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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

8 dicembre 2020

PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino

di Raffaele Avico

Il Foglio Psichiatrico ha avviato un podcast con lo scopo di creare dei ponti tra realtà psicoterapeutiche/psichiatriche diverse. Lo trovate qui (con interviste a psicoterapeuti/psichiatri dal Belgio, Svizzera, USA). Abbiamo inoltre, sul podcast, condotto un’indagine sulla realtà di Trieste. Trieste è un’eccellenza italiana in termini di modello psichiatrico.

In questo episodio abbiamo intervistato Matteo Respino dal Rush di Chicago:

L’intervista a Matteo Respino, psichiatra, è particolarmente utile a uno studente di medicina che immagini di volersi trasferire negli USA per la specializzazione in psichiatria.

Si parla inoltre di clinica e di differenti approcci tra il modello italiano e quello statunitense (aspetto che avevamo già toccato con Fernando Espi Forcen).

Buon ascolto!


NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Generale / matteorespino, psichiatria, raffaeleavico

12 dicembre 2019

HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER

di Raffaele Avico

Si parla spesso di cannabis, sostanze psichedeliche e dei possibili effetti nocivi sulla salute di chi ne fruisca.

Uno dei possibili “strascichi” dell’uso di sostanze psichedeliche è rappresentato dai sintomi visivo/dissociativi. In particolare, testimonianze dirette di fruitori riportano effetti dissociativi di derealizzazione e depersonalizzazione. Leggere questa pagina può dare un’idea delle esperienze vissute dai fruitori. Vi si racconta di strascichi simil-dissociativi di lunga durata, fino a un anno, a seguito di utilizzo di “psichedelici”. Il termine scientifico per questa sindrome è HPPD.

Questo articolo pubblicato su Brain Sciences esegue un’analisi della letteratura esistente (46 articoli in tutto) sul tema HPPD, rilevando due livelli di disturbo:

  1. HPPD ti tipo 1, di entità lieve, a prognosi breve (massimo un anno)
  2. HPPD di tipo 2, di entità grave, a prognosi negativa e definito “difficilmente reversibile”

In questo studio vengono descritti alcuni punti centrali del disturbo:

  • EZIOLOGIA: l’ipotesi eziologica dominante al momento, è un danno al Sistema Nervoso Centrale (destruction or dysfunction of cortical serotonergic inhibitory interneurons with gamma-Aminobutyricacid (GABAergic) outputs, implicated in sensory filtering mechanisms of unnecessary stimuli), risultante in un effetto “disinibente”. La mente perderebbe in questo senso il suo “filtro” (il cervello è di per se stesso un filtro, con una certa quantità di stimoli esclusi dalla coscienza per ragioni di adattamento funzionale)
  • SOSTANZE MAGGIORI RESPONSABILI: LSD e cannabis (la cannabis è ascritta alla categoria di sostanze dette “dissociative”, al pari dell’LSD, particolare da non trascurare)
  • FENOMENOLOGIA:
    1)tipo 1: “aura”, lieve senso di distacco, senso di “smarrimento”, depersonalizzazione e derealizzazione sfumati
    2)tipo 2: “aura” grave, acuto senso di distacco, senso di “smarrimento”, depersonalizzazione e derealizzazione acuti
  • SINTOMI VISIVI: qui di seguito riassunti
  • COMORBILITÀ: non rilevante/necessaria all’insorgere di un HPPD (a indicare la natura “isolata” del disturbo, avente dignità di fenomeno psichico a se stante)
  • TRATTAMENTO FARMACOLOGICO: prima linea/seconda linea (vd.articolo)
  • ALTRE TIPOLOGIE DI TRATTAMENTO CONSIDERATE: rTMS (neuromodulazione)

In questo articolo viene sottolineata la natura “rara e imprevedibile” del disturbo.

Viene inoltre notato come uno degli effetti del disturbo sia un’alterata e ingigantita interpretazione di fatti “visivi” altrimenti ritenuti ordinari (In many cases, HPPD may also be explained in terms of a heightened awareness of and concern about ordinary visual phenomena, which is supported by the high rates of anxiety, obsessive-compulsive disorder, hypochondria, and paranoia seen in many patients), il che ci racconta di come, a seguito di un evento percepito come traumatico o altamente disturbante, un soggetto possa diventare “preoccupato” a riguardo dei suoi stessi sensi inaugurando un periodo di auto-osservazione ossessiva, drammatica e spasmodica (come accade a seguito di un singolo attacco di panico, in seguito “sospettato” e rintracciato/interpretato in qualunque sintomo fisico di qualunque entità arrivato a disturbare il soggetto), il che rappresenta una possibile deriva o un pervertimento “ansioso” del disturbo stesso.

Inoltre, viene notato come tra i molteplici trigger di innesco del disturbo, la cannabis rappresenti un elemento ricorrente (Among the innumerable triggers able to precipitate HPPD, prospectively, the use of natural and synthetic cannabinoids appears to be the most frequent). Già molto si sa sul potenziale “psicopatogeno” della cannabis: sembra però che questa conoscenza non si sia ancora trasformata in “consapevolezza”. The Lancet Psychiatry (non La Stampa o la Repubblica che sia) lo ricorda qui con forza.

Infine, viene citato un modello euristico utile a concettualizzare questo disturbo, questo. Qui un approfondimento video.

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30 aprile 2019

IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI


di Matteo Respino

Come per tutte le terapie, a partire da quelle farmacologiche, anche nel caso delle psicoterapie il portare a termine il percorso iniziato è una componente fondamentale per ottenere dei cambiamenti. Quando una terapia viene interrotta prematuramente si parla di “drop-out”. Più nello specifico, si intende con questo termine quando il paziente interrompe la terapia prima che si sia raggiunta una riduzione dei sintomi sufficiente.

