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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

6 gennaio 2021

GIORNALISMO = ENTERTAINMENT

di Raffaele Avico

Diamo benvenuto nel gruppo di lavoro di questo blog a Silvia Bussone e Marco Colamartino.

Il Foglio Psichiatrico ha cercato, dalla sua nascita (2017), di coniugare rigore delle fonti e chiarezza espositiva. Abbiamo mantenuto una politica editoriale chiara, che riprendiamo qui:

  • NO risposte facili a problemi complessi (purtroppo in psichiatria e in psicologia clinica non esistono risposte definitive, diffida da chi te le offre)
  • NO banalizzazioni: chi soffre di disturbi psichiatrici, di qualunque entità, vuole essere preso sul serio
  • NO ad articoli acchiappa-click: quelli li troverai sulle pagine delle testate nazionali 🙂
  • NO ideologie: la nostra è una posizione post-ideologica (se una cosa non funziona, lo ammettiamo)
  • SÍ a un approccio integrato, che metta insieme più discipline, unite per convergere
  • SÍ a un lavoro sulle fonti: i nostri post si fondano su riferimenti ad articoli scientifici estrapolati da riviste autorevoli (Lancet, JAMA Psychiatry, World Psychiatry, riviste con fattore d’impatto scientifico alto).

Il lavoro di Silvia e Marco sarà focalizzato sull’approfondimento di questioni inerenti la neuroscienza, la psicobiologia, la farmacologia, la psicologia comparata, la metodologia della ricerca, adottando uno stile chiaro, sul modello di altri blog/testate che sempre più si stanno distinguendo nel mondo della buona informazione, come il Post o Medical Facts.

Ecco le rispettive presentazioni:

Silvia Bussone, Psicologa, Psicoterapeuta in Formazione, Dottoranda in Psicologia Dinamica, Clinica e della Salute, Esperta in Psicologia Giuridico-Forense.

Salve a tutti e tutte, sono Silvia Bussone, una giovane psicologa appassionata di ricerca clinica con una declinazione psicobiologica. Per coniugare clinica e biologia, ho deciso sin dalla laurea triennale di dedicarmi a lavori di tesi sperimentali che mi potessero formare in ambito psicobiologico, per poi abbracciare la psicologia clinica, con una piccola parentesi in psicologia giuridico-forense durante l’anno di tirocinio.

Al momento sono impegnata in un dottorato di ricerca in psicologia dinamica, clinica e della salute presso la Sapienza, Università di Roma, con un progetto sui correlati psicobiologici di eventi traumatici infantili e successivo rischio psicopatologico.

Dal momento che credo fortemente che la formazione di uno psicologo debba essere più comprensiva ed esaustiva possibile, sono anche psicoterapeuta in formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T. Beck di Roma, grazie al quale collaboro occasionalmente col servizio per le dipendenze patologiche di una delle ASL romane.

Sono appassionata di scrittura, lettura e mi tengo continuamente aggiornata sulle ultime tendenze in campo neuroscientifico, in particolare sul trauma, o sui meccanismi biologici alla base delle relazioni e/o dell’attaccamento. Apprezzo molto anche i diversi orientamenti delle psicoterapie e lo scambio con i professionisti del settore, dai quali mi piace prendere spunti di riflessione per la mia pratica professionale.

Marco Colamartino, Psicologo, Dottore di Ricerca in Neuroscienze del Comportamento (Psicobiologia e Psicofarmacologia), Psicoterapeuta in formazione.

Marco Colamartino, psicologo formato all’Università “La Sapienza” di Roma. Sin dall’inizio della mia carriera universitaria ho voluto scegliere un percorso che aderisse alla mia passione principale: la psicobiologia e le neuroscienze, materie che mi appassionavano sin dalle scuole superiori. Ho conseguito la laurea triennale in Psicologia Cognitiva e la laurea specialistica in Neuroscienze Cognitive e Riabilitazione Psicologica. La laurea specialistica mi ha offerto la possibilità di applicarmi in campo psicobiologico e di lavorare ad una tesi sperimentale per circa un anno e mezzo; grazie a questa esperienza, ho iniziato a lavorare su un modello murino di ritardo mentale (fenilchetonuria) e su eventuali terapie farmacologiche che potessero risolverne i deficit biologici e comportamentali. Successivamente ho conseguito il dottorato di ricerca, grazie al quale ho approfondito le mie conoscenze in campo psicobiologico e psicofarmacologico a livello preclinico.

Terminato il dottorato, ho sentito il bisogno di integrare lo studio della psicologia clinica alla mia formazione ed ho iniziato la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T Beck di Roma che attualmente sto svolgendo. Grazie a questo nuovo percorso, ho svolto attività di tirocinio nel dipartimento di Neuropsichiatria Infantile in una delle ASL romane.

Oltre alla psicobiologia e alle neuroscienze, che rimangono i miei interessi principali, grazie alla scuola di specializzazione mi sono appassionato a moltissimi argomenti come il trauma, i meccanismi dissociativi, ma anche ad alcuni tipi di disturbi (es: alimentari) che miro ad approfondire nel corso dei miei studi.

Questi anni di formazione in psicologia mi hanno portato, oltre che a confermare la mia passione, anche alla consapevolezza che la qualità di un professionista derivi non solo dalla sua preparazione e dalla sua esperienza, ma anche dalla sua apertura mentale e da quanto è disposto a confrontarsi in maniera collaborativa con gli altri colleghi. Credo che il confronto, l’integrazione e la divulgazione siano degli aspetti base, che non possono mancare all’interno della nostra professione.

Di recente abbiamo tutti assistito a un generale impoverimento e perdita di credibilità di testate che, fino a pochi anni fa, conservavano un’assoluta autorevolezza in senso giornalistico.

In questi ultimi mesi, la contraddittorietà delle informazioni riguardanti il Covid, i titoli clickbait, un’informazione impazzita e schizogena, ha impattato sulla nostra coscienza pressoché costantemente.

L’Italia si è specchiata sullo schermo degli smartphone controllati compulsivamente, uscendone a pezzi in senso psicopatologico. Titoli spazzatura, informazioni pompate in modo sensazionalistico dalle più autorevoli testate italiane sottoposte alla nostra attenzione centinaia di volte al giorno, a ogni scrollata compulsiva dello smartphone. L’additività e il potere dipendentogeno dei Social, hanno fatto il resto.

Alcune domande che è lecito farsi:

  1. le politiche editoriali dei giornali a cui prima si è accennato, stanno degradando la credibilità delle suddette testate, causando allontamenti di lettori e perdita di  abbonamenti, cosa che alimenterà l’ulteriore rilancio verso il baratro. É possibile che la cosa non sia stata compresa dai redattori? É il più semplice dei circoli viziosi
  2. Come reagisce un cervello sottoposto a informazioni incoerenti e contraddittorie su tematiche vitali per il soggetto, che riguardano la sua salute? Lo osserviamo: paralizzandosi di terrore e sviluppando un disturbo dell’adattamento
  3. come è possibile che nella redazioni delle maggiori testate italiane, non sia presente un comparto di giornalisti scientifici che sappiano mettere in piedi un’informazione di qualità, coerente e unitaria (su temi legati alla pandemia, in questo caso)?

Il problema della comunicazione di qualità è sempre più attuale.

In questo scenario da incubo si elevano, come dicevamo, poche eccezioni (Il Post) insieme alla categoria dei divulgatori: singoli individui (Enrico Bucci, Burioni, Entropy for Life, Biologi per la scienza) in grado di veicolare informazioni chiare e coerenti. Veri fari nella notte in questi ultimi mesi. Ringraziamo loro se conserviamo ancora un po’ di sanità mentale: almeno per le questioni scientifiche o che riguardino la salute degli individui, è auspicabile che la palla passi -per il futuro- ai divulgatori scientifici.

Article by admin / Editoriali / psicoanalisi, psicologia, psicoterapia

28 dicembre 2020

PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum)

 

di Raffaele Avico

Qualche tempo fa, ho avuto la possibilità di visitare la città/struttura psichiatrica di Geel, a pochi chilometri da Bruxelles, in Belgio. Geel è conosciuta in ambito psichiatrico perché ospita un progetto antico (che va avanti da centinaia di anni) di inserimento di malati psichiatrici all’interno di famiglie cosiddette normali, chiamate “foster families”.

Sceso dal treno a Geel, chiedo consiglio a un passante a riguardo del Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum, dato che su Internet è pubblicizzato poco e si trova altrettanto poco materiale foto/video a riguardo. Vengo indirizzato verso una struttura poco distante dal centro (cosa di per sè inusuale, dato che soprattutto in passato agli ospedali psichiatrici veniva destinata una collocazione al di fuori del centro abitato per ragioni di sicurezza/igiene sociale), chiamata dal passante “Sano Clinic”.

La raggiungo e mi trovo immerso in un vero e proprio villaggio collegato da sentieri interni e caratterizzato dalla presenza di case indipendenti, strutture cubiche di legno con grandi finestre da cui si vedono gli interni ed edifici più simili ai moderni ospedali. Faccio una prima ricognizione e noto che, visti dall’esterno, gli ambienti interni sono puliti e arredati in modo semplice; osservo inoltre la presenza di pazienti di varie età in locali diversi.

In prossimità di una delle strutture noto la presenza di camere singole in cui vedo alcuni degenti intenti a compiere attività quotidiane: fin qui niente di particolarmente nuovo, eccezion fatta per il grado di pulizia e ordine dei locali, che non sono abituato a vedere in Italia.

Noto infine pazienti che lavorano nelle aree verdi circostanti le case; ci sono anche laboratori di falegnameria molto organizzati (con macchinari funzionanti, etc.) in cui presumo vengano fatte attività di preparazione al lavoro, o in cui vengano insegnate attività artigianali.

Cerco qualcuno a cui chiedere maggiori informazioni e vengo indirizzato ad una persona che si trova in un altro edificio: qui entro e trovo un help-desk con una ragazza a cui chiedo, se possibile, di poter avere alcune informazioni in più a riguardo del progetto. Dopo avermi fatto attendere alcuni minuti, la receptionist mi indirizza a una terza persona che a sua detta mi concederà mezz’ora per illustrarmi le caratteristiche principali del progetto.

Qui mi accoglie il Dott. Wilfried Bogaerts, psicoterapeuta della clinica, che mi conduce nel suo studio e con cui avrò al fortuna di poter intrattenere un colloquio vero e proprio a riguardo del progetto di Geel. Al mio presentarmi e raccontando della situazione attuale della psichiatria italiana, di ciò che faccio e della città da cui provengo (Torino), mi stupisco nel constatare che il terapeuta sia a conoscenza del progetto I.E.S.A., di fatto una copia del progetto belga che mi trovo a visitare, attivato sul territorio dell’ASLTO3, e che conosca addirittura il nome dello psicologo che per primo lo importò nel nostro Paese (Dott. Aluffi).

Gli porgo delle domande specifiche a riguardo del progetto e si dimostra molto disponibile a spiegarmi in che modo il progetto si è evoluto nel tempo.

