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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

31 agosto 2020

SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO

di Raffaele Avico

Il circuito di reward, come qui descritto, è il sostrato neuroanatomico di un meccanismo “profondo” che produce comportamenti di dipendenza, in qualunque forma questa si manifesti. Il circuito di reward, funziona per mezzo di un neuromediatore chiamato dopamina, che viene rilasciato ogni volta proviamo gratificazione (per esempio, un buon pasto produce un rilascio di dopamina, ma anche lo zucchero, una notifica su facebook, un “tiro” di cocaina, in quantità e tempi diversi). Se il problema dell’addiction è un problema incentrato sulla dopamina, chi riuscisse -ipoteticamente- a indurre un suo rilascio nel cervello di un cliente, ne farà un cliente “che ritorna”: esiste a proposito di questo un “mercato della dopamina”, appunto, creato da chi, consapevole dei meccanismi che regolano l’addiction, produce prodotti a forte rilascio di dopamina, che quindi inducono nell’utente un forte legame di dipendenza. Pensiamo per esempio al mercato degli snack dolci, allo zucchero contenuto nei cibi venduti dai fast food, al junk food, etc.: tutto così gratificante da creare dipendenza. La domanda centrale che si pone chi lavora nel mercato della dopamina, sarà dunque: come posso fare a creare un prodotto che procuri forte gratificazione (e quindi un rilascio di dopamina, e di conseguenza un ritorno probabile del cliente al consumo)?

Consideriamo che il circuito di reward coinvolge anche la memoria, che imprime il ricordo gratificante nella mente di chi l’ha vissuto, per far sì che l’esperienza gratificante venga ripetuta.

Senza dopamina, non mangeremmo, né cercheremmo attivamente partner sessuali, ma neanche scivoleremmo in una dipendenza da cocaina o da smartphone.

Esistono due tipologie di gratificatori:

  1. i gratificatori naturali (le esperienza connesse al cibo, alla sessualità, alle relazioni sociali)
  2. i gratificatori artificiali (che procurano un rilascio di dopamina a partire da qualcosa di innaturale o costruito ad hoc, come il saccarosio contenuto nel junk food, o il meccanismo con cui è creato un social network -attraverso ricompense e stimoli a forte salienza come luci e colori, stesso meccanismo con cui funziona una slot machine-, o ancora le sostanze stupefacenti)

Quando una dipendenza si installa, e quando diviene altamente patologica, i gratificatori artificiali prendono tutto il posto dei gratificatori naturali: passa tutto in secondo piano (come la sessualità e appetito) per lasciar posto al singolo gratificatore artificiale. Uscire da una dipendenza del genere, vuol dire rimettere i gratificatori naturali al loro posto originario, scalzando quelli artificiali: per questo nelle strutture di recupero, per esempio, si lavora per estirpare comportamenti patogeni ricollegando la persona tossicodipendente ai suoi “piaceri” primari, che esistevano prima della tossicodipendenza.

Visti questi aspetti, è importante capire che ci “controlla” il mercato della dopamina, produce consumatori fedeli e grandemente dipendenti, il che genera un enorme introito di denaro collegato al consumo. Abbiamo chiesto a Valerio Rosso, psichiatra psicoterapeuta di Genova ed esperto di psichiatria d’avanguardia che sul suo canale YouTube discute sul mercato della dopamina e di molti altri temi trasversali per la psichiatria e le neuroscienze, un approfondimento su alcune di queste questioni  a proposito del fenomeno:

  1. Valerio, quanto è alto il valore prodotto dai beni “ad alto rilascio” di dopamina?
    Se si considera il totale del business della dopamina, legale ed illegale, si parlano di diverse centinai di miliardi di dollari. Pensate solo ad alcol, nicotina e droghe illegali in europa: si parla di un totale di almeno 300 miliardi di euro per l’alcol, 150 miliardi di euro per il tabacco e circa 20 miliardi di euro per le principali droghe illegali. Aggiungete il business dei Junk Food e vedrete ancora molti miliardi di euro in gioco. Non parliamo poi dei comportamenti disfunzionali che coinvolgono i social network. Inoltre il business della dopamina, nelle sue vecchie e nuove declinazioni, è stabile nel tempo e non risente delle fluttuazioni della crisi, anzi, instabilità e incertezza in qualche maniera lo alimentano perché favoriscono i bisogni anomali delle persone.
  2. Quali sono le fasce della popolazione più colpite?
    Si tratta di un business piuttosto trasversale anche se a subirne le conseguenze dirette e le influenze di marketing sono le fasce più deboli e meno abbienti. Il business della dopamina ha un marketing preciso stimolare la risposta del reward in più persone possibili tramite stimoli accessibili in primis alla grande massa della popolazione, non alle elite. Zucchero, social media, tabacco, alcol sono esempi lampanti di gratificazione dopaminergica a poco prezzo.
  3. Qual è il meccanismo con cui ci si può difendere?
    Come sempre, l’unico meccanismo di difesa contro le dipendenze ed il bisogno anomalo è la consapevolezza che deriva dalla conoscenza. Se uno conosce cosa accade intorno a lui, può riuscire a trovare delle proprie buone ragioni per cambiare un comportamento disfunzionale.
  4. Cosa pensi, in breve, del futuro della salute mentale?
    La psichiatria, per progredire e per rispondere alle richieste della popolazione, dovrà uscire dalla posizione un pochino arroccata ed aristocratica che ha mantenuto per tutto il ‘900. Dovrà uscire dai suoi schemi, farsi contaminare da nuovi linguaggi e dalla rivoluzione del digitale, come la grande innovazione dell’intelligenza artificiale che sta per cambiare tutta la medicina per sempre.

Sul problema “dipendenze”, consigliamo Psicoattivo.


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21 aprile 2020

RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?

di Raffaele Avico

Il volume Riscoprire Pierre Janet si pone come obiettivo principale una rassegna breve ma approfondita di ciò che è stato l’apporto di Pierre Janet sulla psicopatologia e psicoterapia moderna, per via di una serie di contributi a opera di personaggi di grande rilevanza attuale in tema “psicotraumatologia”, come Onno van der Hart, Bessel Van der Kolk, Pat Ogden, Giovanni Liotti.

Il libro è stato tradotto in italiano ed è acquistabile qui. Ci si mostra un Janet “dedito” alla causa, umile in senso “scientifico”, dovizioso nella rendicontazione degli aspetti clinici dei pazienti, altamente moderno alla luce delle recenti teoria sulla psicotraumatologia.

Alcuni punti da tenere in considerazione sono:

