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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

12 dicembre 2019

HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER

di Raffaele Avico

Si parla spesso di cannabis, sostanze psichedeliche e dei possibili effetti nocivi sulla salute di chi ne fruisca.

Uno dei possibili “strascichi” dell’uso di sostanze psichedeliche è rappresentato dai sintomi visivo/dissociativi. In particolare, testimonianze dirette di fruitori riportano effetti dissociativi di derealizzazione e depersonalizzazione. Leggere questa pagina può dare un’idea delle esperienze vissute dai fruitori. Vi si racconta di strascichi simil-dissociativi di lunga durata, fino a un anno, a seguito di utilizzo di “psichedelici”. Il termine scientifico per questa sindrome è HPPD.

Questo articolo pubblicato su Brain Sciences esegue un’analisi della letteratura esistente (46 articoli in tutto) sul tema HPPD, rilevando due livelli di disturbo:

  1. HPPD ti tipo 1, di entità lieve, a prognosi breve (massimo un anno)
  2. HPPD di tipo 2, di entità grave, a prognosi negativa e definito “difficilmente reversibile”

In questo studio vengono descritti alcuni punti centrali del disturbo:

  • EZIOLOGIA: l’ipotesi eziologica dominante al momento, è un danno al Sistema Nervoso Centrale (destruction or dysfunction of cortical serotonergic inhibitory interneurons with gamma-Aminobutyricacid (GABAergic) outputs, implicated in sensory filtering mechanisms of unnecessary stimuli), risultante in un effetto “disinibente”. La mente perderebbe in questo senso il suo “filtro” (il cervello è di per se stesso un filtro, con una certa quantità di stimoli esclusi dalla coscienza per ragioni di adattamento funzionale)
  • SOSTANZE MAGGIORI RESPONSABILI: LSD e cannabis (la cannabis è ascritta alla categoria di sostanze dette “dissociative”, al pari dell’LSD, particolare da non trascurare)
  • FENOMENOLOGIA:
    1)tipo 1: “aura”, lieve senso di distacco, senso di “smarrimento”, depersonalizzazione e derealizzazione sfumati
    2)tipo 2: “aura” grave, acuto senso di distacco, senso di “smarrimento”, depersonalizzazione e derealizzazione acuti
  • SINTOMI VISIVI: qui di seguito riassunti
  • COMORBILITÀ: non rilevante/necessaria all’insorgere di un HPPD (a indicare la natura “isolata” del disturbo, avente dignità di fenomeno psichico a se stante)
  • TRATTAMENTO FARMACOLOGICO: prima linea/seconda linea (vd.articolo)
  • ALTRE TIPOLOGIE DI TRATTAMENTO CONSIDERATE: rTMS (neuromodulazione)

In questo articolo viene sottolineata la natura “rara e imprevedibile” del disturbo.

Viene inoltre notato come uno degli effetti del disturbo sia un’alterata e ingigantita interpretazione di fatti “visivi” altrimenti ritenuti ordinari (In many cases, HPPD may also be explained in terms of a heightened awareness of and concern about ordinary visual phenomena, which is supported by the high rates of anxiety, obsessive-compulsive disorder, hypochondria, and paranoia seen in many patients), il che ci racconta di come, a seguito di un evento percepito come traumatico o altamente disturbante, un soggetto possa diventare “preoccupato” a riguardo dei suoi stessi sensi inaugurando un periodo di auto-osservazione ossessiva, drammatica e spasmodica (come accade a seguito di un singolo attacco di panico, in seguito “sospettato” e rintracciato/interpretato in qualunque sintomo fisico di qualunque entità arrivato a disturbare il soggetto), il che rappresenta una possibile deriva o un pervertimento “ansioso” del disturbo stesso.

Inoltre, viene notato come tra i molteplici trigger di innesco del disturbo, la cannabis rappresenti un elemento ricorrente (Among the innumerable triggers able to precipitate HPPD, prospectively, the use of natural and synthetic cannabinoids appears to be the most frequent). Già molto si sa sul potenziale “psicopatogeno” della cannabis: sembra però che questa conoscenza non si sia ancora trasformata in “consapevolezza”. The Lancet Psychiatry (non La Stampa o la Repubblica che sia) lo ricorda qui con forza.

Infine, viene citato un modello euristico utile a concettualizzare questo disturbo, questo. Qui un approfondimento video.

Article by admin / Aggiornamento / addiction, lucaproietti, matteorespino, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, raffaeleavico

15 novembre 2019

INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY

di Raffaele Avico

In questo articolo del 2004 uscito su Psychopathology, gli autori, fanno una riflessione sul modello organodinamico formulato da Henry Ey, psichiatra francese che in questo modello inserì apporti teorici provenienti dalla teoria di Pierre Janet, dal modello gerarchico delle funzioni mentali di Jackson e dalla filosofia di Bergson. Si parla di Neo-jacksonismo. Questo modello, gli autori sottolineano, consente di far convergere filoni di ricerca neuroscientifica con aspetti psicosociali, operando un lavoro di integrazione al fine di superare in modo definitivo “l’errore di Cartesio”.

Il modello organo-dinamico di Ey mette insieme le teorie di Janet, con le formulazioni di Jackson relativamente al suo “principio di gerarchia” cerebrale, trovando al momento riverberi nelle teorie più attuali di Damasio e Panksepp (solo per citare alcuni nomi maggiori). I concetti centrali che lo caratterizzano, sono:

  1. una visione evoluzionistica e gerarchicamente orientata dello sviluppo del cervello
  2. l’integrazione come funzione mentale centrale, avente come punto massimo di sua espressione la coscienza
  3. l’organizzazione come pilastro centrale della teoria (qui approfondito questo aspetto)
  4. la psicopatologia come espressione della disintegrazione/dissoluzione della mente

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La mente, in questa visione, è un’emanazione del cervello, a sua volta costituitosi per strati evoluzionisticamente successivi e sovrapposti. La teoria di Ey è largamente affine alla teoria del cervello triuno di MacLean. In questo modo, esiste un continuum non solo anatomico, ma anche funzionale delle diverse aree cerebrali, con le relative funzioni, secondo uno schema del tipo:

ANTICO

RECENTE

aree profonde

aree recenti

centri automatici

centri a maggiore controllo

conoscenza procedurale

conoscenza dichiarativa

Gli autori attribuiscono a una concettualizzazione della mente di questo tipo, la premessa teorica che fa da fondo all’intera Teoria dell’Attaccamento di Bowlby, che al momento rappresenta una griglia di lettura basale e fondativa per chiunque si occupi di psicologia e psicopatologia dello sviluppo, in grado di superare ed eclissare il modello freudiano “a fasi”.