Questo breve pezzo vuole riassumere, per punti, i dati ed i concetti riportati in un articolo di Leichsenring et al. pubblicato quest’anno su World Psychiatry e titolato: “Drop-outs in psychotherapy: a change of perspective”. L’articolo riassume i dati presenti in letteratura che quantificano il fenomeno, le strategie volte a ridurne la frequenza e propone una prospettiva per affrontare costruttivamente questo argomento in ambito sia di ricerca che di clinica. A seguire, riassunti, i dati riportati dagli Autori.

  • Circa il 20% dei pazienti terminano la psicoterapia prematuramente, come risulterebbe da oltre 600 studi clinici, indipendentemente dal tipo di psicoterapia offerta.
  • I pazienti che terminano le terapie prematuramente tendono ad avere peggiori outcome di coloro che le portano a termine.
  • I pazienti che più spesso terminano prematuramente la psicoterapia sono coloro che non stanno ricevendo il trattamento che avrebbero preferito, che ricevono terapie non manualizzate o senza chiari limiti di tempo, coloro in trattamento con psicoterapeuti in training, pazienti giovani e con disturbi di personalità o dell’alimentazione.
  • Le strategie volte a ridurre il fenomeno ruotano soprattutto, ma non solo, attorno al concetto di alleanza terapeutica. Tra queste: impostare fin dall’inizio un processo condiviso con il paziente di decision-making; offrire al paziente tutte le informazioni necessarie ad avere una visione chiara non solo della sua condizione, ma anche del trattamento che sta per affrontare, a partire dalla sua durata; lavorare da subito sulle aspettative del paziente, offrendo una visione realistica (e condivisa) degli obiettivi raggiungibili (“setting goals”); revisionare insieme al paziente cosa è già stato ottenuto in termini di cambiamenti dall’inizio della terapia, e proporre frequenti feedbacks su tali progressi; affrontare resistenze e/o dubbi del paziente fin dalle fasi iniziali; tenere in considerazione le preferenze espresse dal paziente.
  • Il cambio di prospettiva proposto dagli Autori consiste, sostanzialmente, nel passare dal vedere i drop-outs come un fenomeno unicamente negativo, al considerarli come un fenomeno che se adeguatamente studiato potrebbe informarci più nel dettaglio su cosa accade e su quali siano i fattori/gli elementi “non-curativi” durante il processo della psicoterapia.

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12 aprile 2019

DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO


di Matteo Respino

In questo pezzo descriviamo brevemente l’approccio di due Autori, entrambi fondamentali nel contesto psicoanalitico, al concetto di disturbo narcisistico. Dalle posizioni differenti di Kohut e di Kernberg circa tale questione nacque una controversia che offre l’occasione di riassumere, in maniera semplice, alcuni degli aspetti fondamentali della psicologia del sé (Kohut) e della teoria delle relazioni oggettuali (Kernberg). Sebbene molto sia stato scritto e detto circa tale diatriba, utilizziamo come riferimento e riassumiamo le idee espresse in un interessante libro chiamato “The Psychoanalytical Model of the Mind” di E. Auchincloss, a proposito di tale questione.

Innanzitutto, entrambi gli Autori concordano nel ritenere il disturbo narcisistico di personalità come caratterizzante individui invidiosi, preoccupati da fantasie di successo o di potere, in costante ricerca di attenzione, che si aspettano di esser visti come speciali o superiori, arroganti e carenti di empatia. Nel contesto della psicologia del sé, il disturbo narcisistico viene concettualizzato come una problematica generata dalla mancata maturazione di qualcosa già presente in età infantile e chiamato “Sé grandioso”. Facciamo un breve passo indietro: il Sé, in generale, sarebbe il nucleo dell’esperienza, ciò che gli fornisce continuità e coesione. Il “Sé grandioso” sarebbe invece una componente del Sé che, tipicamente nell’infanzia, racchiude la spinta dell’individuo all’affermazione, al potere, al riconoscimento. Normalmente, secondo Kohut, il “Sé grandioso” dell’infanzia matura grazie alla validazione offerta, dal caregiver, ai traguardi ed in generale al bisogno di riconoscimento del bambino. Sempre in tale contesto metapsicologico, il disturbo narcisistico sarebbe legato ad una carenza di tale maturazione. Il soggetto cercherebbe pertanto molto intensamente quella validazione che non ha trovato in principio, ed in sua assenza sperimenterebbe una “rabbia narcisistica” legata al tentativo di conservare un senso sufficiente di integrità del Sé. Qui, il ruolo del terapeuta è quello di consentire l’emergere dei bisogni primitivi di validazione del paziente nel contesto della relazione terapeutica. Tale riconoscimento empatico giocherebbe un ruolo importante soprattutto in fase iniziale, mentre la gestione della frustrazione del paziente, inevitabile nelle fasi successive, consentirebbe la maturazione del Sé grandioso.

Kernberg non concettualizza invece il disturbo narcisistico come derivante da un difetto di maturazione del Sé infantile, quanto piuttosto come un disturbo legato all’emergere di una nuova struttura chiamata “Sé grandioso patologico”. In tale ottica il “Sé grandioso patologico” è fondamentalmente una difesa dalla dipendenza. Poiché il soggetto non riesce a integrare aspetti buoni e aspetti cattivi degli oggetti/delle altre persone, quando si trova in una condizione di percepita dipendenza, precipita in una posizione paranoide e di ansia persecutoria. Similmente all’approccio precedente, anche qui il terapeuta è supposto facilitare l’emergere del “Sé grandioso patologico” nel transfert della relazione terapeutica, ma in questo caso il lavoro centrale consisterebbe nell’interpretazione delle difese del paziente dalla dipendenza, nello sforzo di fargli comprendere quanto le sue paure paranoidi dipendano dalla sua stessa aggressività verso gli altri.

