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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

10 dicembre 2020

CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO

di Raffaele Avico

Il libro CRONOFAGIA di Davide Mazzocco è una lettura molto corta, ma molto istruttiva e densa di contenuti. L’approccio ideologico è chiaro: marxista e anti-capitalista, ma non per forza estremizzato o radicale. La tesi da cui parte l’autore è che il neoliberismo di cui la nostra società è impregnata, abbia raggiunto quote di pervicacia e presenza nelle nostre vite tali, da arrivare a erodere anche gli ultimi avamposti di spazio che, fino a poco tempo fa, sembravano esserci rimasti: il tempo libero e il sonno.

Sul problema del tempo libero speso a pubblicare contenuti sui social, di fatto lavorando per le piattaforme -nell’idea però di stare lavorando per sè e il proprio “progetto imprenditoriale”-, oppure sul problema del tempo impiegato a rispondere a mail e chiamate di lavoro anche al di fuori dei confini temporali lavorativi canonici, ne hanno scritto in diversi (tra cui Silvio Lorusso in Entreprecariat).

In Cronofagia, l’autore lo esprime in modo molto chiaro: il “produrre”, e in generale il consumare non possono fermarsi se vogliamo che la macchina (il “Leviatano che si nutre di dati”) continui a reggere sul suo peso. Le leggi non scritte del libero mercato, i suoi diktat, dal suo punto di vista sarebbero introiettati ora come mai furono in passato. Perchè introiettati? L’autore osserva come l’idea -meglio, l’imperativo- di produrre e mantenersi proattivi in senso auto-imprenditoriale, abbia così tanto scavato a fondo nel nostro terreno culturale, da essere stato introiettato, avendo in qualche modo intaccato il nostro Super io.

Il risultato è, nella sua visione, un senso latente di colpa per qualunque forma di spreco di tempo: nei tempi morti, appunto, saremmo forzati a “produrre contenuti”, a osservare contenuti prodotti da altri sulle piattaforme social (vero scempio di cronofagia, secondo Mazzocco), sentendoci in questo modo “attivi” in senso (auto)imprenditoriale -a scapito tuttavia di immaginazione, rapporti reali, creatività e -in generale- libere associazioni e pensiero.

Questa lettura del comportamento umano e del suo rapporto con il sistema economico in cui è immerso, è una lettura che potremmo definire, in qualche modo, paranoidea. Presuppone cioè che esista un’entità, una macchina, un “sistema” pensato per rubarci tempo ed attenzione. Sposare una visione di questo tipo significa immaginare l’uomo come facile preda di impulsi basici, condizionabile e soggetto a manipolazioni mediatiche in grado di creare dipendenza; i detrattori di una visione di questo tipo, oppongono in ultima istanza la presenza di un libero arbitrio che ci renderebbe sempre liberi di scegliere. Che posizione prendere? The Social Dilemma ha messo in luce questa doppia lettura del fenomeno, arrivando a conclusioni radicali, evidenziando il rischio di un furto non solo di dati, ma di quote di attenzione e, anche qui, di tempo. Lo abbiamo qui recensito.

L’autore chiude il suo breve libro immaginando forme diverse, nuove e più sostenibili, di vita (dall’economia circolare, al riuso, al DIY, alle banche del tempo, al tema della semplicità volontaria -su questo, si veda il progetto Smettere di lavorare).

Cosa trarre, in senso psicologico, da questa lettura? Osserviamo alcune questioni:

  1. la psicoterapia sempre più dovrà occuparsi, anche, di questi temi. Stando alle premesse prima delineate, occorrerà una visione di insieme che contempli la quotidiana lotta del cittadino contro la tendenza della macchina a erodere il suo tempo libero mentale. La moda della mindfulness ci racconta del bisogno di emanciparsi dal sistema da parte di individui “stanchi”, prostrati da questa battaglia. Uno psicoterapueta dovrà quindi spingere affinchè il suo paziente si legittimi a “non fare”: la battaglia si giocherà su un terreno etico, super-egoico, completamente interiore
  2. pur non costituendosi in forme psicopatologiche conclamate, l’esaurimento derivante da uno stile di vita da prosumer (cioè da produttore e consumatore insieme di contenuti in rete, lavoratore non pagato), si affaccerà sempre più di frequente allo studio di un terapeuta: il problema sarà capire come tornare a momenti di “ristoro”, di riposo energizzante; il tema sarà dunque lo “stile di vita”, in generale; completamente inutile, in questa battaglia, il ricorso a farmaci
  3. il problema dell’igiene del sonno è già centrale: potrebbe diventarlo sempre di più; l’uso di schermi, forme di stress negativo indotte da un giornalismo sensazionalistico a scopo di lucro, l’attrazione invincibile per le piattaforme, l’assenza di contatto con la natura, potrebbero ostacolare ulteriormente il riposo notturno
  4. parlare di salute solamente individuale, sarà una coperta sempre più corta: si impongono ragionamenti più ampi, che riguardino la salute collettiva
  5. centrale diventerà il discorso del management energetico. Il ricorso a metodiche di rilassamento che potremmo definire bottom up, come la mindfuness, lo Yoga, l’attività fisica usate come fonte di ristoro energetico, devono essere considerate come parte del problema: nient’altro che tamponi posti ad arginare un’emorragia incontenibile. Il vero problema, la sua radice, rimane l’iperattività, la saturazione dello spazio, la cronofagia, l’adesione “interiore” ai diktat del sistema capitalistico. Il pretendere meno -invece che produrre di più- potrà condurre a forme di vita svincolata da logiche di produzione obbligata, con più tempo vuoto, più relazioni e in generale più..pensiero.

In linea con questi ragionamenti, l’autore propone e consiglia il film distopico In Time (Netflix).


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6 ottobre 2020

ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA

di Raffaele Avico

Radical Choc, l’ultimo episodio della trilogia del collasso di Raffaele Alberto Ventura, è un trattato forse più sociologico che economico, idealmente da collocarsi -a detta dell’autore stesso- come precedente agli altri due volumi della trilogia (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti).

Ventura per la prima metà del libro, esegue una lettura dall’alto della società di oggi, tentando di spiegarne la difficile sostenibilità soprattutto in termini di rapporto costi/benefici. Per poter procedere in avanti e verso l’alto, e garantire una riproposizione continua dei rapporti dialettici tra le parti sociali al suo interno (per esempio tra la domanda e l’offerta nel mercato), la tecnostruttura statale dovrebbe essere in grado di, nel tempo, “scalare” in termini di grandezza verso l’alto: in assenza di questo movimento di crescita perpetua, visto il finire dello spazio di sviluppo, parti di o intere fasce di professionisti potrebbero, nel tempo, risultare inutili.

La tecnostruttura statale, dovrebbe in altri termini garantire a se stessa il perpetuarsi della domanda di servizi e lavori necessari per far funzionare la macchina stessa -ma per fare questo, occorre che essa diventi sempre più grande. É una nevrosi della tecnostruttura stessa, per così dire, generata da un problema di economia libidica interna, con troppa energia da smaltire, e pochi strumenti per farlo; un po’ come un uomo o una donna che, irrequieti, si auto-procurino nuove fonti di stress -nuovi progetti, nuove idee, case più grandi- da usare come alibi per giustificare o convogliare la stessa loro irrequietezza, dilaniati nella sostanziale impossibilità di fermarsi, o vivere il momento presente.

In particolare, Ventura sottolinea come a partire dalla nascita dello stato moderno, avvenuta per difendere la popolazione dai suoi stessi impulsi più basici e dai rischi di un contatto troppo poco filtrato con la natura (lo stato di natura di Hobbes), la classe di quelli che Ventura chiama “competenti” sia stata lo strumento umano con cui la tecnostruttura si sia incaricata di ridurre le incertezze e i difetti strutturali interni al suo funzionamento, così che questa potesse meglio procedere nella sua corsa -all’apparenza- infinita.

I competenti, risolutori di problemi, utili a offrire alla società quote maggiori di sicurezza percepita, sono coloro che nel suo primo libro aveva definito membri della classe disagiata: laureati, nuovi intellettuali, operai cognitivi, architetti, psicologi, filosofi: figure professionali utili fintanto che la macchina statale -la tecnostruttura- possieda sufficiente spazio e bisogni -che quindi richiedano la risoluzione di sempre nuovi problemi.

Ma cosa succede sa la macchina, per cause di forza maggiore, si ferma?

Volendo provare a sintetizzare il lavoro di Ventura, anche relativamente agli altri suoi saggi (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti, qui recensito), e provando a darne una lettura in senso psicologico, cosa potremmo trarne?