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In seguito, gli autori portano molteplici evidenze a supporto della concezione gerarchica della strutturazione delle funzioni mentali, da quelle più basiche ed autonomiche a quelle superiori. Secondo la teoria formulata da Ey, il punto più alto di questa gerarchia è rappresentato dalla coscienza, definita in modo doppio:

  • la coscienza sincronica: ovvero la capacità di mantenere un’attenzione sostenuta e orientata, la possibilità di orientamento nello spazio tempo, la coscienza quindi osservata dal vertice prospettico del “neurologo”, ovvero uno strumento necessario all’adattamento all’ambiente
  • la coscienza diacronica: ovvero la coscienza di sè, intesa come “senso di essere unici e presenti nello spazio” (self-consciousness)

La coscienza andrebbe intesa dunque come costituita da queste due modalità della coscienza stessa combinate, reciprocamente costituentisi in un “unicum” funzionale alla vita dell’individuo (nelle parole dello stesso Ey: “ultimately it is the same to say that I’m conscious of something only if I am somebody”).

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La coscienza intesa come doppio dispositivo (diacronico e sincronico) emerge nella sua centralità per la vita dell’individuo quando, per molteplici ragioni, venga meno il suo “buon funzionamento”: Ey fa derivare, come spiegano gli autori, la maggior parte dell’eziopatogenesi dei disturbi psichici a fallimenti nella capacità di integrazione della coscienza dell’individuo. Questo lo riprende, l’articolo continua, dalle teorie di Janet, Jackson e Bergson (quest’ultimo aveva teorizzato che alcune aree cerebrali non avessero altra funzione che regolare altre aree del cervello -i numerosi studi focalizzati sulle funzioni prefrontali a fare da freno all’attivazione anomala dell’amigdala, vanno in questa direzione -per esempio i lavori di Ruth Lanius).

Il luogo “mancante”, quindi, o meglio, l’origine di molteplici forme di disturbo, andrebbe dunque da rintracciarsi nelle funzioni metacognitive, ovvero in quelle funzioni mentali superiori ((per esempio la funzione “madre” integrativa) che consentono alle altre, sottostanti, di funzionare al meglio. Gli autori notano come le teorizzazioni più recenti di Damasio ed Edelman sembrino rinforzare le teorizzazioni iniziali di Ey, formulate più di 50 anni fa.

Dal punto di vista invece psicopatologico, Ey descrisse due tipologie di problema a partire da ciò che considerava essere il nodo originario di ogni tipologia di problematica psichiatria: la dissoluzione (di Jacksoniana memoria). Distinguiamo, in questa visione, due tipologie di dissoluzione:

  • dissoluzione locale, come conseguenza dell’alterazione di una singola funzione mentale (ambito storicamente preso in carico dalla neurologia)
  • dissoluzione uniforme: in conseguenza dell’alterazione di livello alto della funzione integrativa, emerge un’impossibile integrazione tra funzioni (ambito storicamente preso in carico dalla psichiatria)

Seguendo questo modello, a ogni alterazione (dissoluzione) di ogni singola area/funzione cerebrale, avremo un “effetto” negativo (alterazione in negativo -deficit- dell’area colpita) e un effetto positivo (causato dall’impossibilità da parte della zona/funzione colpita di modulare le aree/funzioni gerarchicamente sottostanti).

Questa lettura supera, per certi versi, l’idea che il sintomo sia una diretta conseguenza della lesione dell’area cerebrale colpita. Se consideriamo per esempio gli studi sul rapporto tra corteccia prefrontale e amigdala effettuati dalla prima citata Ruth Lanius, andrebbe osservato come un disordine funzionale della corteccia prefrontale (in grado potenzialmente di frenare e modulare l’attivazione dell’amigdala) avrà effetti non solo negativi (per esempio con un deficit in termini di funzioni esecutive) ma anche positivi (sviluppo di un PTSD).

Il modello organodinamico di Henry Ey rappresenta un presupposto teorico della moderna visione psicotraumatologica, che come sappiamo “comincia” con Janet per arrivare, per fare alcuni esempi, alla Teoria Polivagale di Stephen Porges, agli studi sulla dissociazione strutturale di personalità di Van Der Hart, alla teoria sull’EMDR, ai libri divulgativi di Daniel Siegel di neurobiologia interpersonale, alla teoria della psicoterapia sensomotoria incentrata sul corpo.

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29 ottobre 2019

PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE

di Raffaele Avico

Sappiamo che una delle difficoltà, non solo dello stress post-traumatico, ma di molte altre problematiche psichiche, è rappresentata dalla questione della “regolazione emotiva”. Esistono dei momenti di “disregolazione” in cui lo stato neurofisiologico del nostro corpo è alterato o troppo verso l’alto (iperarousal), oppure troppo verso il basso (ipoarousal). È molto utile in questo senso conoscere il concetto di finestra di tolleranza di Daniel Siegel.

Che fare nei casi di iperarousal? Come ritornare all’interno del range di “tolleranza”? Esistono molteplici vie, tutte integrabili e percorribili in parallelo. Un approfondimento merita di essere fatto tuttavia sul tema “controllo del respiro”. Il respiro può infatti rappresentare un ottimo strumento in qualche modo “istantaneo” per produrre un effetto di regolazione emotiva quando ci si trovi in uno stato di eccessiva attivazione vissuta con sofferenza.

Questa lunga ed approfondita meta-analisi sugli studi (15) che hanno approfondito il ruolo del respiro della regolazione dell’attivazione neurofisiologica, evidenzia alcuni aspetti di rilievo che ci possono dare alcuni spunti in merito al tema “regolazione emotiva”. In particolare le chiavi di ricerca usate per fare questa review, sono state “respiro”, “uso del respiro” e “outcome neurofisiologico”. Gli autori volevano circoscrivere l’analisi ai risultati misurabili dell’applicazione delle tecniche di regolazione del respiro, così da produrre evidenze il più possibile solide:

“identification of common psychophysiological mechanisms underlying the beneficial effects of slow breathing techniques (<10 breath per minute) by systematically reviewing the scientific literature”

Cosa emerge? Possiamo veramente considerare il respiro come la “via regia per l’accesso al Sistema Nervoso Autonomo” ? Quanto sarebbe veramente necessario insegnare a ogni potenziale paziente alcune tecniche basiche di regolazione del respiro?

La prima citata review tenta di estrapolare i fattori causali ed esplicativi sottostanti gli effetti benefici del “respiro controllato”, su soggetti sani, in particolare riferendosi al respiro lento (meno di 10 respiri al minuto; si tratta di una tecnica di respiro che differisce da altre, non limitandosi al semplice prestare attenzione all’attività del respiro o al decelerare il respiro):

Quali i parametri indagati?

  • attività del cervello (tramite EEG e fMRI)
  • attività del sistema nervoso autonomo tramite Heart Rate Variability (HRV), Respiratory Sinus Arrhythmia (RSA) e Cardio-Respiratory Synchronization

Gli studi consierati sono stati 15 (gli unici a presentare tutti i criteri di inclusione), riassunti ed elencati in questa tabella.

I risultati in termini di parametri, invece, sono riassunti qui.

