiamo che il carcere è una delle istituzioni totali.

L’obbligo alla chiusura pone diversi problemi alla vita dell’individuo. Senza voler forzare la mano a un confronto troppo diretto tra una vita “da quarantena” e una vita in carcere, può essere utile chiedersi quali elementi contribuiscono alla preservazione di una buona salute mentale durante un periodo forzato di isolamento. Ristretti.it ci fornisce alcuni spunti interessanti. Si parla di carcerite (qui un approfondimento) , di prisonizzazione (a indicare una serie di sintomi mentali e fisici collegati allo stile di vita carcerario), deculturalizzazione (perdita di schemi di comportamento adeguati alla cultura dominante), alienazione (accomodazione patologica ad un ambiente che destruttura la personalità), acculturazione (acquisizione di ruoli, comportamenti, valori della cultura carceraria).

Goffman, autore di Asylum, osservava come la “prisonizzazione” fosse una conseguenza dello stile di vita dentro tutte le istituzioni totali (quindi anche ricoveri per anziani, ospedali psichiatrici, caserme, monasteri).

Ristretti.it ci offre molto materiale da prendere in esame. Troviamo sottolineati aspetti della vita del carcere che diventano rituali (o meglio che divengono, progressivamente, ritualizzati, come il chiudersi delle porte, il momento del pasto, elementi ricorrenti e connotanti come il rumore delle chiavi del secondini, fatte tintinnare apposta – la sensazione è che l’ambiente chiuso ricrei un ambiente da esperimento sociale di memoria pavloviana). Altre, molteplici problematiche (dai sintomi psicosomatici al rischio di deterioramento cognitivo, a un collasso della libido/sessualità) vengono citate come possibilità connesse allo stato d’isolamento – qui un approfondimento.

Laddove tuttavia l’istituzione impone il rituale e una vita consumata nella ripetizione, emergono elementi di possibile salvaguardia. In particolare su ristretti.it troviamo citate:

  • attività affermative (o di soggettivazione) di natura artistica: lavoratori di scrittura, di espressività, arteterapia, lettura, cucina (vd. Gambero nero)
  • la cura “ossessiva” dell’immagine proiettata, con funzione di contenimento. Poi: cura del vestiario, della pulizia, dell’igiene, degli ambienti in cui si vive. Corpi trascurati, corpi annullati 
  • cura dell’alimentazione, con forti radicalizzazioni -fino ad arrivare a una maniacalità sugli aspetti “salutistici”
  • cura dell’igiene del sonno: Ritretti.it fornisce un breve guida alla vita sana in carcere, dove il detenuto viene esortato a svegliarsi presto, a fare moto in cella, a non rimanere a letto e non dormire di giorno
  • colloqui (con operatori, psicologi, psichiatri, ma anche parenti) con funzione di detensione, contenimento, socializzazione..in una parola: connessione. I colloqui hanno funzione inoltre di “destrutturazione” identitaria in un contesto che al contrario tenderebbe al cristallizzare gli aspetti identitari dell’individuo. Questo vuol dire che il lavoro di uno psicologo, per esempio, in questi contesti, dovrebbe essere quello di favorire una decostruzione identitaria e un ripensamento di alcuni aspetti relativi a come l’individuo percepisce se stesso (proprio perché il carcere alimenta rispecchiamenti ricorsivi in grado di portare la persona a una cristallizzazione dell’identità)
  • la ritualità come doppia valenza: da un lato stringe l’individuo in una morsa di eventi ricorrenti, claustrofobici; dall’altro, rappresenta un importante riferimento ambientale in grado di sorreggere l’individuo nei suoi propositi auto-disciplinari. In questo lavoro etnografico, viene per esempio sottolineato come, nel contesto del carcere, uno degli elementi di maggiore impatto negativo sulla mente sia l’imprevedibilità, l’impossibilità di creare routines 
  • l’ambiente viene assorbito dal corpo: questo sia in positivo che in negativo. L’ambiente del carcere è un ambiente spesso molto “brutto”: il rischio è che questo pesi sulla psicologia delle persone. Qua avevamo già scritto sul rapporto tra psichiatria, psicologia e architettura, insieme a Maria Pia Amore. Questo elemento va considerato se si pensa al tema della cura del proprio spazio, alle “isole di ordine”, agli angoli personalizzati, alla presenza o meno di “safe places”.
  • attività fisica come necessaria distrazione, in grado di frammentare la consapevolezza a riguardo della pena in sè, rendendola più tollerabile. Nelle Lettere dal carcere, Gramsci descrive quella che lui chiama “ginnastica da camera”, “che non credo sia molto razionale, ma che tuttavia mi giova moltissimo, secondo la mia impressione. (…) Credo che questa innovazione mi abbia giovato anche psicologicamente, distraendomi specialmente dalle letture troppo insulse e fatte solo per ammazzare il tempo”.