Come sottolinea la Auchincloss, nonostante le differenze, l’uso di tali approcci teorici e pratici avviene spesso, ovviamente, in maniera combinata. Ad esempio, un lavoro più orientato empaticamente ai bisogni di validazione del soggetto potrebbe essere molto adeguato inizialmente, quando la fiducia nel terapeuta è ancora da costruire, mentre interventi più interpretativi che confrontino l’aggressività propria del paziente potrebbero essere più adeguati in una fase successiva.

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29 marzo 2019

DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA


di Raffaele Avico

Quando parliamo di disturbo dissociativo parliamo in realtà di un disturbo polimorfo che presenta diverse definizioni e del quale sembra difficile dare un’immagine univoca. Allo stato attuale, esistono due definizioni principiali, che distinguono la dissociazione propriamente detta, dalla dissociazione strutturale, come riassunto di seguito.

Distinguiamo:

  1. dissociazione come sintomo (dissociazione di stato): l’esperienza del soggetto è caratterizzata da  discontinuità. Si parla in questo caso anche di detachment. Si può percepire che la persona sia con la mente in un altrove fantasticato o in una sorta di assenza; ci si può accorgere di un simile stato mentale “assorbito” osservando gli occhi, sgranati, di un individuo che ne sia colpito. In questi casi si parla di grounding proprio a indicare l’operazione di riportare la persona al dato reale e presente (per esempio chiedendo al soggetto di nominare degli oggetti della stanza). La dissociazione è presente laddove esistano esperienze non ricordate, cose fatte in uno stato di coscienza alterato senza che ve ne sia ricordo (come le fughe dissociative), oppure quando si parla di de-realizzazione o depersonalizzazione. I teorici del continuum (come Ruth Lanius) sostengono esista un gradiente di gravità dei sintomi stessi, partendo da un senso di straniamento nei confronti della realtà, fino al vissuto di depersonalizzazione (visione di sé dall’esterno) e derealizzazione (incredulità sulla realtà). In quest’ottica i sintomi dissociativi sono quindi gli stessi, sempre, ma posseggono livelli di gravità diversi.
  2. Dissociazione strutturale della personalità (dissociazione di tratto): nel contesto di uno sviluppo traumatico viene prodotta una spaccatura in due o più parti, verticale, della personalità. Si parla in questo caso anche di compartimentalizzazione. Una parte prosegue il suo percorso di adattamento al contesto (parte apparentemente normale, o ANP), l’altra, emozionale (emotional part, EP), rimane bloccata al momento del trauma, permanendo dentro i confini della personalità come una parte immobile e nascosta. Questa teorizzazione è quella presente sul libro Fantasmi nel Sè di Onno Van Der Hart, come qui approfondito.

Parliamo quindi di dissociazione come sintomo, oppure di dissociazione come alterazione della struttura della personalità.

In particolare nella concettualizzazione come sintomo della dissociazione, si ha la forte impressione che il soggetto presenti un’alterazione nella continuità dello stato di coscienza, che appare “intermittente”, mutevole nel caso dell’alternarsi di diverse “parti”, oppure corrotto da “assenze” dissociative.

Al di là della definizione unica, molto difficile da raggiungere, molteplici evidenze collegano la comparsa di disturbi di tipo dissociativo a esperienze traumatiche:

“Un vasta e crescente mole di letteratura scientifica indica da circa un secolo che i disturbi e i sintomi dissociativi sono correlati con esperienze traumatiche, in particolar modo quelle di tipo relazionale che avvengono durante l’infanzia e per le quali è stato proposto l’uso dell’espressione trauma dello sviluppo o sviluppo traumatico (Carlson 2009; Herman 1992; Lanius 2010; Liotti e Farina 2011; van der Kolk 2005).”

Leggiamo sul sito dell’AISTED (associazione italiana per lo studio del trauma e della dissociazione) che alcuni segni per riconoscere un’esperienza dissociativa in corso, sono:

  • intrusioni ricorrenti e inspiegabili nel loro funzionamento cosciente e nella propria identità (es voci, azioni, discorsi, pensieri, emozioni, impulsi intrusivi);
  • alterazioni del senso del sè (es: attitudini, preferenze, e sensazione di estraneità nei confronti del proprio corpo e delle proprie azioni);
  • bizzarri cambiamenti della percezione (es: depersonalizzazione o derealizzazione, come sentirsi distaccati dal proprio corpo);
  • sintomi neurologici funzionali intermittenti. Lo stress spesso produce un aggravamento dei sintomi dissociativi rendendoli più evidenti.

Qui un approfondimento.

Article by admin / Formazione / matteorespino, psichiatria, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD

11 febbraio 2019

COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO

di Matteo Respino

In un interessante editoriale pubblicato a dicembre 2018 sull’American Journal of Psychiatry, dal titolo “Is there really nothing new under the sun? Is low-dose ketamine a fast-acting antidepressant simply because it is an opioid?”, Mark George approfondisce i risultati di alcune recenti ricerche sull’uso della ketamina nel trattamento della depressione maggiore. Numerosi studi hanno mostrato come la ketamina abbia un effetto importante e rapido nel ridurre i livelli di depressione in acuto, offrendosi come potenziale nuovo trattamento per le forme gravi o resistenti (Serafini et al., 2014).

Nonostante tale evidenza, il meccanismo di efficacia della ketamina non è del tutto chiaro. Data l’azione di blocco dei recettori per il glutammato NMDA mediata dalla molecola, un ruolo dell’azione antiglutammatergica risulterebbe l’ipotesi più logica nello spiegare gli effetti della ketamina, ma probabilmente tale meccanismo non è sufficiente a giustificarne gli effetti antidepressivi. Mark George, un esperto di neurostimolazione, approfondisce i risultati di un recente lavoro di Williams et al. (2018) che avrebbe mostrato come l’azione antidepressiva della ketamina sia bloccata dal concomitante utilizzo del naltrexone, un antagonista dei recettori per gli oppiacei. Sostanzialmente, in tale studio si è mostrato come in pazienti depressi l’uso concomitante di naltrexone blocchi nettamente l’efficacia antidepressiva della ketamina, rispetto a un gruppo di controllo placebo + ketamina. L’interpretazione più ovvia di questi risultati è che l’efficacia antidepressiva della ketamina sia mediata quantomeno dal combinato antagonismo di recettori NMDA e agonismo per gli oppiacei. In altre parole, l’effetto antidepressivo di questa nuova molecola potrebbe necessitare l’attivazione del sistema degli oppioidi.