Cosa evidenzia questa meta-analisi? Gli autori sottolineano come, in questi 15 studi, le evidenze forti e “definitive” sembrino mancare; tuttavia, riassumono i risultati ottenuti in alcuni punti più salienti di altri, disegnando un modello psicofisiologico delle tecniche di slow-breathing, così riassumibile:

  • in generale, le tecniche di respiro lento sembrano aumentare la flessibilità del costrutto Sistema Nervoso autonomo+cervello+senso psicologico di benessere sperimentato, per via del coinvolgimento del sistema nervoso autonomo parasimpatico che come sappiamo funziona da “freno” del sistema nervoso autonomo stesso
  • l’HRV, dipendente dalla frequenza del respiro, aumenta al rallentare del respiro “It is worth underlining that HRV modulation is highly dependent on the respiration frequency, increasing along with the slowing of breath”, come ben chiarito qui
  • l’RSA è stato osservato aumentare in concomitanza con attività di slow breathing “In this framework, we found consistent proofs linking the slowing of breath rhythm to increases in RSA”, dove per RSA è da intendersi come aritmia correlata al respiro (quando si inspira, il cuore accelera, quando si espira, decelera)
  • al di sotto delle pratiche di respiro controllato e rallentato, potrebbero esserci meccanismi di funzionamento simili a quelli sottostanti la pratica dello Yoga. Molteplici filoni di ricerca hanno evidenziato un intervento dei network cerebrali “esecutivi” durante la pratica dello Yoga, con gli effetti di regolazione solitamente ricercati da queste pratiche. “Taylor et al. (2010) in a review about mind-body therapies (i.e., techniques focusing on functional links between mind and body) such as slow breathing techniques, suggested the existence of an executive homeostatic network as a fundamental substrate of these practices.”. Questo “network esecutivo omeostatico” ipotizzato da Taylor et el.  potrebbe produrre effetti di regolazione emotiva in quelle che l’autore chiama “terapie mente-corpo”, tra cui appunto Yoga e slow breathing. In questo senso, pur essendo l’uso del respiro una tecnica bottom-up (partire dal corpo per agire sulla mente), va considerato come il suo impatto sia in realtà prodotto da un’azione di controllo top-down.
  • la respirazione nasale alternata (praticata nello Yoga), narice dopo radice, sembra possedere caratteristiche peculiari, poichè regolata da meccanismi psicofisiologici specifici “The modulating effect of nostril breathing on the activity of the piriform cortex, amygdala and hippocampus has been unambiguously demonstrated in humans (Zelano et al., 2016).[…] In addition, the role that nostrils (and more specifically, the olfactory epithelium) play during slow breathing techniques is not yet well considered nor understood: evidence both from animal models and humans support the hypothesis that a nostril-based respiration stimulating the mechanoceptive properties of olfactory epithelium, could be one of the pivotal neurophysiological mechanisms subtending slow breathing techniques“
  • Il “respiro” viene descritto come “ancella” di altre, più grandi, funzioni o strumenti umani, almeno nella cultura occidentale

Gli autori concludono quindi con una rassegna dei risultati estrapolati dalla meta-analisi, esprimendo un parere positivo nei confonti dello strumento “slow-breathing” usato in termini auto-regolativi:

“We found evidence of increased psychophysiological flexibility linking parasympathetic activity, CNS activities related to emotional control and psychological well-being in healthy subjects during slow breathing techniques. In particular, we found reliable associations between increase of HRV power and of LF power, increase of EEG alpha and decrease of EEG theta power, induced by slow breathing techniques at 6 b/min, and positive psychological/behavioral effects. This evidence is unfortunately weakened by the lack of clear methodological descriptions that often characterizes slow breathing techniques literature. “

Infine, le tecniche di regolazione emotiva mediate dal respiro sembrano possedere alcuni vantaggi rispetto alle altre tecniche bottom-up:

  1. non necessitano di un coinvolgimento grande del corpo nè di una grande interazione con l’ambiente: il respiro è per così dire uno strumento di regolazione “portatile” e allo stesso tempo centrale
  2. sono facili da insegnare (anche se per raggiungere una padronanza in questo senso occorre sottoporsi a dei training specifici)
  3. la letteratura sugli effetti del controllo del respiro è molto vasta e approfondita: al di là dei meccanismi che ne sottendono il funzionamento, i risultati sono ben documentati e ne esiste una tradizione mutuata dalla medicina orientale che li spiega in modo completo

Nel concreto, però, come fare? Qui di seguito un semplice video tutorial per fare slow-breathing. Qui invece un approfondimento.

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20 settembre 2019

NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING

di Raffaele Avico

L’ultima edizione della Scuola di Neuroetica della SISSA ha avuto come focus centrale il tema “Emozioni, linguaggio e autocontrollo“, con particolare attenzione al tema narrazione in ambito di addiction. L’idea è che il produrre narrazioni coerenti riesca a incentivare la motivazione a un cambiamento più rapido (piano del comportamento), e che questo abbia ripercussioni anche sulla neurobiologia. La discussione si è mossa sul crinale tra un biologismo spinto (come raffigurare i conflitti in atto in un soggetto colpito da addiction tramite brain imaging? come osservarne, quando presenti, i cambiamenti in ambito di panorama neurotrasmettitoriale?) e una valutazione più ampia della questione (promossa da Stefano Canali di Psicoattivo, organizzatore dell’evento) nei termini di una diversa concettualizzazione della dipendenza stessa (patologia della volontà, problema inerente il controllo sugli impulsi, posizione di passività o di controllo/mastery nei confronti dell’oggetto dell’addiction, questioni che rappresentano la cifra del lavoro fatto sul già citato Psicoattivo, unico blog italiano che tenti una lettura “totale” del problema, unendo rigore scientifico ad aspetti neuroetico/esistenziali – cui rimandiamo per approfondimenti).

Una delle questioni poste dall’incontro, è se l’uso del linguaggio riesca a interferire, e in che modo, con la messa in piedi di comportamenti di addiction.

AFFECT LABELING

Per affect labeling intendiamo l’etichettamento verbale di stati emotivo/corporei indefiniti, svolta in modo volontario, ma fatta anche in modo implicito. Esiste una letteratura specifica sul tema, seppur non nutrita. Gli studi più interessanti sono:

  • Questo studio pubblicato su Frontiers in Psychology nel 2014, descriveva come a seguito di un processo di etichettamento di stati affettivi provocati sui soggetti del campione tramite esposizione a particolari stressor, nominare verbalmente stati interiori percepiti come indefiniti sapesse produrre un abbassamento del generale senso di stress percepito. In senso neuroanatomico, venne osservata una maggiore attivazione delle zone prefrontali e un abbattimento dell’attivazione dell’amigdala (la corteccia prefrontale frena, in questi casi, l’attivazione dell’amigdala, come molta letteratura sul trauma conferma)
  • Questo studio del 2014, pubblicato sempre su Frontiers in Psychology, osservava come i circuiti neurali attivati nei compiti di reappraisal (ristrutturazione cognitiva) e affect labeling, fossero sostanzialmente sovrapponibili. Il reappraisal è un’operazione di ri-narrazione di un evento emotivamente saliente, al fine di ridurne la potenza attivante. L’affect labeling sembrava produrre risposte neuroanatomiche similari.
  • Questo studio, del 2018, pubblicato da Torre e Lieberman (che è il riferimento di ricerca per l’affect labeling), ampliava la questione, osservando 4 aree generali di impatto dell’affect labeling sull’individuo: a) area esperienziale, con una riduzione generale dello stress percepito, b) area autonomica, con marker neurofisiologici evidenti sia immediati che ritardati: minor tachicardia, abbassata conduttanza cutanea, diversa intonazione della voce -segnali autonomici di uno stato nervoso maggiormente “placato”, c) area neuroanatomica, con un maggior intervento della corteccia prefrontale intesa qui come CAUSA del seguente abbattimento dell’amigdala e, d) area comportamentale, con migliori performance a compiti stressanti specifici, come in ambito di terapia espositiva.

