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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

3 febbraio 2021

PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI

di Raffaele Avico

Abbiamo nella prima parte di questo articolo cercato di approfondire alcuni aspetti psicologici della carcerazione prendendo spunto dal sito, molto ricco, ristretti.it

Sempre su questo sito troviamo delle tesi, pubblicate intere, svolte da studenti o studiosi di diritto, psicologia, sociologia e altre discipline, a proposito della vita in carcere e dei suoi risvolti sulla psiche e le relazioni.

Tra queste troviamo una tesi in sociologia del Diritto scritta da Carmelo Musumeci, egli stesso incarcerato a vita, dal titolo “Vivere l’ergastolo“.

Musumeci scrive:

“La pena dell‘ergastolo non è un deterrente, non migliora l’uomo, non ha niente di ragionevole e istituzionalizza la vendetta attraverso la sofferenza, rispondendo alla violenza criminale con la violenza legale”

Il suo proposito è indagare il vissuto dei carcerati “fine pena mai”. In questo lavoro si propone di eseguire un’indagine allargata su alcuni aspetti della vita da ergastolano, attraverso alcune domande mirate da far rispondere a più persone possibile.

La tesi è di estremo interesse perchè ci consente di gettare uno sguardo diretto sull’esperienza portata da un campione di individui -suddivisi in questo modo, su più carceri: Opera (Milano) 1 questionario, Novara 1, Prato 2, Sollicciano (Firenze) 1, Livorno 4, Volterra 1, Fossombrone 10, Rebibbia (Roma) 3, Sulmona 4, L‘Aquila 1, Carinola 8, Melfi 1, Palmi 1, Trapani 1, Bicocca (Catania) 1, Ucciardone (Palermo) 1, Trapani 1, Nuoro 6.

Ecco un estratto dal lavoro.

A domanda fatta (in grassetto) si susseguono le risposte date dai diversi intervistati (indicati con Q46, Q35, etc.), in corsivo.