Perché tale scoperta è rilevante? Mark George sostiene vi siano al momento 3 grandi “epidemie” nella psichiatria (riferimento soprattutto a quella americana, ma in certa misura mondiale): depressione, suicidio e dipendenza dagli oppioidi. Si chiede (un poco provocatoriamente) se, anche alla luce dei risultati del lavoro di Williams et al., nel tentativo di risolvere alcune di queste crisi (e.g., depressione) non si rischi di peggiorarne altre (in questo caso, egli fa ovviamente riferimento alla dipendenza da oppiodi). L’Autore sostiene infatti “Should emergency departments that are considering using intravenous ketamine as an antisuicide measure pause, as they may now be making depressed patients opioid addicts?” . Tale provocazione mira a far ragionare sulla cautela che è necessario utilizzare, in quanto la ricerca sui meccanismi d’efficacia della ketamina è lungi dall’essere conclusa.

Il riferimento dell’Autore, ed il suo invito alla cautela, è in particolar modo rivolto alle numerose cliniche per la somministrazione di ketamina che stanno emergendo negli USA. Infine, Mark George, da esperto in ambito di neurostimolazione, ci ricorda che esistono altri trattamenti estremamente efficaci, ed oggi sicuri, per la depressione grave o resistente, come la terapia elettroconvulsivante (di cui abbiamo scritto qui).

Link all’editoriale qui.

Mark GS. Is there really nothing new under the sun? Is low-dose ketamine a fast-acting antidepressant simply because it is an opioid? The American Journal of Psychiatry, 2018.

Serafini G et al. The Role of Ketamine in Treatment-Resistant Depression: A Systematic Review. Curr Neuropharmacol, 2014 Sep; 12(5): 444–461.

Williams N et al. Attenuation of antidepressant effects of ketamine by opioid receptor antagonism. The American Journal of Psychiatry, 2018.

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8 gennaio 2019

C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?

di Matteo Respino

La capacità di un individuo di parlare due lingue, il cosiddetto “bilinguismo”, ed il suo effetto sulle funzioni cognitive, sui sistemi biologici cerebrali e sull’esordio di patologie neurologiche e psichiatriche è un argomento di grande interesse in un mondo sempre più globale, in cui masse di individui emigrano per le più diverse ragioni, esponendosi quindi alla “fatica” di imparare una nuova lingua. Il fattore migratorio, insieme all’invecchiamento generale della popolazione, rende particolarmente interessante l’interazione “bilinguismo-declino cognitivo” in età avanzata, interazione certamente complessa poiché probabilmente influenzata da molte variabili confondenti quali lo status socio-economico, la professione, il livello educazionale, quanto si è effettivamente proficienti nella seconda lingua, il contesto e supporto sociale, etc. Questi fattori potenzialmente confondenti hanno reso l’argomento piuttosto controverso e di difficile studio, sebbene negli ultimi anni siano usciti diversi studi a fare chiarezza in merito, alcuni provenienti da gruppi italiani.

Innazitutto, diverse evidenze suggeriscono che il bilinguismo “protegge” gli individui ritardando l’esordio di demenza di approssimativamente 4-5 anni. Ad esempio, uno studio retrospettivo del 2013 (Alladi et al.) che ha investigato oltre 600 pazienti affetti da demenza, ha mostrato appunto che i pazienti con bilinguismo esprimevano la malattia circa 4 anni e mezzo dopo i pazienti monolingua, indipendentemente da diversi fattori confondenti quali, tra gli altri, educazione e status professionale.

Una bella review sulle evidenze in argomento è quella di Perani, che titola “Bilingualism, dementia, cognitive and neural reserve” pubblicata su Current Opinion in Neurology nel 2015 e che si focalizza sul concetto di “riserva cognitiva”, ovvero la capacità di mantenere livelli di funzione mentale e cognitiva più alti di ciò che ci aspetterebbe, dato un certo livello di patologia già presente a livello dei tessuti cerebrali. Infatti, in generale, la presenza di danno tissutale tende a precedere l’insorgenza di demenza conclamata. La riserva cognitiva è quindi sostanzialmente una misura di “resilienza” al danno neuropatologico. Nella sopracitata revisione della letteratura scientifica si riassumono le evidenze che complessivamente sostengono come il bilinguismo potrebbe essere un importante fattore di potenziamento della riserva cognitiva migliorando funzioni esecutive, attenzione selettiva, ma anche memorizzazione. Vengono inoltre revisionati quegli studi, soprattutto retrospettivi, come quello di Alladi già citato, ed altri che hanno sostanzialmente osservato il medesimo dato: il bilinguismo ritarda l’emerge di demenza di diversi anni, indipendentemente da altri fattori quali immigrazione o educazione.

Infine, gli Autori riassumono le evidenze legate alle differenze anatomico-biologiche tra il cervello bilingua e quello monolingua. I soggetti con bilinguismo mostrerebbero infatti, ad esempio, una maggiore connettività funzionale a livello frontoparietale ed una maggiore densità della sostanza grigia di aree critiche per il linguaggio e più in generale per il mantenimento del controllo cognitivo, quali il lobulo parietale inferiore e la corteccia cingolata anteriore dorsale. Infine, gli stessi Autori hanno pubblicato recentemente uno studio (Perani et al., 2017) su 85 soggetti in cui, a sostegno dell’ipotesi che il bilinguismo costituisca un elemento di riserva cognitiva, hanno dimostrato una maggiore connettività metabolica in network cerebrali centrali per il mantenimento di funzioni cognitive quali default-mode e soprattutto executive-control network.