Per quanto riguarda, per così dire, la fenomenologia del vissuto carcerario, ci viene in aiuto un lavoro di Vincenzo Gagliardo chiamato Dei dolori e delle pene (qui scaricabile per intero), in cui vengono portate alcune riflessioni sulla salute mentale e fisica del carcerato, con alcuni spunti interessanti, seppur estremi. In particolare, due capitoli del lavoro (“della mente” e “del corpo”) meritano un approfondiment0:

Il corpo ignorato smette però di reagire come un animale domestico. E l’animale in gabbia rivela – anche se sembrava domestico – caratteristiche fino ad allora poco conosciute. La prima scoperta da farsi è che il corpo ignorato non produce vuoto ma dolore: dolore fisico. Il dolore è una reazione all’ignoranza del corpo, serve a ricordarci che siamo un corpo. E’ l’aspetto assunto dal senso della realtà, criterio di verità che prova ad ancorare la mente al mondo, dicendoci che ne siamo parte. E’ la parola dei muti ai quali non è consentito il gesto. [..] Alla luce di una lunga esperienza personale mi sono formato una convinzione che forse scandalizzerà qualche liberale: in carcere la malattia psicosomatica è uno stato necessario del corpo. La malattia è la cura, anche se una cura pericolosa. Non si guarisce per non morire. Come disse un detenuto: comportarsi da normali in una situazione anormale sarebbe proprio da anormali. La malattia psicosomatica (artrite, gastrite, eczema ecc.) fa da barriera a un più grave grado d’intossicazione: la malattia degenerativa (o invecchiamento precoce, come si diceva più chiaramente una volta) o l’epidemia. E’ il piccolo male che ci protegge dai grandi mali sempre in agguato fra le mura, in noi e fuori di noi: il diabete o l’epatite, la malattia cardiovascolare o la tubercolosi, il tumore o …, ecc. La malattia da carcere che si sviluppa a partire dall’iniziale alterazione dei sensi, è omeopatia spontanea. E’ l’arma della tolleranza verso il corpo contro l’annientamento. La ragione più profonda della malattia omeopatica naturale in carcere è la necessità vitale di resistere contro l’esasperato dualismo di un ambiente organizzato per scindere il corpo dalla mente.

Si noti dalle riflessioni sopra come l’intero processo possa essere riletto usando come cornice la psicopatologia dei disturbi di natura conversiva o dissociativa. La malattia psicosomatica, in questo senso, interviene come “sintomo estremo” in ragione di un conflitto ulteriore, di fondo, intollerabile. Di fronte a questo conflitto e a un ambiente percepito come “impossibile”, la mente, secondo questa lettura, si organizza in senso difensivo prima auto-inducendosi uno stato simil-alterato di coscienza, quindi “producendo” sintomi di natura psicosomatica -con funzione, però, salvifica.