  • la concezione di isteria promossa da Janet differiva in modo sensibile dalla concezione in seguito promossa da Freud, divenuta poi dominante. Freud concettualizzava la genesi dell’isteria come il risultato di un’opera fallimentare di rimozione a carico della struttura dell’Io, con grandi ricadute sul corpo, “teatro” dei quella stessa opera di rimozione non riuscita. Vi si metteva al centro un atto di volontà da parte del soggetto che avrebbe tentato di sospingere sul “fondo” della propria mente una serie di contenuti scabrosi o inaccettabili alla coscienza; quegli stessi contenuti sarebbero tornati alla coscienza tramite reminiscenze. Janet a proposito di questo sovvertiva la visione freudiana considerando come il problema dell’isteria non sarebbe consisitito, dal suo punto di vista, in un problema di “atto di volontà” fallimentare da parte del soggetto, quanto piuttosto in un indebolimento delle strutture più alte della mente che avrebbero dovuto in condizioni normali promuovere un atto di sintesi di quegli stessi contenuti “difficili”. Quello che accade in un disturbo isterico, secondo Janet, è un allentamento delle funzioni mentali “superiori” con una seguente impossibilità di integrare e “sintetizzare” contenuti (di natura traumatica o meno) a livello di coscienza personale. La differenza è sottile ma netta: da un lato (e questo lo sottolinea bene Liotti nel suo articolo contenuto nel volume) un movimento che oggi potremmo definire top-down (tento attivamente di sospingere contenuti “difficili” in profondità, operando un gesto di forza psicologica) teorizzato da Freud, dall’altro -nella visione di Janet- un’impossibilità da parte delle funzioni mentali superiori di “arginare” quello che dal basso “arriva”, per via di una debolezza strutturale contestuale, causata da diversi fattori: un movimento quindi bottom-up, dal basso verso l’alto. Come si legge nel libro, Freud criticò a Janet questa visione del disturbo isterico osservando come lo stesso Janet tendesse a considerare le isteriche come persone “deboli”, con poca forza mentale, “sottostimandone” le facoltà mentali e intellettive.
  • questa lettura del disturbi isterico, ci racconta di una differente concettualizzazione di mente promossa da Janet. La mente teorizzata da Janet, è una mente operante secondo una logica di gerarchia, dove le parti più “alte” sono in grado di modulare e frenare, o meglio, sintetizzare in modo armonico le spinte provenienti dalle zone più “basse”. Questo modello di lettura della mente è affine alla teoria neo-jacksoniana promossa da Ey, alla teoria del cervello tripartito di MacLean; inoltre, riconsegna l’individuo alla sua natura animale, de-responsabilizzandolo rispetto alla sua stessa sofferenza.
  • nel libro viene messo in risalto l’apporto di Sandor Ferenczi alla psicotraumatologia contemporanea, in grado di compiere una integrazione fruttuosa tra Freud e Janet, di fatto tenendo a mente gli aspetti inerenti l’espressione della sessualità e la questione janetiana riguardante la struttura dell’Io.  Ferenczi mise in risalto il fattore “esogeno” del trauma: ovvero, il trauma sarebbe dal suo punto di vista qualcosa di relazionale, sempre dialettico, proveniente dall’esterno del soggetto. La teoria sul post-trauma di Ferenczi, inoltre, ben si presta a un paragone con la teoria delle strategie controllanti promossa da Liotti. Cos’è il wise-baby di Ferenczi, se non il bambino con un attaccamento invertito per ragioni di sopravvivenza teorizzato da Liotti e Farina in Sviluppi Traumatici?
  • Il volume prosegue con un articolo uscito postumo -rivisto da Marianna Liotti-, scritto da Giovanni Liotti, a proposito del “segno” lasciato da Janet sulla psicotraumatologia contemporanea. Liotti qui riprende molte idee già sviluppate nei suoi lavori precedenti. Liotti,come si diceva in precedenza, sottolinea la differenza tra le posizioni di Freud e Janet a riguardo dello sviluppo di un disturbo isterico: in Freud, parliamo di un’attiva difesa mentale; in Janet, troviamo come concausa principale un restringimento del campo della coscienza come “effetto passivo dell’emozione veemente”. Inoltre, Liotti mette in luce la differente concezione di inconscio promossa dai due autori: in Freud, pervaso da spinte sessualmente-orientate (o eventualmente auto-distruttive); in Janet, mosso da tendenze all’azione di darwiniana memoria, strettamente naturali, osservabili nell’uomo come negli animali.
    Liotti, in linea con le osservazioni cliniche fatte durante il suo lavoro di ricerca, considera, insieme a Janet, come la predisposizione allo sviluppo di disturbi dissociativi possa essere frutto di una “debolezza psicologica” intrinseca nata in seno a un attaccamento insicuro, cosa che trova conferme nelle ricerche più attuali e ben approfondito nel già citato “Sviluppi traumatici”. Porta inoltre numerose evidenze neurobiologiche a sostegno della tesi originaria di Janet tra cui, per esempio, il modello di lettura patogenetica del PTSD per via di un indebolimento delle funzioni esecutive a carico della corteccia prefrontale approfondito estesamente da Ruth Lanius). L’idea che Liotti esprime con forza -non solo qui, ma in tutta la sua produzione- è che il modello Janetiano possa costituirsi come nuovo punto di convergenza tra differenti apporti scientifici, su più livelli (Teoria dell’attaccamento, ricerca neuroscientifica, evidenza clinica).
  • Il libro pone un punto di chiarimento a proposito di quello che Janet chiama disaggregation. Capraro, nel suo articolo, tenta di chiarificare la concezione del termine dissociazione per come lo usò Janet. Quello che qui è importante sottolineare è che occorre distinguere il termine dissociazione dal termine disaggregation. Janet contemplava l’idea che un disturbo ampio come la disaggregation (scarsa tenuta della forza mentale, mancata sintesi da parte dell’Io) potesse contemplare al suo interno un ulteriore problema, strutturale, che chiamava appunto dissociation. Ovvero: a un primo momento di scarsa tenuta delle funzioni mentali superiori, poteva seguire un momento di vera e propria spaccatura verticale della personalità (quella che oggi chiamiamo dissociazione strutturale della personalità). Torniamo quindi a due tipologie diverse di quella che oggi chiamiamo dissociazione, ma che Janet chiamava in modo diversificato. Interessante osservare come il trauma, Capraro riporta, possa risultare in due tipologie di risposta: una di iper-arousal, l’altra dissociativa, come approfondito sempre da Ruth Lanius.
  • Janet distingueva la forza psicologica, dalla tensione psicologica. Per tensione psicologica intendeva la capacità di “mantenere” la complessità, di “creare ordine e di fare sintesi”. Intendeva in questo senso il lavoro dell’Io come un lavoro di “sintesi” (l’Io è un coordinamento). Questa tensione “superficiale” (come la tensione superficiale dell’acqua) permette all’individuo di percepirsi unitario, coeso e coerente. Al di sotto di questa, Janet considerava allo stesso tempo la presenza di una forza psicologica, di origine temperamentale, per la verità poco spiegata da Janet stesso se non come un misto tra forza muscolare (corpo) e forza morale (mente)
  • Il libro prosegue delineando le tre fasi, o momenti, dell’adattamento post-traumatico. Il capitolo in questione è firmato dai più noti -probabilmente- al momento psicotraumatologi a livello mondiale: Vad der Hart e Van der Kolk, insieme a Paul Brown. Quali sono le fasi dell’adattamento di un soggetto a un trauma, secondo la teoria di Janet? Gli autori ricordano che Janet teorizzava tre momenti principali di questo lavoro di adattamento:
    1. miscela di reazioni dissociative/isteriche, ruminazione eccessiva e agitazione generalizzata scatenata dall’evento traumatico
    2. ossessione e ansia generalizzata di cui spesso è difficile riconoscere l’eziologia traumatica
    3. declino post-traumatico (con somatizzazioni, depersonalizzazione, depressione) seguito da apatia e ritiro sociale conclusivo.
  • Viene quindi illustrato in modo dettagliato il modello trifasico di approccio allo stress post-traumatico, secondo i dettami posti da Janet stesso a riguardo delle diverse modalità di intervento. Gli autori osservano come Janet abbia portato diversi contributi di valore, e originali per l’epoca, in grado ancor oggi di manifestare il loro valore in senso clinico. Un aspetto in particolare che andrebbe sottolineato, poichè poco conosciuto relativamente al corpus teorico janetiano, è il modello dell’economia mentale di Janet, che di fatto rappresenta il razionale di intervento del modello trifasico. Gli autori sottolineano come l’energia psichica dedicata alla gestione del trauma, sia in grado di “interferire con la capacità di sublimare e fantasticare, bloccando il pensiero come azione sperimentali”. Il lavoro di psicoterapia in questo senso mirerebbe a meglio utilizzare, in modo economicamente più conservativo ed eventualmente migliorativo, questa quota di “energia psicologica” sovra-utilizzata dal trauma.
  • Pat Ogden chiude il volume con un’esauriente contestualizzazione della psicoterapia sensomotoria entro la cornice della teoria di Pierre Janet che, di fatto, aveva posto già al tempo il problema degli “atti di trionfo”. La Ogden, infatti, negli anni ‘80 costruì un impianto metodologico psicoterapico (la psicoterapia sensomotoria, appunto) che intendeva integrare approcci bottom-up alla classica psicoterapia usata per i traumi. La sua idea era quella di lavorare sul corpo, affinché quest’ultimo potesse dissipare le tendenze all’azione rimaste congelate al tempo del trauma. Va ricordato che la Ogden, in quanto allieva di Peter Levine, riprende l’idea che il trauma si costituisca solo in compresenza di profondo terrore e immobilità. Il corpo rimane durante il trauma immobilizzato in modo passivo, senza poter “esprimere” un’azione di contrasto, una controforza al trauma stesso. Queste forze non espresse, la Ogden sottolinea, andranno “evacuate” o dissipate attraverso il canale corporeo: la “talking cure”, da sola, potrebbe non bastare (si veda anche questo articolo su State of Mind).