Le risposte da lui datemi potrebbero essere sintetizzate come segue:

  • il progetto di Geel è antichissimo: la leggenda narra che già dal 1300 a Geel fosse sorta una comunità di accoglienza per malati mentali (in seguito a un evento scatenante), e che nel tempo il tutto avesse assunto proporzioni sempre più importanti fino ad arrivare, alla fine dell’800, a contare un totale di 3000 malati psichici ospiti delle famiglie del paese, che contava in tutto 20000 persone. 3000 pazienti psichiatrici per 20000 persone: un numero elevatissimo. Il Dott. Bogaerts mi racconta di come all’inizio il progetto fosse stato spinto e promosso dai preti e dagli organi clericali del luogo (Wikipedia cita il caso del padre di Vincent Van Gogh, che in una lettera al fratello di Vincent Theo, esprime il suo desiderio di mandare Vincent a Geel affinché venga preso in carico dalla comunità di accoglienza)
  • con il progressivo affermarsi della scienza psichiatrica la gestione della malattia mentale migra entro il dominio della scienza medica, ma la modalità rimane sempre la stessa: le famiglie del paese accolgono i malati mentali introducendoli a uno stile di vita più “normalizzato” e famigliare
  • nel tempo il numero dei pazienti si abbassa e il servizio viene organizzato in modo più strutturato: al momento attuale a Geel si contano 300 pazienti ospitati dentro 300 famiglie, con gradi diversi di autonomia e con diagnosi diverse

Mi spiega quindi le tappe principali della presa in carico di un paziente all’interno del progetto:

  • i pazienti vengono in un primo momento presi in carico dalla struttura centrale (l’ospedale/villaggio in cui mi trovo) e in un secondo momento, se e quando ritenuti idonei, vengono indirizzati alla “foster family” che si è resa disponile all’accoglienza. Qui la persona viene inserita/o e si struttura per lei/lui un percorso di inserimento con grandi diversi di autonomia. Il dott. Bogaerts mi spiega come il grado di autonomia e la quantità di tempo di permanenza settimanale all’interno della famiglia, varino da caso a caso: molto dipende dalla gravità dei sintomi del paziente e da quanto a questo/a giovi il permanere all’interno di un contesto strettamente famigliare. Non per tutti, mi spiega infatti, sembra essere d’aiuto l’essere circondati da un ambiente ristretto come quello famigliare: alcuni tipi di pazienti lo patiscono, sembrano necessitare di più spazio e meno controllo
  • a proposito di questo, viene creato un profilo personalizzato per ogni paziente, a seconda anche di quali siano i mezzi della “foster family” ospitante: esistono infatti famiglie che ricevono in casa il paziente introducendolo/a negli spazi di vita comuni a tutti i membri (camere da letto, cucina, etc.), altre che invece hanno costruito una dependance in un cui ricevere l’ospite, concedendogli quindi maggiori autonomie nel muoversi “in famiglia”
  • è variabile inoltre il numero di giorni che il paziente dovrà passare con la famiglia: alcuni vi trascorrono solo una parte della settimana, dedicando gli altri giorni alla famiglia di origine (quando presente) o permanendo all’interno della struttura “madre”; altri potranno trascorrervi anche solo due giorni a settimana, in una sorta di affidamento (diurno e notturno insieme)
  • alla mia domanda sui quadri diagnostici presenti all’interno del progetto, il Dott. Bogaerts si dimostra totalmente indifferente alla necessità di categorizzare i disturbi del soggetto, facendomi osservare come a suo modo di vedere sia più una necessità del curante – quella di parlare di una specifica categoria diagnostica- che non del paziente. Parole come schizofrenia, disturbo dello spettro autistico, etc., perdono di senso di fronte a un progetto di reinserimento sociale che mantenga uno sguardo particolareggiato e ritagliato intorno alla personalità del paziente. Questo non esclude tuttavia che al paziente sia assegnato un piano di cura e di reinserimento che tenga conto della sue difficoltà e necessità
  • Infine, il Dott. Bogaerts mi spiega di come all’interno del progetto siano presenti anche alcuni bambini affidati a famiglie ospitanti (al momento attuale, circa una decina), e mi dà un’idea di quali possano essere i futuri sviluppi del progetto (la sua diffusione anche ai territori circostanti, e l’aumento del numero di pazienti presi in carico)

ALCUNE RIFLESSIONI

Quello che mi colpisce è innanzitutto l’apertura all’esterno del progetto: la facilità che ho trovato nell’ottenere un colloquio con un terapeuta in servizio all’interno della struttura, la distanza ravvicinata dei luoghi di cura con il centro cittadino e la visibilità in sé data ai pazienti, non nascosti/negletti ma esposti e osservabili.

É chiaro come il progetto sposi un’ideologia clinica fortemente orientata: si tratta cioè di cambiare la percezione che la società ha della malattia mentale, allargando la coscienza collettiva (in modo che essa possa abbracciare -contemplandola- l’esistenza e la natura della patologia psichiatrica) e di ridurre lo stigma nei confronti del malato mentale.

Inoltre si dà spazio e ci si concentra sulle risorse residue del paziente (sempre esistenti, come ci ricorda Vigotskij): questo avviene affidandogli responsabilità e autonomie reali perché calate nel contesto del territorio (e non create artificialmente nella bolla di una struttura chiusa e autarchica). Si fa cioè un lavoro di empowerment e di assegnazione di competenze civili a pazienti che di solito se ne vedono progressivamente, e quasi inesorabilmente, deprivati (chi lavora in ambito di salute mentale osserva questo fenomeno tutti i giorni).

Questo livello di intervento (territoriale/di reinserimento) viene ovviamente integrato a un approccio farmacologico e psicoterapeutico rendendo più “completo” e integrato, in un certo senso, l’approccio al sintomo e alle difficoltà del paziente, con risultati migliori in termini di qualità di vita e integrità psichica.

Colpisce poi la poca risonanza data a un fenomeno del genere in Italia (incluso il progetto IESA), segno di come avanguardie cliniche simili necessitino di essere spinte e copiate da modelli come quello di Geel, e maggiormente diffuse.

In Italia il modello di Geel è stato per primo adottato a Collegno (Torino) da parte del Dott. Aluffi e dagli operatori dell’ASLTO3 ; esiste inoltre una piccola realtà nel modenese chiamata “Rosa Bianca” e altre Asl che sul territorio italiano si sono mobilitate in questa direzione.

Il servizio IESA (acronimo con cui è stato chiamato il progetto, che sta per “Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”) permette di pagare le famiglie ospitanti: sul territorio di Torino alla “foster familiy” viene elargito un bonus di 1100 euro mensili -con variazioni-, che saranno in ogni caso meno rispetto a quanto costerebbe allo Stato collocare il paziente all’interno di una struttura riabilitativa.

Seguendo questo disegno di “politica clinica”, è facile osservare come possano essere avvicinati due bacini di utenza che necessitano -entrambi- di un supporto: la famiglia ospitante, che si avvantaggia di un apporto affettivo -ma anche economico- extra, e l’utente psichiatrico che in essa trova un nuovo contesto di crescita personale e di presenza affettiva; il tutto coordinato da operatori preposti e formati al progetto.

APPROFONDIMENTI

  • il sito del centro

 

Article by admin / Editoriali / psicologia, psicotraumatologia, raffaeleavico

24 novembre 2020

AREA PATREON DEL BLOG: UNO SGUARDO AI CONTENUTI

L’area Patreon de Il Foglio Psichiatrico consente di accedere ad alcuni contenuti esclusivi a tema trauma, in forme diverse (PDF, podcast e video).

Accedere al formato Patreon, consente di avere accesso immediato a tutti i contenuti -che vengono di volta in volta inviati, mensilmente, agli abbonati all’area membri.

Il tema è sempre lo stesso: il trauma e la dissociazione. L’obiettivo di questo lavoro è approfondire in modo sempre più verticale la questione, costruendo un serpente editoriale e di contenuti che consenta al fruitore di averne una visione sempre più completa. Già molto materiale lo si trova su questo blog, raccolto qui.

Qui alcuni dei contenuti per ora inviati:

  1. NOVEMBRE 2020 PODCAST: I FONDAMENTI EMOTIVI DELLA PERSONALITÁ (di Jaak Panksepp), recensione per punti
  2. IL TRAUMA IN JAAK PANKSEPP
  3. PATREON LUGLIO 2020: cos’è la dissociazione? Proviamo a dare una definizione generale
  4. PODCAST: IL MODELLO LIOTTIANO, I PUNTI CENTRALI DEL LAVORO DI GIOVANNI LIOTTI
  5. RECENSIONE DI “GUARIRE DAL TRAUMA” DI JUDITH LEWIS HERMAN: SECONDA PARTE
  6. COME SI USA LA TAVOLA DISSOCIATIVA DI FRASER CON PAZIENTI TRAUMATIZZATI
  7. LUGLIO 2020 PODCAST RECENSIONE PER PUNTI DI “GUARIRE DAL TRAUMA ” DI JUDITH LEWIS HERMAN (PRIMA PARTE)
  8. RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS
  9. VIDEOPATREON N.2 – GIUGNO 2020. APPROCCIO FISICO AL PTSD: spunti di approfondimento e riflessioni.
  10. GIUGNO 2020 PODCAST: RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”
  11. FARMACOLOGIA DEL PTSD e INTERVENTO PERI-TRAUMATICO
  12. VIDEOCORSO #1: INTRODUZIONE E DEFINIZIONE DI TRAUMA
  13. PODCAST #1 – LA TEORIA POLIVAGALE: INTRODUZIONE E SPUNTI
  14. 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD
  15. IL PDF di PTSD: CHE FARE?
  16. IL TRAUMA NEGLI ANIMALI

Qui il progetto Patreon (con il patrocinio di AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione).

Article by admin / Editoriali / neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD

21 ottobre 2020

LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO


di Raffaele Avico


PREMESSA

Questa intervista a Lorena Ferrero ha l’obiettivo di sensibilizzare rispetto a un tema circoscritto, ma importante: il futuro pensionistico e previdenziale del popolo degli psicologi italiani. É in particolare rivolta a liberi professionisti psicologi o psicoterapeuti sopra ai 30 anni di età, impegnati nella lotta per la conquista di un proprio spazio professionale, che vogliano gettare un occhio al proprio futuro in termini, appunto, di previdenza. Ne emerge un quadro fosco, in cui sembra necessario da subito puntare a differenziare, per il singolo professionista, le entrate economiche -all’insegna del metodo 1+1+1+1+1+1-, sganciati dall’idea -almeno al momento- di trovare una qualche forma di supporto attivo da parte degli enti previdenziali.

Gentile Lorena, ci dai una descrizione del tuo lavoro e di chi sei?

Sono una psicologa e psicoterapeuta piemontese, libera professionista, con un’attività lavorativa molto diversificata: oltre all’attività privata in studio sono professoressa invitata dell’Istituto Universitario Salesiano Rebaudengo di Torino; mi occupo inoltre di orientamento e politiche attive del lavoro. Psicologa scolastica e consulente tecnico di parte in perizie e CTU. Iscritta all’Albo degli esperti e dei collaboratori dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) e formatrice corsi ECM. In passato docente a contratto presso il Dipartimento di Psicologia di UNITO, esperta presso il Tribunale di Sorveglianza di Torino e consulente di un servizio pubblico sulle dipendenze. Ho collaborato con un’associazione di psicoterapia sociale, seguito la progettazione su bandi di finanziamento e ho lavorato come psicologa nei Centri di Accoglienza Straordinaria per migranti.

Gentile Lorena, come giudichi la situazione attuale italiana degli psicologi? Ci dai una fotografia sommaria dello stato di salute della categoria psicologi e psicoterapeuti?