Addirittura Gagliardo ragiona su quanto esasperare la cura del corpo, possa essere nocivo -nel contesto del carcere- per la “tenuta” mentale:

Il prezzo di una troppo buona salute fisica rischia di essere la morte psichica. C’è un’abitudine che si sta diffondendo nella società (si pensi agli Stati Uniti) e che in carcere si è spesso vista da tempi più antichi: la dedizione maniacale al corpo di taluni attraverso diete rigorose ed esercizio fisico spaventoso. Il commento dei non-maniaci è bonario: «lo fa per non pensare, forse si è bevuto il cervello»

Il lavoro di Gagliardo (che, ricordiamolo, è un ex brigatista con molto carcere alle spalle), scava nella profondità psicologica dell’esperienza carceraria, parlando di conflitti intrapsichici spostati sul piano somatico, distorsioni della coscienza, stati para-deliranti.

Occorre riportare alcuni brani significativi del suo lavoro, per farcene un’idea più precisa:

  • Il prigioniero si ribella contro ciò che sente assurdo, proprio contro quelle imposizioni che gli sembrano «folli» e perciò tanto più umilianti da accettare. Ben presto però si accorge di essere puntualmente perdente in questo scontro. Potrà allora accettare la sconfitta permanente e il costo che ne deriva come prezzo della dignità secondo il noto ragionamento implicito in ogni battaglia di principio: l’importante non è vincere ma resistere. Anche in questo caso un compromesso tra la propria coscienza e il comportamento esteriore è inevitabile in certe situazioni, giacché quel che ognuno ritiene giusto fare per reagire dipende comunque più dal contesto collettivo in cui si trova che dalla propria volontà; ma ognuno allora, a seconda della sua storia, della sua cultura e del suo carattere decide dentro di sé qual è la soglia del cedimento oltre la quale la sua dignità è messa in pericolo