In conclusione appare oggi sempre più chiaro che il bilinguismo sia un fattore di sostanziale beneficio, di potenziamento della riserva cognitiva e capace di ritardare l’esordio di disturbi neurocognitivi maggiori. Nonostante ciò tale effetto sembra essere legato al sottotipo di bilinguismo. Ad esempio, sembra centrale che il soggetto si mantenga proficiente nella seconda lingua durata il corso di tutta la vita, anche durante la terza età.

Bibliografia

Alladi et al. Bilingualism delays age at onset of dementia, independent of education and immigration status. Neurology, 2013, 81(22):1938-44.

Perani et al. Bilingualism, dementia, cognitive and neural reserve. Current Opinion in Neurology, 2015, 28:618-625

Perani et al. The impact of bilingualism on brain reserve and metabolic connectivity in Alzheimer’s dementia. PNAS, 2017, 114:1690-1695.

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2 gennaio 2019

VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?

di Raffaele Avico

Alcuni studi hanno comparato le allucinazioni uditive di pazienti con disturbi di natura psicotica, a quelle sperimentate da pazienti provenienti da storie di post-trauma grave, arrivando a interessanti conclusioni. Uno studio di riferimento è questo (Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives): tra gli autori Dolores Mosquera, che si sta imponendo sulla scena della ricerca in ambito di PTSD e disturbi dissociativi come un riferimento di assoluto spessore e di grande impatto scientifico.

In questo studio, è stato tentato un lavoro di ricapitolazione e review della letteratura inerente alcuni diagnosi specifiche, in relazione al tema “allucinazioni uditive”. Al di là dei quadri psicotici franchi, dove i soggetti sono colpiti da allucinazioni uditive che si manifestano attraverso la presenza di “voci” (ne abbiamo scritto qui), esistono altri quadri diagnostici non afferenti allo “spettro” psicotico all’interno dei quali si osserva la presenza di sintomi di questo tipo, con caratteristiche simili: il disturbo di personalità borderline, disturbi di natura dissociativa (DID: disturbo dissociativo d’identità), il PTSD.

Questo studio ipotizza inoltre una diversa concettualizzazione del sintomo “voci”, visto come SEMPRE proveniente da un disturbo dissociativo originario, e trans-diagnostico alle varie forme di psicopatologia che lo “contengono”. Gli autori propongono in questo senso una lettura dell’“allucinazione uditiva” come di un sintomo di natura dissociativa, con però caratteristiche e potenza differenti a seconda dei diversi quadri.

A

L’articolo in primis distingue due diverse concettualizzazioni di disturbo dissociativo, tra loro in contrasto, usate a volte in modo sovrapposto:

  1. la visione del disturbo dissociativo come un disturbo da disaggregazione (usando i termini originali usati da Janet) della personalità (a seguito di un trauma, la personalità si scinde in due o più parti, che poi proseguono il loro sviluppo in modo parallelo). Questa è la concettualizzazione “narrow” (stretta) del disturbo
  2. la visione del disturbo dissociativo come stato mentale alterato/assorto/assorbito: questo modo di pensare il disturbo dissociativo è una visione definita nell’articolo “broad”, ovvero più ampia, dato che comprende in sé tutte le forme di alterazione della coscienza che si riscontrano nei quadri gravi di post trauma (come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’assorbimento totale di alcune forme eccessive di “daydreaming”).

Quello che è evidente, è che quando si parla di disturbo dissociativo, parliamo sia di una che dell’altra cosa (frammentazione della personalità, ma anche alterazione dello stato della coscienza, la cui continuità e permanenza nel “qui ed ora” diventa “intermittente”).

B

Come secondo aspetto approfondito, gli autori tentano di de-enfatizzare la correlazione tra presenza di voci e disturbi psicotici, portando numerose evidenze letterarie a corroborare la loro tesi. In fase iniziale di concettualizzazione, Bleuler stesso descrisse la malattia mentale -che avrebbe in seguito preso il nome di schiofrenia-, come il risultato di uno “split” che avrebbe scisso la mente, “disunendola”: l’elemento delle “allucinazioni uditive” sarebbe apparso come centrale solo più tardi, con il lavoro di Schneider e i suoi sintomi di primo e secondo rango, divenuti in seguito altamente connotanti la presenza di un disturbo psicotico. Gli autori vogliono mettere in evidenza come il “sentire le voci” sia da intendersi come un sintomo trans-diagnostico, non necessariamente da ascriversi al SOLO quadro di schizofrenia.

C

In più, attraverso il riferimento a questo studio, gli autori sottolineano come usare le caratteristiche stesse delle allucinazioni (per esempio la provenienza esterna o interna) come marker per formulare diagnosi, pare essere un gesto azzardato, dato che pur in differenti quadri clinici, la natura fenomenica del sintomo parrebbe essere la stessa:

  1. la natura del “sintomo voce” nel disturbo psicotico, nel disturbo borderline di personalità e nel PTSD, sembrerebbe essere la stessa, senza distinzioni significative (a recent review of AVH phenomenology, which was not limited to direct comparison studies, likewise concluded that AVH in PTSD and schizophrenia were experienced in quite similar ways)
  2. la fenomenologia invece delle allucinazioni uditive nel disturbo schizofrenico, comparate a quelle osservate nei quadri di disturbi dissociativi gravi (DID), sembrerebbe invece presentare alcune differenze significative: in particolare in coloro che soffrono di DID le voci sembrerebbero variare in maggiore intensità e presenza. Inoltre, nel DID sarebbero maggiormente comuni le voci “bambine” e le voci “mandatorie”, cioè aventi caratteristica di comando

Gli autori in questo articolo usano il sintomo target “voci” per disquisire a proposito della differenza tra schizofrenia, disturbo borderline e disturbo dissociativo dell’identità. Ciò che questo articolo vuole suggerire e che dovrebbe essere tenuto a mente in senso clinico, è che la presenza di voci non necessariamente indica un disturbo psicotico, ma potrebbe essere anche essere letto come il segno di un disturbo di natura dissociativa in atto (likewise, the Schneiderian symptoms of voices conversing and voices commenting are not only not unique to schizophrenia, they are more common in DID).