Direi che come categoria stiamo male: c’è una richiesta del mercato del lavoro inferiore all’offerta degli psicologi, pubblica e privata, mancando un accesso programmato a livello nazionale all’Università come per le altre figure sanitarie. Siamo infatti una professione SANITARIA, più sulla carta che nella realtà. C’è BISOGNO di PSICOLOGI nel Servizio Pubblico, richiesta da parte dei cittadini, a cui spesso non si risponde perché mancano le risorse (la rete pubblica normalmente riesce a coprire mediamente solo il 25% dei bisogni psicologici previsti dai Livelli Essenziali di Assistenza anche attraverso gli specializzandi, che prestano gratuitamente la loro opera durante la formazione), quella che è bassa è la DOMANDA da parte della Sanità Pubblica, cioè vengono fatti pochi bandi e non vengono sostituiti i colleghi che vanno in pensione. Nel contempo non vengono forniti ai cittadini BONUS o attivate CONVENZIONI che consentano alle fasce deboli della popolazione di accedere al sostegno ed alle cure rivolgendosi direttamente agli psicologi liberi professionisti. Gli psicologi del lavoro e organizzazioni stanno un pochino meglio: una maggior richiesta della loro figura, però spesso le aziende preferiscono i coach anche con formazione non psicologica, questo dovrebbe farci nascere delle domande sul nostro percorso di studi forse non così professionalizzante.

Gentile Lorena, parlaci di previdenza e di pensione; recentemente hai avviato una polemica vivace sulle pensioni degli psicologi. Facendo un calcolo sommario, uno psicologo libero professionista di 30 anni, per avere una pensione di 1000€ al mese, dovrà smettere di lavorare a 70 anni avendo dichiarato ogni singolo mese più di 3000€. È così? Equivale a dire che una maggioranza dei professionisti avrà pensioni da fame.

Purtroppo la questione pensionistica degli psicologi liberi professionisti è una bomba sociale ad orologeria, che esploderà: occorre porsi il problema oggi come categoria ed interrogarsi sulle possibili soluzioni da mettere in campo a livello ENPAP, come cassa privata, e le richieste da portare a livello governativo. A 65 anni inizia l’erogazione della pensione ENPAP, se si continua l’attività privata nel contempo si versano ancora i contributi. Per arrivare ad una pensione mensile di 1.000 euro netti, occorre a 65 anni aver accumulato un montante di 250.000 euro di contributi. Attualmente le pensioni medie erogate si aggirano sui 180 euro mensili, con punte minime fino a 30 euro al mese. Previdenza&Solidarietà, la lista con cui mi candido nel CIG Nord alle prossime elezioni ENPAP, si impegna a lavorare per introdurre una pensione minima di 520 euro al mese. Si può fare, gli strumenti finanziari ci sono. Ora bisogna iniziare a lavorarci. Le pensioni basse nel sistema contributivo derivano, in gran parte, dalla bassa entità del montante nei primi 5/10 anni di attività professionale. Previdenza&Solidarietà si impegna a esplorare l’introduzione del “prestito d’onore” a valere sui montanti contributivi, a favore delle colleghe e dei colleghi più giovani. Partire con un montante di una certa consistenza garantisce nel tempo una pensione dignitosa.

Gentile Lorena, dove sono collocati, allo stato attuale, gli psicologi? Dove lavoravano, dove lavorano e dove lavoreranno?

Do alcuni dati. Siamo circa 120.000 iscritti all’Ordine in Italia, mentre solo 65.000 sono gli iscritti all’ENPAP. Quindi sembrerebbe che molti colleghi in realtà non lavorino come psicologi. Solo il solo il 20% degli psicologi, come psicoterapeuti, risulta attualmente invece operante in modo strutturato o in regime di convenzione all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, pur essendo professione sanitaria. Quando siamo nati come professione il bacino del lavoro nel pubblico era naturale e senza ostacoli per chi non sceglieva la libera professione come interesse. Ad oggi i risultanti 80% degli iscritti all’Ordine dovrebbero distribuirsi tra liberi professionisti che spesso come la sottoscritta sono trasversali a più ambiti: clinico, forense, scolastico, lavoro e organizzazioni, migranti, sport, neuropsicologico e riabilitazione, disabilità e cronicità, anziani e RSA, ricerca e Università, e chi svolge mansioni come dipendenti che non richiedono l’iscrizione all’Albo degli psicologi, pur rimanendo iscritti per scelta personale, quali insegnanti di ruolo, precari, compresa la messa a disposizione ed educatori.  Cosa ci riserva il futuro lavorativamente parlando francamente non lo so, al di là che se non viene istituito il numero nazionale programmato di accesso all’Università i più giovani saranno destinati principalmente ad una prospettiva di sottoccupazione o riconversione ad altri ambiti professionali, come parzialmente sta già accadendo, vedasi i bassi redditi dei neopsicologi.

Gentile Lorena, quali soluzioni intravedi? Distingui le soluzioni dall’alto, da quelle dal basso: cosa chiedere agli organi istituzionali, e cosa consigliare a un giovane collega? É chiaro che un professionista, a meno che non sappia differenziare o reinventarsi, impiegherà molto tempo prima di riuscire a camminare con le sue sole gambe, versando nel frattempo troppo poco.

Le soluzioni dall’alto e dal basso dovrebbero essere entrambe guidate da una logica di CATEGORIA: appartenenza, comunione di intenti, partecipazione attiva. Come tradursi nei comportamenti e azioni? Gli Organi Istituzionali, che ci rappresentano, CNOP, Ordini regionali e provinciali, ENPAP, si auspica, si muovano in sinergia. In particolare sono il CNOP a livello nazionale e gli Ordini a livello locale che dovrebbero impegnarsi per lo sviluppo professionale degli psicologi: assumendo anche posizioni ferme. Faccio un esempio: nell’emergenza Covid-19 sono stati previsti gli psicologi nelle USCA, al momento però non ci sono stati bandi al riguardo e nel contempo il Ministero della Salute aveva chiesto il contributo volontario e gratuito al numero verde di supporto psicologico, nel caso specifico il CNOP, a mio avviso avrebbe dovuto ostacolare questa iniziativa. I giovani colleghi avrebbero necessità di un orientamento all’uscita del percorso universitario rispetto alle opportunità reali e potenziali. Un’idea che mi piacerebbe implementare, lo si può fare però solo a livello di Ordine, è un progetto di mentoring tra liberi professionisti old e junior, come scambio intergenerazionale. Intanto il neopsicologo sia curioso e si informi per costruire il suo presente e futuro, si costruisca un proprio progetto professionale.

Gentile Lorena, hai indicazioni su libri o blog che ci aiutino a farci un’idea più reale dello stato delle cose?

A livello nazionale consiglio il blog del collega Rolando Ciofi una finestra sul mondo della psicologia, tendenze, sviluppi e criticità. In regione Piemonte ho cercato di creare con il gruppo Informazioni per gli Psicologi del Piemonte una comunità viva ed interattiva, che dibatte di temi locali e nazionali, opportunità lavorative e formative: operazione riuscita con la collaborazione degli oltre 3.000 membri su Facebook.

Article by admin / Editoriali / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, raffaeleavico

28 settembre 2020

FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix

di Raffaele Avico


Perchè guardare, su Netflix, The Social Dilemma?

The Social Dilemma è un documentario che intreccia due filoni di narrazione: contiene in sè sia una parte di documentario con interviste a ex programmatori/informatici di Facebook, Pinterest, Google, quindi direttamente coinvolti nella stessa nascita di questi social media, sia una parte più narrativa con la storia di un ragazzo “pilotato”, “radicalizzato” dai social media.

Il messaggio che ne è esce è chiaro: “we have to“, “dobbiamo” cambiare qualcosa nel modo di fruire dei Social, visto che questi stessi Social sembrano sempre più programmati per “pilotarci” in senso comportamentale a fini sia commerciali, che politici. Tutto questo, sfruttando meccanismi paleopsicologici, atavici, come l’induzione di panico, o la gratificazione mediata da dopamina.

Vedere questo documentario consente una presa di consapevolezza, per tentare di mettere in atto comportamenti di “difesa”.

É stato osservato come, ogni qualvolta all’interno del mercato tecnologico venga inserito un nuovo strumento, le persone assumano due posizioni stereotipiche che vedono da una parte gli entusiasti/ottimisti, dall’altra i catastrofisti/luddisti. Spesso il tutto prende una connotazione politica, a seconda che si decida di appoggiare o meno una posizione “liberale”, con l’individuo più o meno responsabile di sè nella società del consumo. In questi ultimi anni, con la nascita dei Social Network, sembra essersi riproposta la stessa dinamica: da una parte gli entusiasti, dall’altra gli scettici/catastrofisti/reazionari. Nelle discussioni accademiche -o anche cliniche- si arriva a una conclusione che è sempre la stessa: sarà necessario, nel tempo, normalizzare l’uso dei social attraverso un’educazione al buon uso: questo però ha come presupposto e assunto fondamentale il fatto che la responsabilità dell’uso di uno strumento di così forte impatto -Facebook o qualunque altro social, come Tik Tok- dipenda esclusivamente dal singolo cittadino. Il problema, in questi termini, non sarebbero tanto Facebook nè TikTok in sé, quanto l’uso che se ne fa. Così come si fa con un bambino che viene educato al buon consumo del cibo, si tratterebbe di fornire al cittadino gli strumenti per difendersi dai rischi dei social media/Facebook, cosicchè in autonomia possa auto-limitarsi, imparare a controllarsi.

Spostiamo per un attimo la questione e allarghiamola, confrontando il problema dell’uso dei Social con la questione sull’uso improprio di armi dove queste siano di facile accesso. Oppure proviamo a metterlo a paragone con il problema del gioco d’azzardo, il gambling. Il problema diviene subito prettamente politico e ruota intorno alla questione se lo Stato debba impegnarsi o meno per proteggere la cittadinanza da sé stessa, cioè dai propri impulsi più basici (rabbia, paura dell’ignoto, questioni di tipo territoriale).

Se assumiamo che la cittadinanza abbia pieno controllo di sé e dei propri impulsi, facciamo forse un errore di sopravvalutazione delle risorse degli individui: il problema del gambling in Italia, o la questione dell’uso di armi negli USA, per esempio, hanno sollevato la questione sul libero accesso alle “fonti” (slot-machines, armi), soprattutto quando ad accedervi siano persone con difficoltà sociali, magari provenienti da contesti a rischio. Se ci arrendiamo al fatto che i cittadini non sempre siano in grado, da soli, di controllare i propri impulsi -razionalizzandoli, “sublimandoli” o “intellettualizzandoli”-, l’utilizzo di social come Facebook, Instagram o TikTok non diviene più solamente una questione di libertà e controllo individuale, divenendo un problema politico nel senso più ampio del termine, ovvero di “gestione della collettività” che dovrebbe essere in particolar modo considerato in relazione alla cittadinanza con meno risorse personali, ovvero ai soggetti più deboli.