Quest’ultimo articolo portava anche la questione su aspetti maggiormente speculativi, chiedendosi: “perchè il nominare stati corporeo/affettivi interiori avrebbe un effetto così calmante/disattivante?”, producendo 4 ipotesi:

  • DISTRAZIONE: per cui lo stimolo parola riuscirebbe a ridurre lo stimolo attivante in senso emotivo per mezzo di un’operazione di sviamento dell’attenzione selettiva interna
  • AUTO-RIFLESSIONE: per cui l’etichettamento verbale di stati affettivi consentirebbe di portare l’individuo a un riconoscimento di aspetti di sé e quindi a uno stato di distanziamento/DIS-IDENTIFICAZIONE dagli stessi (stato idealmente ricercato anche nella mindfulness)
  • RIDUZIONE DELL’INCERTEZZA: per cui l’etichettamento verbale di stati affettivi consentirebbe di ridurre lo stato di ansia e incertezza derivato da uno stato emotivo percepito come ambiguo, non chiaro (ipotesi molto accreditata data l’esistenza di molta letteratura sulle risposte autonomiche procurate dall’esposizione dell’individuo a stimoli “non conosciuti”)
  • CONVERSIONE SIMBOLICA: per cui simbolizzare uno stato affettivo, in qualche modo concettualizzandolo, riuscirebbe a produrre un “distanziamento psicologico” tale da ridurre l’attivazione dell’amigdala

L’affect labeling è il modo tecnico per tradurre un concetto caro a Daniel Siegel, neurobiologo statunitense, che usa lo slogan “nominare per dominare”. Ovvero, l’etichettamento linguistico consente di interferire laddove vi siano risposte autonomiche o automatiche, in particolare nell’ambito generale dei “disturbi da controllo dell’impulso o della volontà” (come l’addiction) o quando si debbano “regolare” stati emotivi disregolati (abbiamo visto come l’atto stesso del nominare consenta di ridurre stati di iperarousal e di rientrare in quello che lo stesso Siegel chiama Finestra di Tolleranza).

Come ultimo aspetto da considerare, l’affect labeling è lo strumento centrale della psicoterapia, presente quando si metta “parola” a dominare e idealmente gestire un “sintomo”. È quindi, in realtà, uno strumento molto antico: gli articoli prima citati rappresentano il tentativo di farne oggetto di studio e di ricerca scientifica.

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14 agosto 2019

IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO

di Raffaele Avico

Il tarantismo affonda le sue radici in forme di ritualità pagane addirittura pre-cristiane; la presenza di una moltitudine di santi a cui chiedere grazia, oltre che alla divinità principale, ci racconta del sopravvivere di un politeismo che il cristianesimo non riuscì a sopprimere ma che anzi, più probabilmente, dovette accogliere. A riguardo dei riti, si racconta di come la stessa Chiesa si ponesse in modo ambiguo e spesso contrario a questo genere di rituali, accogliendo nelle sue chiese lo svolgersi dei rituali stessi, ma discostandosene in senso ideologico. Con la sua riscoperta, bonificato dagli aspetti più morali, assunto a forma folkloristica da preservare e anzi promuovere, il tarantismo è oggi oggetto di fascino e ricerca.

Il lavoro di documentazione viene portato avanti da studiosi appassionati che ne studiano le radici storiche e gli aspetti etno-psichiatrico/medici (come Luigi Chiriatti e Sergio Torsello, insieme a molti altri). Esistono anche molti blog sul tema, curati con attenzione.

Dal punto di vista fotografico, si sono succeduti apporti di assoluto spessore, anche se la quantità di materiale a nostra disposizione è poca. Per un esauriente approfondimento sul tema fotografia etnografica sul tarantismo, questo lavoro è ottimo (PDF in download). Vi si chiarifica come lo stesso DeMartino fosse stato ispirato da una serie di fotografie fatte da un fotografo francese:

“È lo stesso De Martino, dunque, che, nell’introduzione de La terra del rimorso, attribuisce alle immagini di André Martin il merito di aver scatenato in lui l’interesse nei confronti del tarantismo”

In seguito, durante la spedizione del 1959 (da cui originò il libro La terra del rimorso), venne prodotto molto materiale fotografico, tra cui il celebre lavoro di Franco Pinna.

Prima di costoro, nel 1954, una fotografa barese trasferitasi a Milano, Chiara Samugheo, aveva pubblicato su di una rivista dell’epoca, Cinema Nuovo, un “foto-documentario” su un rituale di taranta, ritratto nel suo divenire narrativo, primo vero contributo fotografico divulgato in tutta Italia a proposito di questo tipo di fenomeno.

Le foto di Carla Samugheo, qui in seguito riprodotte, antecedenti a quelle prodotte da Franco Pinna, furono di grande ispirazione per lo stesso De Martino.

Per una rassegna esaustiva di tutte le immagini presenti sul tarantismo a eccezione di quelle di Franco Pinna, esiste un libro dedicato curato da Luigi Chiriatti e Maurizio Nocera, dal titolo “Immagini del tarantismo“.

Per quanto riguarda la documentazione video a proposito del tarantismo, qui è presente una catalogazione dei contenuti più importanti da consultare o vedere.

Ecco le fotografie di Chiara Samugheo:

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24 luglio 2019

IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI


di Raffaele Avico

Del fenomeno Hikikomori (ragazzi che si auto-escludono dalla vita sociale mediando il contatto con la realtà attraverso Internet) se ne parla ora anche in Italia (dopo le prime osservazioni effettuate in Giappone e Corea). Uno dei più toccanti scritti sul fenomeno dell’Hikikomori lo si trova qui, a cura di Carla Ricci, antropologa e ricercatrice dell’Università di Tokyo, di cui riportiamo un estratto:

“[…] Nella stanza con il giovane, ci sono rinchiuse anche le debolezze e i conflitti della sua famiglia; quel senso di vuoto da cui egli fugge, appartiene anche ai genitori i quali, contrariamente a lui, hanno imparato nel tempo a gestirlo e a soffocarlo. Lui no, a lui appartiene ancora il vigore puro dell’adolescenza che gli fa percepire bene le frustrazioni anche se non sa riconoscerle.
Se all’interno del luogo chiamato famiglia non ci si pone davanti a quell’evento con spirito di riflessione, nessun tipo di miglioramento sarà possibile poiché medicine e terapia da sole non possono offrire alcun beneficio. E’ necessario che da quel fatto nasca in tutti un umile, profondo desiderio di emancipazione psicologica che spazzi via il superfluo e arrivi alla essenza. Se si crea questo seppur fievole contesto, ecco che Hikikomori e la sua famiglia pongono le basi per una comprensione di se stessi di una potenza straordinaria e anche tutto ciò che gira attorno al problema e può aver influito in qualche modo nel ritiro – come relazioni scolastiche difficili – viene spogliato e riosservato in una prospettiva di natura assolutamente differente.”