Alcuni spunti:

  • abbiamo osservato negli ultimi anni continui tentativi di giustificare e spiegare la “crisi”, effettuati spostando il centro della crisi stessa da un tavolo all’altro: la crisi economica spiegata attraverso la crisi climatica, a sua volta usata per spiegare crisi sanitarie, come un continuo gioco di spostamento, che ora sembra essere arrivato a un punto di arresto: se veramente di crisi si tratti, dovremmo inserire questa crisi nel contesto di un più esteso cambio di paradigma, che Ventura descrive nel dettaglio, trasversalmente, nella sua trilogia del collasso. La crisi, è prima di tutto una crisi di senso. Non è un caso che Ventura esegua una lunga rincorsa storica per tracciare i confini del cambio paradigmatico che intravede nella società odierna: come lui, lo fanno Alessandro Baricco e, sopra tutti gli altri, Harari. Per capire dove stiamo andando, sembrano sostenere questi autori, occorre capire da dove siamo venuti: solo così riusciremo a tracciare le linee di un nuovo orizzonte di senso.
  • Harari, insieme a Ventura -anche se in modo diverso-, focalizza molto bene come uno dei problemi che si potranno presentare, nel prossimo futuro, sarà mantenere una qualità della vita alta pur essendo sganciati dall’idea di essere “utili” alla sopravvivenza della tecnostruttura/società. É probabile, spiega Harari, che in un futuro non troppo lontano, molte persone -tra cui molti competenti o disagiati- si raggrupperanno in quella che definisce la classe degli inutili, la useless class. Costoro dovranno capire come vivere bene, rendendosi conto di non essere necessari al proseguimento del progresso sociale. Questo problema, come si diceva, tocca l’ambito del senso e del significato: che senso dare a una vita passata nel poco lavoro, o nel non lavoro, e nell’assenza di pericoli contingenti a riguardo della sicurezza? Per riuscire a vivere bene in queste condizioni, occorrerebbe eseguire un lavoro di distanziamento, un superamento prima di tutto interiore da tutto ciò che, a proposito del valore etico del lavoro, abbiamo imparato.
  • è necessario che i competenti, i “disagiati”, superino l’impasse del bisogno di riconoscimento, descritta a fondo nel libro La guerra di tutti, verso una nuova forma di flessibilità, una nuova capacità di adattarsi: non è detto infatti -o meglio, è improbabile-, che quello che al tempo fu promesso loro, verrà realmente offerto in premio per la corsa a ostacoli da essi intrapresa
  • è necessario tenere a mente i rischi ingenerati da un sistema tecnocratico che abbia come motore centrale la preservazione della sicurezza (o meglio, la sua “produzione” come dice Ventura): questi rischi, potrebbero concretizzarsi in forme di governo anti-democratiche, o “burocratico/fascistoidi”, e per parlare di questo Ventura tira in mezzo il modello cinese.

La guerra di tutti, è la guerra dei competenti gli uni contro gli altri, delusi da promesse non mantenibili, in un sistema che non cresce alla velocità necessaria alla produzione di sufficiente domanda.

Ci troviamo dunque in un interregno paradigmatico, in una terra che, come ben descrive il già citato Harari nel suo 21 lezioni per il XXI secolo, ha perso i suoi simboli, e ne cerca di nuovi. Un deserto senza indicazioni che procura vertigine, e che vede nuovi paradigmi alternarsi -per ora- senza che nessuno di questi riesca realmente a divenire dominante. Come nota Harari, i due paradigmi per ora più forti, in grado potenzialmente di prendere il posto delle grandi istituzioni novecentesche -a rischio di collasso (Ventura chiude il libro con l’immagine di Economia e Politica, abbracciate, che si schiantano al suono, ma con estrema lentezza, tanto da non produrre nessun rumore, solo un lungo brusio di fondo)-, sono il paradigma laico guidato da un’etica di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dell’ambiente in cui vive, e quello scientifico, sempre più ingombrante in termini di potenza semantica, pur nelle sue derive negative (per esempio il fatto che la scienza non fornisca mai una risposta definitiva, e limitandosi a risposte “sospese” non produca fidelizzazioni “forti”)

Con la sua trilogia, insieme ad altri pionieri del mondo “nuovo”, Ventura ci propone non tanto una soluzione, quanto uno strumento di interpretazione del presente, una chiave di lettura che con cui unire i puntini per far affiorare nuovi orizzonti di senso.


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26 agosto 2020

FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza


di Raffaele Avico

Questo volume (la tesi di laurea di un medico Leccese nato nel 1881, Francesco de Raho), rappresenta un efficace tentativo di integrare gli studi sul tarantismo che fino ad allora avevano letto il fenomeno pugliese alla luce del paradigma medico/scientifico ottocentesco, agli studi successivi che vollero invece indagarne gli aspetti antropologico/folkloristici, legati alla cultura della terra del Salento.

Il libro è stato pubblicato nel 1908, e rappresenta di fatto la tesi di laurea del medico De Raho.

Il volume venne ignorato negli anni successivi, per ritornare citato da Ernesto De Martino nel suo La terra del rimorso, opera centrale per chiunque si voglia approcciare a una lettura critica sul fenomeno del tarantismo pugliese. De Martino omaggia De Raho nel suo La terra del rimorso onorando la generazione di cui lo stesso De Raho faceva parte, precedente alla propria, riconoscendone il contributo scientifico.

Il volume va, in primo luogo, contestualizzato entro il periodo storico che lo vide nascere: erano gli anni dell’affermazione della psicoanalisi e di un psichiatria aperta ad aspetti puramente psicologici, incentrata sul concetto di isteria come malattia nervosa più diffusa, e sulla sue cause.

De Raho apre, nel suo lavoro, con un’iniziale disamina sommaria della letteratura sul tarantismo (vecchia, ai suoi tempi, già di 300 anni, essendo i primi documenti scritti a proposito del fenomeno risalenti al 1600). Quindi, entra nel vivo della sua sperimentazione, operando un’indagine sul campo finalizzata a comprendere l’origine del fenomeno del tarantismo pugliese.

Nella seconda parte del volume, infatti, vengono descritti gli esperimenti che lo stesso medico effettuò su diversi animali da laboratorio, in situazioni diverse, per testare l‘effettivo potenziale tossico del veleno del “ragno” pugliese. Fino a quel periodo, infatti, l’origine del male sofferto dalle donne colpite da tarantismo, era attribuito al potenziale nocivo del veleno del ragno.

Diversi aspetti però non tornavano, e questo De Raho lo chiarisce molto bene nel suo lavoro di tesi: come mai le donne sembravano soffrire di tarantismo, solamente in campagna? Come mai inoltre il male sembrava riproporsi in modo ciclico, una volta l’anno?

Gli animali da laboratorio, morsicati molteplici volte da ragni raccolti dallo stesso De Raho (facendo attenzione a raccoglierli senza far sì che il veleno da essi ritenuto si disperdesse, per esempio rovesciando sulla terra una bottiglia di vetro, e spingendo il ragno dentro di essa), sembravano non subire alcun tipo di danno organico, coma a provare l’innocuità del veleno del ragno stesso.

Questi esperimenti erano svolti utilizzando un ragionamento di tipo deduttivo, entro una cornice “scientifica” che avrebbe nell’idea di De Raho “sotterrato” la mole di credenze e pensieri magici raccolti intorno alla figura (simbolica) del morso e intorno alla pratica rituale del tarantismo stesso.

Dimostrata, all’interno della sezione “zootecnica”, la sostanziale innocuità del veleno del ragno, il medico si spinge quindi a una rassegna di casi clinici (molto frequenti e facili da reperire a inizio ‘900, a differenza del periodo in cui De Martino effettuò le sue ricerche, negli anni ’60, quando il fenomeno conosceva già il suo declino), molto numerosa. Vengono riportati 25 casi clinici suddivisi in gruppi differenti a seconda che vi fosse stato o meno il morso “reale” di un ragno; questi casi sarebbero stati successivamente ripresi da De Martino come materiale di studio e citati nel suo La terra del rimorso.

Infine, de Raho si spinge a una valutazione del fenomeno tarantismo, per via medico/psichiatrica, “declassandolo” a forma minore di isteria.

La cosa interessante tuttavia della sua valutazione clinica, è la spiazzante modernità di lettura del fenomeno, usando lo stesso De Raho concetti che all’epoca dovevano essere particolarmente “innovativi”, che tuttavia sono ancora oggi validi e, per certi versi purtroppo, insuperati.

In particolare, De Raho cita gli studi di Pierra Janet a proposito del trauma, da un lato citando l’idea Janetaina di una personalità “divisa” e difficilmente “sintetizzata” ad opera delle funzioni mentali superiori della coscienza (idea che ancora oggi fa da fondo a molte delle teoria psicotraumatologiche più apprezzate), dall’altro osservando in modo molto acuto come il disturbo isterico fosse da ricercarsi laddove ci fosse, a monte, una personalità pronta a riceverlo (sia per una questione di suggestionabilità, che per una problema di fragilità contestuale). Giustamente, De Raho osserva, il fatto che non tutti sviluppassero una forma isterica come il tarantismo, ci dice di come è spesso più importante il “terreno” del “seme”. Anche qui, osserviamo, si sente un’eco janetiana (il disturbo post traumatico si innesta su un terreno di prostrazione psichica preesistente). 
Si spinge poi, il medico leccese, a una valutazione (neuro)fisiologica degli effetti della musica sulla mente dell’individuo, citando i più importanti studiosi dell’epoca, pur in grado di operare spiegazioni insufficienti -che tuttavia ci ricordano di come ancor oggi non tutto sia stato spiegato (per esempio la base neurobiologica di un evento catartico).