I PIANI DEL RISCHIO

Come si osserverà a seguito della visione di The Social Dilemma, la natura controversa di strumenti come TikTok o Facebook (Facebook viene descritto come particolarmente nefasto in quanto a strumento di comunicazione: sappiamo tra l’altro che è ormai in pieno declino, soprattutto tra i più giovani) ha quindi piani diversi che riguardano:

  1. la questione della dipendenza e dell’accesso a uno strumento estremamente dipendentogeno (cioè in grado di provocare assuefazione e grande dipendenza): c’è da chiedersi quanto la persona sia realmente libera di controllare i propri impulsi, generati su bisogni altrettanto basici, come l’appartenere, o il sedurre. Se rispondiamo a questa domanda (quanto la cittadinanza è in grado di padroneggiare i propri impulsi?), su cui non possiamo essere neutrali e su cui è importante interrogarci, dobbiamo per forza di cose schierarci a favore o contro, di fatto assumendo una posizione educativa, come un genitore fa istintivamente, per esempio, ogni qualvolta al figlio di 5 anni venga messo in mano un tablet o un device tecnologico. L’istinto che muove un padre a proteggere il figlio dall’uso di uno strumento come Internet -e i Social- dovrebbe farci riflettere su quanto tutti noi ci si renda conto, anche se ingenuamente, di quali pericoli di assuefazione e dipendenza rechi con sé uno strumento come Facebook, o qualunque altro social. Come sappiamo, la dipendenza si crea dove c’è gratificazione.
  2. In senso più sociale e interpersonale, l’assenza di moderatori conduce, come osserviamo tutti i giorni, a una libertà di parola totale con le conseguenze inevitabili di un “aprire le gabbie”: pensiamo per esempio al revenge-porn, o al cyber-bullismo (che da virtuale diviene paurosamente incarnato e reale). In questo caso Facebook -ma anche gli altri social- sono un’agorà virtuale in cui vale tutto, all’interno della quale permettiamo ai nostri avatar di confrontarsi in modo spietato, salvo poi accorgerci che questi stessi avatar qualcosa di noi hanno e che le parole hanno un loro peso, che rimane anche una volta spento lo schermo. Raffaele Alberto Ventura ne parla nel suo “La guerra di tutti” a proposito dell’effetto “mimesi”, ovvero quando lo spettacolare deborda nel reale, contaminandolo.
  3. Al di là del problema dell’uso dipendentogeno dei Social e in particolar modo di Facebook, la discussione a proposito della qualità dell’informazione ha messo al centro dell’attenzione un ulteriore piano di pericolo, questa volta a proposito dei contenuti e in particolare a riguardo delle bolle informative e delle fake news. Queste ultime sono da interpretarsi come operazioni, strumenti di marketing (un giornalista, in accordo con la redazione per cui lavora, modifica a piacimento la notizia al fine di renderla più appetibile al grande pubblico, al fine di conquistare più audience, e quindi più click e più soldi): niente di nuovo in termini di media. Giornalismo ed entertainement si confondono. Quello che però appare come un fenomeno relativamente nuovo è quello appunto delle bolle informatiche, questione che va pensata a partire dal tema ormai noto, più ampio, di come sono manipolati i contenuti dei Social e dei motori di ricerca che usiamo quotidianamente a fini commerciali. Esistono, come sappiamo, algoritmi e software che, dopo aver tracciato un profilo di ciò che siamo a livello di consumatori web, ci propongono risultati e avvertimenti pubblicitari che si confanno al nostro gusto, a fini sempre di (web) marketing. Questo rende la nostra conoscenza ricorsiva, mai veramente aperta a ciò che è diverso dal nostro gusto personale. In questo senso si parla di “bolla informativa”: immaginiamo un bozzolo di risultati Google e advertisement Facebook che ci avviluppa costruito a nostra immagine e somiglianza e pensato per far sì che noi ci si avvicini a ciò che si confà ai nostri gusti. É facile capire quanto questo precluda uno sguardo più ampio sulla realtà e quanto rappresenti una minaccia alla democrazia mediatica (questo aspetto è forse il più evidenziato da The Social Dilemma)

Su queste tematiche diversi soggetti, in rete, stanno tentando un lavoro di prevenzione, come Tlon (qui un intervento molto lungo e denso sul libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” di Jaron Lanier), o alcuni youtuber come Federico Pistono.

“WE HAVE TO”

Così come è accaduto nei decenni scorsi per le operazioni giganti di prevenzione ai rischi connessi al mondo del tabacco (ci sono voluti decenni), ciò che va fatto è prendere coscienza in pieno dei rischi di questo strumento, per poi (tentare di) abbandonarlo come si fa con una cattiva abitudine (chi progressivamente, chi operando un taglio netto). I soggetti più a rischio, come evidenzia The Social Dilemma, sono coloro i quali possiedono meno strumenti protettivi in termini di rischio di dipendenza e manipolabilità (i bambini, adolescenti con funzioni esecutive deboli -più predisposti a sviluppare addiction-, i deprivati, le persone con meno rete sociale o pochi familiari di supporto, in generale i fragili): Facebook, insieme agli altri Social, li troverà pronti e affamati.

É probabile che su questo l’opinione pubblica dovrà fare alcuni step, con lo stesso iter che già osservammo per altri oggetti di dipendenza nei decenni scorsi: novità, “coolness”, assenza di consapevolezza, prodromi (fase in cui siamo ora), sintomi, presa di coscienza, diagnosi, problematizzazione e infine (ri)posizionamento.

Siamo solo all’inizio.


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15 settembre 2020

IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura”

di Raffaele Avico, Gianluca D’Amico


INTRODUZIONE

Basaglia diceva che è necessario, in qualsiasi opera di cambiamento sociale, essere dei buoni inventori e dei buoni narratori. Si tratta dell’annosa questione della relazione tra teoria e pratica. È sufficiente ragionare e ragionare insieme per cambiare la realtà oppure è sufficiente tuffarcisi dentro alla realtà per cambiare, per sentirne la puzza, per attraversarne le contraddizioni?

È chiaro come entrambi i momenti siano strettamente necessari, ma la questione di fondo è come decliniamo il rapporto tra questi due momenti. Basaglia, nella sue due anime da grande psicopatologo e da grande distruttore di vecchie istituzioni e di inventore di nuove istituzioni (costruite con l’intenzione di distruggerle all’infinito per crearne sempre di nuove), ci insegna che il nostro fine di operatori della salute mentale non è tanto quello di vincere e quindi di raggiungere un determinato obbiettivo che ci eravamo prefissi a scapito di altri che la pensano diversamente da noi, ma piuttosto è quello di convincere: di dimostrare che un altro modo di stare con l’Altro è possibile, che possiamo inventarci altri modi di costruire la salute delle persone, con le persone.

Aprire le pratiche e la teoria a possibilità diverse, fare un passo indietro e di lato rispetto al si-fa-così-perchè-si-è-sempre-fatto-così; fare epochè, che semplicemente significa mettersi in discussione, farsi travolgere, di fronte all’Altro, dal dubbio, farci assediare dal nostro balbettio, prendere distanze e tempo al fine di costruire, sempre con l’altro, un modo diverso di fare salute.

Dicevamo, non ci interessa il fine, non ci interessa raggiungere uno standard migliore (qualsiasi cosa significhi) nei nostri servizi di salute mentale; da qui il mio personale dubbio sull’utilizzo del termine “modello”. Nella mia testa un modello (seppur in scienza e coscienza) ha le caratteristiche della completezza e della compiutezza ed è per questo che mi restituisce un’idea di staticità.

Esiste un modello triestino? Le Microaree rappresentano il modello triestino? Non lo so e pare (per fortuna) che nemmeno chi ci lavora abbia le risposte a quelle domande.

Mi pare, al netto dell’ambiguità del termine “modello”, che le Microaree abitino a pieno le contraddizioni del territorio triestino e che non si siano fatte travolgere (questo lo intuisco dalle parole degli operatori) dalla smania di dover tutto codificare, tutto matematizzare e tutto staticizzare. Mi pare che il progetto delle Microaree incarni quello spirito di eterna innovazione e invenzione che portò ad una legge stupenda che è la legge 180 del 1978; mi pare che gli operatori che hanno inventato e ragionato queste istituzioni oscillino elegantemente e con consapevolezza tra il desiderio di reinventare e reinventarsi continuamente e il desiderio (il pericolo) di aver raggiunto, una volta per tutte, il modo migliore per fare salute mentale -un modello appunto. (G.D.)


LE MICROAREE: INTERVISTA A MARIAGRAZIA COGLIATI DEZZA

Con i colleghi e amici di Psicologia fenomenologica abbiamo voluto approfondire il modello triestino (cosa lo differenzia dal restante territorio italiano, in termini di presa in carico di persone in difficoltà -e in particolare utenti psichiatrici?).

Il nostro podcast ha l’obiettivo di creare dei confronti tra modelli di gestione e presa in carico, tra paesi diversi (Italia vs Belgio, per esempio, o Italia vs Svizzera). In questo caso abbiamo fatto un’eccezione, decidendo di addentrarci meglio nel lavoro dell’area di Trieste.

A questo fine abbiamo intervistato Maria Grazia Cogliati Dezza, psichiatra, curatrice del libro La città che cura, che abbiamo qui recensito, ex dirigente dell’azienda sanitaria triestina e promotrice del progetto Microaree, su cui l’intervista si è focalizzata.

Le microaree sono una realtà unica in Italia: nascono nel 2004/2005, in ragione della necessità di copertura sociosanitaria di alcune zone della città di Trieste altamente sofferenti e segnate da profonde diseguaglianze interne. Come si ascolta nell’intervista, le microaree nacquero dal convergere degli intenti di 3 enti territoriali, uniti in nome di una medicina (più) territoriale:

  1. azienda sanitaria locale
  2. comune di Trieste
  3. ATER di Trieste (ente per l’assegnazione delle case popolari della città)

..con dieci obiettivi iniziali:

  1. Realizzare il massimo di conoscenza sui problemi di salute delle persone residenti nelle Microaree.
  2. Ottimizzare gli interventi per la permanenza nel proprio domicilio ove ottenere tutta l’assistenza necessaria (e contrastare l’istituzionalizzazione)
  3. Elevare l’appropriatezza nell’uso di farmaci.
  4. Elevare l’appropriatezza per prestazioni diagnostiche.
  5. Elevare l’appropriatezza per prestazioni terapeutiche (curative e riabilitative).
  6. Promuovere iniziative di auto-aiuto ed etero-aiuto da parte di non professionali (costruire comunità).
  7. Promuovere la collaborazione di enti, associazioni e organismi profit e no profit per elevare il ben-essere della popolazione di riferimento (mappatura e sviluppo).
  8. Realizzare un ottimale coordinamento fra servizi diversi che agiscono sullo stesso individuo singolo o sulla famiglia.
  9. Promuovere equità nell’accesso alle prestazioni (più qualità per cittadini più vulnerabili).
  10. Elevare il livello di qualità della vita quotidiana di persone a più alta fragilità (per una vita attiva ed indipendente).

Per dare forma al progetto, nato nell’idea iniziale di sviluppare comunità, vennero create delle sedi dedicate (portierati sociali) coordinate da un referente dissociato dell’azienda sanitaria (spesso un infermiere), che sarebbero state frequentate in seguito da utenti di varia estrazione (ex tossicodipendenti, utenti psichiatrici, utenti “sociali”, anziani del luogo, bambini) ma strettamente legati al luogo.

Ogni microarea, infatti (allo stato attuale ne esistono 17), risponde a un bacino di cittadini specifico: la sua giurisdizione, o la sua copertura, si rivolge a un numero limitato di persone, che abitano quella parte di città.

Qui l’intervista:


IL DOCUMENTARIO “LA CITTÁ CHE CURA”

Già qui avevamo scritto a proposito del libro la città che cura, a proposito del concetto di microaree di Trieste.

Il film/documentario che su quel libro è stato costruito e diffuso, la cui regia è di Erika Rossi, intreccia due filoni narrativi distinti: l’attività di Monica (operatrice di una microarea di Trieste) sul territorio, impegnata a seguire diversi soggetti colpiti da diverse problematiche tali da necessitare un monitoraggio continuo fatto in modo domiciliare, e lo svolgersi di un’equipe di lavoro proprio tra operatori delle microaree, che discutono a proposito del loro stesso lavoro.