  • [..] Ma, a parte il relativo isolamento del senso della dignità per ciascun individuo (fatto in sé naturale e positivo dato che è rivelatore dell’unicità degli individui e, pertanto, del carattere insopprimibile del bisogno di libertà per gli esseri umani), abbiamo tutti a che fare con una difficoltà ancora più grande, questa volta sociale, di natura culturale e indubbiamente negativa: non siamo stati educati a vivere a lungo le contraddizioni. Una tale capacità, ovvero la resistenza interiore, richiede una forte modestia, un’accettazione cosciente dei propri limiti che cozza puntualmente con l’individualismo di cui i più vengono imbevuti fin da bambini. Può succedere allora che per esorcizzare la paura il cosciente compromesso sul comportamento si trasferisca pian piano in un compromesso della coscienza, spostando la soglia dell’invalicabile. E’ l’inizio della caduta sul cammino della disumanizzazione.
  • La falsa coscienza è essenzialmente un far di necessità virtù, una graduale rimozione della coscienza del conflitto, e della positività della sua esistenza all’interno della coscienza. La perdita dell’equilibrio interiore è una sorta di peccato d’orgoglio; si diventa incapaci di riconoscere i propri limiti e capaci invece di mentire a se stessi. L’individuo costruisce allora una falsa unità – falsa perché impossibile – tra coscienza e comportamento. Egli si rappresenta così un mondo sempre più fantastico, in una spirale solipsista che credo simile a quella del paranoico, dove gli altri diventano sempre più irreali o surreali, sempre più “strumenti” o “ostacoli”. Il confine tra fantasticheria e realtà si fa sottile e confuso, come quello fra bugia e autoinganno. Per esempio avviene spesso che tra una cella e l’altra il desiderio di qualcuno diventi una «voce» la quale per altri diventerà notizia sicura da diffondere fino a diventare illusione collettiva. In tutte le carceri di tutti i tempi e paesi si è sempre in attesa di un qualche progetto di clemenza o di un evento che farà comunque cambiar le cose in meglio.
  • [..] Molta produzione letteraria, cinematografica o televisiva si spreca per descrivere queste «esagerazioni comportamentali», esaltandole o deprecandole o facendone oggetto di satira su cui ridere. Tutti hanno letto o visto modi di fare «da boss», attribuendoli alla presunta naturalezza d’un certo ambiente illegale quasi che sia, sulla scia delle teorie di Lombroso, un dato biologico, un immutabile innato carattere antropologico di certe persone che non può non dar luogo alla formazione di quell’ambiente. Questa immensa produzione intellettuale suscita ormai in me una sensazione penosa. Presentando questa particolare subcultura come un modo di essere «contro» quella ufficiale, ci si sbaglia, non ci si accorge di descrivere in realtà quello che è il primo passo di un cedimento umano vissuto e costruito nella realtà oppressiva e ricattatoria del carcere: non ci si accorge di assistere a un processo d’imitazione della cultura ufficiale e che da lì condiziona alla fine un intero strato sociale (rinnovandolo di padre in figlio) costituito da tutti coloro che devono delinquere per sopravvivere
  • La nuova personalità dell’accasato non nasce da un’attiva volontà di dominio com’è nel sadico, ma dal colmo della rassegnazione prodotta da mille invisibili ferite; è più devastante del sadismo perché al posto di un principio attivo c’è l’autospegnimento dell’individuo, una passività creata da un vuoto di stimoli che ha raggiunto il colmo spezzando l’amore per la vita.
  • La cella, la sezione, il cortile sono organizzati come un garage per una macchina non più destinata alla circolazione, mentre il detenuto, per una ragione naturale, cercherà di trasformarli in spazio abitativo: luogo in cui si svolge gran parte dell’esistenza dell’essere umano, fatto di abitudini, di relazioni, di simboli. Questa impresa, irrinunciabile perché impressa nella natura umana, diventa un lavoro di Sisifo che si svolge in una resistenza per lo più pacifica, sotterranea.
  • […] E’ il caso di dire che ci sono cose che hanno tanto più valore quanto meno hanno prezzo: segnano il confine tra la vita concreta degli esseri umani in carne e ossa da una parte (le «persone») e le astrazioni e la merce dall’altra. La tesi non è semplicemente romantica; è fondamentale assumerla per capire che queste attività, questi spazi sociali, le abitudini e la cultura che ne conseguono sono la realtà esterna di quella realtà interiore di cui si è detto finora in queste pagine. In questi obbiettivi «casalinghi» si cela tutto ciò che ha a che fare con il senso della dignità personale, con i legami di vera solidarietà in una comunità, con il rispetto, l’amore.

A conclusione del capitolo “Della mente” del lavoro di Gagliardo, l’autore fa un riferimento all’aspetto che considera più centrale, inerente la sessualità:

 

Si arriva così vicino alla questione fondamentale per comprendere l’obbiettiva fragilità di ogni movimento prigioniero, al perché del rischio di crollo della personalità nel singolo murato da vivo. Nessuna misura repressiva potrebbe infatti avere successo in una simile impresa se non avvenisse su una base di cui si parla sì, ma sempre come se non fosse la base dell’intero edificio bensì un aspetto tra gli altri… Tabù dei tabù, non se ne parla come si dovrebbe neanche in pur apprezzabili studi di denuncia come quelli di Foucault o di Ignatieff; peggio ancora, lo si ignora quasi del tutto persino nelle proteste dei detenuti, lo si trascura tra gli abolizionisti. Se in questo capitolo quest’argomento viene dunque affrontato per ultimo è per meglio dimostrare la sua decisività nel distruggere la realtà interiore, sperando che un giorno sia il primo ad essere affrontato quando ci si occupi di critica delle prigioni; nell’attesa, la critica della prigione e del pensiero punitivo sarà sempre, a mio parere, viziata alla radice. Ecco l’ovvietà (centrale) diventata (periferico) mistero: non si dice mai che la persona reclusa è, anzitutto, un castrato sessuale o, se si preferisce, un sub-castrato dato che nessuno lo evira fisicamente.