La musica, dice De Raho, “squassa simultaneamente tutti i rami e tutte le fronde dell’albero psichico come un vento impetuoso che aggiri il tronco alla base”; potrebbe essere definita come un “trascendente idioma senza parole che scorta sino al lembo dell’infinito”. Il che certamente è vero, ma non spiega il potere curativo della stessa.

È possibile, si chiede l’autore, che la musica eserciti un effetto realmente curativo, al pari di un farmaco, sul veleno iniettato dal ragno, così come sembravano credere i contadini del leccese di inizio ‘900? Pur assumendo che la musica “spinga” lo “spirito del corpo” a portare dei benefici a livello somatico (accertati da molteplici studi che lo stesso De Raho cita), non è possibile per la musica operare in senso terapeutico “al di fuori dei suoi confini”, per esempio facendo ricrescere un arto deputato, oppure guarendo un malato di polmonite. A meno che, ragiona De Raho, lo stesso atto di ascoltare un certo tipo di musica entro un certo tipo di rito socialmente condiviso, da parte di persone dotate di una certa disposizione d’animo, non poggi su un unico elemento centrale: la suggestione nel contesto di un problema “solamente” psicologico -che è poi, come abbiamo visto, la conclusione a cui arriva De Raho pensando al tarantismo, un problema cioè del tutto assimilabile a una forma minore di isteria.

Il volume rappresenta un elemento prezioso della bibliografia sul tarantismo (raccolta in toto da Sergio Torsello), perchè rappresenta una pietra miliare tra i primi lavori che vollero spogliare il tarantismo del suo portato magico/pagano, portandolo sotto lo sguardo della scienza biomedica -così facendo, però, decretandone la scomparsa.

Infine, raccoglie al suo interno le prime 4 fotografie mai apparse di donne tarantate, interessanti poichè mostrano come in passato (presumibilmente prima dei primi anni del ‘900) il rituale di tarantismo si svolgesse con l’aiuto di una corda appesa al soffitto, funzionale ad agevolare i movimenti e il ballo dei soggetti “morsicati”.


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27 luglio 2020

LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia

di Raffaele Avico

La luna e i falò gira intorno a un tema centrale, un pilastro che doveva essere portante non solo per Anguilla (il protagonista del romanzo), ma anche per Pavese: la perdita, il recupero, il ricongiungimento cercato, la partenza e il ritorno. Per questo, il libro è impregnato di melanconia, risultando quasi insostenibile alla lettura in termini emotivi, seppur bellissimo. Anguilla, come sappiamo dalla sinossi, torna in patria dopo almeno 20 (?) anni, dalla California, avendo fatto fortuna, come un vero e proprio “zio d’America”. Partito per scappare alla persecuzione fascista, tornerà alla sua terra (le Langhe) a contare i morti del dopoguerra, e ad affacciarsi su ciò che rimane del suo passato.

Il libro è un lungo affaccio a ciò che del passato di Anguilla rimane; potremmo definirlo una lunga visita al museo di ciò che fu: l’infanzia di Anguilla come bracciante, i giochi di bambino, l’amicizia con Nuto (rimasta inalterata), la famiglia affidataria, la vergogna e la rabbia di classe.

Rintracciamo due piani del sogno melanconico di Anguilla, al suo ritorno:

  1. il cambiamento dei luoghi, la casa in cui crebbe ormai abitata da un’altra famiglia, rappresentano lo scorrere lineare di un tempo che viaggia sempre in una sola direzione: verso l’entropia e la morte. La narrazione di Anguilla si perde in ciò che i luoghi sanno riportargli alla mente: le feste di paese, i falò propiziatori nella notte di San Giovanni, i balli di paese prima della guerra. La percezione bruciante dello scorrere impietoso del tempo, sembra aggravare lo stato di sradicamento di cui Anguilla soffre da sempre, nato e vissuto “bastardo”, senza una radice. Durante la lettura, viviamo con Anguilla il tentativo di riappropriarsi dei luoghi che furono i suoi.
    Ma sarà veramente possibile?
    Nelle pagine di “La luna e i falò”, ci confrontiamo con il problema dell”’oggetto perduto”, che in qualche modo potremmo riformulare o semplificare nel problema dell’”infanzia perduta”, nell’elaborazione di un lutto che riguarda i propri, intimi sogni, la perdita di un sè bambino (che troveremo reincarnato -è possibile leggerla in questo modo- nel piccolo Cinto, anch’esso abusato, violato da una realtà brutale, oggetto di un forte transfert da parte dello stesso Anguilla). Essere andato via, dunque, non sembra aver risolto Anguilla: quel lutto “a metà”, l’attaccamento a quella perdita sembra, nella lettura, ancora vivo, ancora bruciante in lui, tanto da farcelo cogliere come affondato insieme all’oggetto perduto, aderente, incollato ad esso– e con esso lontano, distante. Freud ci mise in guardia sul pericolo di perderci dietro l’oggetto perduto, di morire un po’ per volta dentro un sogno melanconico infinito, che sembra essere quello che accade ad Anguilla.
  2. un secondo piano, sembra in qualche modo meta-melanconico. A circa metà libro, Anguilla si chiede cosa resterà di quei luoghi, con lo scorrere del tempo. La sua non è solo quindi melanconica ricerca di ciò che fu: il rapporto con la sua terra di origine sembra subire un processo di metamorfosi, sembra piuttosto amore corrotto in pietà per i luoghi del suo passato. Il che, potremmo dire, vuol dire amore corrotto in pietà per se stesso.
    Il lutto è ovunque, pervasivo, endemico, irrisolvibile.
    É un lutto attuale, del momento presente, ma anche “futuro”, vissuto prima del tempo, anticipato, pre-vissuto. Anguilla osserva con occhi di madre luoghi che gli appartennero solamente in parte (ricordiamoci che, in quanto bastardo, il tema della mancanza di appartenenza gli si propose fin da subito), cercando una fusione, una simbiosi fuori-tempo, clamorosamente patetica.

Il percorso di Anguilla, è tutto interiore, tutto interno. La natura indifferente, diviene un grande schermo su cui lo osserviamo costruire delle domande, porsi delle questioni basali, umanissime, ma senza risposte tranne una: la fuga (Anguilla tornerà a Genova a fine romanzo; Pavese si suiciderà poco tempo dopo aver concluso il romanzo). La natura intima, psicologica, del percorso di Anguilla, il tema dell’appartenenza e del ritorno, del ricongiungimento impossibile verso quello che i lacanisti chiamerebbero oggetto piccolo (lo stadio iniziale, fusionale, unico, non ancora diviso della vita) struttura tutto il romanzo, facendone un capolavoro, pur difficile da leggere per la sua potenza evocativa e, in qualche modo, depressiva.

Il libro è infatti in grado di produrre melanconia nel lettore, in modo vivo e potente. Andrebbe letto da chiunque si confronti con un’emigrazione, con un distacco necessario, con un allontanamento dal proprio nucleo familiare di origine per ragioni di sopravvivenza. O dai bullizzati, o dai “tagliati fuori”. Ci si sentirà totalmente capiti, totalmente a fianco di Anguilla di fronte alla brutalità di una sola domanda, fatale: “perché?”.

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3 giugno 2020

DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE


di Raffaele Avico

All’interno del bellissimo libro La guida alla Teoria Polivagale, vengono raccolte una serie di interviste fatte a Stephen Porges che vogliono fare chiarezza sulla Teoria Polivagale; nel libro viene infatti esplicitato come all’autore fosse stato richiesto, a seguito del suo La teoria polivagale, un testo di chiarimento di alcuni aspetti considerati oscuri del libro precedente, o troppo tecnici. Attraverso le domande, alcuni punti vengono messi in evidenza in modo molto specifico e aiutano a fare chiarezza sulle potenzialità cliniche della teoria.

Le tematiche centrali del libro sono:

  1. La Teoria Polivagale, il lavoro con i disturbi dello spettro autistico attraverso il Safe and Sound Protocol
  2. il passaggio da una logica dualistica a riguardo del sistema nervoso autonomo (simpatico VS parasimpatico), a una teoria poli-vagale che contempla più parti del sistema nervoso autonomo
  3. la centralità del tema “sicurezza” come prerequisito necessario a tutte le forme di interazione umana, compresa la psicoterapia (Porges definisce “preambolo all’attaccamento” la ricerca di sicurezza: intende dire con questo che l’attaccamento sicuro può svilupparsi solo in presenza di un senso di sicurezza percepita)
  4. elementi di neuro-architettura: come costruire luoghi di cura e ospedali incentrati sulla promozione del senso di sicurezza?

..e molti altri.

Il libro si apre con un definizione di Neurocezione, termine coniato da Porges stesso, che contrappone a Interocezione.