Va chiarito che il modello per microaree è unico in tutta Europa, come specificato a fine film, se non del mondo. Il modello triestino è per questo riconosciuto a livello internazionale come “punta di diamante” tra i modelli psichiatrici diffusi, che in Italia diremmo ispirati al lavoro di Basaglia verso una psichiatria maggiormente democratica.

Vediamo per punti quali sono gli aspetti salienti del modello triestino e cosa emerge dalla visione del film:

  • il lavoro di Monica non è solo quello di presiedere e aprire il portierato sociale (o microarea) del quartiere in cui lavora a Trieste: il suo lavoro è un lavoro domiciliare in senso reale, con visite fatte quotidianamente a casa di pazienti in carico a diversi servizi (dai CSM ai Sert) che in altro modo non sarebbero stati tenuti in carico, probabilmente destinati a “scomparire” agli occhi dei servizi
  • quello che si osserva è un luogo, quello della microarea, in cui convergono diversi tipi di utenti di provenienza differente: è quindi, la microarea, un luogo ibrido e aperto a persone anziane e magari sole, ex tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, bambini
  • la microarea, come questa intervista fatta a Roberta Balestra (ex dirigente SerD Trieste) per il nostro podcast ben chiarisce, è un luogo di ascolto, un luogo di ricezione dei bisogni del quartiere, un anello tra il territorio e l’ASL, destinato a introdursi in modo capillare nelle pieghe di un tessuto sociale complesso come quello dei quartieri difficili di Trieste. La     microarea si costituisce in questo modo come l’ultimo passaggio di una filiera sanitaria, una catena di servizi che va dall’ospedale all’abitazione di un potenziale utente;
  • viene evidenziato in un passaggio del film, durante la riunione di equipe tra operatori delle microaree, come il modello stesso spesso sia difficilmente sintetizzabile, rappresentabile e narrabile. Di fatto, al momento, è un modello non conosciuto e soprattutto poco riconosciuto, a rischio di essere, come sottolinea un operatore ripreso nel film, “inchiodato” da statistiche e numeri in grado di, così, farlo “morire”. Si tratta di un modello che fornisce assistenza particolareggiata e presenza costante degli operatori in quartieri e zone che altrimenti non sarebbero raggiunti dai servizi territoriali.
  • L’operatore (lo si osserva dal lavoro di Monica nel film) si costituisce come figura ibrida, ausiliaria del soggetto, in grado di aiutare il paziente su più livelli, un po’ come fa un operatore di comunità residenziale, ma sul territorio; di fatto le ASL erogano anche altrove, non solo a Trieste, assistenza domiciliare: la differenza del modello triestino è appunto la presenza di luoghi in cui gli stessi bisogni vengono meglio intercettati e presi in carico in modo più puntuale

Quali sono dunque i punti di forza del modello triestino?

Abbiamo attraverso il Podcast de Il Foglio Psichiatrico iniziato un lavoro di raffronto dialettico tra modelli di presa in carico psichiatrica in paesi diversi. Per ora, abbiamo intervistato psichiatri provenienti da contesti molto diversi (Belgio, USA, Svizzera): il nostro obiettivo è valutare il modello italiano in confronto con i modelli stranieri, per capirne le caratteristiche e le aree di miglioramento.

Quello che sembra emergere è una sostanziale sovrapposizione per quanto riguarda ciò che avviene all’interno degli ospedali: qui, si lavora, bene o male, allineati su linee guida generali e senza  differenze sostanziali. La differenza, così sembra, la fa il territorio, quello che avviene nel momento in cui un paziente venga dimesso dall’ospedale e ritorni a casa, le modalità insomma del suo inserimento.

Troviamo qui molteplici differenze, a seconda del grado di territorializzazione della presa in carico psichiatrica di un determinato soggetto.

Il modello triestino non si limita in questo senso a predisporre un certo numero di colloqui, per esempio, di psicoterapia, da effettuare da parte del paziente quando questi sia tornato a casa, per un certo periodo, così da monitorare la situazione ed effettuare costanti follow-up.

Qui l’idea (e da qui il titolo del film documentario, La città che cura) è costruire un apparato infrastrutturale pervasivo, realmente presente, realmente supportivo, al fianco delle persone, restituendo così l’individuo alla sua comunità, nell’idea di una più utile domiciliarizzazione dei servizi.

Un aspetto che emerge dall’intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza, è la volontà da parte dei promotori del progetto di mettere insieme una filiera di servizi “forte”, che riuscisse a produrre un miglior livello di assistenza sul territorio per pazienti psichiatrici, così limitando le cronicizzazioni (quello che chiamamiamo lungodegenze, spesso inevitabili -pi che altro per mancanza di alternative); la forza di questi stessi servizi, Cogliati Dezza sottolinea, consta di un’attenzione particolare ai luoghi stessi in cui questi servizi vengono erogati (con sedi “dignitose”), una maggiore copertura in termini di orario (ricordiamo che a Trieste i CSM sono aperti 7 giorni su 7 e contengono posti letto per effettuare ricoveri brevi -fino a 7 giorni), un generale ripensamento dell’idea di “fare salute” mettendo al centro il paziente nel “suo” ambiente.

Anche per questo, il modello triestino può essere annoverato tra gli strumenti reificati, tra le idee “messe a terra” a partire dall’impulso teorico di Basaglia, insieme ad altre buone pratiche come il reinserimento eterofamiliare assistito (IESA), qui descritto, presente invece in tutta Italia.


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21 agosto 2020

PROGETTO PATREON DEL FOGLIO PSICHIATRICO: I REWARD DI LUGLIO 2020 (ARTICOLI, VIDEO, PODCAST)

di Raffaele Avico

Con questo articolo vogliamo mostrare in chiaro quali sono i contenuti inviati mensilmente a chi decida di aderire al nostro progetto Patreon. Trovate qui di seguito, dunque, 3 articoli su 3 aspetti della teoria del trauma, e due link: uno a un video con il quale tentiamo di dare un definizione generale di dissociazione, l’altro a un podcast (sulla prima metà di un libro che finiremo di recensire con il Patreon di settembre: “Guarire il trauma” di Judith Lewis Herman).

I contenuti in seguito pubblicati rappresentano i reward che abbiamo inviato a Luglio 2020.

Aderire al Patreon, lo ricordiamo, significa supportare il lavoro di questo blog versando una quota mensile. I contenuti per esempio di seguito esposti, sono inviati versando 19€ al mese (+ tasse). Per chi fosse interessato al tema trauma, si tratta di acquistare, quindi, un servizio di formazione continua.

GLI ARTICOLI:


RIPRENDERE PIERRE JANET: UN AUTORE OBBLIGATORIO

In questo articolo cerchiamo di fare un po’ di chiarezza sul portato culturale, in tema trauma, di Pierre Janet. Chi era Pierre Janet? Janet era uno psichiatra contemporaneo di Freud: le sue teorie sulla dissociazione strutturale della personalità e sul trauma, furono, lungo il ‘900, sostanzialmente oscurate dall’egemonia teoria della psicoanalisi. Il che è un vero peccato se pensiamo a quanto le teoria di Janet ci possono essere oggi utili per comprendere alcuni meccanismi di funzionamento del trauma e della dissociazione. Ricordiamo innanzitutto che anche Janet fece parte del fecondo gruppo di ricercatori/pionieri della Salpetriere, a Parigi. In quel gruppo di “originatori”, troviamo Charcot, Breuer, Janet e Freud, personalità dunque che avrebbero segnato in modo profondissimo la cultura novecentesca.

A Janet viene attribuita la prima concettualizzazione del disturbo isterico, così come la prima concettualizzazione del disturbo dissociativo.

Grandi maestri nostrani, come il compianto Giovanni Liotti, gli furono e sono profondamente debitori in termini culturali (in Italia, troviamo al momento Giovanni Craparo e Francesco Ortu, curatori di un volume chiamato Riscoprire Pierre Janet). Proprio su uno degli ultimi libri di Giovanni Liotti (Sviluppi Traumatici), troviamo un breve capitolo dedicato a Janet e alle sue principali idee in senso psicologico e meta-psicologico. Janet, come noi ora oggi (almeno in ambito psicotraumatologico), considerava la mente come, prima di tutto, un’entità “integrativa”, funzionante quando fosse “unitaria”. Tutti abbiamo in mente la famosa annotazione di Freud (su cui Janet si sarebbe trovato d’accordo) a proposito dell’isteria: le pazienti (a quel tempo la maggior parte delle pazienti erano donne, -e su questo consiglio la lettura di un libro fondamentale del trauma, che abbiamo recensito nel podcast di questo mese, “Guarire dal trauma”, in cui non vengono solo approfondite le origini della psicotraumatologia, ma anche le questioni inerenti il genere e la sessualità nell’epoca degli inizi della psicoanalisi e della psicotraumatologia), avrebbero sofferto, prima di diventare isteriche, di “reminiscenze”.

Se seguiamo questa linea di pensiero, possiamo dunque riflettere su come le prime pazienti isteriche fossero state osservate e clinicamente trattate in quanto portatrici di reminiscenze, ricordi vividi dunque, in grandi di alterarne il funzionamento cerebrale, con una serie di sintomi di varia natura che a causa di questi ricordi sarebbero apparsi.

A partire da questa concezione iniziale, i pionieri psichiatri degli inizi presero strade diverse: Freud divenne in questo senso dominante con la sua teoria a proposito della rimozione. Il disturbo isterico, cioè, sarebbe stato generato dal fallimento dell’opera di rimozione in queste giovani donne. La teoria parallela che intanto stava nascendo nella mente di Janet, ovvero che non si dovesse tanto parlare di rimozione, quanto di mancata integrazione dei ricordi fin dal primo momento successivo all’evento traumatico, venne nel tempo oscurata (per apparire in tutta la sua portata in questi ultimi anni). Janet sosteneva infatti che il problema delle reminiscenze non fosse il tentativo fallito di rimuoverle, ma l’impossibile integrazione di queste nel normale flusso di pensiero e ricordi del paziente che ne soffriva. Il che è esattamente sovrapponibile alle concezioni più attuali in ambito psicotraumatologico. Questa difficile integrazione dei ricordi traumatici avrebbe secondo Janet reso possibile la creazione di parti ”separate” nella mente che si sarebbero integrate in modo differente, nuovo, dando origine a parti differenziate nella coscienza, in grado per così dire di vivere di vita propria. Liotti, a proposito di questo, nel suo prima citato Sviluppi Traumatici ci ricorda di come Janet fu un pioniere a proposito degli studi sul disturbo dissociativo dell’identità (quello che tempo fa avremmo chiamato Disturbo dell’identità multipla).