Ristretti.it regala d’altronde molto altro materiale consultabile. Nell’opera per esempio “Il carcere immateriale” (scaricabile qui), Ermanno Gallo osserva come uno degli aspetti da considerare relativamente alla vita da carere, sia il senso di stravolgimento della percezione del tempo, che viene così descritto:

Esiste un legame stretto fra stress e modificazione della “percezione del tempo“. Già i benedettini, con la tipica scansione del tempo monastico, avevano tenuto conto del pericolo di quella che possiamo definire “malattia del tempo“. Alla fantasticheria mistica alternavano infatti il lavoro, il gioco, l’attività libera e anche la socialità, forse più mondanizzata e «aperta» di quanto si sia disposti a ritenere. La sofferenza legale si può considerare perciò non semplicemente malattia delle sbarre, ma malattia del tempo: «La menomazione dello spazio genera senza dubbio ansia, angoscia, senso di soffocamento, che possono sfociare nell’asma, nella stanchezza cronica, nell’astenia; ma la menomazione temporale, a mio avviso, è più grave. La mente, immersa in una dimensione del tempo innaturale, reagisce in modo imprevedibile. C’è chi non esce più dalla cella, neppure durante l’aria. Chi guarda la televisione di notte e dorme di giorno. Chi rifiuta di pensare e chi pensa troppo. Senza considerare le lacerazioni che non sono visibili e che si manifesteranno più tardi, dopo la scarcerazione»

Che fare, dunque?

Considerando come le ricadute depressive siano inevitabili, a riguardo degli elementi protettivi e di salvaguardia la letteratura e gli spunti prima citati ci permettono di fermarci su tre elementi principali:

  • la costruzione di routines
  • il mantenimento di uno stile di vita adeguato (alimentazione, igiene, sonno, moto)
  • la cura di forme alternative di connessione agli altri essere umani

Torniamo dunque agli aspetti essenziali della vita quotidiana dell’uomo, minacciati dallo stato di isolamento. Sul “che fare”, Open ha scritto un buon articolo a riguardo, da leggere.

Infine, va fatta una riflessione sull’”assetto cooperativo”. Giovanni Liotti, nei suoi lavori, osserva come la “posizione cooperativa” consenta, spesso, di svincolare posizioni soggettive bloccate in senso patologico. L’assetto cooperativo (fare qualcosa con qualcuno, insieme a qualcuno, o anche ragionare, dialogare in modo cooperativo, per un bene terzo, comune) sblocca stati di impotenza, crea significato, vivifica la relazione. Liotti lo considera l’espressione più alta dello sviluppo cognitivo umano. In una condizione deprivata come l’isolamento, cercarlo potrebbe regalarci apertura, ossigeno e benessere psichico.

Article by admin / Aggiornamento / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicotraumatologia, raffaeleavico

15 gennaio 2020

LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO

di Raffaele Avico

Questa serie di video pubblicati dalla comunità Il Porto di Moncalieri (TO) raccoglie una serie di preziosi contributi a proposito della psicoterapia e della psichiatria territoriale e di comunità, effettuata con pazienti spesso gravi.

La psichiatria di comunità rappresenta forse la sfida più grande del territorio e dei servizi, anche solo per la tipologia di pazienti che in essi confluisce, ovvero i più gravi, pazienti che portano con sè doppie diagnosi, tratti antisociali, disturbi gravi di personalità. I pazienti che arrivano a una struttura come il Porto non dimostrano di sapersi gestire in modo autonomo all’esterno: allo stesso tempo il servizio sanitario “classico” non sembra essere in grado di farsene carico in modo tradizionale.

Il Porto, in particolare, si occupa di pazienti suddivisi in due unità principali, una per disturbi psicotici conclamati, l’altra per disturbi di personalità gravi, tossicodipendenti, soggetti autori di reato e altre complesse combinazioni psicopatologiche.