In definitiva questo volume rappresenta un contributo di eccezionale rilevanza per riprendere e riscoprire, appunto Janet. Vi si evince inoltre la natura profondamente Janetiana di praticamente tutta la psicoterapia di taglio psicotraumatologico più recente -dall’approccio trifasico, agli approcci bottom-up, alla riscoperta del “corpo” come centrale nel lavoro di cura, all’abbandono delle posizioni iper-sessualizzate freudiane relative al trauma.

Vi si intravede la portata “storica” dell’impatto di Janet sullo studio della psicologia umana relativamente (ma non solo) al trauma.

Il fatto che la neurobiologia relativa al trauma avvalli la concezione gerarchica della mente già appoggiata da Janet (una mente fondamentalmente animalesca, naturale, etologicamente giustificata quando sottoposta a un evento traumatico), che in essa sappiano incastrarsi la Teoria dell’attaccamento (come evidenziato da Liotti), la Teoria Polivagale, molti aspetti della stessa psicologia dinamica, propende per una riscoperta obbligatoria e definitiva di Janet, sempre più necessaria, verso una sua liberatoria emancipazione da Freud.

Due estratti dal volume:

  1. Secondo Janet, i processi causali dei traumi psichici possono essere riassunti come segue. Nel caso di una costituzione psichica già indebolita, il trauma produce forti emozioni. A causa di modelli disadattivi di reazione, gli individui non sono in grado di affrontare la difficile situazione. Continuano a fare degli sforzi per affrontarla. Questi ripetuti sforzi provocano un esauri- mento dell’energia psichica (tensione o forza), a cui conseguono diversi tipi di disturbi mentali. In caso di tensione sufficiente ma forza insufficiente, le idee non diventano subcoscienti ma causano disturbi che Janet designava come “psicoastenia”. In caso di tensione insufficiente ma forza sufficiente, le idee indeboliscono la sintesi psichica e, quindi, la connessione della coscienza. Le idee diventano fisse e subconsce, il campo della coscienza limi- tato e la suggestionabilità aumentata. Janet ha etichettato i disturbi derivanti da questo processo come “isteria”
  2. Janet organizzava il trattamento di questo esaurimento mentale attorno a tre principi economici: aumentare le entrate psicologiche promuovendo il sonno e la dieta; ridurre le spese curando condizioni mediche coesistenti e alleviando crisi e agitazione; liquidare i debiti, risolvendo ricordi traumatici. Janet ha sostenuto due strategie per il trattamento della disorganizzazione mentale: incanalare in modo costruttivo energie che altrimenti verrebbero sprecate nelle agitazioni e stimolare il livello di energia mentale con metodi quali il far svolgere compiti progressivamente più difficili

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4 aprile 2020

ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI

clicca per il video

di Raffaele Avico

In questa lezione tenuta per il master in psicoterapia di comunità fatto per Il Porto (Moncalieri), Antonello Correale si addentra nel vissuto di un soggetto con un disturbo grave di personalità: il suo obiettivo è comprendere dall’interno il “troppo” di un soggetto Borderline.

Cerchiamo di comprendere per punti quali sono gli aspetti principali del suo intervento:

  1. LA MANCANZA DI SOLITUDINE BUONA
    citando l’opera A Porte chiuse di Sartre, Correale immagina due persone costrette a una convivenza forzata in una stanza chiusa (da quest’opera è citata la frase “l’inferno sono gli altri”). Il Soggetto borderline viene “penetrato” dall’altro in senso emotivo: reagisce all’altro in modo forte ed eccessivo, a causa di un mancanza di “spazio” personale, che diviene difficilmente ritagliabile, di una mancanza di “solitudine” buona che possa consentirgli/le una decompressione emotiva e soprattutto un dialogo immaginato con l’altro, una riflessione sull’altro. Con il borderline si entra “subito in camera da letto”, intendendo con questo un istantaneo accesso all’area intima del rapporto interpersonale, verso un “troppo vicino” che non consente una presa di distanza buona.
  2. LA FRUSTRAZIONE SI FA AZIONE
    Correale ragiona sulla difficoltà per un soggetto borderline di costruire una sdoppiamento “interno” dell’altro, che possa diventare oggetto di pensiero “calmo”. Per il borderline ogni attesa diviene mancanza, ogni solitudine vuoto, ogni distanziamento abbandono: l’altro viene percepito come troppo “significativo”, in grado di “produrre un segno”, troppo presente e quindi doloroso (da qui di nuovo “l’inferno sono gli altri”), il che porta il soggetto a contro-reagire in modo attivo ed eccessivo a seguito della frustrazione interpersonale.
  3. DIPENDENZA AGGRESSIVA
    Il borderline, continua Correale, sembra “aver bisogno di qualcuno di cui non si fida”. Ovvero, siamo di fronte a una dipendenza “corrotta” da una sfiducia di base che genera delle paurose alternanze  tra sei qui ma mi tradirai/non andartene. Quindi: nè con te, nè senza di te. Questa difficile gestione dell’emotività da parte del borderline, produce due risposte tipiche nell’operatore, che oscilla, anch’esso, tra una risposta depressiva (il paziente non progredisce, io non servo a nulla, la colpa è solo mia-qui il “delirio” del depresso) e una risposta paranoicale (la colpa è solo dell’altro, che devo allontanare -qui invece il “delirio” del paranoico); l’alternanza tra le due risposte andrebbe considerata segno, in sè, di una dinamica interpersonale borderline, costituendosi come IL problema centrale del lavoro con questo tipo di pazienti. Correale suggerisce inoltre di affrontare con il paziente borderline il tema, ampio, dell’amore, spesso vissuto come problematico da parte del borderline (oscillante appunto tra dipendenza e sfiducia aggressiva)
  4. ASPETTI MORALI
    Correale ragiona quindi sugli aspetti morali/filosofici della psicologia del soggetto borderline. Il borderline sembra aver minata alla base la fiducia nella bontà morale degli esseri umani, per via di una profanazione, di un danno iniziale (qui entra la Teoria dell’attaccamento di Bowlby, relativamente per esempio alla questione degli Sviluppi Traumatici -d’altronde trauma e quadri borderline vengono sempre più spesso accostati). Correale prosegue ragionando tuttavia su una sorta di “rimpianto” del borderline per questa fiducia tradita, una non-rassegnazione di fronte a questa iniziale ingiustizia, come una sorta di nostalgia “fiduciosa” verso quello che c’era prima, o nonostante, il trauma. Correale descrive il problema borderline come un problema opposto al problema depressivo. Non siamo qui di fronte a soggetti melanconici, o svuotati di energia vitale; siamo di fronte invece a soggetti ambivalenti nei confronti della realtà, o della loro stessa storia, fondamentalmente profondamente coinvolti dall’esperienza vitale.
  5. TRAUMA
    Correale individua, come prima accennato, l’origine del problema borderline, in uno sviluppo traumatico. Trauma va qui inteso come esercizio arbitrario di sopruso e violenza (fisica o psicologica) di un individuo su di un altro individuo impotente (bambino), in modo soprattutto ripetuto e continuativo. Non parliamo qui dunque di trauma singolo, di unico evento traumatico, ma di singoli, minori episodi traumatici che si protraggono per tutta l’infanzia del bambino, senza che questo riesca a darsene una spiegazione comprensibile. Questo procura l’impossibilità di introiettare, seguendo una logica esplicativa psicoanalitica, quello che Winnicott chiama “oggetto buono”, presupposto fondamentale per far sì che il soggetto riesca a generare un’”anticamera”, uno spazio interno di riflessione e, attraverso questo, regolare la sua emotività. Il centro, il nucleo centrale del problema borderline, si situa qui: non tanto nell’essere o meno amati, ma nel come si viene amati.
  6. DISSOCIAZIONE E IDENTIFICAZIONE CON L’AGGRESSORE
    Nel contesto di uno sviluppo traumatico, il borderline sperimenta una dissociazione strutturale della personalità che fa sì che alcune parti rimangano “congelate” al tempo del trauma, e altre proseguano il loro sviluppo temporale, spesso però identificandosi con l’aggressore stesso. Qui torna il tema delle strategie controllanti ben descritte da Liotti: in un rapporto burrascoso tra madre abusante e figlio impotente, per fare un esempio, è possibile che il figlio nel suo sviluppo faccia suoi alcuni aspetti identitari del genitore, in questo modo acquisendo maggiore quote di potere e di controllo. Correale sottolinea infatti come la condizione di helplessness sia intollerabile, sul lungo periodo, in senso psichico. Meglio dunque aggressivi e rabbiosi, ma “potenti”, che docili e buoni, ma “impotenti” e in balia dell’altro. É evidente come su questo punto convergono la psicotraumatologia, la psicoanalisi e la Teoria dell’attaccamento, con un accento tuttavia posto sugli aspetti “psicotraumatologici” dei primi anni di vita, costellati per borderline da traumi “reali”, veri, realmente accaduti, per nulla “inventati” o immaginati dal bambino. Il trauma, quando di trauma si possa parlare, è sempre reale e generato nell’adattamento dell’individuo alla sua realtà.
  7. RIPETIZIONE
    Il trauma induce la ripetizione. Correale su questo punto sottolinea come uno degli aspetti più drammatici del post-trauma sulla vita del soggetto, sia la riproposizione di dinamiche interpersonali disfunzionali. Antonio Semerari li chiama “cicli interpersonali problematici”: la tendenza cioè a ripetere pattern disfunzionali al fine di acquisire maggiori quote di controllo sul trauma originario stesso, oppure per giocare su un terreno già conosciuto.