ASPETTI CLINICI

L’articolo, infine, si chiude con alcune riflessioni cliniche a riguardo del lavoro da fare con i pazienti uditori di voci:

  1. per prima cosa, è opportuno indagare lo stato mentale del paziente all’epoca dell’esordio del sintomo (la prima voce)
  2. è importante mettere a fuoco il trigger del sintomo: quale stato mentale/emozione, o quale persona in particolare, o ancora quale circostanza o luogo, è in grado di elicitare il sintomo?
  3. Dobbiamo chiederci, insieme col paziente: qual è l’obiettivo del sintomo/voce? Cosa ci vuole dire o dove ci vuole condurre con la sua presenza?
  4. In particolare nei casi di disturbo dissociativo, è frequente un senso di maggiore “alienità” dell’allucinazione uditiva (voci bambine, voci imperative o molto ripetitive): in questi casi va ancor di più suggerito un tentativo di “dialogo” con la voce e un approccio “empatico” (la voce andrebbe considerata non come un sintomo da eliminare, ma qualcosa con cui entrare in relazione)

INDICAZIONE PER I PAZIENTI

In questo articolo vengono fornite alcune indicazioni di massima per pazienti vociferati che debbano imparare in qualche modo a convivere con un sintomo di questo tipo:

  1. é importante che il paziente “si” ascolti senza portare a compimento le indicazioni dettate da una voce imperativa, o senza drammatizzare o prestare attenzione eccessiva al contenuto della voce stessa. Una voce ignorata tenderà a presentarsi con più forza: per questo occorre che le si presti la dovuta attenzione, senza però troppo assecondarla
  2. per quanto riguarda il messaggio portato dalla voce, dobbiamo chiederci che attitudine, la voce, rappresenti (per esempio, un’attitudine protettiva per il sé, un’attitudine invece aggressiva verso gli altri), oppure che parte del sé voglia esprimere; gli autori sottolineano come spesso la funzione ultima di una voce sia “protettiva”. (si veda TABELLA 1)
  3. Il trattamento migliore, per pazienti con voci, è un trattamento mirato a migliorare il rapporto tra la persona stessa e le sue stesse voci: occorre dunque praticare un lavoro di “accettazione”

TABELLA 1

possibili funzioni/goal delle voci (tratto dall’articolo)

Distrustful voices Being alert to possible danger/threats and avoiding further victimization

Blaming voices Internalization of previous negative messages that the voice hearer has received from other people (e.g., caregivers or perpetrators). An attempt to gain control (e.g., ‘‘If I believe it’s my fault then I can live with the hope that the situation may change’’). An attachment to the perpetrator

Aggressive voices These voices can draw attention to possible sources of threat as well as unresolved conflict. In many cases they start as distrustful voices; however, when not heard or listened to they can escalate in their messages. The voice hearer’s own disowned sense of rage and resentment

Submissive voices These voices are often related to learned helplessness, in that the person’s fight system is ineffective and the only perceived possibility is to submit. A belief that submission, compliance and/or not speaking out (e.g., about previous mistreatment) is a way of protecting oneself from further harm

CONCLUSIONI

L’ipotesi che gli autori formulano, in definitiva, è quella di considerare il sintomo “voci” come un aspetto dissociativo ANCHE nei quadri psicotici diagnosticati come “schizofrenia”. Questo è in continuità con l’idea storicamente difesa da Bleuler a riguardo della schizofrenia, considerata come stadio finale di un processo di “splitting” della mente, ovvero di dis-unione. Il sintomo “voci” sarebbe in questo caso trans-diagnostico e indicativo di uno stato di dissociazione in atto nella mente dell’individuo, che si manifesterebbe tuttavia in modi peculiari e differenti nella storia del singolo individuo.

NOTA

Questo video è ben fatto e ne consigliamo la visione:

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21 dicembre 2018

DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION

di Raffaele Avico


articolo originariamente apparso sul Psychiatry On Line: qui

Si è conclusa pochi giorni fa la quarta edizione della Scuola di Neuroetica organizzata da Stefano Canali (Psicoattivo), dottore di ricerca presso al SISSA di Trieste. L’occasione ha visto una compresenza di più professionisti provenienti da ambiti di lavoro attigui ma non sovrapponibili, impegnati in un lavoro di focalizzazione sul tema “addiction”.

Il laboratorio di neuroetica promuove un lavoro interdisciplinare che mette insieme più punti di vista: il problema addiction coinvolge infatti più problemi, di ordine diverso, che rendono estremamente difficile rispondere alla domanda su quanto il problema sia da ricondurre a fattori organici, o se viceversa la questione sia connessa ad aspetti “morali” (dipendenti dalla volontà del singolo).

In altre parole, alla base del problema addiction sta un dilemma a riguardo dei moventi del comportamento di dipendenza, dato che:

  1. se l’addiction dipende da un probelma di ordine neurobiologico, o legato a funzioni cognitive che perdono di efficacia (come le funzioni esecutive, inerenti il controllo, mediate dalle parti più evolute del nostro cervello), de-responsabilizziamo il soggetto e focalizziamo il nostro intervento sul ripristino di funzioni andate perdute
  2. se invece abbracciamo l’idea che l’addiction si costituisca come un problema dipendente da una libera scelta del singolo, la “malattia” diventerà diretta conseguenza di una sua scelta (questa visione promuove quindi una lettura “morale” del problema tossicodipendenza, per cui chi sviluppa un disturbo di questo tipo, in qualche modo, lo vuole, o cavalca questa “scelta/modalità” di vita)

Chiunque si approcci al problema addiction, lo farà oscillando tra gli estremi di questi due poli, che spostano il “locus of control” dall’esterno all’interno, e viceversa, a seconda di dove si collochi la responsabilità della nascita del problema stesso (all’eterno o all’interno?).