Il fenomeno pare ruotare intorno a due tematiche principali.

  • Da un lato l’utilizzo di Internet come surrogato relazionale, e fuga dalla frustrazione dei “rapporti veri”. In questo caso la fuga ha un movente sociale, legato alla difficoltà oggettiva di rapportarsi agli altri: Internet diviene un mediatore ottimale dei rapporti, che perdono tuttavia la dimensione corporea rivelandosi parziali e purtroppo non completamente soddisfacenti in termini affettivi
  • Dall’altro, Ricci evidenzia un lato più profondo e oscuro della cosa che ha a che fare con la società giapponese e un significato differente: simbolicamente, la Dott.ssa racconta, questo “suicidio sociale” è un gesto affermativo (inteso come gesto di affermazione di sè), che manifesta una silenziosa protesta di natura culturale. Il Giappone, auto-percependosi come Paese combattivo e all’avanguardia e fortemente improntato su un’etica di tipo capitalista mischiata però a un grande senso della dignità, non contempla l’idea del ritiro e dell’abbandono che questi ragazzi (ma anche adulti) scelgono di vivere. La decisione di un ritiro, il seguente movimento di immersione in Internet e la vergogna di un possibile ritorno in società, alimentano il problema che si cronicizza e permane.

Inoltre poi, un movimento di questo tipo, di “ritorno in casa”, fortemente regressivo, manifesta la volontà di potersi concedere un periodo di riflessione e messa in discussione critica di quello che esiste fuori. Di fatto ha, almeno in parte, un senso di volontà di rinascita a seguito di una morte “sociale”. Spesso però, il ragazzo si blocca prima, rimanendo incastrato nel meccanismo, a volte non pungolato a sufficienza dalla famiglia.

Il fenomeno si configura quindi come solo parzialmente collegato a quello più esteso inerente le nuove dipendenze e l’uso di Internet. Rappresenta un movimento regressivo, un chiamarsi fuori dal gioco per essere cercati e rivalutati, ri-considerati in modo nuovo. Negli anni ’90 l’uso di sostanze come l’eroina aveva significato non solo di natura auto-curativa, ma anche di natura politica: era posizionarsi in modo forte contro, rifiutando la mentalità allora dominante. Il fenomeno Hikikomori presenta una lontana somiglianza a questo ormai passato fenomeno sociale, avvalendosi però di uno strumento/mezzo diverso.

Qui un’ottima intervista alla dott.ssa Ricci a cura dell’Associazione Hikikomori Italia, al momento la realtà italiana più autorevole sull’argomento.

Qui invece un servizio video fatto dalle Iene.

Un aspetto da sottolineare è che il problema Hikikomori NON sembra causato da un problema di dipendenza da internet, che in questo è da considerarsi solo una concausa. La dipendenza da internet va considerata cioè una sovrastruttura costruita al fine di coprire e gestire un problema più ampio e sottostante, ruotante intorno a difficoltà famigliari e di inserimento sociale.

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6 giugno 2019

DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?

di COSTANZO FRAU*, DIEGO GIUSTI**

*Studio di Psicoterapia e Ricerca Trauma & Dissociazione, Cagliari

**Studio di Psicoterapia, Progetto Evoluzione Psicologica, Parma


Una delle conseguenze meno evidenti ma piú deleterie del trauma psicologico é legata alla traccia mnestica bloccata (si veda qui). Le nuove strumentazioni utilizzate in campo neuroscientifico sono ormai capaci di darci una fotografia di come il cervello mantenga a distanza di tempo gli effetti negativi del trauma (McGowan et al. 2009; Hopper et al. 2002; Daniels et al. 2010).

Il trauma impatta negativamente in modo trasversale su tutti i sistemi di regolazione psicofisica (De Bellis & Zisk, 2014). Nello specifico ha un effetto sull’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, sul sistema catecolaminergico, su quello serotoninergico e dell’ossitocina. Gli effetti si manifestano anche sull’attività del sistema immunitario. Infatti i recettori dei glucocorticoidi agiscono come fattori di trascrizione regolando l’espressione genica per il metabolismo e il funzionamento immunitario. I livelli elevati di cortisolo conseguenti al trauma, sono in grado di sopprimere il sistema immunitario, la gluconeogenesi e inibiscono la loro stessa produzione con un feedback negativo ai recettori situati nell’ippocampo. Il trauma ha inoltre degli effetti negativi sul funzionamento neuropsicologico e sullo sviluppo cognitivo (sappiamo che i recettori dei glucocorticoidi sono molto importanti per lo sviluppo del cervello e le funzioni cognitive).

Qui ci siamo limitati ad accennare ai danni sui sistemi biologici sapendo che gli effetti del trauma su ognuno di questi sistemi meriterebbero un maggiore approfondimento.

Il libro “Neurobiology and treatment of traumatic dissociation – Toward an embodied self” (presto disponibile in lingua italiana) di cui Frank Corrigan é coautore, permette di approfondire con una lente neurofisiologica gli effetti del trauma sul nostro cervello. Il clinico e ricercatore scozzese, ha dedicato molti anni della sua carriera allo studio dei correlati neurobiologici del trauma e della dissociazione. Attualmente sta collaborando ad un progetto di ricerca con la Dott.ssa Ruth Lanius, che ha l’obiettivo di esplorare con il brain imaging i meccanismi neurali sottesi al trauma complesso.

Nei suoi studi sugli effetti del trauma sui circuiti cerebrali Corrigan ha promosso una modalità di trattamento efficace che ha definito Deep Brain Reorienting (DBR). Questo metodo si pone come obiettivo quello di lavorare sui residui traumatici che molto spesso rimangono attivi e non permettono una riconsolidazione delle memorie traumatiche.

Il modello verrá presentato a Parma il prossimo 12 Ottobre 2019 quando Frank Corrigan sará ospite del Progetto “Evoluzione Psicologica” di Diego Giusti.

Il DBR è il risultato di anni di studi e ricerche e può essere considerato un piccolo ma importante passo in avanti nel mondo della psicoterapia del trauma e della dissociazione. Quali sono i suoi punti di forza?