La seconda parte del video è dedicata al trattamento come equipe del paziente borderline in contesto comunitario; viene dato molto spazio al lavoro di creazione della “sequenza” degli atti che il paziente fa in comunità, per sviscerarne gli aspetti profondi, dopo il loro accadere (apres coup). Per esempio, attraverso la rilettura e il ripensamento degli “enactement”.

A proposito dei cicli interpersonali problematici e delle dinamiche relazionali dei soggetti borderline, merita fare un accenno al lavoro di Antonio Semerari “I disturbi di personalità: modelli e trattamento”. Nella parte del libro dedicata ai quadri borderline, Semerari (che ha una formazione diversa da Correale, arrivando da una scuola cognitivo comportamentale) intende allargare il discorso relativo agli aspetti integrativi del lavoro da fare con il paziente borderline: non si tratterebbe cioè di lavorare per un’integrazione solamente relativa ad aspetti affettivi scissi verso lo stesso oggetto (amore/odio, dipendenza/sfiducia), ma di muoversi verso un lavoro di integrazione più ampio, più “totale”. L’integrazione di quelli che Semerari chiama “stati mentali” diversi e disarmonici, è il presupposto per una coerenza del comportamento. Senza integrazione, non c’è coerenza comportamentale (e questo lo si osserva facilmente nei soggetti borderline). Se poniamo il lavoro “integrativo” come drive centrale e scopo ultimo del lavoro con questa tipologia di pazienti, lavoro da effettuarsi su più livelli, meglio comprendiamo il razionale di intervento di un modello multi-disciplinare e ampio come la Dialectical Behavioral Therapy, la migliore forma di trattamento con questo tipo di problema, riassunta in questo articolo.


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17 gennaio 2020

TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM

di Raffaele Avico

Ecco una sintetica mappa che visivamente ci può dare un’idea di cosa sia opportuno indagare in senso psicopatologico quando si voglia capire il funzionamento “generale” di un paziente. Ogni area, è in grado, potenzialmente, di racchiudere in sé un intero percorso di psicoterapia.

Abbiamo qui approfondito la teoria del network di sintomi portata davanti da Denny Borsboom all’università di Amsterdam. La sua visione è abbastanza chiara: Borsboom parla  di una rete di sintomi psicopatologici o almeno di fenomeni psichici in grado di cambiare il ”campo” psicologico, di momento in momento, seguendo un principio di causalità non lineare, ma circolare.

Il principio di causalità circolare regola il comportamento interno di ogni sistema complesso. Un sistema complesso è costituito di un insieme di variabili in cui ogni singola variabile influenza potenzialmente tutte le altre, nel tempo. Borsboom osserva come il campo psicologico di un individuo non possa essere ricondotto a un principio lineare di funzionamento: è necessario secondo il suo punto di vista abbracciare una visione più ampia, tipica di chi si approcci, appunto, allo studio dei sistemi complessi.

I sistemi complessi hanno alcune caratteristiche peculiari, o principi:

  • non sono regolati da un principio di causalità lineare, ma circolare
  • sono prevedibili solo in modo parziale: è logicamente più corretto tentare di prevedere delle “tendenze” (l’economia è un sistema complesso, per esempio – il suo sviluppo non è totalmente prevedibile)
  • se si osserva uno stormo di uccelli in volo (che si muove in modo apparentemente unificato, mosso da un principio di mutua coordinazione reciproca tra ogni uccello dello stormo che, rapportandosi a ognuno degli altri, “unifica” il sistema e lo rende “compatto”), si noterà che lo     stormo assume delle forme che cambiano producendo dei “bordi”, come se lo stormo stesso avesse una sua vita o una sua natura “superiore alla somma delle sue parti”. Questo succede in conseguenza dell‘interazione di ogni variabile con tutte le altre variabili, in ragione di un doppio principio –dialogico e ricorsivo– che muove ogni variabile del sistema a dialogare con tutte le altre variabili e ad auto-modulare il suo comportamento a partire dai feedback che riceve dagli altri membri del sistema
  • Il meccanismo del feedback positivo è centrale quando si parli di teoria della complessità. Ovvero, un determinato fenomeno si rinforzerà e tenderà a presentarsi sempre di più a causa dell’effetto che quella stesso fenomeno avrà avuto sul sistema (come per il cambiamento climatico, accelerato dalla riduzione delle “aree bianche” -come ghiacciai o i poli- che avrebbero rimbalzato meglio la luce solare contribuendo a raffreddare il globo, come spiegato meglio qui); nel disturbo da stress post traumatico, uno stato di allarme protratto produce insonnia, che diminuisce la possibilità di elaborare e “cognitivizzare” il ricordo del trauma, aumentando ancor più il potenziale patogeno del PTSD, e così, via in un feedback positivo
  • un sistema complesso vive in una condizione chiamata “orlo del caos”, al confine cioè tra una condizione di dispersione/caos in cui ogni variabile del sistema fa “cosa vuole”, e una condizione di chiusura del sistema in cui ogni variabile è bloccata dalla presenza delle altre. In un sistema complesso, il permanere sull’orlo del caos produce un ambiente ottimale alla sopravvivenza e all’evoluzione stessa del sistema

Cosa c’entra la teoria della complessità con la psicopatologia? Recentemente si sono osservati movimenti per così dire “avanguardistici” che hanno intentato nuove modalità di classificazione e concettualizzazione dei disturbi psichici (rDoC, l’HitoP), mirate a trascendere o superare il modello lineare classico medico (SINTOMO A= PROBLEMA B + PROBLEMA C) in particolar modo in ambito di psichiatria e psicologia clinica. Borsboom porta la cosa sul campo della psicologia clinica, allargando il campo, e proponendo una visione circolare e complessa dell’insieme dei sintomi portati da una determinata persona.

..ovvero, uno stato mentale da pensarsi come il prodotto finale di un processo di interazione tra diversi elementi, tutti da considerare sullo stesso piano (con delle eccezioni, ovvero, con dei sintomi DI MAGGIOR PESO SUL SISTEMA, come, per esempio nei quadri PTSD, l’insonnia), tra loro mutuamente dipendenti.