  1. L’Interocezione è una valutazione istantanea delle informazioni somatosensoriali che arrivano dall’interno del corpo. É una valutazione generale, “totale” di ciò che arriva dall’interno del nostro corpo, fatta in modo pre-cosciente. É costituita da intuizioni che facciamo sullo stato interno del nostro corpo, che in seguito razionalizziamo e “dispieghiamo” in termini narrativi (“ho fame”, “mi sento irritabile”, “qualcosa non va”). Rappresenta come si può immaginare una funzione fondamentale per il buon funzionamento del nostro organismo. In questo video viene ben spiegata:
  2.  La Neurocezione invece si colloca, sulla linea del tempo, precedentemente all’interocezione. Rappresenta una valutazione -fatta al di fuori della coscienza– a riguardo della pericolosità e del livello di minaccia di un determinato ambiente o stimolo, che facciamo per ragioni di migliore sopravvivenza. Porges, nel libro prima citato, ben chiarisce come la neurocezione permetta un rapido screening del livello di minaccia di un determinato stimolo, così da attivare differenti forme di risposta neurofisiologica in risposta allo stimolo stesso. La neurocezione ci permette di valutare in modo istantaneo se un individuo che ci avvicina per strada, per esempio, sia o meno pericoloso, o il grado reale di aggressività nella prosodia vocale di un genitore che ci riprende. O il “senso di sicurezza” emanato da uno studio medico, quando ci entriamo. Risponde a un mandato evolutivo antico, primario, che potremmo riassumere in “cerca luoghi sicuri”.
    Porges riflette sul fatto che il bisogno di sicurezza potrebbe evoluzionisticamente porsi in modo addirittura precedente, o prioritario, rispetto al bisogno di attaccamento. La valutazione sulla sicurezza, potrebbe essere il primo, centrale atto di auto-conservazione: il “nullaosta” neurocettivo potrebbe far sì, in un secondo momento, che l’individuo getti le basi per uno scambio comunicativo, per una vita “normale” in senso relazionale. Per questo, chiama questi aspetti “preambolo dell’attaccamento”, a chiarificare come il senso di sicurezza percepita preceda e sia propedeutico alla possibilità di interagire con un altro essere umano.

Nel libro La guida alla Teoria Polivagale, vengono suggerite alcune buone prassi per progettare e favorire il “nullaosta” neurocettivo così da consentire, a cascata, migliori interazioni e la creazione di migliori atmosfere.

Per esempio, l’attenzione agli aspetti architetturali di un luogo di cura, all’interior design, agli aspetti sonori di un determinato ambiente (per esempio lo studio di uno psicoterapeuta), la posizione delle vie di fuga, sono elementi che dovrebbero costituire il primo movente da parte del clinico, visto che, senza senso di sicurezza percepita, non potrebbe neppure accendere un buon legame terapeutico con il suo cliente/paziente.


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9 maggio 2020

PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch

di Raffaele Avico

Change è un libro di Watzlawick e bla bla bla (qui una recensione del libro). In questo articolo cerchiamo di fare alcune riflessioni sugli aspetti da tenere a mente o da mettere in discussione del libro.

Watzlawick è un teorico realmente geniale: si veda per esempio questo video:

CHANGE: PUNTI A FAVORE

  • gli autori ragionano sul tema generale del cambiamento, distinguendone due tipologie : il cambiamento di tipo 1, interno al gioco che contempla gli elementi che partecipano al gioco stesso (le pedine della scacchiera e come muoverle), e il cambiamento di tipo 2, su di un livello logico superiore (le regole del gioco stesso degli scacchi). Per ottenere un vero cambiamento, gli autori osservano, è importante che il cambiamento sia di tipo 2: dovremo agire cioè per cambiare le regole del gioco stesso (che alimentano l’immobilità del gioco in sè). Questo, già di per sè, pone a favore del libro, realmente geniale. La scuola di Palo Alto già aveva fatto parlare di sè con il fondamentale “pragmatica della comunicazione umana”, antecedente.
  • come fare a cambiare? Gli autori ci invitano a considerare come, per arrivare a un vero cambiamento, questo dovrà essere attuato facendo un “passo indietro” a riguardo della situazione che si desidera cambiare, in modo da poterne avere una visione “dall’alto”. Così, scopriremo che spesso ciò che mantiene in piedi un problema, è il tentativo che facciamo di risolverlo, quello che gli autori chiamano tentata soluzione. Per cambiare, dovremo quindi lavorare su questa tentata soluzione. Esempio: se mi sforzo di addormentarmi, quando insonne, è più che probabile che rimarrò sveglio, incastrato in uno sforzo paradossale. Per risolvere questo problema, dovrò, contro-paradossalmente, tentare di stare sveglio, rompendo il paradasso originario
  • la logica del paradosso e del contro paradosso, ha ispirato sia la psicoterapia sistemica in senso lato, che la psicoterapia breve strategica (quest’ultima in particolare). La “prescrizione del sintomo” (l’intervento paradossale) viene usata in entrambi questi approcci alla psicoterapia
  • quando vi sia una stratificazione del pensiero, e la messa in piedi di “tentate soluzioni” basate sull’evitamento e sul controllo (in particolar modo nei disturbi da attacco di panico, nei disturbi fobici, in alcune forme di disturbo sessuale e di DOC -ovunque cioè vi sia una parte della mente impegnata attivamente a controllare o a gestirne un’altra), la logica contro-paradossale assume un’enorme portata in termini di efficacia. A volte un intervento può essere risolutivo, o in ogni caso molto efficace
  • l’approccio degli autori alla psicoterapia, è un approccio pragmatico, americano: si ragiona sul qui e ora, per obiettivi chiari e tempi definiti. Il problema prima di tutto dev’essere riconosciuto e vissuto dal soggetto come un problema: in caso contrario non avrebbe senso approcciarvisi.
  • il libro chiarisce bene che tentare di approcciare il problema “dall’interno”, usando per così dire lo stesso “suo” linguaggio, non serve: il problema viene mantenuto. Occorre capire come fuoriuscirne cambiando i presupposti sui cui si fonda. Molto importante il riferimento alle 4 fasi del cambiamento promosse dagli autori:
    1. Una definizione chiara del problema in termini concreti;
    2. Un’analisi della soluzione finora tentata;
    3. Una chiara definizione del cambiamento concreto da effettuare;
    4. La formulazione e la messa in atto di un piano per provocare tale cambiamento.
  • Il cambio di paradigma suggerito dagli autori si basa sostanzialmente sul passaggio dal PERCHÉ al COME. Gli autori propongono di non cercare necessariamente un insight, una comprensione profonda del problema: è più importante concentrarsi su come quello stesso problema si mantiene, quali sono i fattori contestuali e di comportamento che mantengano quella stesso problema in piedi.

CHANGE: PUNTI CONTRO

  • la logica paradossale, non può essere applicata a qualunque problema, specialmente in ambito clinico; non tutti i problemi infatti si basano sul paradosso, nè sulle tentate soluzioni. L’anoressia, per esempio, non è una tentata soluzione a riguardo di un altro problema, ma un modo d’essere che trova le sue radici in questioni esistenziali e affettive, così come la depressione, ruotante intorno a tematiche inerenti il lutto, la colpa, la perdita. Non sembra possibile cioè risolvere la questione nei termini di un singolo problema, unico, che debba essere “disciolto o sbloccato”. Vedere in tutti i problemi delle tentate soluzioni rischia di divenire -questo sì- un bias cognitivo, un po’ come succede ai “pantraumatologi” che ricercano, dietro ogni disturbo, la presenza di uno stress post traumatico
  • questa visione “risolutoria” (che si radicalizza con i teorici della “seduta singola”) viene denigrata dagli “ortodossi” della psicologia clinica anche se, va detto, non tutto ciò che storicamente produsse scetticismo si rivelò sbagliato. La stessa psicoanalisi inizialmente destava scandalo. Qui potremmo però ipotizzare un errore strutturale: pensare di “sbloccare” un paziente, significa avere una considerazione del suo problema basata sulla presenza di un errore di fondo, come un passaggio sbagliato fatto nella risoluzione di un’equazione complessa che quindi, se corretto, porti infine al risultato giusto. Il punto centrale è che chiunque lavori con pazienti gravi, si rende conto che la mente non funziona in questo modo, la psicoterapia non può divenire un’indagine diagnostica che ha dell’investigativo, non può limitarsi alla ricerca del “bias” (cioè dell’errore), dato che non è risolvendo un errore del pensiero che si cura uno stato di malessere soggettivo, che prescinde spesso dal pensiero stesso. Invece di “domandare”, “esplorare”, “sentire”, “osservare”, osserviamo qui l’utilizzo di altri verbi, mutuati da un approccio “risolutorio” alla psicologia clinica, da una modellizzazione della mente per certi versi cibernetica, “algoritmica”: “sbloccare”, “disinstallare”, “risolvere”, il che risulta sospetto, per lo meno limitato, insufficiente.
  • il tipo d’intervento che gli autori propongono, è un intervento che si fonda sull’assunto che la persona possieda una fiducia totale in quello che i terapeuti gli propongono. Parlano di prescrizioni da seguire, non facendo tuttavia i conti con chi si ponga in modo scettico, chi si possa sentire manipolato, chi non ritenga sufficiente che “il dottore abbia capito, anche se io no”; di fatto ritengono sufficiente che sia il comportamento a cambiare: il pensiero arriverà dopo; il paziente arriverà in seguito a capire -se mai lo farà- la logica sottesa all’intervento, al suo razionale clinico.
  • La teoria che fonda questo approccio, non ha prodotto in seguito nessun filone serio di ricerca scientifica. Come mai? In “Change” vengono citati sia Bateson che Milton Erickson, riferimenti teorici del movimento (l’uno per via del lavoro sulla teoria dei giochi e del paradosso, l’altro grazie alle sue capacità –geniali– suggestivo/ipnotiche). Questo alimenta personalizzazioni e dogmatismi incentrati su persone singole, benché carismatiche. Quello che dobbiamo ricordare è che nelle professioni di cura, il curante dovrebbe essere un funzionario: altrimenti, andremo dal suo “nome” e non dalla sua “tecnica”. Quindi: dove stanno la ricerca, le prove di efficacia, in tutto questo? Dov’è la famosa peer review? C’è da considerare tuttavia che il libro rappresenta un impulso, un incipit a qualcosa che sarebbe avvenuto da lì in avanti; in questo sta, al di là di tutto, il suo peso specifico. Il problema della terapia strategica e delle prove di efficacia scarse, tuttavia, rimane.