Cerchiamo di fare una sorta di schema temporale, come un diagramma di flusso, che ci aiuti a comprendere il processo con cui, secondo Janet, a seguito di un trauma si sarebbero formate nella personalità delle parti dissociate, patologiche. Andiamo con ordine e procediamo seguendo una sequenza temporale. Usiamo la prima persona singolare per rendere più facile l’immedesimazione:

  1. la mia mente è un’entità unica, integra, funzionale a un lavoro di continua integrazione delle mie esperienze
  2. mi trovo in un momento di prostrazione o fragilità (il terreno “fertile” al trauma di cui parlava Janet)
  3. avviene qualcosa di esterno a me (rottura di un legame di attaccamento, forte shock, forte aggressione, abusO
  4. la mente non può integrare nel normale flusso di pensiero, l’esperienza inaccettabile
  5. si crea uno stato di debolezza delle funzioni integrative della coscienza (chiamato da Janet disaggregation), ed eventualmente uno stato mentale dissociato/separato in grado di custodire i ricordi più pesanti (chiamato da Janet dissociation)
  6. tutta la mia personalità e il mio funzionamento psichico è influenzato e frammentato dal difficile controllo dello stress post traumatico: viene meno il senso padronanza (o di mastery, qui approfondito).
  7. corpo, memoria e coscienza sono toccati dallo stress post traumatico: comincia il declino post-traumatico, una sorta di depressione (di natura però post-traumatica e non melanconica)

Se torniamo per un attimo dunque alla concettualizzazione dell’isteria da parte di Freud e Janet, osserviamo come il punto centrale e in comune tra i due autori, sia la presenza di reminiscenze (quelle che oggi chiamiamo ricordi traumatici): esistevano in questi soggetti dei ricordi e delle esperienze che non riuscivano ad essere integrate nel normale flusso di pensiero, e che per questo creavano uno stato di indebolimento, disaggregazione psichica di chi avesse subito il trauma.

Al di là della concettualizzazione dell’isteria promossa da Janet, una visione di questo tipo ci consente di vedere l’essere umano in modo differente, più naturale: ovvero, chiunque, in presenza di un evento “soverchiante”, può reagire in questo modo.

Un ultimo riferimento va fatto alla concezione janetiana di “gerarchia mentale”. Janet infatti considera la mente come una struttura gerarchica, entro il quale sussistono dei rapporti di forza. Durante uno stress post traumatico, la mente viene dominata da spinte provenienti da zone profonde del cervello, in grado di provocare la disaggregazione delle funzioni di sintesi ad opera delle aree del cervello più recenti. Pensiamo al riflesso del vomito, alla sua portata dirompente sulla tenuta delle normale facoltà corporee; immaginiamo una forza simile, maggiormente diluita nel tempo, in grado di operare però a livello mentale, forzando in questo caso il “bypass” delle funzioni mentali superiori, più evolute. La sensazione sarà dunque quella di “non avere più il controllo” su ciò che “produrrà” la parte più autonoma, antica, della mente.

A Janet dobbiamo inoltre le basi teoriche per altri concetti:

  • approccio trifasico
  • importanza del lavoro di stabilizzazione dei sintomi (spiegata molto bene tra l’altro da Maria Puliatti in questo breve video)
  • il concetto di Tendenza all’azione, centrale nella psicoterapia sensomotoria, approfondita nell’articolo seguente

Cosa fare per approfondire Pierre Janet? In Italia, come prima si diceva, alcuni autori stanno tentando di portarlo all’attenzione della comunità scientifica, consapevoli di come la sua eredità teorica sia stata troppo spesso oscurata dalle teorie psicodinamiche egemoni durante tutto il ‘900.

Tra di essi, Giuseppe Craparo (Sicilia) e Francesca Ortu, curatori di questo volume che abbiamo recensito.

Janet compare tra l’altro, spesso, tra gli autori d’interesse della comunità psicoanalitica (si veda questo video a cura di Nicolò Terminio, lacanista). Si possono, in alternativa, leggere i testi originali di Janet, di recente ri-editi.


COS’É LA TENDENZA ALL’AZIONE: IL PORTATO TEORICO DI PAT OGDEN

Definire il concetto di Tendenza all’azione non è semplicissimo, perchè lo stesso affonda le sue radici teoriche in ambiti diversi, prendendo dalla biologia evoluzionistica, dall’etologia, dalla psicologia evoluzionistica. Come libro di riferimento e autori di riferimento per comprendere questo concetto, useremo il libro di Pat Ogden et al. “Il trauma e il corpo”, le teorie di Peter Levine (maestro di Pat Ogden) e la teoria di Pierre Janet.

Per comprendere il concetto di Tendenza all’azione dobbiamo fare un passo indietro e comprendere il concetto di sistema d’azione.

Un sistema d’azione (altri chiamerebbero la stessa cosa Sistema motivazionale interpersonale) è un insieme di azioni, naturale, che in alcune circostanze ci spinge a mettere in moto delle reazioni stereotipiche, giustificate in senso evoluzionistico, nei confronti dell’ambiente che ci circonda.

Molteplici studiosi e ricercatori hanno lavorato a questa formulazione concettuale, arrivando a stilare un elenco di 8 sistemi d’azione:

  1. difesa
    ——————————
  2. attaccamento
  3. esplorazione
  4. regolazione dell’energia
  5. accudimento
  6. socialità
  7. gioco
  8. sessualità

A ognuno di questi sistemi d’azione, corrisponde un insieme di azioni che l’essere umano è chiamato a mettere in atto in alcune particolari circostanze. Esistono al nostro interno dei mandati evolutivi che ci spingono a mettere in atto, in alcuni frangenti sociali, comportamenti di questo tipo. Ognuno di noi, cioè, è spinto, in alcune circostanze, a produrre reazioni di accudimento da fornire a un cucciolo indifeso, a produrre reazioni di difesa quando in uno stato di minaccia, a produrre reazioni sessuali in altre circostanze, e così via.

Quello che qui dobbiamo tenere a mente è, tra tutti questi sistemi, l’importanza del sistema di difesa, in grado di corrompere il normale funzionamento degli altri sistemi di difesa, per così dire creando un muro tra sè e gli altri sistemi, entro una logica gerarchica di funzionamento.

Quest’ultimo punto lo chiarisce molto bene Pat Ogden nel libro sopra citato, ragionando su come l’attivazione del sistema di difesa riesca a spegnere gli altri sistemi d’azione, in una logica gerarchica. É per questo motivo che, nella cornice concettuale della psicoterapia sensomotoria, ragioniamo sul tentare di ripristinare i sistemi d’azione che con il trauma sono andati “persi”. Il trauma, in questo modo di vedere la cosa, sarebbe in grado cioè di creare una attivazione anomala del sistema di difesa, spegnendo di conseguenza, o debilitando in modo temporaneo, gli altri sistemi di azione. Il nostro obiettivo teorico dunque, in questi casi, sarebbe quello di liberare, ripristinandoli, i sistemi di azione rimasti bloccati dall’attivarsi protratto e anomalo del sistema di difesa, cosa molto frequente nello stress post traumatico.

Ogden, rifacendosi alla teoria di Pierre Janet su quelle che appunto chiamava Tendenze all’azione, riflette inoltre su come lo stesso processo di apprendimento di un individuo, si basi sulla creazione di tendenze all’azione molteplici, di complessità sempre crescente. Un po’ come accade per i bambini, i nostri processi di esplorazione ci portano a creare nuove modalità di relazionarci all’ambiente, con la conseguente creazione di nuove e più complesse tendenze all’azione (pensiamo per esempio a quanto il nostro pensiero riflessivo, meta-cognitivo, ci permetta di cambiare modalità e atteggiamento nei confronti della realtà).

Ogden, con Janet, riflette su come le tendenze all’azione possano essere collocate, in termini di complessità, su un continuum così composto:

primitive, riflessive ed elementari<————>complesse/sofisticate

Un punto importante messo in luce dall’autrice, è la possibilità che, in caso di difficoltà, l’individuo si blocchi a modalità più regressive di funzionamento, arrivando a ripetere in modo quasi compulsivo i livelli più bassi di tendenze all’azione appresi nel periodo di vita precedente. Vediamo anche qui come si imponga un modello gerarchico del funzionamento anche delle tendenze all’azione. Le “metafora” della gerarchia è, come osserviamo, ricorrente sia in psicologia clinica che in psichiatria. Janet, e con lui Ogden, ipotizza cioè che l’intero nostro sistema psicologico sia mosso da logiche di gerarchia, con livelli maggiormente complessi di azione e facoltà, con possibili “regressioni”, possibili “evoluzioni”, possibili oscillazioni avanti e indietro, e così via.

Un punto da sottolineare importante nella teoria di Pat Ogden contenuto nel suo libro “Il trauma e il corpo”, è l’andamento bifasico, o oscillatorio, dello stress post traumatico. Osserviamo cioè un alternarsi tra le reazioni di accensione post traumatica (il sistema di difesa si attiva, bloccando gli altri sistemi d’azione), e un ritorno a una modalità più normale in cui l’individuo vive un momento di tregua in cui sia possibili continuare a fare le cose per lui/lei normali.

Molteplici autori hanno osservato come lo stress post traumatico abbia queste oscillazioni.

Come lo possiamo spiegare?

Se, come prima accennato, il sistema di difesa è in grado di spegnere gli altri sistemi d’azione, osserveremo nell’individuo momenti in cui, attivato il sistema di difesa (che ricordiamolo, equivale a dire che il sistema nervoso autonomo simpatico dell’individuo è acceso e pronto a reazioni di attacco/fuga), tutte le altre competenze e sistemi di azione sembreranno essere scomparsi dal suo normale comportamento. Niente esplorazione, cooperazione, sessualità, gioco, quindi. A questi momenti difficili, si alterneranno però momenti in cui questi ultimi torneranno a funzionare normalmente, essendosi abbassata l’intensità delle reazioni di difesa. Questa oscillazione, e queste alternanza, ha gettato le basi per la creazione della teoria della dissociazione strutturale della personalità, qui descritta. Ricordiamoci inoltre che i sistemi d’azione, pur essendo innati e predisposti evoluzionisticamente, sembrano essere sensibili al condizionamento classico. Questo ci permetterà di intervenire, in terapia, al fine di aiutare l’individuo a orientarsi verso una migliore integrazione e un miglior funzionamento globale dei sistemi (in particolar modo quello di difesa, da mitigare, cosicché non faccia più da ostacolo agli altri).

Quale definizione dare, dunque, di Tendenza all’azione?

La tendenza all’azione potrebbe essere definita come un insieme di azioni stereotipiche, guidate da mandati evolutivi ben definiti, che l’individuo metterà in atto in certe situazioni contestuali. Nel corso di un trauma, le normali tendenze all’azione di difesa che l’individuo dovrebbe mettere in atto, sono spesso bloccate nella loro naturale espressione: questo farà sì che qualcosa, “dentro il corpo”, resti imprigionato, o inespresso.

Come ben approfondito in questo articolo, dovremo in psicoterapia promuovere una loro riaccensione e una loro espressione nel contesto del corpo e dell’ambiente di vita dell’individuo.


RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS

Fonte: 1

Questo articolo è scritto da tre pesi massimi della psicotraumatologia mondiale: Onno Van der Hart, olandese, Kathy Steele, americana, e Nijenhuis, svizzero.

Vuole essere una riflessione sul lavoro da fare con le memorie traumatiche per pazienti traumatizzati gravi, portatori di sintomi dissociativi di tipo “complesso”.

Avere a che fare con pazienti con sintomi dissociativi gravi, significa avere a che fare con pazienti portatori di quello che viene chiamato PTSD complex, non risalente cioè a un trauma singolo, unico, ma a una serie protratta di traumi cumulativi, oppure a uno sviluppo traumatico fin dall’infanzia, per esempio crescendo a contatto con persone abusanti o verso le quali non fu possibile creare legami normali (attaccamenti “sicuri” per dirla con Bowlby).

Pensiamo per esempio ai sopravvissuti a torture, o a periodi di prigionia, oppure a vittime di violenza domestica protratta.

Come sappiamo, Van Der Hart ha formalizzato nel suo lavoro di ricerca la teoria della dissociazione strutturale della personalità.