Quindi, per esempio, aver subito un trauma, potrebbe portare a insonnia, quindi a disforia, quindi a “cicli interpersonali problematici”, quindi a isolamento, quindi a depressione, e così via; oppure, nel caso di un “vulnus” paranoideo “primario” (cioè, semplicemente, rappresentare lo “sguardo” dell’altro come uno sguardo maligno o intrusivo, sintomo molto comune che però diviene, quando molto intenso, altamente invalidante), questo potrebbe portare a evitamenti, quindi a isolamento, quindi a tono depressivo dell’umore, qiundi a insonnia, quindi a disforia, etc.etc.

Il modello proposto da Borsboom, è un modello che obbliga il clinico a ragionare, diagnosticamente ma anche prognosticamente, in modo nuovo; per “approcciare” o trattare per esempio una depressione, gli verrà chiesto di partire inserendo nel quadro complessivo del paziente degli elementi nuovi che possano rompere i feedback positivi sopra i quali quello stesso sintomo sembri appoggiarsi; quindi, per esempio, lavorare sulla qualità del sonno, o sull’uso dell’attività fisica, oppure sul ridurre i comportamenti di evitamento sociale, cosa che potrebbe idealmente garantire un superiore “apporto “affettivo e ricadere in modo positivo sull’umore.

Il tutto sembra molto intuitivo, ma suggerisce in realtà un modo di pensare altamente non-riduzionistico, ritagliato intorno allo stato mentale del paziente, allargato e più, in qualche modo, “reale” o “naturale”.

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15 gennaio 2020

LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO

di Raffaele Avico

Questa serie di video pubblicati dalla comunità Il Porto di Moncalieri (TO) raccoglie una serie di preziosi contributi a proposito della psicoterapia e della psichiatria territoriale e di comunità, effettuata con pazienti spesso gravi.

La psichiatria di comunità rappresenta forse la sfida più grande del territorio e dei servizi, anche solo per la tipologia di pazienti che in essi confluisce, ovvero i più gravi, pazienti che portano con sè doppie diagnosi, tratti antisociali, disturbi gravi di personalità. I pazienti che arrivano a una struttura come il Porto non dimostrano di sapersi gestire in modo autonomo all’esterno: allo stesso tempo il servizio sanitario “classico” non sembra essere in grado di farsene carico in modo tradizionale.

Il Porto, in particolare, si occupa di pazienti suddivisi in due unità principali, una per disturbi psicotici conclamati, l’altra per disturbi di personalità gravi, tossicodipendenti, soggetti autori di reato e altre complesse combinazioni psicopatologiche.

Nel master di psicoterapia di comunità che questi video documentano, come si noterà, intervengono tra i maggiori esperti sul tema, a partire da Vincenzo Villari, passando per Leopoldo Grosso (Gruppo Abele), Paolo Migone, Angelo Malinconico, etc. L’introduzione è a cura di Metello Corulli, ispiratore e fondatore dell’”istituzione” del Porto, venuto a mancare nel 2019.

Alcuni aspetti meritano un breve accenno, anche se sarebbe consigliabile guardare i video per intero da parte di coloro che fossero interessati al tema:

  1. il lavoro di comunità si situa a metà tra un lavoro terapeutico e un lavoro custodialistico: questo ben esplicita Metello a inizio percorso, quando ragiona sulla storia in sè degli istituti di presa in carico per pazienti psichiatrici, da sempre -di fatto- mossi da questo duplice mandato sociale (notare che lo stesso Villari sottolinea come l’SPDC si configuri -anche- come un luogo di custodia funzionale al mantenimento della stabilità sociale)
  2. l’intervento di Leopoldo Grosso consta di un preziosissimo e breve excursus sulla storia delle comunità per tossicodipendenti; Grosso racconta di come la comunità abbia progressivamente abbandonato la sua natura di “format” educativo e pedagogico (pensato negli anni ‘70 per i recupero di tossicodipendenti “puri” -eroinomani per lo più), per abbracciare un diverso modello di intervento molto più calato sul territorio in termini di rapporti con CMS e SERD, ed erogando interventi clinici più personalizzati. Si è passati cioè da un modello pedagogico, a un modello psicoterapeutico, verso un abbandono pressoché completo degli strascichi militaresco/“comportamentistici”, ormai desueti
  3. l’intervento di Alessandro Cerri aiuta a comprendere, almeno in parte, la complessità del ruolo di “operatore di comunità”, ruolo non riconosciuto e grandemente sottovalutato in ambito psichiatrico ma che si costituisce come vero motore del buon funzionamento di una struttura psichiatrica (o almeno, di una struttura psichiatrica come Il Porto).  Ne emerge una figura oltre-genitoriale, o super-genitoriale, laddove l’operatore in comunità debba costituirsi come io-ausiliario del paziente un po’ in tutte le funzioni e gli ambiti della sua vita, dalla gestione della distanza dalla famiglia di origine, a un’auspicata migliore gestione degli impulsi, alla promozione di un lavoro narrativo che consenta una rilettura di aspetti relazionali disfunzionali. L’operatore di comunità è, professionalmente, un essere ibrido tra psicoteraputa, educatore e mentore: nel trasmutare delle diverse maschere professionali che indossa, sta la complessità del suo quotidiano agire, come ben espresso da Alessandro Cerri. Considerata la maestria teorica di molti altri relatori, ma l’assoluta distanza dal lavoro “in prima linea” con i pazienti, questo intervento risulta il più importante in senso formativo. Metello chiude l’intervento ragionando sul parallelismo tra la figura dell’operatore di comunità e la figura del psychosocial nurse di provenienza inglese, un essere ibrido -anch’esso- tra educatore, psicologo e infermiere, obbligato -vista la complessità del ruolo- a trascendere ognuna di queste maschere professionali per soddisfare le richieste di un ambiente complesso come quello, appunto, della comunità terapeutica.
  4. l’intervento di Nicola Pirisino (responsabile d’equipe per la struttura Le Scuderie, che ospita una ventina di pazienti con gravi disturbi di personalità e doppia diagnosi, autori di reato e poliabusatori) sulla doppia leadership, apre una fruttuosa riflessione da un lato sulle fonti di ispirazione culturale (di matrice anglosassone) alla base del modello di lavoro del Porto, dall’altra sul lavoro, nel concreto, con i pazienti. Ogni unità del Porto ha due leader: un responsabile di equipe psicologo psicoterapeuta, e un direttore clinico psichiatra, integrati nell’impostare le traiettorie di cura con ogni paziente. La leadership doppia riprende un concetto e una prassi anglosassone; inoltre, vediamo, la leadership è da pensarsi qui come latente, ovvero “altamente delegante”, il che è il contrario dei modelli “accentratori” in cui esiste un solo leader monocratico intorno al quale si accentra ogni forma di decisione e attraverso il quale debbano passare tutti i flussi di comunicazione. CONFINE, REGOLA e NORMA sono parole usate dal Leader nella comunicazione con il gruppo paziente, per facilitare l'”identificazione introiettiva” di un modello comportamentale diverso: in breve, una trasmissione di valori “nuovi” per via di un processo di transfert, in primo luogo attivato dagli operatori più giovani verso i più anziani e i leader, in secondo luogo da parte dei pazienti verso gli operatori (almeno idealmente). In questo modo, il modello psico-pedagogico viene trasmesso per via introiettiva.
  5. l’intervento di Giorgio Astengo e Franco Freilone, collaboratori del Porto nelle vesti di consulenti per il “sostegno all’Io professionale”, conduttori cioè di gruppi fatti con gli operatori al fine di supportarli nel lavoro con i pazienti. Come giustamente fanno notare Astengo e Freilone, il lavoro con pazienti gravi predispone il gruppo di lavoro a movimenti interni peculiari, in ragione di:
    1. spinte scissionali e schizo/paranoidi proiettate dai pazienti (in special modo i quadri borderline) sul gruppo operatori, spesso polarizzato tra posizioni di estrema attivazione “materna primaria” e spinte espulsive, diviso internamente tra “buoni e cattivi”, con tutto quello che ne consegue in termini di coerenza di messaggio educativo e psicoterapico portato
    2. spinte centripete o centrifughe del gruppo, sempre in conseguenza della difficoltà sperimentata nel contenimento delle emozioni veementi generate dal lavoro con i pazienti. La “cinetica” del gruppo, come la definisce Metello, va in questo caso analizzata e rimandata al gruppo stesso, al fine di evitarne radicalizzazioni, nella direzioni di una sempre maggiore “integrazione” interna al gruppo di lavoro

Generalmente, si osserva nel metodo di lavoro del Porto un’attenzione particolare alla costruzione di “spazi” dedicati all’holding, per via di ore dedicate alla libera discussione tra operatori, gruppi appunto di sostegno all’Io professionale, supervisione, formazioni. La creazione di “luoghi” o contenitori di pensiero protetti si rende necessaria laddove il lavoro con pazienti gravi obblighi l’operatore a un continuo, spesso estenuante lavoro di gestione delle emergenze, immerso nel “caos” del lavoro di comunità “reale”.