Ciò che è stato fatto alla scuola di neuroetica, è il tentativo di rispondere, in modo almeno parziale, ad alcune domande connesse a questo dilemma iniziale. Alla docenza si sono alternati ricercatori impegnati da tempo nell’approfondimento di questioni inerenti la dipendenza in tutte le forme, e clinici di lungo corso e con grande esperienza alle spalle (come Paolo Jarre e Augusto Consoli da Torino).

Alcuni aspetti affrontati sono stati:

  • la concettualizzazione del disturbo psichico, sul filo tra visione “deficitaria” del disturbo (visto come disfunzione evolutiva) e invece concettualizzazione normativa (per cui il disturbo deriva dall’essere interpretato come “diverso” da parte del gruppo sociale; pensiamo alla “questione” omosessualità, un tempo interpetato come perversione, oggi ampiamente e giustamente normalizzato e integrato); l’approfndimento è stato condotto dalla dott.ssa Cristina Amoretti, dell’università di Genova
  • aspetti di filosofia della psichiatria, a cura del Prof. Massimo Marraffa (Università Roma 3), in relazione a come è (stato) intepretato e letto il fenomeno dell’addiction
  • la questione del reward (di cui abbiamo scritto qui), e il consenso a proposito dell’intervento, nel produrre il comportamento di addiction, dell’”attore” dopamina, a cura di Gaetano Di Chiara (un suo corposo intervento a proposito dellan neurobiologia della cannabis è disponbile qui)
  • la dipendenza come malattia del controllo volontario, a cura di Stefano Canali, che ha ampiamente affrontato e affronta la questione all’interno della rubrica “ADDIZIONARIO”, che trovate su Psychiatry On Line. Questa lettura ha messo in luce, tra le altre cose, alcune questioni e aspetti laterali inerenti il trattamento della problematica addiction, come alcune formule comportamentali quasi mai sperimentate presso il nostro paese (come il pagare/premiare con piccoli token i traguardi raggiunti da tossicodipendenti astinenti) ma presenti già altrove (per esempio il Regno Unito). Inoltre, è stato sottolineato come alcuni veri e propri bias cognitivi rendano complicato affrontare il problema dipendenza (una miopia verso il futuro, una negazione e un autoinganno rispetto ai danni della propria condotta, come dire: “so che mi sto facendo male, ma continuo”). Il Prof. Canali ha citato inoltre i vantaggi arrecati dal praticare attività sportiva in modo regolare in termini di migliori performance di apprendimento e migliorate funzioni esecutive (per esempio il programma Zero Hour Program, qui descritto)
  • alcuni aspetti inerenti il tabagismo (Prof. Lugoboni di Trieste; qui un testo dal suo gruppo redatto interamente scarcabile)
  • l’importanza di arrivare a un uso regolato di sostanza per pazienti che tentino di raggiungere un’astinenza da sostanze pesanti come eroina o alcol, discussa dal Dott. Jarre di Torino. Jarre ha posto il problema in modo molto concreto, da clinico esperto, portando come obiettivo possibile un uso regolamentato delle sostanze, dietro controllo medico, invece di inseguire una a volte utopica astinenza “totale”. Un lavoro sulla riduzione o regolamentazione del danno si accoda a progetti europei di utilizzo “regolato”, per esempio con sale di assunzione (le “narcosale”) -presenti in Svizzera in pratica ovunque- e appunto l’obiettivo di un utilizzo di sostanze a intervalli sempre più dilazionati.
  • Il Dott. Mauro Cibin, con un occhio al lavoro fatto presso la struttura da lui diretta (Centro Soranzo), ha parlato del concetto di recovery, molto sentito oggi in psichiatria, in particolare esortando a mettere in campo interventi:
    • personalizzati
    • in senso relazionale incentrati su aspetti motivazionali
    • incentrati sul trasferimento di attività spendibili nella vita reale (si veda questo approfondmento sull’empowerment) con funzione capacitante/emancipante

Si è tentato inoltre di promuovere una riflessione integrata attraverso gli interventi singoli di alcuni borsisti che hanno portato brevi talk a riguardo di argomenti specifici: per esempio la questione della dipendenza come forma di autoregolazione emotiva -usando il concetto di teoria della finestra di tolleranza di Daniel Siegel- (Raffaele Avico), la teoria e la pratica della Somatic Experiencing in ambito di problematiche di dipendenza presso una struttura residenziale (Mauro Semenzato), la teoria della embodied cognition (cognizione incarnata) in ambito di ricerca (Alisha Vabba), la concettualizzazione della dipendenza (Giulia Virtù), un approccio fenomenologico al problema di addiction (Sara De Laurentiis), e altri.

Aspetto interessante, la presenza di due avvocati penalisti (Susanna Arcieri e Vasco Jann), portatori di un punto di vista diverso ma molto addentro alla questione addiction in termini pratici: il problema dell’imputabilità di un soggetto, per esempio, affetto da dipendenza cronica e autore di reato, è inestricabilmente collegato a quanto si consideri la malattia addiction come diretta responsabilità del singolo, o invece la si pensi come malattia vera e propria (slegata dalla responsabilità e dal libero arbitrio).

Questo ha consentito il crearsi di un dibattito vivace e intenso nel contesto stimolante della SISSA, e un vivo senso di fermento culturale estremamente coinvolgente e appassionante.