Per concludere con un solo aggettivo, Change è imprescindibile per chiunque si occupi di clinica e di “cambiamento” in senso lato, soprattutto per l’accento posto sui temi del paradosso, delle tentate soluzioni e della causalità circolare (sempre più attuale in clinica, come qui approfondito). Gli autori possiedono un brillante, realmente complesso punto di vista sul modo di ragionare, pensare, vivere dell’essere umano, dimostrandosi paurosamente consapevoli di come il soggetto viva e sappia mettere in atto dei comportamenti e delle reazioni all’ambiente circostante a scapito di se stesso, spesso in modo non consapevole.

L’accento messo sugli aspetti suggestivi, infine, ci racconta di una precoce saggezza degli autori su tutto ciò che oggi chiamiamo “effetto placebo”, cioè sull’importanza degli aspetti relazionali, contestuali, relativi al come viene percepito il terapeuta del paziente, sull’importanza cioè della fiducia in clinica (qui un approfondimento a proposito del lavoro di Fabrizio Benedetti, italiano tra i massimi esperti di effetto placebo in senso internazionale).


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30 aprile 2020

SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”

di Raffaele Avico

Cosa succede a un animale nel corso di un trauma? Quali sono le reazioni neurofisiologiche di un pollo, per fare un esempio, durante un evento terrorizzante o potenzialmente traumatico? Come possiamo comparare animale e uomo, e cosa ci può insegnare la reazione di un animale a un trauma? Esistono delle basi neurobiologiche che accomunano animale e uomo?

In un essere umano sano, un’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di creare un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. Nel resoconto che un individuo post-traumatizzato farà della sua esperienza, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà, nel ricordo, colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo ricordarlo, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato. Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la non elaborabilità in termini mnestici. La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria.

Sembrerebbe cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo ormai trascorso. Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, pur tuttavia attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamata Disturbo da Stress Post Traumatico (e non, come a volte si legge, Disturbo Post traumatico da Stress), in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi osservato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo.

Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè; centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, in realtà però meno intensa, in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo intenso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi, vissuti spesso nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e  traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo, verrà in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale, durato -per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso- molto a lungo.

I potenti strumenti di apprendimento messi a nostra disposizione dall’evoluzione, sembrano in questi casi ritorcersi contro di noi contribuendo a far sì che per lungo tempo non riusciamo a dimenticare il trauma, adattando la nostra vita all’emergere del suo ricordo. Per questo, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.

Differenti autori hanno osservato come gli animali sembrino possedere strumenti differenti per far fronte a un evento traumatico, oppure al contrario riescano a gestire l’elaborazione di un ricordo traumatico per via dell’assenza di alcune strutture “ingombranti” possedute dall’uomo, grazie a un movimento di “release” o di dissipazione corporea della paura (come qui approfondito).

Nel video sopra riportato un gruppo di ricercatori dell’università di Milano si interroga sul tema “immobilità tonica” negli animali. L’immobilità tonica è uno stato di “finta morte” ottenuto per ragioni di sopravvivenza durante un attacco soverchiante da parte di un predatore.

Genericamente sappiamo che le reazioni di un animale a una minaccia rispondono alla sequenza delle 4 f. La reazione, come nella figura sopra riportata, è in funzione della distanza tra predatore e preda, e condizionata dal “grado di possibilità percepito di fuga”.

Vediamo la sequenza: immaginiamo che un animale venga attaccato da un predatore in una condizione di “paura senza sbocco”, quindi una situazione in cui non sia possibile opporsi in nessun modo alla predazione. La sequenza sarà:

  1. freeze: l’animale si ferma, guarda e ascolta con maggiore attenzione
  2. flight: l’animale scappa
  3. fight: l’animale attacca (quando scappare non è possibile)
  4. faint: l’animale precipita in una condizione di immobilità tonica

Quest’ultima tipologia di reazione viene presa in oggetto dai ricercatori del video sopra citato. Tra di essi, Carlo Alfredo Clerici, autore insieme a Laura Veneroni di questo volume specificamente dedicato allo studio dell’immobilità tonica negli animali, vera perla (tra l’altro molto corto), comprensivo di un’intervista al massimo esperto in tema, Gordon Gallup.

Vediamone alcuni aspetti:

  1. neurobiologia e aspetti strettamenti biologici relativi all’Immobilità Tonica, sono descritti nella prima parte del volume. É qui interessante sottolineare l’effetto analgesico dell’immobilità tonica, in grado di alterare la percezione del dolore in diverse specie animali nel corso della traumatizzazione
  2. molteplici studi sottolineano come negli animali il contatto oculare sia in grado di mediare la risposta di immobilità tonica negli animali. Sottoporre per esempio delle galline alla vista di un falco impagliato prima senza mostrare e poi mostrando gli occhi, conduceva a differenti risposte e diverse durate della fase di immobilità tonica
  3. molteplici esperimenti sono stati condotti per ragionare sulle cause dello sviluppo di un comportamento di immobilità tonica negli animali: la paura è il primo di questi (tanto che somministrando tranquillanti agli animali prima di “spaventarli”, il comportamento di immobilità tonica sembrava interrompersi); quindi, l’immobilità forzata (testata sottoponendo gli animali -spesso galline- a shock elettrici con o senza possibilità di fuga). Gli autori riportano: “Quanto detto suggerisce che sia la paura sia l’impossibilità di movimento siano elementi contemporaneamente necessari perché si manifesti la T.I..”.  Questo ricorda da vicino la teoria di Peter Levine a proposito del trauma per l’uomo (secondo lui generato solo se in compresenza di immobilità e paura -in caso contrario l’individuo non viene traumatizzato)
  4. tra le ipotesi storiche merita una citazione quella darwiniana, formulata nel 1839, secondo cui l’immobilità tonica sarebbe una morte simulata con funzione di preservazione da predazioni soverchianti
  5. Facendo una comparazione approfondita tra immobilità tonica negli animali e comportamento umano, gli autori ragionano sulla possibilità che nell’uomo permangano “atavismi” comportamentali ereditati dai progenitori “iniziatici” con cui condividiamo residui paleopsicologici come l’erezione del pelo in condizioni di terrore, la stessa reazione di attacco e fuga e, appunto, una variante “umana” della reazione di immobilismo tonico nel corso di eventi estremi (gli autori citano lo stupro come esempio paradigmatico di un evento in cui convivono terrore e immobilità, in grado appunto di creare “paralisi da stupro” e impossibilità a reagire).
  6. vengono fatti parallelismi interessanti tra il fenomeno di immobilità tonica e alcuni comportamenti anormali nell’uomo come catalessia e catatonia; sono note alcune reazioni parossistiche di soggetti catatonici che, fuoriuscendo dallo stato di immobilità, si esprimono in reazioni estreme, violente; “Nei pazienti catatonici, alla fine di un episodio stuporoso, si rileva un aumento dei livelli plasmatici di adrenalina e dei suoi metaboliti. Ciò confermerebbe che l’insorgenza dei sintomi catatonici possa essere scatenata dall’esperienza di paura, proprio come la T.I. nell’animale”.
  7. viene inoltre notato che nel corso dell immobilità tonica, così come negli episodi di stupor dei soggetti catatonici, il cervello si mantiene vigile (le informazioni afferenti non vengono inibite, al contrario di quelle efferenti, creando una condizione paradossale di immobilità completa in senso fisico ma di mantenuta attività cognitiva);
  8. questo paradosso (il fatto che l’attenzione e i processi di memoria sembrino addirittura aumentati nel corso della fase di immobilità tonica) porta i ricercatori a creare una distinzione tra lo stato di immobilità tonica nell’animale, e la dissociazione nell’uomo (in questo caso la memoria e i processi attentivi vengono distorti). Lo stato dissociativo peritramatico, potrebbe essere tuttavia considerato il corrispettivo umano dell immobilità tonica nell’animale, ma con la variante che nell’uomo la distorsione dissociativa produrrebbe un immagazzinamento delle memorie per via implicita. Per questo l’evento traumatico non riuscirebbe a essere narrato ed “esplicitato”.