Qui la rivista del Porto.

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7 maggio 2019

SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI


di Andrea Escelsior, medico, specializzando in psichiatria, Università di Genova

Recensione: “Shooting up. Storia dell’uso militare delle droghe” di Łukasz Kamieński (Edizioni UTET, 2017; 566 pagine)

Il libro è degno di nota per diverse ragioni. Innanzitutto l’argomento. Come ricorda l’autore, nonostante esistano diverse opere storiografiche sulla droga, sono pochi quelli che tattano nello specifico l’uso militare. In secondo luogo, è un libro che può interessare di chi si occupa di salute mentale. Mi spiego meglio. Anche solo nello sfogliare casualmente le pagine vi imbatterete in numerose citazioni, molte di soldati, i protagonisti di questa tragica epopea, che vi metteranno in un contatto non mediato, umano ed emotivo, con la realtà della tossicodipendenza al fronte; è inoltre possibile apprezzare dettagli storici e tecnici inerenti gli specifici agenti psicofarmacologici utilizzati e le case farmaceutiche coinvolte nella produzione.

L’utilizzo di sostanze psicotrope è stato attivamente sostenuto da stati, gruppi paramilitari o terroristici a fini medici o cosmetici (indurre il potenziamento di funzioni ritenute utili quali aggressività, resistenza allo sforzo, attenzione ecc.). Già nel 1546 il naturalista francese Pierre Belon scrisse: “i soldati turchi mangiano l’oppio perché pensano che diventeranno più valorosi e avranno meno orrore dei pericoli della battaglia”. Questo ha riguardato ogni classe di droghe, con sfumature ed atteggiamenti differenti, come dimostrato ad esempio dai cannabinoidi, largamente utilizzati durante la Guerra coloniale anglo-zulu (1879) dai soldati zulu per incrementare la forza e l’aggressività, ma proibiti durante la Campagna d’Egitto (1798-1801) nell’esercito francese dall’ordinanza anti hashish di Napoleone “mirata a evitare che l’esercito si riducesse a un maldestro «ammasso di scarafaggi»”.

Ma solo a partire dallo sviluppo della grande industria l’uso di sostanze psicotrope a scopo bellico ha assunto dimensioni di massa. Un esempio paradigmatico in questo senso è quello del Pervitin, un derivato amfetaminico prodotto in Germania a partire dal 1938. Il Pervitin ebbe un ruolo non indifferente nella conduzione della tattica militare del Blitzkrieg, che si fondava sulla capacità dell’esercito di compiere movimenti rapidi e di lunga portata. Il costo umano di questa operazione farmacologica fu elevato. Le dosi del farmaco distribuite erano di solito direttamente proporzionali all’importanza delle operazioni svolte, a seguito delle quali i soldati potevano presentare gravi ricadute depressive legate all’assunzione. Entro pochi anni, per le strade della conquistata Grande Germania si trascinavano schiere di tossicodipendenti di Stato, una parte dei quali furono internati nei manicomi del Reich a seguito degli effetti collaterali psicotomimetici. Esemplificativo del rapporto che il soldato aveva con il Pervitin e di come questo venisse utilizzato per sopportare orrori e fatiche altrimenti insopportabili è dato da questa lettera spedita ai genitori nel 1939 dalla Polonia occupata da un giovane Heinrich Böll, futuro Premio Nobel per la letteratura: “È dura quaggiù, e spero capirete se riesco solo a scrivervi ogni due-quattro giorni. Oggi vi scrivo soprattutto per chiedervi del Pervitin […] Con affetto, Hein”.

Una sfumatura particolare dell’uso “istituzionalizzato” delle sostanze psicotrope è fornito dalle recenti guerre civili africane; nelle quali i soldati, spesso bambini, vengono indotti alla tossicodipendenza, per essere più facilmente portati ad uccidere e controllati attraverso il ricatto dell’astinenza. Tale tecnica è stata indifferentemente utilizzata da varie fazioni, sia governative che ribelli. Una testimonianza particolarmente indicativa è quella fornita da Ishmael Beah, ex bambino soldato delle milizie ribelli (RUF) durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002): “Dopo aver camminato per ore, ci fermavamo soltanto per mangiare sardine e carne sotto sale con gari (manioca), sniffare cocaina, brown-brown, e mandar giù qualche pasticca bianca. La combinazione di droghe ci faceva sentire pieni di energia e fieri di noi stessi. L’idea della morte non ci sfiorava nemmeno, e uccidere era diventato facile come bere un bicchier d’acqua. Dopo la prima volta non solo si era spezzato qualcosa nella mia mente, ma mi sembrava anche di aver perso la capacità di provare rimorso.” Solomon F., ex bambino soldato durante la guerra civile in Liberia, fornisce una testimonianza analoga: “[…]erba, sigarette, dugee (compresse), cookis (compresse ridotte in polvere) […] Te le danno ogni volta che devi andare al fronte. Bisogna fare qualcosa perché uccidere qualcuno non è una bella sensazione. Le droghe ti servono per aver la forza di uccidere”

Al di là degli usi “istituzionalizzati”, è da sempre invalsa l’abitudine ad un consumo voluttario da parte dei combattenti, come tossicodipendenza acquisita a seguito dell’uso medico di sostanze psicotrope o per lenire le immani sofferenze fisiche o morali derivanti dal conflitto. Gli effetti sociali devastanti di tale consume si evidenziano in particolare quando i conflitti assumono il carattere della mobilitazione di massa. La Guerra Civile Americana (1861-1865), primo esempio storico in tal senso, fu infatti caratterizzata per l’abuso di morfina da parte dei soldati. Spesso l’abuso di morfina seguiva all’utilizzo di tipo medico, molto significativo in proporzione al vasto numero di feriti. Il poeta Walt Whitman, che prestò servizio come portaferiti nella zona di Washington descrive così il contesto di quelle retrovie in cui molti soldati feriti venivano spesso per la prima volta a contatto con la morfina: “Ce ne sono parecchi. Se ne stanno lì[…]in uno spazio aperto in mezzo al bosco, tra i 200 e i 300 poveretti – i gemiti e le urla – l’odore di sangue, mescolato al fresco profumo della notte, dell’erba, degli alberi – quel mattatoio!”.

Gerald Starkey nel 1971 quantificherà in circa 400.000 il numero giovani veterani di guerra dipendenti dalla morfina nel 1865. Su tale collegamento tra guerra di massa e tossicodipendenza invitò a riflettere Jeanette Marks, professoressa di Yale già nel 1915 scrivendo, nell’articolo “The Couse of Narcotism in America – A Reveille” sull’American Journal of Public Health: “Sapevate che praticamente tutte le famiglie storiche americane che hanno mandato uomini alla guerra civile hanno avuto i loro problemi di tossicodipendenza? Sapevate che era chiamata malattia del soldato per la sua diffusione? Sapevate che con la guerra che incombe su di noi, il demone della droga si trasformerà in un gigante ancora più spaventoso di quello attuale?”. Era l’alba della Prima Guerra Mondiale, e a posteriori questa ipotesi non può che dirsi tragicamente confermata. L’aritmetica del massacro mostrerà infatti come alla crescita delle forze produttive corrisponderà una aumento della capacità della mobilitazione ai fronti, decuplicando così i feriti, i morti, e di un nuovo esercito senza nazione di soldati divenuti tossicodipendenti per porre un argine sottile all’insopportabile orrore della guerra, che paiono muoversi in uno stretto limbo tra la morte e la vita.