Innanzitutto è un metodo che considera la struttura della dissociazione; talvolta infatti, se questa non viene presa in considerazione, l’utilizzo di un metodo efficace per il trattamento del trauma può slatentizzare stati dissociativi. Il DBR è concepito al fine di evitare queste situazioni. Un altro pregio del DBR è che a differenza di altri metodi che nascono dalla pratica clinica per giungere ad un correlato neurobiologico, il DBR nasce direttamente dallo studio dei circuiti cerebrali e in particolare dallo studio delle circuitazioni mesencefaliche, garantendo così forti basi scientifiche al trattamento clinico.

Un’altra caratteristica distintiva è la sua origine stessa. Frank Corrigan, dopo essersi formato in diversi metodi e dopo anni di pratica clinica, ha notato che spesso la rielaborazione del trauma attraverso metodi evidence-based non era così efficace. Talvolta il miglioramento dei sintomi può essere debole e a breve termine e queste persone tendono spesso ad essere più facilmente ri-traumatizzabili rispetto agli stessi stimoli traumatici. In breve, i metodi efficaci di rielaborazione del trauma possono portare ad un miglioramento o ad una elaborazione del vissuto traumatico lasciando tuttavia delle tracce implicite residue. Focalizzandosi proprio sui circuiti del mesencefalo ha concettualizzato un metodo di intervento sui residui traumatici resistenti.

Il DBR si differenzia da altri metodi poiché cerca di agire sui precursori del trauma. Ma per rendere più chiari questi concetti è utile spendere qualche parola in più sulla sua componente neurobiologica.

Sappiamo che l’effetto del trauma si manifesta, tra le varie cose, attraverso un anomalo consolidamento della memoria a livello ippocampale. Queste circuitazioni sono infatti responsabili del consolidamento delle memorie a lungo termine con un meccanismo neuronale, ovvero attraverso un processo di potenziamento che ha come mediatore il glutammato. Alcune delle afferenze all’ippocampo provengono dalla corteccia (es. per le immagini visive, auditive, etc.) e altre dall’amigdala (attivazione emotiva). Se le attivazioni glutammatergiche provenienti dall’amigdala sono eccessive, come nel caso di eventi traumatici, la traccia di memoria ippocampale tenderà a consolidarsi in modo anomalo (evento registrato in modo parziale e frammentato) generando in molti casi sintomi intrusivi come ad esempio flashback, incubi, sensazioni somatiche spiacevoli. Grazie a tecniche specifiche di rielaborazione del trauma possiamo ridurre l’attività dell’amigdala associata a quelle tracce corticali generando una ri-trascrizione ippocampale della traccia di memoria. Nel ripensare all’evento non sará più presente il vissuto emotivo spiacevole e di paura che era presente prima dell’intervento.

In molti casi le tracce somatosensoriali rimangono bloccate ad un livello più basso dell’amigdala, ossia nel mesencefalo. Frank Corrigan ha definito la specifica sequenza neurofisiologica che mantiene queste informazioni nel tronco encefalico.

Il DBR, quindi, ha come obiettivo quello di riorientare l’attività del cervello agli stimoli che hanno generato il trauma o che lo mantengono nel tempo.

Se consideriamo per esempio l’EMDR, grazie alla stimolazione bilaterale alternata si avrebbe un’attivazione dei collicoli superiori i quali agirebbero, attraverso il nucleo medio-dorsale del talamo, sull’amigdala portando ad una riduzione della sua attività. Nel DBR si agirebbe proprio ad un livello più profondo, ossia sul circuito collicolo superiore – grigio periacqueduttale.

Un articolo di Baek et al., dal titolo “Neural circuits underlying a psychotherapeutic regimen for fear disorders”, comparso a Febbraio sulla rivista Nature, sembra corroborare l’importanza del collicolo superiore nella riduzione della paura. Nello studio di laboratorio fatto sui topi utilizzando la stimolazione sensoriale bilaterale alternata (alternating bilateral sensory stimulation, ABS), gli autori hanno messo in evidenza i circuiti neurali coinvolti nel processo di riconsolidamento che avverrebbe tramite l’EMDR. Un processo ben diverso da quello dell’estinzione giá descritto in letteratura. L’ABS aumenta l’attivitá del nucleo medio-dorsale del talamo (mediodorsal thalamus MD) che di conseguenza manda dei segnali al complesso basolaterale dell’amigdala (Basolateral complex of amygdala BLA) tramite il circuito MD-BLA. Questi segnali sono inibitori e modificano la trasmissione sinaptica riducendo l’attivazione dell’amigdala a lungo termine.

In questo percorso un ruolo centrale sarebbe svolto dal collicolo superiore, che assieme al grigio periacqueduttale rappresentano delle stazioni centrali del mesencefalo sulle quali il Deep Brain Reorienting di Frank Corrigan focalizza l’attenzione.

Per riferimento bibliografici: sapcc.sa@gmail.com

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30 aprile 2019

IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI


di Matteo Respino

Come per tutte le terapie, a partire da quelle farmacologiche, anche nel caso delle psicoterapie il portare a termine il percorso iniziato è una componente fondamentale per ottenere dei cambiamenti. Quando una terapia viene interrotta prematuramente si parla di “drop-out”. Più nello specifico, si intende con questo termine quando il paziente interrompe la terapia prima che si sia raggiunta una riduzione dei sintomi sufficiente.

Questo breve pezzo vuole riassumere, per punti, i dati ed i concetti riportati in un articolo di Leichsenring et al. pubblicato quest’anno su World Psychiatry e titolato: “Drop-outs in psychotherapy: a change of perspective”. L’articolo riassume i dati presenti in letteratura che quantificano il fenomeno, le strategie volte a ridurne la frequenza e propone una prospettiva per affrontare costruttivamente questo argomento in ambito sia di ricerca che di clinica. A seguire, riassunti, i dati riportati dagli Autori.

  • Circa il 20% dei pazienti terminano la psicoterapia prematuramente, come risulterebbe da oltre 600 studi clinici, indipendentemente dal tipo di psicoterapia offerta.
  • I pazienti che terminano le terapie prematuramente tendono ad avere peggiori outcome di coloro che le portano a termine.
  • I pazienti che più spesso terminano prematuramente la psicoterapia sono coloro che non stanno ricevendo il trattamento che avrebbero preferito, che ricevono terapie non manualizzate o senza chiari limiti di tempo, coloro in trattamento con psicoterapeuti in training, pazienti giovani e con disturbi di personalità o dell’alimentazione.
  • Le strategie volte a ridurre il fenomeno ruotano soprattutto, ma non solo, attorno al concetto di alleanza terapeutica. Tra queste: impostare fin dall’inizio un processo condiviso con il paziente di decision-making; offrire al paziente tutte le informazioni necessarie ad avere una visione chiara non solo della sua condizione, ma anche del trattamento che sta per affrontare, a partire dalla sua durata; lavorare da subito sulle aspettative del paziente, offrendo una visione realistica (e condivisa) degli obiettivi raggiungibili (“setting goals”); revisionare insieme al paziente cosa è già stato ottenuto in termini di cambiamenti dall’inizio della terapia, e proporre frequenti feedbacks su tali progressi; affrontare resistenze e/o dubbi del paziente fin dalle fasi iniziali; tenere in considerazione le preferenze espresse dal paziente.
  • Il cambio di prospettiva proposto dagli Autori consiste, sostanzialmente, nel passare dal vedere i drop-outs come un fenomeno unicamente negativo, al considerarli come un fenomeno che se adeguatamente studiato potrebbe informarci più nel dettaglio su cosa accade e su quali siano i fattori/gli elementi “non-curativi” durante il processo della psicoterapia.