L’articolo si apre appunto con una breve descrizione della suddivisione in “sottosistemi” biologicamente coerenti costituitisi a seguito dell’esperienza traumatica: una parte rimasta congelata in senso emotiva al tempo del trauma (PARTE EMOTIVA, EP), e una parte chiamata APPARENTEMENTE NORMALE che in senso adattativo fu per così dire obbligata a continuare nel suo percorso di vita, consentendo all’individuo di portare avanti obiettivi di vita o semplice quotidianità.

A proposito di questo viene naturale, come in psicotraumatologia è spesso ripetuto, pensare a un obiettivo finale inerente l’INTEGRAZIONE. L’integrazione, cioè, si costituisce come momento finale di un lavoro con questo tipo di pazienti, suddivisi, al loro interno, in modalità, “parti” distinte, che dovranno convergere e in qualche modo fondersi.

Questo articolo si concentra su quella che è la fase 2, ovvero il lavoro con le memorie traumatiche. Come si fa, in senso concreto, a lavorare con il materiale traumatico depositato nella memoria (implicita o esplicita che sia), del paziente?

Gli autori riportano alcuni punti di interesse:

  1. Janet distinse due tipologie di “azioni integrative”: la SINTESI e gli ATTI DI REALIZZAZIONE. Per sintesi, Janet intendeva l’atto di creare anelli tra pensieri, azioni, emozioni, corpo e mente, la mia vita con l’ambiente intorno a me, etc. Per esempio, un “anello” di congiunzione (dunque un atto di sintesi), potrebbe essere il dirsi “questo pensiero mi compare quando sono molto arrabbiato”, operando cioè una valutazione metacognitiva che consentirà di associare a uno stato emotivo l’emergere di un pensiero. Il creare atti di sintesi, “formando anelli”, costituisce la base per un lavoro più complesso e ampio, che Janet chiamava appunto realizzazione.
  2. La realizzazione, comprende due momenti: la PERSONIFICAZIONE (l’atto di sentire che le mie azioni, i miei pensieri mi appartengono, sono miei), e la PRESENTIFICAZIONE (l’atto invece di arrestarsi sul presente, in senso temporale). Sono questi, in linea di principio, “strumenti” atti a contrastare la tendenza a dissociare dei pazienti con trauma grave, così da condurlo/a idealmente a quello che gli autori chiamano una posizione di “prima persona singolare” (non dunque una molteplicità di parti vissute in terza persona, come differenti da sè, ma un singolo “IO” che coordina tutte le diverse sotto-parti oppure, meglio ancora, una singola parte sfaccettata e fluida in ogni sua manifestazione)
  3. il livello più semplice di dissociazione strutturale della personalità, è quello che comprende “solamente” EP e ANP: si crea, in questo caso, una spaccatura verticale nella personalità dell’individuo, con una parte in grado di adattarsi al contesto, l’altra mossa da logiche di difesa, incentrata su comportamenti difensivi in grado di “oscurare”, “eclissare” gli altri sistemi di difesa (si veda il precedente articolo sulle tendenze all’azione).
  4. Quando richiesto, è possibile che la PARTE EMOTIVA si suddiviaa al suo interno, creando quella che viene chiamata dissociazione secondaria della personalità (pensiamo per esempio alla doppia reazione difensiva che caratterizza il PTSD, con o senza sintomi dissociativi). Avremo quindi una singola parte apparentemente normale, e due o più parti emotive “attive” in parallelo. Gli autori chiariscono che questa forma clinica, sembra essere la più comune con pazienti portatori di un PTSD complesso. Inoltre, potremo osservare come una delle EP createsi in seguito alla dissociazione secondaria, potrà essersi identificata all’aggressore, assumendo forme “sadico/abusanti”.
  5. un aspetto da considerare, è il livello di fobia presente verso la parte EP: più il soggetto dimostra di avere paura della sua parte “emotiva” rimasta congelata al trauma, più è ampia la dissociazione strutturale, e più “lontane” le parti, e quindi più grave la sintomatologia post-traumatica
  6. gli autori passano dunque a discutere a proposito dell’importanza della fase 1, della stabilizzazione, prima di iniziare con il lavoro diretto sulle memorie traumatiche. É importante ricordare che la fase 1 è propedeutica alla fase 2: è in ogni caso sempre possibile tornare alla fase 1 quando ci si accorgesse di un tempo” prematuro” per il lavoro diretto con i ricordi traumatici. Questo è un punto importante: va cioè resa possibile una sorta di oscillazione tra le due fasi, con fasi di evoluzione e possibili fasi di regressione. Ricordiamo i principali strumenti per la fase 1 (stabilizzazione dei sintomi): psicoeducazione, emdr, tecnica del posto al sicuro, psicoeducazione relativamente all’importanza dell’attività fisica, mindfulness guidata, management dei livelli energetici (qualità del sonno, riposo, alimentazione corretta). Tutto questo per far sì che il tono neurofisiologico si mantenga entro la finestra di tolleranza (concetto qui approfondito), per rendere possibile la fase 2 secondo il modello trifasico prima accennato.
  7. Van Der Hart è nell’articolo citato a proposito di uno degli obiettivi principali della fase 2: rendere cioè “non necessaria la dissociazione”. Quando cioè riusciremo a far sì che il paziente accolga e “maneggi” in modo tranquillo il materiale traumatico, senza per questo doversi dissociare, avremo reso non necessaria la dissociazione stessa e fatto grossi passi avanti nel lavoro clinico con questo paziente. Questo consentirà al paziente di passare da una ri-attualizzazione sensomotoria del vissuto traumatico, “incarnata”, “rivissuta”, a una verbalizzazione “solo a parole”, non più incarnata, finalmente simbolizzata e digerita per via linguistica. Gli autori sottolineano come un passaggio di questo tipo lo troveremo grazie a eventi in terapia “nuovi”, clamorosamente “innovativi” per il funzionamento del paziente. Esistono alcune controindicazioni per la fase 2: in particolare, è necessario fare attenzione al fatto che i criteri relativi alla stabilizzazione siano soddisfatti: in caso contrario non ha senso procedere all’esplorazione delle memorie traumatiche. Inoltre, altri fattori di controindicazione sono: età avanzata, psicosi, disturbo di personalità con abuso di sostanze in atto, oscillazioni troppo estreme tra parte emozionale e parte apparentemente normale, abusi interpersonali in atto.

A seguito di queste premesse, gli autori arrivano infine al vivo della fase 2.

Vediamo cosa propongono.

Gli autori propongono una metodologia chiamata “sintesi guidata”, finalizzata a superare la “fobia delle memorie traumatiche”.

Aspetti preparatori:

  1. fare in modo che il paziente possa essere accompagnato a casa dopo la seduta
  2. fornire maggiore tempo per il recupero del senso di grounding: prevedere dunque colloqui di 1,5 o 2 ore di durata.
  3. chiedere al paziente che ritagli del tempo dedicato a questo tipo di lavoro, dalle sue restanti occupazioni (per esempio chiedendogli di prendere mezza giornata di ferie dal lavoro, cosicchè sia mentalmente libero di dedicarsi all’esplorazione delle memorie traumatiche)

Momenti del lavoro: condividere i “kernel patogeni”:

  1. isolare e riconoscere i pensieri “copertura” con cui il paziente si è narrato, nel tempo, il vissuto traumatico
  2. avviare il paziente alla narrazione dei momenti pre e dopo-trauma, così come i momenti di “inizio e fine” del momento traumatico
  3. avviare il paziente alla narrazione di quelli che vengono chiamati “kernel patogeni”, ovvero i nuclei duri del momento della traumatizzazione, partendo eventualmente anche dall’esercizio del “peggior scenario”, ovvero direttamente dall’immagine più pesante anche solo da “immaginare” da parte del paziente
  4. avviare il lavoro sulle parti, usando immagini di “contatto” tra le parti, e chiedendo al paziente di descrivere la scena, oppure usando la tecnica della tavola dissociativa (immaginando cioè che il paziente sia seduto a capotavola con le sue parti sedute intorno al tavolo, e che dialoghi con ognuna di esse)
  5. queste immagini di condivisione saranno il giusto contesto per far sì che il paziente condivida con il terapeuta le immagini centrali, i “kernel patogeni”, i momenti cioè più pesanti da sopportare e riesprimere (qui potrebbe essere valutabile l’utilizzo dell’EMDR come strumento per inframezzare il lavoro, creando delle pause); il tutto in modo “graduale”
  6. aiutare il paziente alla “realizzazione” di quello che è successo, affrontando eventualmente il lutto di ciò che non fu e di ciò che avrebbe potuto essere. Ricordiamo che il lavoro in fase 2 comprende idealmente due momenti: la sintesi e, appunto, la realizzazione

Gli autori fanno poi alcuni cenni alla fase 3 e presentano un caso clinico (durato 5 anni, conclusosi con una completa “realizzazione”), concludendo l’articolo con un invito alla gradualità nel lavoro, all’attenzione verso i “limiti” del paziente in termini di attivazione neurofisiologica, e un ritorno ai prima citati concetti guida del lavoro: sintesi e realizzazione.

CONCLUSIONI

Come si osserva in questo articolo, lavorare sui ricordi traumatici significa tenere a mente 3 concetti chiave “da portare a casa”:

  1. stabilizzare/regolare
  2. narrare
  3. integrare

..il che equivale a dire che un’esperienza traumatizzante, per essere superata e “consegnata al passato”, dovrà essere tollerata e meglio regolata nei suoi sintomi psichici e corporei, narrata e infine integrata nel normale flusso di ricordi.

Esistono dei manuali che, della fase 2, fanno il loro core teorico.

In particolare, da pochi anni è stato pubblicato un volume molto completo, che consigliamo a chi volesse approfondire gli aspetti squisitamente “pratici” del lavoro sulle memorie traumatiche, quando avesse a che fare con pazienti post traumatizzati. Il volume è questo.

GLI ALTRI REWARD:

  1. PODCAST: la prima parte di un recensione in punti del volume “Guarire dal trauma” di Judith Herman. ASCOLTALO QUI.
  2. VIDEO: un approfondimento sul concetto di dissociazione. Qui:

Article by admin / Editoriali, Generale / psicoterapia, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

10 maggio 2020

IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO

di redazione


Cos’è il portale Patreon?

Patreon è un portale per divulgatori, professionisti freelance, scrittori, etc. che consente di iscriversi tramite un pagamento mensile, in cambio dell’invio di reward esclusivi.

Il Foglio Psichiatrico ha deciso di iscriversi a questa piattaforma per proporre un progetto di divulgazione in materia PSICOTRAUMATOLOGIA. Vorremmo contribuire a diffondere il tema teoria del trauma, clinica del trauma, attraverso un lavoro dedicato –oltre a quello che già portiamo avanti qui e su questa rubrica su Psychiatry on Line.

A chi deciderà di iscriversi, invieremo il 30 di ogni mese una serie di reward dedicati, che troverete su questa pagina (articoli riassunti, un podcast e video in tema psicotraumatologia, etc.).

In questo modo, creeremo una relazione win win: a chi vorrà iscriversi verrà fornito un servizio dedicato (tendenzialmente di qualità, relativo al tema trauma ed effetti del trauma psicologico, le avanguardie in ambito clinico); allo stesso tempo, chi deciderà di partecipare ci aiuterà a sviluppare e sostenere il blog.

Grazie per chi ci supporterà!