NOTA

Altro importante aspetto messo in luce nel corso dell’incontro, trasversale ai vari interventi, la questione identitaria: se infatti fino a pochi anni fa la tossicomania e l’aderire a uno stile di vita variamente tossicomanico, sembravano rispondere a esigenze di conferma anche identitaria, oggi la questione sembra più complessa- visto anche il diverso stile di consumo e la diversa percezione sociale dell’addiction stessa.

Negli anni ’80/’90 assistemmo al connotarsi in senso politico del fenomeno della tossicodipendenza, inestricabilmente collegato ai mutamenti culturali che sembravano cavalcare l’onda consumistica: nel panorama culturale del boom economico, la tossicodipendenza sembrava prendere la forma di una silente, melanconica e anticapitalistica ribellione al sistema, come una sorta di ritorno del rimosso incarnato in una generazione di tossicodipendenti identificatisi in modo consapevole al ruolo di “reietti” -con però un’identità molto forte e un senso di appartenenza a costumi e luoghi che ancora oggi, in certi luoghi, sopravvive (pensiamo ai SerD come luoghi di ritrovo/aggregazione tra vecchi storici eroinomani, il culto romantico del tossicodipendente come anti-eroe votato alla ricerca di un’intimità perduta e di una connessione più autentica agli altri).

Con il mutare del paradigma culturale, il normalizzarsi e per certi versi lo “sgonfiarsi” dell’ideologia consumistica degli anni a cavallo del 2000, verso il “post” che viviamo oggi, questa ribellione pare oggi aver perso il suo senso, e con esso il senso di appartenenza prima raccontato, in favore di nuove forme identitarie che si inseriscono nelle trame della cultura dell’oggi. Dalla ribellione sociale ottenuta autodistruggendosi, di fatto introvertendo e cavalcando la rabbia degli esclusi, assistiamo oggi al proliferare di nuove forme di consumo, rappresentate da concetti e diktat nuovi, che promuovono estroversione e performance, che meglio si adattano a un contesto di “guerra di tutti” in cui ognuno è solo nel tentativo di emergere dal marasma sociale, con più individualismo, forme di auto-imprenditorialità esasperate e pochi gruppi di appartenenza o culti a cui aderire (a parte, appunto, quello dell’obbligatoria auto-determinazione solitaria)

Per ulteriori approfondimenti: http://neuroetica.sissa.it/

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13 dicembre 2018

CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK

di Matteo Respino

In termini generali, utilizzando un definizione “classica” anche se forse un poco datata e certamente riduttiva, con Default-Mode Network (DMN) si intende un sistema di circuiti neurali attivi quando il soggetto non é impegnato nello svolgimento di un task specifico, ovvero quando si è in uno stato di riposo, appunto di “default”. Per approfondire brevemente tale argomento abbiamo deciso di riassumere i concetti elaborati nell’articolo “The brain’s center of gravity: how the default mode network helps us to understand the self” di Davey & Harrison, pubblicato recentemente su World Psychiatry.

Gli Autori descrivono le funzioni del DMN a partire da alcune argomentazioni filosofiche. Più specificamente fanno riferimento – e sposano – una definizione del Sè fornita dal filosofo Daniel Dennett, secondo il quale il Sè potrebbe essere descritto come “the center of narrative gravity”, il centro dell’esperienza soggettiva. Allo stesso tempo gli Autori criticano a Dennett le sue affermazioni sull’impossibilità di localizzare tale “centro di gravità della narrazione” nel contesto di una struttura (o funzione) del Sistema Nervoso Centrale. Vi sarebbero infatti, a questo punto, molti indizi a indicare come l’attività delle regioni cerebrali che chiamiamo DMN siano da collegare a vari aspetti del Sè. A seguire alcuni degli indizi menzionati nell’articolo:

  • Il DMN è attivo quando il soggetto non sta svolgendo attività specifiche in relazione al mondo esterno (external tasks), ma quando piuttosto la sua attenzione si rivolge internamente o semplicemente fluttua (mind wandering). Viceversa, le regioni del DMN mostrano una riduzione di attività quando il soggetto sta svolgendo goal-directed tasks.
  • Diversi esperimenti hanno ad oggi mostrato come le regioni del DMN sostengano attività mentali legate all’elaborazione del Sè come ad esempio la self-reflection, o lo sviluppo di self-directed thoughts, pensieri orientati al Sè. Esempi di questi pensieri, durante i quali le regioni del DMN risultano attive, sono l’autogenerazione di certi attributi: al soggetto può venire richiesto di attribuirsi certe caratteristiche, forzandolo quindi ad un’attività di riflessione su se stesso, o può venire richiesto di pensare a se stessi nel futuro, o nel passato.
  • Le componenti prinicipali del DMN, quella anteriore (corteccia prefrontale mediale) e quella posteriore (cingolo posteriore) collaborano nel generare rappresentazioni rilevanti del Sè. Tali regioni sono tra quelle che mostrano il più alto grado di “connettività globale”: cosa vuol dire? Se immaginiamo le regioni cerebrali come luoghi specifici in una città, tra loro collegati da diverse strade, le aree del DMN sono tra quelle che mostrano il maggior numero di “collegamenti” con altre aree, sono quindi intersezioni assolutamente “centrali” nella mappa del connettoma umano. Tale caratteristica anatomico-funzionale consente che le funzioni sostenute dal DMN siano del più alto livello gerarchico, come appunto la generazione di pensieri legati al Sè, richiedendo l’elaborazione di informazioni provenienti da molte altre regioni cerebrali.

Per ulteriori interessanti approfondimenti, sebbene più tecnici, i lettori possono consultare i numerosi lavori di Jessica Andrews-Hanna sull’argomento. Un altro recentissimo paper di grande interesse sulla connettomica cerebrale e le sue potenzialità, sebbene non strettamente legato al DMN, è “Mapping symptoms to brain networks with the human connectome” di M. Fox pubblicato sul The New England Journal of Medicine.

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  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
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  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
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  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
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  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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