Nel master di psicoterapia di comunità che questi video documentano, come si noterà, intervengono tra i maggiori esperti sul tema, a partire da Vincenzo Villari, passando per Leopoldo Grosso (Gruppo Abele), Paolo Migone, Angelo Malinconico, etc. L’introduzione è a cura di Metello Corulli, ispiratore e fondatore dell’”istituzione” del Porto, venuto a mancare nel 2019.

Alcuni aspetti meritano un breve accenno, anche se sarebbe consigliabile guardare i video per intero da parte di coloro che fossero interessati al tema:

  1. il lavoro di comunità si situa a metà tra un lavoro terapeutico e un lavoro custodialistico: questo ben esplicita Metello a inizio percorso, quando ragiona sulla storia in sè degli istituti di presa in carico per pazienti psichiatrici, da sempre -di fatto- mossi da questo duplice mandato sociale (notare che lo stesso Villari sottolinea come l’SPDC si configuri -anche- come un luogo di custodia funzionale al mantenimento della stabilità sociale)
  2. l’intervento di Leopoldo Grosso consta di un preziosissimo e breve excursus sulla storia delle comunità per tossicodipendenti; Grosso racconta di come la comunità abbia progressivamente abbandonato la sua natura di “format” educativo e pedagogico (pensato negli anni ‘70 per i recupero di tossicodipendenti “puri” -eroinomani per lo più), per abbracciare un diverso modello di intervento molto più calato sul territorio in termini di rapporti con CMS e SERD, ed erogando interventi clinici più personalizzati. Si è passati cioè da un modello pedagogico, a un modello psicoterapeutico, verso un abbandono pressoché completo degli strascichi militaresco/“comportamentistici”, ormai desueti
  3. l’intervento di Alessandro Cerri aiuta a comprendere, almeno in parte, la complessità del ruolo di “operatore di comunità”, ruolo non riconosciuto e grandemente sottovalutato in ambito psichiatrico ma che si costituisce come vero motore del buon funzionamento di una struttura psichiatrica (o almeno, di una struttura psichiatrica come Il Porto).  Ne emerge una figura oltre-genitoriale, o super-genitoriale, laddove l’operatore in comunità debba costituirsi come io-ausiliario del paziente un po’ in tutte le funzioni e gli ambiti della sua vita, dalla gestione della distanza dalla famiglia di origine, a un’auspicata migliore gestione degli impulsi, alla promozione di un lavoro narrativo che consenta una rilettura di aspetti relazionali disfunzionali. L’operatore di comunità è, professionalmente, un essere ibrido tra psicoteraputa, educatore e mentore: nel trasmutare delle diverse maschere professionali che indossa, sta la complessità del suo quotidiano agire, come ben espresso da Alessandro Cerri. Considerata la maestria teorica di molti altri relatori, ma l’assoluta distanza dal lavoro “in prima linea” con i pazienti, questo intervento risulta il più importante in senso formativo. Metello chiude l’intervento ragionando sul parallelismo tra la figura dell’operatore di comunità e la figura del psychosocial nurse di provenienza inglese, un essere ibrido -anch’esso- tra educatore, psicologo e infermiere, obbligato -vista la complessità del ruolo- a trascendere ognuna di queste maschere professionali per soddisfare le richieste di un ambiente complesso come quello, appunto, della comunità terapeutica.
  4. l’intervento di Nicola Pirisino (responsabile d’equipe per la struttura Le Scuderie, che ospita una ventina di pazienti con gravi disturbi di personalità e doppia diagnosi, autori di reato e poliabusatori) sulla doppia leadership, apre una fruttuosa riflessione da un lato sulle fonti di ispirazione culturale (di matrice anglosassone) alla base del modello di lavoro del Porto, dall’altra sul lavoro, nel concreto, con i pazienti. Ogni unità del Porto ha due leader: un responsabile di equipe psicologo psicoterapeuta, e un direttore clinico psichiatra, integrati nell’impostare le traiettorie di cura con ogni paziente. La leadership doppia riprende un concetto e una prassi anglosassone; inoltre, vediamo, la leadership è da pensarsi qui come latente, ovvero “altamente delegante”, il che è il contrario dei modelli “accentratori” in cui esiste un solo leader monocratico intorno al quale si accentra ogni forma di decisione e attraverso il quale debbano passare tutti i flussi di comunicazione. CONFINE, REGOLA e NORMA sono parole usate dal Leader nella comunicazione con il gruppo paziente, per facilitare l'”identificazione introiettiva” di un modello comportamentale diverso: in breve, una trasmissione di valori “nuovi” per via di un processo di transfert, in primo luogo attivato dagli operatori più giovani verso i più anziani e i leader, in secondo luogo da parte dei pazienti verso gli operatori (almeno idealmente). In questo modo, il modello psico-pedagogico viene trasmesso per via introiettiva.
  5. l’intervento di Giorgio Astengo e Franco Freilone, collaboratori del Porto nelle vesti di consulenti per il “sostegno all’Io professionale”, conduttori cioè di gruppi fatti con gli operatori al fine di supportarli nel lavoro con i pazienti. Come giustamente fanno notare Astengo e Freilone, il lavoro con pazienti gravi predispone il gruppo di lavoro a movimenti interni peculiari, in ragione di:
    1. spinte scissionali e schizo/paranoidi proiettate dai pazienti (in special modo i quadri borderline) sul gruppo operatori, spesso polarizzato tra posizioni di estrema attivazione “materna primaria” e spinte espulsive, diviso internamente tra “buoni e cattivi”, con tutto quello che ne consegue in termini di coerenza di messaggio educativo e psicoterapico portato
    2. spinte centripete o centrifughe del gruppo, sempre in conseguenza della difficoltà sperimentata nel contenimento delle emozioni veementi generate dal lavoro con i pazienti. La “cinetica” del gruppo, come la definisce Metello, va in questo caso analizzata e rimandata al gruppo stesso, al fine di evitarne radicalizzazioni, nella direzioni di una sempre maggiore “integrazione” interna al gruppo di lavoro