A tal proposito particolarmente indicativa è la testimonianza di Takushima Norimitsu, soldato giapponese nel 1944 che, ad un anno dalla sua morte, scrive: “È difficile sperare nella gloria del ritorno dal campo di battaglia. Credendo che cadere sul campo di battaglia come una goccia di rugiada sia una scorciatoia per l’eternità, e non avendo alcuna garanzia di essere vivo l’indomani, mi sembra molto umano bere qualcosa, ubriacarsi e cantare canzoni con passione. Nessuno potrebbe ridere di un tale comportamento.”

Le guerre più recenti non faranno eccezione. Gonzalo Baltazar, soldato semplice durante il conflitto in Vietnam (1955-1975) scrive: “Tutti in Vietnam bevevano come spugne, e ogni occasione era buona per bere fino a diventare scemi. Noi della fanteria eravamo tutti una massa di alcolizzati”. Igor Koval’chuk, veterano sovietico della guerra in Afghanistan (1979-1989), sottolinea invece con queste parole la necessità di assumere sostanze psicotrope per corrispondere alle aspettative disumane richieste dal conflitto: “È meglio se entri in azione strafatto – ti trasformi in un animale”. L’atteggiamento degli stati rispetto a tali fenomeni di consumo voluttuario alternava il più o meno esplicito avallo alla proibizione. Generalmente è presente una doppia morale, per la quale ciò che veniva consentito ai soldati era proibito ai civili, con la rara eccezione del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale il Paese passò dall’avere restrizioni tra le più severe al mondo allo sponsorizzare apertamente l’uso di stimolanti tanto nei soldati quanto tra i lavoratori, allo scopo di incrementare la produttività industriale.

Molto interessanti sono poi gli aspetti di uso economico-politico della droga descritti nel libro. Infatti, le droghe sono state storicamente utilizzate come strumento di asservimento economico e fonte di profitto o di offensiva politica, come nei casi delle guerre dell’oppio, dell’occupazione giapponese della Cina, dei talebani nella guerra tra Afghanistan ed Unione Sovietica o nel caso dei gruppi narcoguerriglieri quali quelli sudamericani. Le sostanze psicotrope sono state inoltre studiate quale arma militare propriamente detta, come ad esempio testimoniato dagli esperimenti sull’LSD durante la Guerra Fredda.

Nelle ultime pagine del libro viene descritto come il tentativo di sviluppare armi farmacologiche per l’utilizzo bellico sia tutt’ora in corso. In questo senso il libro invita a riflettere su come la attuale escalation agli armamenti da parte di tutte le grandi potenze comprenda una corrispondente escalation psicofarmacologica. Gli uomini, in quanto ingranaggi del macchinario bellico, paiono infatti dover garantire standard di efficienza pari a quelli delle attrezzature utilizzate.

Di fronte a questi dati è difficile sottrarsi dall’amara sensazione che questo libro, con le sue 566 pagine, non sia che un primo capitolo.

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6 novembre 2018

SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI

di Raffaele Avico

Cercare di leggere un esordio psicotico o i meccanismi che sottendono a un disturbo psicotico attraverso il modello della “salienza aberrante” può aiutarci a fare un po’ di chiarezza o almeno fornirci di ipotesi plausibili a proposito di un problema clinico così complesso e oscuro; l’articolo storico di Kapur, citato ovunque si legga del “framework” definito appunto della “salienza aberrante”, prende in esame aspetti neurobiologici, psicologici e psicofarmacologici inerenti la schizofrenia, e formula un’ipotesi patogentica di questo invalidante disturbo a partire da un squilibrio in termini di concentrazione di dopamina, in questi casi, Kapur osserva, presente a livelli più alti del normale.

La comparsa di sintomi psicotici (sintomi positivi della schizofrenia) è stata osservata in concomitanza con l’assunzione di sostanze (come la cocaina) che producono un forte rilascio di dopamina negli spazi intersinaptici, Kapur scrive, così come di converso alcuni psicofarmaci che frenano il rilascio di dopamina sembrano diminuire la potenza in termini di impatto sulla coscienza – il “volume”- del sintomo psicotico.

Nell’articolo leggiamo: “la dopamina è il vento del fuoco psicotico”, a indicare le evidenze che fanno di questo neuromediatore un protagonista nella comparsa di sintomi “produttivi” della sindrome schizofrenica (Kapur aggiunge che questo stato iper-dopaminico di fondo non sarebbe presente sempre, ma solo nelle fasi appunto produttive della sindrome, che come sappiamo si presentano in modo intermittente, intervallate a fasi invece di assenza di sintomi produttivi).

Kapur, nel suo articolo, parla non solo di deliri (tentativi di dare un senso, “unendo i puntini” dei percetti aberranti e iper-salienti indotti dalla sregolazione dopaminergica, che arriverebbero agli occhi dei clinici dopo una lunga gestazione prodromica iniziale), ma anche di allucinazioni, che alla luce di questo modello di lettura sarebbero percetti “interiori” a enorme salienza (salienza sempre indotta dallo squilibrio dopaminergico).

Sempre a riguardo dei farmaci antipsicotici, Kapur osserva come un loro uso accurato con funzione di freno dopaminergico, conduce non a una scomparsa dei sintomi, ma alla diminuzione della loro salienza, abbassando il loro grado quindi di “potenza perturbante”. I sintomi rimangono, quindi, ma vengono meglio tollerati: entro questo modello, essi si configurano come tentativi messi in atto, e poi acquisiti dal soggetto, di dare un senso alla salienza di ciò che esperisce: una volta diminuita questa salienza, diviene possibile il lavoro psicoterapico finalizzato al loro “scioglimento”, in uno schema come segue:

SALIENZA

Osserviamo l’immagine sopra riportata: a fronte di un numero alto di stimoli, di oggetti riprodotti, ognuno vede, per primi, solo alcuni di questi: per un verso, vedrà per primi quelli che sono smaccatamente in contrasto con lo sfondo per colore o impatto (per esempio gli uccelli neri), per un altro, vedrà invece ciò che il suo stato mentale, in quel momento, gli “suggerirà” di cogliere per primo (per esempio, un soggetto che viva una condizione di stress post traumatico, tenderà per primo a vedere gli oggetti, nella figura, a contenuto minaccioso; quando siamo affamati, usando un altro esempio, tendiamo a vedere per primi gli stimoli che rimandano alla possibilità di cibarsi, come pubblicità o immagini a contenuto alimentare).

Tutto questo rimanda al concetto di salienza, ovvero di “appetibilità” degli stimoli che osserviamo intorno a noi, di “contrasto” tra gli stimoli e sfondo e di “affordance” (cioè di richiamo) degli oggetti sensoriali nel nostro campo percettivo. Quindi, la salienza ha valore sia oggettivo che soggettivo (dipende anche da come ci sentiamo e da quale emozione sperimentiamo in quel momento): è un concetto quindi dinamico, non statico.

In questo articolo, che riprende quello “storico” di Kapur prima citato, redatto dal dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Firenze, gli autori compiono un excursus sulla questione della salienza in ambito psicopatologico, collegando le formulazioni teoriche di molteplici autori di grandissima caratura in senso clinico, che hanno nel tempo descritto uno stato di salienza “anomala” precedente lo sviluppo di un disturbo psicotico (intendendo con quest’ultimo la comparsa dei sintomi positivi della schizofrenia, come deliri e allucinazioni), di alcuni loro pazienti.

Il tratto comune, sembrava essere appunto la presenza prodromica di una visione “alterata” e profondamente perturbante della realtà vissuta da questi soggetti: in quest’ottica, i deliri sarebbero stati un tentativo successivo di “organizzare” in modo strutturato questa visione trasfigurata della realtà, come prima già osservato.

Il punto centrale in senso di “esperienza”, tuttavia, sembrava essere quello della salienza, ovvero di un impatto enorme della realtà ai sensi di questi soggetti, appunto intrappolati in una sorta di teatro assurdo in cui “tutto è troppo forte” in termini di impatto sulla coscienza (da qui il termine “salienza aberrante”).