🙂

Ps: ecco come appare la pagina (clicca sopra per accedere):

la pagina Patreon del blog

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2 maggio 2020

RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI


di Raffaele Avico

Psychiatry On Line compie, questo maggio, 25 anni: al suo interno conta più di 8400 pezzi scritti e più di 1800 video a tema psichiatria, psicoterapia, psicologia clinica e neuroscienze. La maggior parte degli accessi al sito di Psychiatry On Line, avviene via Google, tramite parole chiave a tema salute mentale, psicoterapia o psichiatria in generale. L’homepage del sito (che quest’anno verrà rinnovata, insieme al sito stesso), tuttavia, pubblica ogni giorno articoli inediti a opera di tanti operatori della salute mentale da tutta Italia, impegnati con la redazione in un “lavoro culturale” senza scopo di lucro a tema “psy” a partire dal 1995.

L’archivio video rappresenta, è bene ricordarlo, una risorsa per portata e quantità di contenuti senza eguali al mondo. Non esiste nessun altro contenitore che accorpi così tanto materiale in ambito di psichiatria e psicologia: l’archivio video spazia da interventi ripresi nel corso di conferenze, a interviste mirate, a rubriche individuali di grande interesse culturale a tema salute mentale. Vi si trovano interviste e speech ai più autorevoli rappresentanti del movimento psichiatrico e della psicologia clinica degli ultimi 20 anni, oltre che a ospiti di eccezione come Otto Kernberg, Antonio Damasio, Liliana Cavani.

Alcuni filoni o rubriche da riscoprire, sono:

  • il lavoro di approfondimento dell’opera di Jacques Lacan nelle parole di Antonio Di Ciaccia, uno dei più importanti lacanisti in Italia (tra l’altro al momento impegnato nella realizzazione di una serie proprio su Lacan )
  • le interviste a Eugenio Borgna
  • gli interventi di Vittorio Gallese (neuroni specchio)
  • un’intervista in tre parti a Giovanni Abbate Daga (disturbi alimentari)
  • gli approfondimenti di Jacco Seikkula sull’Open Dialogue
  • l’enorme playlist di video per l’evento genovese organizzato per il quarantesimo anno dalla legge Basaglia (180×40)
  • lo speciale Otto Kernberg
  • l’intervista a Benedetto Farina su “Sviluppi Traumatici” (trauma)
  • il vocabolario psicoanalitico di Franco de Masi (più di 120 video su parole/concetti chiave del corpus teorico psicoanalitico)
  • molteplici riprese di interi convegni SIP e SOPSI

Qui l’archivio delle Playlist create.

Ma Psychiatry on line è ancora, ovviamente, un archivio di più 8000 di testi raccolti in più di 25 anni. Per esempio (scelti da Francesco Bollorino):

  1. LETTERA A UN GIOVANE SPECIALIZZANDO IN PSICHIATRIA di Gilberto Dipetta
  2. VENGO A PRENDERTI IN DIREZIONE DEL SOLE di Maria Ferretti
  3. Una favola psichiatrica di Antonio Alberto Semi
  4. L‘AFFAIRE MILLER VERSUS RECALCATI. Intervista a Sarantis Thanopulos di Francesco Bollorino

Questa sera stessa (sabato 2 maggio 2020), inoltre, alle 20:30 verrà svolto un seminario online sul Canale Youtube della Rivista, su tema “salute mentale e coronavirus”. Qui la presentazione:

NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

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31 marzo 2020

10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?


di Raffaele Avico

Questo editoriale pubblicato sull’European Journal of Psychotraumatology per i 10 anni dalla sua fondazione come rivista, vuole rispondere alle domande, molto semplici:

  1. dove eravamo nel 2010?
  2. cosa abbiamo fatto in questi 10 anni?
  3. quali sono i vuoti di conoscenza, ancora, da riempire?

L’articolo parte con una serie di valutazioni a riguardo degli aspetti genetici inerenti il PTSD, osservando come l’avvento dei big data potrà in futuro contribuire a meglio chiarire la questione.  A proposito di questo, recenti meta-analisi, molto ampie, paragonano il PTSD ad altri disturbi chiedendosi se la patogenesi del PTSD debba considerarsi solamente di natura sociale (con un PTSD generato solo da cattive esperienza collegate all’ambiente), o se esistano dei fattori predisponenti a livello genetico (nella fattispecie, questa seconda ipotesi viene maggiormente considerata plausibile). A livello sia di prevalenza tra persone colpite da trauma che di ereditarietà genetica, il PTSD viene nella metanalisi pubblicata su Nature prima citata paragonato alla depressione maggiore (“PTSD is similar to major depression in both prevalence (among trauma-exposed persons) and in heritability”).

L’articolo prosegue ragionando su ciò che è stato scoperto, negli ultimi 10 anni, a livello di neurobiologia del PTSD.

Una delle ipotesi dominanti e centrale, sembra essere relativa a un’alterazione delle strutture profonde del cervello “difensivo” (amigdala), associata a una scarsa o difettosa modulazione della stessa da parte del “freno” della corteccia prefrontale (gli studi di Ruth Lanius hanno approfondito a fondo questi aspetti). Questa ipotesi è però basata sul modello che vede il PTSD come un disturbo di alterazione dei processi legati alla paura, mentre numerosi studi negli ultimi dieci anni hanno messo in luce come sia necessario andare oltre questo modello. L’ipotesi proposta dagli autori riguarda una generale disregolazione di tutta l’espressione emotiva, declinata nelle diverse emozioni (quindi non solo la paura, ma anche rabbia, colpa e vergogna), a seguito dell’esperienza traumatica. Inoltre, l’articolo esprime l’urgenza” di annettere alla ricerca in ambito neurobiologico riguardante il trauma, le regioni sottocorticali e troncoencefaliche, come molteplici autori sottolineano.

Gli autori dell’editoriale, sintetizzano quindi alcuni aspetti desunti da 10 anni di articoli sul trauma pubblicati sulla loro rivista (che, ricordiamo, è totalmente open access):

  • la frequenza di aspetti traumatici, e in generale la presenza di trauma, sembra essere largamente sottovalutata, con una frequenza di PTSD -vissuto almeno una volta nella vita- tra la popolazione generale molto più alta di quanto si pensi (circa il 70%)
  • le conseguenza di un trauma vissuto in infanzia permangono anche nella vita adulta, su differenti piani. Questo è certo. La ricerca ha ancora molto da studiare però a riguardo delle traiettorie in termini di possibili conseguenze su altre aree esperienziali, e in senso intergenerazionale:

“What we do not know is how the neurobiological (Lanius & Olff, 2017), psychological (Baekkelund, Frewen, Lanius, Ottesen Berg, & Arnevik, 2018; Schafer, Becker, King, Horsch, & Michael, 2019), affective (Strøm, Aakvaag, Birkeland, Felix, & Thoresen, 2018), and relational (Heeke, Kampisiou, Niemeyer, & Knaevelsrud, 2019; van Dijke, Hopman, & Ford, 2018) alterations associated with different forms, durations, and structures (Armour, Fried, & Olff, 2017; Murphy, Elklit, Dokkedahl, & Shevlin, 2018) of psychotrauma exposure (and re-exposure) emerge and take different courses or trajectories across the lifespan – and across generations (Burnette & Cannon, 2014; Crombach & Bambonye, 2015; Schick, Morina, Klaghofer, Schnyder, & Muller, 2013).”

  • l’emergere di un PTSD di massa, o l’avvento di un trauma di massa possono al giorno d’oggi giovarsi -per così dire- di strumenti tecnologici, con potenziali  benefici (ma anche danni) per la popolazione. Tra tutti, i Social media, potenzialmente in grado di fotografare l’impatto di un evento, o di propagarne, paradossalmente, la portata traumatica.
  • esiste negli ultimi anni una maggiore attenzione alla psicotraumatologia dell’emigrazione, con aspetti peculiari e forme di intervento mirate (citata la Tf-CBT, ovvero la psicoterapia cognitivo-comportamentale trauma-focused, incentrata sul modello trifasico qui descritto e la narrative exposure therapy (NET; Lely, Smid, Jongedijk, Knipscheer, & Kleber, 2019)
  • si delinea sempre più la distinzione tra PTSD, PTSD complex e PTSD con sintomi dissociativi, anche grazie agli aggiornamenti relativi ai criteri diagnostici introdotti dal DSM-5 e dal ICD-11.
  • per quanto riguarda la psicoterapia, lo strumento da mettere i n campo, in prima linea, è la psicoterapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, insieme all’EMDR. Questo lo sostiene la psicotraumatologia mondiale: “On the basis of comprehensive meta-analyses, recent national and international clinical guidelines have recommended several trauma-focused cognitive behavioural treatment programmes and EMDR as first-line treatments for PTSD”.
  • In senso psicofarmacologico, viene osservato come il razionale “prossimo futuro” di intervento, sia l’utilizzo di farmaci in maniera breve e mirata al fine di facilitare i processi di elaborazione della memoria durante le sessioni di psicoterapia. Questo passaggio risulta importante se consideriamo come nel 2010 (gli autori riportano) l’intervento farmacologico sembrasse ridursi alla combinazione SSRI/SNRI, ora non più proposta per il PTSD. Gli autori osservano come vi sia allo stato attuale un tentativo di integrare in modo più intelligente il farmaco al lavoro di psicoterapia, quest’ultimo da considerarsi come IL lavoro da effettuare, in prima battuta, dovunque vi sia uno stress post-traumatico. È probabile che il futuro della terapia con il PTSD preveda sempre di più un lavoro di psicoterapia trauma-focused, con il supporto del farmaco come “facilitatore” della psicoterapia stessa (si pensi alla psicoterapia supportata dall’uso di MDMA)
  • a riguardo delle nuove tecnologie, vengono citate nuove forme di intervento sensomotorio combinato a uso di dispositivi di realtà virtuale/immersiva (come il progetto 3MRD), così come il tentativo di creare “fenotipi” usando strumenti digitali (per fare assessment, si potrebbe idealmente valutare un uso “differente” di un telefono da parte di un soggetto colpito o meno da PTSD)
  • per quanto riguarda i modelli conoscitivi usati per meglio inquadrare il fenomeno stress post-traumatico, gli autori citano il network model di Borsboom, anche in relazione al PTSD. Viene sottolineato come un modello incentrato sulla causalità circolare, potrebbe aiutare a meglio comprendere (pur con limitazioni) la fenomenologia del disturbo, e le diverse ripercussioni dello stress post-traumatico sulla vita di un individuo (pensiamo per esempio alle conseguenze sul sonno del PTSD, in grado di peggiorare ricorsivamente il PTSD stesso, insieme causando ricadute depressive, e così via). Viene citato il machine learning per compiere indagini epidemiologiche in grado di fornire una sorta di identikit ideale del paziente potenzialmente vittima di PTSD e per identificare i predittori di una buona risposta ai trattamenti

Gli autori concludono raccomandando progetti di respiro globale (https://www.global-psychotrauma.net/about), auspicando migliori analisi epidemiologiche che si giovino di nuove tecnologie incentrate anche sui big data e portate avanti da gruppi di ricerca multidisciplinari. Vengono inoltre auspicate pubblicazioni “open access” in modo da poter garantire ampia diffusione dei risultati delle ricerche ed avere quindi maggiore influenza su i policymakers.

Article by admin / Editoriali, Generale / neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

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  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF)
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VERSO LA FASE 3 DELLA SPERIMENTAZIONE
  • SONNO, STRESS E TRAUMA
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.”
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI
  • IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI!
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • NO CASI, NO SUPERVISIONE: GRUPPI A TORINO
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL DEFAULT MODE NETWORK
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • CORRERE PER VIVERE: I BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULLA DEPRESSIONE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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