Generalmente, si osserva nel metodo di lavoro del Porto un’attenzione particolare alla costruzione di “spazi” dedicati all’holding, per via di ore dedicate alla libera discussione tra operatori, gruppi appunto di sostegno all’Io professionale, supervisione, formazioni. La creazione di “luoghi” o contenitori di pensiero protetti si rende necessaria laddove il lavoro con pazienti gravi obblighi l’operatore a un continuo, spesso estenuante lavoro di gestione delle emergenze, immerso nel “caos” del lavoro di comunità “reale”.

Qui la rivista del Porto.

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  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1)
  • FLOW: una definizione
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD)
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION?
  • PSICOFARMACOLOGIA STRATEGICA: L’UTILIZZO DEGLI PSICOFARMACI IN PSICOTERAPIA (FORMAZIONE ONLINE)
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA)
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum)
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP
  • AREA PATREON DEL BLOG: UNO SGUARDO AI CONTENUTI
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO)
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm)
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING)
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al.
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura”
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza
  • PROGETTO PATREON DEL FOGLIO PSICHIATRICO: I REWARD DI LUGLIO 2020 (ARTICOLI, VIDEO, PODCAST)
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF)
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VERSO LA FASE 3 DELLA SPERIMENTAZIONE
  • SONNO, STRESS E TRAUMA
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.”
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI
  • IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI!
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • NO CASI, NO SUPERVISIONE: GRUPPI A TORINO
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL DEFAULT MODE NETWORK
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • CORRERE PER VIVERE: I BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULLA DEPRESSIONE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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