Il libro procede poi con un articolo scritto da Cesare Albasi e si chiude con un’intervista fatta a Gallup, pioniere dello studio non solo della nascita della rappresentazione del sè in vari animali e scimmie (come qui approfondito), ma anche per quanto riguarda gli studi sull’etologia animale in territorio “trauma” e immobilità tonica. Gallup inserisce in modo molto appropriato la questione della reazione di immobilità tonica in ambito forense, osservando:

“Un altro aspetto importante riguarda le implicazioni giuridiche circa la possibilità di dimostrare una resistenza da parte della vittima. Per condannare un colpevole di violenza occorre dimostrare che la persona non fosse consenziente all’atto. L’esistenza dell’immobilità tonica può spiegare alcune risposte paradossali di mancata difesa e quindi il concetto di resistenza diventa contraddittorio. Perché una vittima di stupro dovrebbe essere penalizzata dalla mancanza di risposta quando questa mancanza di risposta fisica dipende da un meccanismo automatico così importante? La mancata difesa può essere una risposta fisicamente adattativa per la vittima, ma ciò apparentemente è in contrasto con il concetto di resistenza che è così importante in ambito legale.”

Alcuni aspetti di psicotraumatologia in ambito animale sono approfonditi qui.
Qui un video con alcune slide sul tema.

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21 aprile 2020

RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?

di Raffaele Avico

Il volume Riscoprire Pierre Janet si pone come obiettivo principale una rassegna breve ma approfondita di ciò che è stato l’apporto di Pierre Janet sulla psicopatologia e psicoterapia moderna, per via di una serie di contributi a opera di personaggi di grande rilevanza attuale in tema “psicotraumatologia”, come Onno van der Hart, Bessel Van der Kolk, Pat Ogden, Giovanni Liotti.

Il libro è stato tradotto in italiano ed è acquistabile qui. Ci si mostra un Janet “dedito” alla causa, umile in senso “scientifico”, dovizioso nella rendicontazione degli aspetti clinici dei pazienti, altamente moderno alla luce delle recenti teoria sulla psicotraumatologia.

Alcuni punti da tenere in considerazione sono:

  • la concezione di isteria promossa da Janet differiva in modo sensibile dalla concezione in seguito promossa da Freud, divenuta poi dominante. Freud concettualizzava la genesi dell’isteria come il risultato di un’opera fallimentare di rimozione a carico della struttura dell’Io, con grandi ricadute sul corpo, “teatro” dei quella stessa opera di rimozione non riuscita. Vi si metteva al centro un atto di volontà da parte del soggetto che avrebbe tentato di sospingere sul “fondo” della propria mente una serie di contenuti scabrosi o inaccettabili alla coscienza; quegli stessi contenuti sarebbero tornati alla coscienza tramite reminiscenze. Janet a proposito di questo sovvertiva la visione freudiana considerando come il problema dell’isteria non sarebbe consisitito, dal suo punto di vista, in un problema di “atto di volontà” fallimentare da parte del soggetto, quanto piuttosto in un indebolimento delle strutture più alte della mente che avrebbero dovuto in condizioni normali promuovere un atto di sintesi di quegli stessi contenuti “difficili”. Quello che accade in un disturbo isterico, secondo Janet, è un allentamento delle funzioni mentali “superiori” con una seguente impossibilità di integrare e “sintetizzare” contenuti (di natura traumatica o meno) a livello di coscienza personale. La differenza è sottile ma netta: da un lato (e questo lo sottolinea bene Liotti nel suo articolo contenuto nel volume) un movimento che oggi potremmo definire top-down (tento attivamente di sospingere contenuti “difficili” in profondità, operando un gesto di forza psicologica) teorizzato da Freud, dall’altro -nella visione di Janet- un’impossibilità da parte delle funzioni mentali superiori di “arginare” quello che dal basso “arriva”, per via di una debolezza strutturale contestuale, causata da diversi fattori: un movimento quindi bottom-up, dal basso verso l’alto. Come si legge nel libro, Freud criticò a Janet questa visione del disturbo isterico osservando come lo stesso Janet tendesse a considerare le isteriche come persone “deboli”, con poca forza mentale, “sottostimandone” le facoltà mentali e intellettive.
  • questa lettura del disturbi isterico, ci racconta di una differente concettualizzazione di mente promossa da Janet. La mente teorizzata da Janet, è una mente operante secondo una logica di gerarchia, dove le parti più “alte” sono in grado di modulare e frenare, o meglio, sintetizzare in modo armonico le spinte provenienti dalle zone più “basse”. Questo modello di lettura della mente è affine alla teoria neo-jacksoniana promossa da Ey, alla teoria del cervello tripartito di MacLean; inoltre, riconsegna l’individuo alla sua natura animale, de-responsabilizzandolo rispetto alla sua stessa sofferenza.
  • nel libro viene messo in risalto l’apporto di Sandor Ferenczi alla psicotraumatologia contemporanea, in grado di compiere una integrazione fruttuosa tra Freud e Janet, di fatto tenendo a mente gli aspetti inerenti l’espressione della sessualità e la questione janetiana riguardante la struttura dell’Io.  Ferenczi mise in risalto il fattore “esogeno” del trauma: ovvero, il trauma sarebbe dal suo punto di vista qualcosa di relazionale, sempre dialettico, proveniente dall’esterno del soggetto. La teoria sul post-trauma di Ferenczi, inoltre, ben si presta a un paragone con la teoria delle strategie controllanti promossa da Liotti. Cos’è il wise-baby di Ferenczi, se non il bambino con un attaccamento invertito per ragioni di sopravvivenza teorizzato da Liotti e Farina in Sviluppi Traumatici?
  • Il volume prosegue con un articolo uscito postumo -rivisto da Marianna Liotti-, scritto da Giovanni Liotti, a proposito del “segno” lasciato da Janet sulla psicotraumatologia contemporanea. Liotti qui riprende molte idee già sviluppate nei suoi lavori precedenti. Liotti,come si diceva in precedenza, sottolinea la differenza tra le posizioni di Freud e Janet a riguardo dello sviluppo di un disturbo isterico: in Freud, parliamo di un’attiva difesa mentale; in Janet, troviamo come concausa principale un restringimento del campo della coscienza come “effetto passivo dell’emozione veemente”. Inoltre, Liotti mette in luce la differente concezione di inconscio promossa dai due autori: in Freud, pervaso da spinte sessualmente-orientate (o eventualmente auto-distruttive); in Janet, mosso da tendenze all’azione di darwiniana memoria, strettamente naturali, osservabili nell’uomo come negli animali.
    Liotti, in linea con le osservazioni cliniche fatte durante il suo lavoro di ricerca, considera, insieme a Janet, come la predisposizione allo sviluppo di disturbi dissociativi possa essere frutto di una “debolezza psicologica” intrinseca nata in seno a un attaccamento insicuro, cosa che trova conferme nelle ricerche più attuali e ben approfondito nel già citato “Sviluppi traumatici”. Porta inoltre numerose evidenze neurobiologiche a sostegno della tesi originaria di Janet tra cui, per esempio, il modello di lettura patogenetica del PTSD per via di un indebolimento delle funzioni esecutive a carico della corteccia prefrontale approfondito estesamente da Ruth Lanius). L’idea che Liotti esprime con forza -non solo qui, ma in tutta la sua produzione- è che il modello Janetiano possa costituirsi come nuovo punto di convergenza tra differenti apporti scientifici, su più livelli (Teoria dell’attaccamento, ricerca neuroscientifica, evidenza clinica).
  • Il libro pone un punto di chiarimento a proposito di quello che Janet chiama disaggregation. Capraro, nel suo articolo, tenta di chiarificare la concezione del termine dissociazione per come lo usò Janet. Quello che qui è importante sottolineare è che occorre distinguere il termine dissociazione dal termine disaggregation. Janet contemplava l’idea che un disturbo ampio come la disaggregation (scarsa tenuta della forza mentale, mancata sintesi da parte dell’Io) potesse contemplare al suo interno un ulteriore problema, strutturale, che chiamava appunto dissociation. Ovvero: a un primo momento di scarsa tenuta delle funzioni mentali superiori, poteva seguire un momento di vera e propria spaccatura verticale della personalità (quella che oggi chiamiamo dissociazione strutturale della personalità). Torniamo quindi a due tipologie diverse di quella che oggi chiamiamo dissociazione, ma che Janet chiamava in modo diversificato. Interessante osservare come il trauma, Capraro riporta, possa risultare in due tipologie di risposta: una di iper-arousal, l’altra dissociativa, come approfondito sempre da Ruth Lanius.
  • Janet distingueva la forza psicologica, dalla tensione psicologica. Per tensione psicologica intendeva la capacità di “mantenere” la complessità, di “creare ordine e di fare sintesi”. Intendeva in questo senso il lavoro dell’Io come un lavoro di “sintesi” (l’Io è un coordinamento). Questa tensione “superficiale” (come la tensione superficiale dell’acqua) permette all’individuo di percepirsi unitario, coeso e coerente. Al di sotto di questa, Janet considerava allo stesso tempo la presenza di una forza psicologica, di origine temperamentale, per la verità poco spiegata da Janet stesso se non come un misto tra forza muscolare (corpo) e forza morale (mente)
  • Il libro prosegue delineando le tre fasi, o momenti, dell’adattamento post-traumatico. Il capitolo in questione è firmato dai più noti -probabilmente- al momento psicotraumatologi a livello mondiale: Vad der Hart e Van der Kolk, insieme a Paul Brown. Quali sono le fasi dell’adattamento di un soggetto a un trauma, secondo la teoria di Janet? Gli autori ricordano che Janet teorizzava tre momenti principali di questo lavoro di adattamento:
    1. miscela di reazioni dissociative/isteriche, ruminazione eccessiva e agitazione generalizzata scatenata dall’evento traumatico
    2. ossessione e ansia generalizzata di cui spesso è difficile riconoscere l’eziologia traumatica
    3. declino post-traumatico (con somatizzazioni, depersonalizzazione, depressione) seguito da apatia e ritiro sociale conclusivo.
  • Viene quindi illustrato in modo dettagliato il modello trifasico di approccio allo stress post-traumatico, secondo i dettami posti da Janet stesso a riguardo delle diverse modalità di intervento. Gli autori osservano come Janet abbia portato diversi contributi di valore, e originali per l’epoca, in grado ancor oggi di manifestare il loro valore in senso clinico. Un aspetto in particolare che andrebbe sottolineato, poichè poco conosciuto relativamente al corpus teorico janetiano, è il modello dell’economia mentale di Janet, che di fatto rappresenta il razionale di intervento del modello trifasico. Gli autori sottolineano come l’energia psichica dedicata alla gestione del trauma, sia in grado di “interferire con la capacità di sublimare e fantasticare, bloccando il pensiero come azione sperimentali”. Il lavoro di psicoterapia in questo senso mirerebbe a meglio utilizzare, in modo economicamente più conservativo ed eventualmente migliorativo, questa quota di “energia psicologica” sovra-utilizzata dal trauma.
  • Pat Ogden chiude il volume con un’esauriente contestualizzazione della psicoterapia sensomotoria entro la cornice della teoria di Pierre Janet che, di fatto, aveva posto già al tempo il problema degli “atti di trionfo”. La Ogden, infatti, negli anni ‘80 costruì un impianto metodologico psicoterapico (la psicoterapia sensomotoria, appunto) che intendeva integrare approcci bottom-up alla classica psicoterapia usata per i traumi. La sua idea era quella di lavorare sul corpo, affinché quest’ultimo potesse dissipare le tendenze all’azione rimaste congelate al tempo del trauma. Va ricordato che la Ogden, in quanto allieva di Peter Levine, riprende l’idea che il trauma si costituisca solo in compresenza di profondo terrore e immobilità. Il corpo rimane durante il trauma immobilizzato in modo passivo, senza poter “esprimere” un’azione di contrasto, una controforza al trauma stesso. Queste forze non espresse, la Ogden sottolinea, andranno “evacuate” o dissipate attraverso il canale corporeo: la “talking cure”, da sola, potrebbe non bastare (si veda anche questo articolo su State of Mind).