Da cosa dipende la salienza? Per capire come funziona la salienza dobbiamo rifarci al concetto di circuito di reward (qui approfondito), mediato come sappiamo dal neuromediatore dopamina.

La “scarica” dopaminergica in concomitanza di un certo evento, ne aumenta l’appetibilità in termini emotivi: essere esposti per lunghi periodi al consumo di cocaina, viste le grandissime quantità di dopamina liberata, aumenta potentemente ai nostri sensi la salienza del concetto “cocaina”, in tutte le sue forme. Per un cocainomane, tutto il “concetto” di cocaina diviene dominante, viene sempre per primo, è “visto”, percepito per primo, anche quando magari solo alluso, intravisto in un determinato contesto.

L‘attivarsi del circuito di reward, è connesso quindi alla creazioni di una maggiore salienza intorno a un determinato stimolo. Il tutto, assurge a una funzione evolutiva: senza queste ricompense, non ripeteremmo esperienze per noi “piacevoli” o, nel bene e nel male, portatrici di gratificazione sensoriale.

In senso neurobiologico, possiamo quindi fare un collegamento tra la questione dopaminergica, e il senso di salienza; su questo concetto di base si fonda la teoria della salienza aberrante: da uno scompenso iniziale, una sregolazione dopaminergica, deriverebbe il vissuto di trasfigurazione della realtà che precede, spesso, un esordio psicotico.

Questo articolo, come si nota, mette insieme questioni osservate in ambito di ricerca neurobiologica, ad aspetti che concernono l’esperienza soggettiva del singolo. Questo punto di incontro ha simbolicamente grande importanza laddove la psicopatologia categoriale stia facendo spazio a una nuova concettualizzazione della psicopatologia, fondata su elementi transdiagnostici e dimensionali (per esempio, in questo caso, la questione delle disregolazione dopaminergica come elemento in comune a diverse forme di sofferenza mentale). Qui un approfondimento.

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1 dicembre 2017

(LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?

di Raffaele Avico

Nel 2016 fu presentata una proposta di legge che, come è riassunto in questo articolo, spingeva in direzione della legalizzazione controllata e della depenalzzazione dei reati connessi alla detenzione e all’uso di cannabis a fini ricreativi.

La situazione è in stallo, e il dibattito continua: i vantaggi di un movimento di legge di questo tipo sarebbero innanzitutto -e senza alcun dubbio- economici, come è ben espresso nella proposta di legge presentata. I riferimenti ai possibili danni per la salute fisica e psichica, tuttavia, sono evasivi e non approfonditi, vista la lacuna di evidenze di cui la stessa ricerca scientifica soffre da sempre a proposito di questo punto. Ciò che si sa della cannabis potrebbe essere sintetizzato in alcuni punti:

  • La cannabis è da ascrivere alla categoria delle sostanze dissociative, insieme agli allucinogeni più comuni come LSD, Ketamina, Mescalina, ecc. In effetti l’effetto prodotto dal THC (il principio attivo della cannabis) non è un effetto nè narcotico (come quello indotto da sostanze oppioidi come l’eroina), nè euforizzante /eccitante (come ricercato da chi usa cocaina). E’ un effetto di “stono” dissociativo in cui la mente viene distratta da sè stessa
  • La cannabis non produce dipendenza fisica
  • L’uso di cannabis diviene problematico a seconda di quanto la si utilizzi e in che modo. L’uso ricreativo/saltuario sta da un lato del continuum: l’utilizzo compulsivo/autoterapeutico dall’altra parte di questa linea immaginaria. E’ differente cioè usare cannabis in modo socializzante e contestuale, dall’usarla in modo compulsivo e per risolvere/curare malesseri psicologici di varia natura
  • L’uso prolungato e cronico di cannabis in età delicate del neurosviluppo (per esempio in età adolescenziale, quindi dai 12 ai 20 anni), conduce a modificazioni in termini di performance in quelle che sono definite funzioni “pre-frontali”. Le funzioni cognitive garantite dalla corteccia pre-frontale sono le funzioni esecutive: capacità di organizzazione, inibizione degli impulsi grezzi, senso di orientamento e capacità progettuale. Questo vuol dire che un uso prolungato di cannabis conduce a difficoltà nell’auto-organizzazione e nell’auto-determinazione
  • E’ stata identificata la sindrome “amotivazionale da cannabis” per descrivere la scarsa motivazione nel portare avanti progetti di vita, osservata in consumatori abituali.
  • L’uso prolungato e compulsivo di cannabis modifica l’uso della memoria a breve termine: si fa più fatica a ricordare eventi da poco accaduti, o nel tenere a mente sequenze più o meno lunghe di elementi; l’attenzione viene inoltre tenuta a fatica. Questione centrale è se esistano o meno degli strascichi permanenti, e in quale misura, una volta raggiunta l’astinenza prolungata
  • Dopo un certo periodo di astinenza continuata, le performance di memoria sembrano migliorare; quelle legate invece all’attenzione (la difficoltà di focalizzare e tenere l’attenzione focalizzata su un determinato compito) permangono deficitarie. Questo indica che l’uso cronico di cannabis ha un impatto indiscusso sulle performance cognitive: alcune di queste verrebbero modificate tuttavia in modo temporaneo, altre in modo permanente
  • Un’ampia letteratura riporta una correlazione significativa tra uso di cannabis e insorgenza di sintomi di natura psicotica (sintomi positivi della schizofrenia come deliri e allucinazioni e trasfigurazione del senso di realtà, discinesie e dispercezioni -allucinazione riguardanti il proprio corpo-, oppure negativi come impoverimento delle capacità cognitive e ritiro sociale): su questo la letteratura è monodirezionale, riportando un dato certo, come si evince dalla lettura di questa vasta meta-analisi: attribuire un significato forte di causalità non è ancora possibile, né sapere se il disturbo psichiatrico sia stato creato dall’abuso di cannabis, o se fosse solo da “scoperchiare”. La correlazione è tuttavia così forte da poter cautamente affermare che l’uso di cannabis predisponga a sviluppare psicosi nei soggetti più vulnerabili.

EFFETTI COLLATERALI

Esistono inoltre degli effetti collaterali che potremmo definire come l’incontro tra un certo tipo di personalità, e l’uso di cannabis. In particolare nei ragazzi adolescenti, esistono quote di rabbia/aggressività fisiologiche che spesso trovano sfogo in attività sportive/creative. La cannabis, usata per placare vissuti di forte attivazione corporea (quindi aggressività, ma anche ansia forte), sembra in qualche modo “sporcare le acque” senza però riuscire a fornire una vera direzione di sfogo a questi stati di concitazione corporea.

In conclusione, sappiamo che usare cannabis altera le performance cognitive e conduce a quella che è stata definita sindrome amotivazionale. Queste variazioni, tuttavia, non sembrano essere definitive (con l’eccezione delle performance di attenzione -si confronti l’articolo in seguito linkato), soprattutto quando l’uso di cannabis massivo non avviene in fasi delicate dello sviluppo cerebrale. Sappiamo inoltre dei rischi connessi a un possibile esordio di sintomi psicotici.

Un approfondimento autorevole lo troviamo in questo articolo del 2014 ( http://www.pnas.org/content/111/47/16913.full), che contiene anche una completa disamina degli articoli che hanno indagato a fondo gli effetti a lungo termine dell’uso continuato di cannabis.

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  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP
  • AREA PATREON DEL BLOG: UNO SGUARDO AI CONTENUTI
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO)
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm)
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING)
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al.
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura”
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza
  • PROGETTO PATREON DEL FOGLIO PSICHIATRICO: I REWARD DI LUGLIO 2020 (ARTICOLI, VIDEO, PODCAST)
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF)
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VERSO LA FASE 3 DELLA SPERIMENTAZIONE
  • SONNO, STRESS E TRAUMA
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.”
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI
  • IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI!
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • NO CASI, NO SUPERVISIONE: GRUPPI A TORINO
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL DEFAULT MODE NETWORK
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • CORRERE PER VIVERE: I BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULLA DEPRESSIONE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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