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3 aprile 2019

TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI

di Andrea Iengo

Negli ultimi anni si assiste sempre più all’utilizzo della tecnologia in psicoterapia: un caso interessante è quello dell’introduzione della realtà virtuale nel trattamento dei disturbi d’ansia. La maggior parte degli studi riguarda la comparazione tra la terapia espositiva in vivo e la terapia espositiva in realtà virtuale e/o in realtà aumentata.

Partiamo definendo alcuni termini.

Per terapia espositiva o anche esposizione con prevenzione della risposta si intende una tecnica sviluppata negli anni 60 del ‘900 da Victor Meyer consistente nell’esporre il soggetto allo stimolo temuto evitando che metta in atto le usuali risposte comportamentali. Questa tecnica consente al soggetto di sviluppare innanzitutto un’abitudine nel fronteggiare l’oggetto fobico e, in seconda battuta, mettendo in atto un comportamento incoerente con una reazione fobica (comportamento che viene volontariamente bloccato) diminuisce la sensazione di paura nei confronti dell’oggetto stesso.

La realtà virtuale è un tipo di tecnologia che consente al soggetto, con l’utilizzo di un apposito visore e di un numero più o meno ampio di sensori di posizione e di movimento, di uscire dalla realtà che lo circonda ed essere proiettato in una realtà differente completamente ricostruita al computer; per semplificare immaginiamo di essere all’interno di un videogioco dove i nostri movimenti influenzano quello che accade e allo stesso tempo se muoviamo la testa lo scenario varia, proprio come se ci trovassimo lì.

La realtà aumentata è invece in grado di aggiungere elementi ricostruiti al computer all’interno della realtà ordinaria. Si tratta di una tecnologia più semplice ma dagli utilizzi concreti maggiori: immaginiamo di indossare degli occhiali trasparenti che tuttavia hanno la possibilità di mostrarci, oltre a ciò che ci circonda, anche delle immagini digitali, come ad esempio le indicazioni stradali, le notifiche del cellulare, etc.

Il video immersivo 3D cerca di combinare alcuni dei vantaggi delle tecnologie citate, ma però dei forti limiti riguardo l’aspetto interattivo. Un video immersivo 3d è un video registrato con delle telecamere stereoscopiche, cioè che hanno 2 obiettivi paralleli e distanti approssimativamente quanto la distanza interpupillare media di un essere umano e che viene riprodotto attraverso un visore stereoscopico, spesso lo stesso tipo di visore usato per la realtà virtuale in ambito consumer (HTC Vive, Oculus Rift, Samsung Gear VR, PlayStation VR), cosa che consente di ottenere un ambiente particolarmente realistico (si tratta di riprese di ambienti reali e non di ricostruzione al computer) e di mantenere un’esperienza immersiva grazie ai giroscopi che consentono di cambiare punto di vista cambiando la posizione della testa (tecnologia head-tracking). A causa però del fatto che il video è stato registrato in un momento precedente è impossibile interagire con lo stesso, se non per l’appunto cambiando punto di vista (per questo si definisce video immersivo).

È possibile utilizzare la tecnologia per sostituire l’esposizione in vivo? È questo che nel corso degli ultimi anni si sono chiesti gli psicologi che hanno realizzato numerose ricerche (gli autori della meta-analisi a cui faccio riferimento ne hanno individuate 900) per verificare l’efficacia del trattamento espositivo computerizzato nei confronti di quello in vivo.

Perché tante ricerche per validare uno strumento che sembra quasi una forzatura rispetto a qualcosa che è invece largamente accettato dalla comunità scientifica (la terapia espositiva) e anche inevitabile ad un certo punto del percorso terapeutico?

Si stima (Hipol, Deacon, 2013) che solo tra il 19 e il 33 per cento dei pazienti trattati in terapia cognitivo-comportamentale con diagnosi di Disturbo da Panico, Disturbo Ossessivo Compulsivo, PTSD e Disturbo d’Ansia Sociale siano stati trattati con la terapia espositiva. Questo sembra dovuto a 3 classi di problemi:

  1. resistenza da parte del terapeuta
  2. resistenza da parte del paziente
  3. difficoltà oggettive

Nello specifico diversi terapeuti intervistati dichiarano di trovare “crudele” la tecnica di esposizione con prevenzione della risposta; molti pazienti allo stesso modo sono restii nel sottoporsi volontariamente allo stimolo fobico, mentre in altre circostanze ancora la condizione fobica non è facilmente riproducibile -immaginiamo anche semplicemente chi ha paura di volare che, a meno di entrare in specifici programmi delle compagnie aeree, non ha certo modo di esporsi gradualmente all’esperienza di volo in autonomia.

Per consentire anche a tutti quelli che rientrano in queste casistiche di beneficiare dei vantaggi della terapia espositiva sono state effettuate numerose ricerche per verificare l‘efficacia di una esposizione assistita dal computer per l’estinzione dei sintomi fobici.

Dalla metanalisi di Carl e colleghi emerge che non esiste una differenza significativa tra gli effetti di una esposizione in vivo ed una in realtà virtuale o una in realtà aumentata, tanto che l’APA considera l’esposizione in realtà virtuale una terapia empiricamente supportata per trattare ad esempio la paura di volare, la paura dell’altezza e la paura degli animali: sono attualmente in corso di pubblicazione diverse ricerche sull’odontofobia o paura del dentista, la paura di parlare in pubblico, la fobia scolare e l’aracnofobia.

La realtà virtuale e la realtà aumentata consentono di ottenere dei buoni risultati, ma tutt’ora i costi non sono facilmente sostenibili dal tipico studio di psicologia italiano, che consiste tipicamente in un unico psicologo che lavora in regime di libera professione.

Ci sono tuttavia delle ricerche che riguardano l’utilizzo di video 3d immersivi che, sebbene siano concettualmente completamente diversi dalla realtà virtuale (la stessa differenza che passa tra giocare ad un videogame o guardare un film) consentono di ottenere risultati analoghi a costi fortemente ridotti, alla portata di qualunque professionista. Uno studio di Minns e colleghi del 2018 pubblicato sul Journal of Anxiety Disorders dimostra l’efficacia del trattamento espositivo per l’aracnofobia tramite video 3d immersivi proiettati attraverso un visore di fascia consumer (Oculus Rift, tra l’altro di prima generazione, che presentava una risoluzione molto bassa) rispetto al gruppo di controllo.

Le prospettive a questo riguardo sono molto incoraggianti: poter utilizzare dei video immersivi in 3d per il trattamento di fobie, disturbi d’ansia e disturbo post traumatico consentirebbe praticamente a chiunque di sottoporsi ad una terapia espositiva senza le difficoltà tipiche analizzate in precedenza o gli alti costi richiesti, ad oggi, dalla realtà virtuale.