In definitiva questo volume rappresenta un contributo di eccezionale rilevanza per riprendere e riscoprire, appunto Janet. Vi si evince inoltre la natura profondamente Janetiana di praticamente tutta la psicoterapia di taglio psicotraumatologico più recente -dall’approccio trifasico, agli approcci bottom-up, alla riscoperta del “corpo” come centrale nel lavoro di cura, all’abbandono delle posizioni iper-sessualizzate freudiane relative al trauma.

Vi si intravede la portata “storica” dell’impatto di Janet sullo studio della psicologia umana relativamente (ma non solo) al trauma.

Il fatto che la neurobiologia relativa al trauma avvalli la concezione gerarchica della mente già appoggiata da Janet (una mente fondamentalmente animalesca, naturale, etologicamente giustificata quando sottoposta a un evento traumatico), che in essa sappiano incastrarsi la Teoria dell’attaccamento (come evidenziato da Liotti), la Teoria Polivagale, molti aspetti della stessa psicologia dinamica, propende per una riscoperta obbligatoria e definitiva di Janet, sempre più necessaria, verso una sua liberatoria emancipazione da Freud.

Due estratti dal volume:

  1. Secondo Janet, i processi causali dei traumi psichici possono essere riassunti come segue. Nel caso di una costituzione psichica già indebolita, il trauma produce forti emozioni. A causa di modelli disadattivi di reazione, gli individui non sono in grado di affrontare la difficile situazione. Continuano a fare degli sforzi per affrontarla. Questi ripetuti sforzi provocano un esauri- mento dell’energia psichica (tensione o forza), a cui conseguono diversi tipi di disturbi mentali. In caso di tensione sufficiente ma forza insufficiente, le idee non diventano subcoscienti ma causano disturbi che Janet designava come “psicoastenia”. In caso di tensione insufficiente ma forza sufficiente, le idee indeboliscono la sintesi psichica e, quindi, la connessione della coscienza. Le idee diventano fisse e subconsce, il campo della coscienza limi- tato e la suggestionabilità aumentata. Janet ha etichettato i disturbi derivanti da questo processo come “isteria”
  2. Janet organizzava il trattamento di questo esaurimento mentale attorno a tre principi economici: aumentare le entrate psicologiche promuovendo il sonno e la dieta; ridurre le spese curando condizioni mediche coesistenti e alleviando crisi e agitazione; liquidare i debiti, risolvendo ricordi traumatici. Janet ha sostenuto due strategie per il trattamento della disorganizzazione mentale: incanalare in modo costruttivo energie che altrimenti verrebbero sprecate nelle agitazioni e stimolare il livello di energia mentale con metodi quali il far svolgere compiti progressivamente più difficili

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16 marzo 2020

NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO

di Raffaele Avico

Il lavoro di Lidia Dutto, traduttrice, linguista, etnografa impegnata da anni nella stesura di lavori incentrati sulla cultura della Valle Pesio (CN), al momento consta di una Collana di libri autoprodotti tuttora in fase di scrittura con diverse tematiche inerenti le tradizioni e il folklore delle genti della suddetta area circoscritta della provincia di Cuneo. I volumi della Collana possono essere qui visionati.

Come si osserva, i lavori hanno ognuno un contenuto specifico. Il lavoro di approfondimento etnografico è il risultato, per ognuno di questi temi, di un lavoro di interviste fatte con un numero elevato di testimoni locali, nell’arco di un periodo superiore ai 20 anni.

Uno di questi volumi, “Nelle corna del bue lunare”, affronta il tema della etnoiatria, o della medicina popolare (compresa la psichiatria, per così dire, popolare), indagata nella Valle Pesio a partire da testimonianze di anziani locali, quindi in grado di raccontare fedelmente i costumi di un tempo che, come si evince dalla lettura, allunga le sue “ombre” ancora sul tempo d’oggi, con il sopravvivere di metodologie “alternative” di cura. Nel testo, si parla di “segnature” di vermi, uso di erbe medicamentose, fiori, ricorso alla grazia di Santi venerati ognuno per uno specifico male, il tutto integrato alle pratiche più riconosciute dalla medicina intesa in senso scientifico.

La medicina di retaggio folkloristico e popolare, pre-scientifica, creatasi nel susseguirsi dei secoli molto indietro nella storia, sembra essersi storicamente posta in modo alternativo alla medicina “ufficiale”, a causa di alcune questioni peculiari:

  1. scarsa possibilità di accesso alla figura del medico nei territori di alta montagna, soprattutto d’inverno
  2. scarsa fiducia nei metodi ufficiali e diffidenza dalla categoria medica
  3. retaggio culturale di provenienza pagana, pre-scientifico; presenza di pensiero magico
  4. difficile accesso economico alla categoria medica

Da un lato, il libro ci racconta di una serie di usanze popolari che potremmo ascrivere alla categoria generale di “medicina popolare” considerando come il contatto con la natura, in passato, procurasse tutto il necessario affinché certe malattie venissero trattate con piante, fiori e altri materiali disponibili. Dall’altro, vengono messe in luce pesanti incursioni di pensiero “magico”, approcci astrologici e credenze connesse alla religione cristiana.

Per esempio, viene osservato come la medicina popolare trovasse un suo razionale di intervento nelle fasi lunari (la Dutto su questo ha scritto un libro focalizzato sul tema dell’Epatta). Oppure, alcune forme di terapia sembravano essere connesse all’utilizzo di particolari colori (nel capitolo “colori per lenire”), all’utilizzo del latte materno, o dell’urina. O ancora, il ricorso a Santi e guaritori in grado, per intercessione, di agire su malattie non approcciabili in senso medico.

A proposito di guaritori, la Dutto raccoglie importanti testimonianze su pratiche di guarigione mediate da:

  • “segnatori” di vermi
  • donne in grado di sciogliere un “malocchio” o un influsso malefico a opera di spiriti o entità malefiche locali (nel capitolo “il potere del male, gli intermediari del bene”)
  • “settimini” in grado di estirpare porri o verruche
  • persone in grado di “mettere a posto” il corpo attraverso la sua manipolazione

Infine, va fatto un accenno alla parte quarta del volume, incentrato sul disagio psicologico nella cultura popolare. In questo senso, questo volume rappresenta una delle poche testimonianze relative alla realtà Piemontese che si addentrino all’interno del disagio psichico letto attraverso la lente della cultura popolare. Vengono citate diverse problematiche, dalla “picundria” (mal d’amore), alla follia intesa in senso di “scompenso psicotico”, allo spavento (che potremmo rileggere oggi come “trauma” o evento traumatico).

A proposito dello spavento (“sboi” in piemontese), viene osservato dalla Dutto che, nelle parole dei testimoni, allo spavento vengono attribuite pesanti conseguenze a livello di salute sia psichica che fisica dell’individuo, sia negli adulti che nei bambini. Allo sboi consegue un “ribollimento del sangue” e una successiva sopraggiunta “fragilità” dell’individuo, “soggetto a disordini fisici e mentali”. Qui la Dutto cita un altro testo curato da Tullio Seppilli del 1989 (“Le tradizioni popolari in Italia. Medicina e Magie”), in cui I.Signorini scrive, a proposito dello spavento:

“ il primo immediato effetto è quello che può essere definito una “desunstanziazione” dell’elemento dinamico fondamentale della vitalità, il sangue, che secondo la teoria popolare subisce un arresto al momento dell’incidente e che poi, alla ripresa del movimento, ha un flusso più lento, mentre la sua tinta sbiadisce e la sua sostanza si fa più acquosa. A questi sintomi “interni” del decadimento della capacità vitale che il colpito sperimenta, corrispondono quelli della stanchezza, mancanza di appetito, insonnia, abulia, perdita dell’incarnato, squilibrio nervoso, arresto della crescita nei bambini, cessazione delle mestruazioni”

Gli stessi testimoni intervistati dalla Dutto, sottolineano come lo spavento sia in grado di prostrare l‘individuo conducendolo a una condizione simil-depressiva “da esaurimento”:

“un forte spavento può sfasare la persona, può arrecare danno nel senso che la persona arriva a farsi delle fissazioni e a continuare a vedere ciò che l’ha spaventata. Può essere un animale selvatico o altro, che ti rimane impresso nella mente e prima di guarire ci vuole tanto tempo. La persona resta ossessionata, ha paura di vederlo vicino a sè..insomma devasta un po’ la persona”. 

Il che ricorda molto da vicino il problema dello stress post traumatico inteso come disturbo inerente la memorizzazione di un certo evento, in grado di condurre chi ne è colpito a una condizione appunto di sfinimento o di estrema “stanchezza psichica”.

Lidia Dutto tiene una rubrica di etnografia alpina su Psychiatry On Line.

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12 marzo 2020

LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI


di Raffaele Avico

Il volume La mente ossessiva di Francesco Mancini rappresenta un’opera completa e approfondita relativa al trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo. Prende in esame, tra l’altro, modalità molto nuove di fronteggiamento del problema, come la mindfulness e l’EMDR. Grande spazio viene dato all’analisi dei processi di pensiero che impegnano il paziente DOC in pesanti elucubrazioni e ruminazioni inerenti il tema della colpa e della responsabilità.

Vengono presentate sia le forme dell’ossessione, che i suoi contenuti. La forma di un’ossessione riguarda il modo con cui si esprime (dubbio, paura, impulso, immagine e pensiero); il contenuto invece, il tema intorno al quale si muove il pensiero ossessivo.

A riguardo dei contenuti, abbiamo:

Nel volume viene giustamente sottolineata la differenza tra ossessione e ruminazione:

  1. l’ossessione è il pensiero circolare che si ingenera, con le forme e i contenuti sopra esposti
  2. la ruminazione, è il tentativo di “risolvere” o disincagliare l’ossessione creatasi, per via del pensiero stesso (a cui farà seguito la compulsione, più “agìta”, come il ripetere per dieci volte il gesto di chiudere la macchina per risolvere la ruminazione riguardante, appunto, il tema della chiusura o meno della sua serratura)

A riguardo della compulsione, viene osservato prima di tutto l’intenzionalità del gesto (differente quindi da una stereotipia comportamentale tipica di altri quadri patologici di matrice, per esempio, neurologica); in secondo luogo si osserva come essa possa venire ascritta alla classe di conflitti chiamata delle akrasie. L’akrasia è, per definizione, un “fallimento della volontà”: l’individuo in questi casi cede a un comportamento per lui/lei svantaggioso, rendendosi conto che potrebbe fare “altro”, tuttavia partecipando in modo attivo allo stesso fallimento della sua volontà.

Per quanto riguarda le cause del disturbo, gli approcci alla questione -compresi i diversi filoni di ricerca annessi- sono:

  • approccio neurologico (aspetti biochimici e anatomo/funzionali)
  • approccio neuropsicologico (deficit cognitivi e deficit di neuromodulazione)
  • approccio psicologico (scopi, rappresentazioni e credenze a riguardo della realtà esterna)

Il libro mette l’accento sugli aspetti psicologici, per lo più incentrandosi su una serie di studi e teorie riassumibili in quella che viene chiamata Appraisal Theory.

Alcuni aspetti da tenere in considerazione sono:

  1. una delle tematiche centrali, è la tematica della colpa. La colpa è qui intesa in modo duplice: la colpa altruistica viene esperita in ragione di possibili danni agli altri; la colpa deontologica, invece, in ragione di violazioni morali in senso lato. L’obiettivo del paziente DOC, è di garantirsi una completa estraneità da ogni vissuto di colpa, spesso molto difficile. Anzi, la tesi sostenuta in tutto il volume, è che il sintomo DOC possa essere interpretabile come un sovrainvestimento finalizzato a prevenire una colpa.
  2. altro tema, quello della contaminazione. In questo caso, viene centralizzato il tema del confine e dell’”igiene” corporeo/psicologica in senso lato. Contaminazione è da intendersi in senso ampio, come qualcosa che arriva e sovverte la realtà soggettiva dell’individuo in modo definitivo (quindi una malattia, ma anche appunto un “modo di essere nuovo” che destituirà l’individuo a sè stesso, come l’”essere pedofilo” od omosessuale).
  3. Esistono alcuni errori grossolani della cognizione tipici del DOC, per esempio la fusione pensiero/azione (se lo penso, allora lo farò), la fusione pensiero/realtà (se lo penso, allora è reale ed esiste e accadrà), la fusione pensiero/desiderio (se lo penso, allora lo desidero), la fusione pensiero/identità (se lo penso, lo sono), la coincidenza tra possibilità e probabilità; questi bias cognitivi puntellano la sovrastruttura para-delirante, più grande, che regge il DOC (costruita come dicevamo sui temi di iper-responsabilità e colpa supposta perenne)
  4. la consapevolezza del disturbo è oscillante: è presente “da lontano”, e scompare “da vicino”; questo significa che la consapevolezza di malattia affievolisce quando vi sia un episodio DOC in atto
  5. il mantenimento di un DOC sembra poggiare su rapporti di forza: un dovere morale “superiore” potrà vincere su un dovere morale “inferiore” (viene portato l’esempio di una donna ossessionata dal cancro: a seguito dell’ammalarsi del marito -di cancro- il dovere morale inerente il suo accudimento vinceva sulle sue strategie di evitamento e compulsioni attuate per evitare di ammalarsi lei stessa); l’ossessione polarizza il pensiero su argomenti “unici” che, come magneti, lo tengono a sè: trovarne di nuovi e più potenti, riuscirà a scollare la mente dai primi.

In senso psicoterapeutico, la direzione dell’intervento andrà verso:

  1. riduzione dei tentativi di soluzione di primo e secondo livello (compulsioni e ruminazioni/tentativi di “allontanare” dalla mente il pensiero ossessivo)
  2. accettazione del rischio (esposizione progressiva al rischio e familiarizzazione con una minaccia più grande)
  3. trasformazione del conflitto in una scelta (dal dubbio ossessivo al compromesso, dal blocco alla responsabilità dell’azione; in questo senso occorre acquisire potere sul sintomo: pensiamo per esempio alle strategie paradossali strategiche finalizzate al fatto che il soggetto decida di mettere in atto e aumenti in modo volontario il rituale)
  4. lavoro sull’ambiente (lavoro con i familiari, finalizzato a far sì che la famiglia non alimenti la costellazione di rituali o compulsioni – famiglia accomodante VS famiglia antagonista)

Infine, nel volume viene ampiamente consigliato il ricorso alla creazione di uno “schema” visivo del disturbo DOC, come riportato qui di seguito:

Per approfondimenti:

  1. la scala di valutazione più usata e affiabile per una valutazione del DOC, è la Yale Brown
  2. qui un approfondimento in PDF di alcuni capitoli del volume di Mancini La mente ossessiva (27 pagine)
  3. intervista a Francesco Mancini
  4. Avrò chiuso la porta di casa?

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  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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