RIFERIMENTI

Carl, E., Stein, A. T., Levihn-Coon, A., Pogue, J. R., Rothbaum, B., Emmelkamp, P., … & Powers, M. B. (2019). Virtual reality exposure therapy for anxiety and related disorders: A meta-analysis of randomized controlled trials. Journal of anxiety disorders, 61, 27-36.

Hipol, L. J., & Deacon, B. J. (2013). Dissemination of evidence-based practices for anxiety disorders in Wyoming: A survey of practicing psychotherapists. Behavior Modification, 37(2), 170-188.

Sean Minns, Andrew Levihn-Coon, Emily Carl, Jasper A.J. Smits, Wayne Miller, Don Howard, Santiago Papini, Simon Quiroz, Eunjung Lee-Furman, Michael Telch, Per Carlbring, Drew Xanthopoulos, Mark B. Powers, Immersive 3D exposure-based treatment for spider fear: A randomized controlled trial, Journal of Anxiety Disorders, Volume 58, August 2018, Pages 1-7

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12 marzo 2019

EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI


di Raffaele Avico

Sappiamo che una delle questioni principali intorno al PTSD sia la questione dell’elaborazione difficoltosa di alcuni eventi specifici. In particolare, pare che il PTSD possa essere considerato, a tutti gli effetti, una patologia della memoria, o meglio della memorizzazione di alcune esperienze traumatiche che rimangono immutate nel flusso dei ricordi.

Alcuni studi a riguardo della fisiologia del sonno, evidenziano come il sonno predisponga l’individuo a un’elaborazione delle memorie, in particolare nelle fasi cosiddette a onda lunga. Le fasi del sonno a onda lunga (SLOW WAVE SLEEP) consentono ai percetti immagazzinati durante la veglia, di essere trasferiti a zone corticali cosiddette associative, in questo modo passando all’interno del “magazzino” della memoria a lungo termine, in forma elaborata e facilmente gestibile dall’individuo stesso.

La cosa non avviene nel PTSD: le memorie traumatiche permangono immutate e non trasformabili o metabolizzabili dal cervello.

In questo videocorso (di cui consiglio caldamente l’acquisto per chi fosse interessato di neurobiologia del PTSD), Marco Pagani spiega come alcuni percetti eccessivamente traumatici, rimangano intrappolati nelle zone più profonde del cervello come l’amigdala e l’ippocampo, senza riuscire a compiere questa migrazione verso zone della corteccia associative, che condurrebbe all’elaborazione finale del ricordo (cognitivizzazione).

Questo avviene, Pagani spiega, a causa di un blocco che coinvolge il meccanismo con cui i neuroni, tra essi, comunicano e si trasferiscono le informazioni. Per passarsi le informazioni, e tra esse anche i dati “di memoria”, i neuroni usano un meccanismo elettrochimico organizzato intorno al rilascio di alcuni neurostramettitori. Nei casi di forti percetti a contenuto traumatico, ciò che accade è una iper-depolarizzazione del neurone post-sinaptico (si veda immagine sottostante). In qualche modo e per dirla in modo modo grossolano, assistiamo a un ingolfamento o una congestione del meccanismo della trasmissione neuronale a causa di una sovra-eccitazione dei neuroni post-sinaptici in area amigdalo-ippocampale:

“Traumatic events may cause over-potentiation of amygdalar synapses and all post-synaptic AMPA binding sites will be occupied by glutamate. In such circumstances, the transfer to neocortex mainly through anterior cingulate cortex cannot occur since memories need the same synchronized signal intensity at emotional and cognitive level for the correct processing. Fragmented non-processed episodic and traumatic memories are trapped in hippocampus or amygdala without the contextual integration needed to encode them in long-term memory in association neocortex and persist sometimes for life“

Il sonno a onde lunghe non riesce, in questi casi, a svolgere il suo lavoro di traghettatore delle memorie traumatiche entro zone associative e di rielaborazione corticale, di fatto lasciando il ricordo lì dov’è, come in una condizione di blocco.

In questo brillante studio del 2017  Marco Pagani (CNR) mette in parallelo il funzionamento dell’EMDR con il funzionamento del sonno a onde lunghe, arrivando a ipotizzare che, per mezzo dell’EMDR, il terapeuta riprodurrebbe forzandolo -lavorando su un singolo ricordo alla volta-, il meccanismo del sonno a onde lunghe. Il sonno, Pagani osserva, ha mostrato un forte coinvolgimento in tutto ciò che ha a che fare con lo “smaltimento” e l’elaborazione dei percetti che sono immagazzinati durante la veglia, come ben evidenziato nell’articolo sopra citato:

“The combined episodic and emotional memory is replayed in the memory-editing matrix of the hippocampal-amygdalar complex as well as in neocortex during the first stage of SWS. In this process, memory is reinforced and extinguished by potentiation and depotentiation, respectively, of synapses of neurons recruited to form the memory chain. The excitatory glutamatergic pre-synaptic neurons release an amount of glutamate proportional to the strength of the signal. “

Osservando per mezzo di encefalogramma l’effetto delle sommistrazioni di EMDR su soggetti volontari svegli, si è notato che la sua somministrazione conduce a un generale rallentamento delle onde prodotte dai neuroni:

“Bilateral stimulation typical of EMDR causes immediate slowing of the depolarization rate of neurons from the dominant waking state frequency of around 7 Hz to about 1.5 Hz. The change of neuronal firing to low-frequency waves is a change from conditions favorable for synaptic potentiation to ones favorable for depotentiation.“

Alcuni studi inoltre, Pagani osserva, hanno dimostrato che somministrare impulsi elettrici a herzaggio lento (1 ciclo al secondo) sull’amigdala di animali traumatizzati, consentiva di sbloccare il precedentemente descritto “blocco” sinaptico, favorendo il ripristino del normale scorrimento delle informazioni verso le parti associative della corteccia. Pagani fa notare che in una seduta EMDR, il numero di stimolazioni erogate al paziente è, anche, di circa 900 stimolazioni bilaterali.

La stimolazione bilaterale durante un ciclo EMDR riprodurrebbe quindi le onde lente del sonno, con un importante implicazione in termini di possibile spiegazione a riguardo del meccanismo di funzionamento dell’EMDR, a tutt’oggi ancora oscuro, come qui approfondito. Durante la somministrazione di EMDR, la stimolazione bilaterale scioglierebbe, come fa il sonno, il “blocco” sinaptico che interessa le zone profonde del cervello iperattivate dal trauma (come appunto l’amigdala), di fatto consentendo alle memorie traumatiche di essere traghettate verso le zone associative corticali, per essere elaborate e “dimenticate”, cosa che rappresenta il punto di arrivo ideale di ogni trattamento per il PTSD:

“In our SWS model, memory degradation is determined by the depotentiation of AMPA receptors by EMDR bilateral stimulations miming SWS low-frequency stimulations occurring during sleep “

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