  1. La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere, a tuo parere, ti ha cambiato in meglio o in peggio?
  • Q46 “La sofferenza dell’ergastolo è qualcosa di davvero indescrivibile, ti stordisce, ti lascia il segno per tutta la vita, stravolge la tua esistenza a tal punto che non sai se è stato un cambiamento peggiore o migliore, solo l’esperienza del carcere ti lascia capire il tuo cambiamento”.
  • Q16 “La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere non mi hanno certo cambiato in meglio, con la soppressione non si migliorano le persone; quello che mi ha totalmente cambiato è stato l’amore della mia famiglia che mi ha dimostrato in questo periodo particolare”.
  • Q10 “Come è noto la sofferenza fa crescere interiormente, ti fa avere un concetto del mondo diverso rispetto a quando la tua vita era libera dalle catene”.
  • Q1 “La sofferenza indurisce e chi soffre spesso diventa egoista ed individualista, quindi credo anche se in minima parte di essere peggiorato.”
  • Q5 “Sicuramente la detenzione non influisce positivamente sul carattere di alcuna persona, difatti porta inesorabilmente ad uno stato di sottomissione parziale, nonché perenne nei casi degli ergastolani.”
  • Q40 “Il carcere non fa altro che aggiungere male al male”
  • Q39 “Sono più consapevole della vita, ma credo che questo dipenda dall’età. Il carcere se non sai affrontarlo può abbrutirti o rincretinirti”.
  • Q30 “Questo carcere non può cambiare niente, solo aggiungere dolore.”
  • Q24 “Certamente in meglio, dopo tanti anni di carcere riesci ad apprezzare tutto ciò che ti offre la vita.”
  • Q41 “Credo in meglio perché conosco il dolore… non vorrei che il mio prossimo avesse la stessa la sorte.”
  • Q37 “Nella sofferenza s’imparano tante cose… il tutto è saperli mettere in pratica poi, purtroppo, non tutti ci riescano però. La gente cosiddetta per bene discrimina il detenuto… Fa male! Guai se il mondo si dividesse in buoni e cattivi, sarebbe la fine.
  • Q32 “Questo lo dovrebbero giudicare gli altri; io so solo che vorrei vivere da eremita.”
  • Q23 “Sicuramente mi ha insegnato a conoscere meglio le persone, a dominare l’impulsività, a conoscere meglio me stesso e cosa voglio veramente dalla vita.”
  • Q13 “In peggio.”
  • Q9 “L’esperienza del carcere non ti cambia in meglio specie quando è afflittiva, ci vorrebbe poco per migliorarla”.
  • Q20 “Sicuramente mi ha fatto riflettere su molti aspetti della propria persona, e sicuramente mi ha cambiato in meglio”.
  • Q4 “La sofferenza dell’ergastolo e l’esperienza del carcere ha rafforzato il mio carattere, mi ha cambiato in meglio, almeno credo”.
  • Q12 “Per certi versi in peggio”.
  • Q19 “In peggio”.
  • Q27 “Mi porta a riflettere sul mio passato”.
  • Q28 “Mi hanno fatto conoscere la grandezza e la miseria umana. Non so se sono cambiato in meglio o in peggio, non riesco a giudicarmi”.
  • Q38 “Sicuramente in peggio”.
  • Q35 “Non lo so …, a volte mi faccio forza per dirmi che in fondo anche questa nuova esperienza tragica … è un segno positivo…”.
  • Q29 “Sicuramente in peggio! Il carcere può tirarti fuori solo quello”.
  • Q34 “In peggio perché non solo danno ergastoli con molta facilità ma poi in carcere c’è pure chi se la gode”.
  • Q33“Mi ha migliorato sotto l’aspetto culturale, fuori non avevo tempo di leggere tanti libri. Mi ha fatto conoscere di più la cattiveria umana. Sono cambiato in meglio”.
  • Q43“Lo valuterò un giorno che avrò l’occasione di confrontarmi con il mondo esterno”.
  • Q45 “Non so se sono cambiato in meglio o in peggio, so solo che la sofferenza ha il sopravvento su tutto.” 
  1. Hai oggi disturbi psicofisici come: difficoltà a dormire, paure, manie, problemi riguardanti il cibo… ecc.?
  • Q46 “Maggiormente sono i problemi psicofisici che in questi lunghi anni di detenzione mi hanno colpito di più, quello che più mi tormenta e mi fa disperare è la difficoltà a dormire. Da anni soffro di una grave forma d’insonnia, una sofferenza che ha aggravato di molto il mio stato detentivo
  • Q16 “No, non ho disturbi psicofisici, per dormire ci riesco bene perché durante il giorno mi stanco moltissimo tra sport, artigianato, ecc. manie non per niente, paure no, forse più che la paura è la preoccupazione quando i miei vengono a trovarmi, caso mai succeda qualcosa durante il tragitto. Per il cibo ripeto che problemi si possono avere o mangi quello che passano o che ti permettono di comprare, sempre che uno abbia disponibilità economica, o stai a digiuno, dalla finestra non ti puoi buttare, ci sono le sbarre.”
  • Q10 “Ho difficoltà a dormire, questi sono gli effetti devastanti che ha il carcere sul tuo sistema nervoso, il quale è sottoposto quotidianamente ad una “buona” dose di stress.”
  • Q1 “Non ho difficoltà, tranne il fatto che ormai dormo pochissimo massimo 4, 5 ore.”
  • Q5 “Niente di tutto questo, a parte un po’ di insonnia.”
  • Q40 “Ho sempre la paura, tutte le mattine, di svegliarmi in carcere e quando la sera mi chiudono il blindato (la seconda porta) mi sento in trappola…”
  • Q39 “Si, ma nulla che non riesca a controllare.”
  • Q30 “Ho solo problemi con alcuni cibi, il latte e le melanzane.”
  • Q24 “Sono fissato per l’ordine e l’igiene.”
  • Q32 “Ho solo il desiderio di morire presto.”
  • Q23 “Non ho particolare problemi di dormire… ho comunque anch’io le mie paure, le mie ansie, come tutti, ed in periodi in cui si accentuano, ne risento un po’ di più, ma in linea di massima riesco a stare abbastanza tranquillo”
  • Q7 “No, certo con l’avanzare degli anni dormo un po’ di meno, manie non me ne vedo, ma su di me, sono sempre stato poco critico.”
  • Q3 “Difficoltà nel dormire “
  • Q11 “Sì, per mangiare posso mangiare poche cose e qui dentro è un problema dato che da mangiare non danno nulla”
  • Q31 “No, me ne frego di tutto e di tutti negli ultimi anni. Fino a metà pena cioè ai 12 anni di carcere, avevo dei problemi a dormire e nervosismo”.
  • Q9 “Difficoltà a dormire, problemi riguardanti il cibo, paure interiori”.
  • Q4 “Sì, oggi dopo tanti lunghi anni di galera ho difficoltà di dormire”.
  • Q21 “Sì, a volte quando mi spoglio ho degli incubi”.
  • Q27 “I problemi più duri sono il cibo, infatti spesso mi cucino da me per i miei problemi di stomaco.”
  • Q38 “In linea di massima non avverto ansia immotivata a parte quando magari i miei familiari ritardano al colloquio”.
  • Q35 “Difficoltà nel dormire…se lo spioncino del blindo resta aperto… per via della luce…e la luce della torcia… alla conta.”
  • Q34 “Ho problemi con il cibo a causa di problemi allo stomaco”.              
  1. Come vive e pensa un ergastolano?
  • Q46 “L’esistenza di un ergastolano, a mio modo di vedere, vive e pensa in modo del tutto particolare: è meno incline a crearsi amicizie, è un po’ chiuso in se stesso, intrattiene pochi rapporti sociali, sceglie con cura quei pochi amici che lo circondano è molto diffidente verso tutti, caratterialmente è molto forte, cerca sempre di adattarsi ad ogni situazione, coordina tutto con eccessiva cura, dedica molto tempo alla cura della sua persona, analizza tutto ed è più razionale dei detenuti che devono scontare una pena temporale”.
  • Q44 “ Pieno di angosce per il futuro”
  • Q2 “Un ergastolano vive una vita normale come altri detenuti, ma pensa diversamente dagli altri, la sua è una pena che deve scontare per tutta la vita, mentre gli altri possono pensare ad un fine pena e fare progetti.”
  • Q16 “Io personalmente vivo alla giornata e le uniche cose che penso sono se la mia famiglia sta bene, se ai miei manca qualcosa, se possono mangiare e la sera dopo la preghiera ringrazio Dio perché un altro giorno è trascorso e mi chiedo: ma quanti altri? Una vita.”
  • Q1 “Credo che nei primi 10 – 15 anni di carcerazione la sua vita sia pressoché uguale a quella degli altri detenuti, forse con un po’ più di attenzione verso il prossimo. Da quella data in poi in tanti subentra una specie di metamorfosi e si tende ad incarognirsi cioè a curare il proprio orticello.”
  • Q5 “L’ergastolano vive con una marcia in meno e pensa di non poter sperare nemmeno tanto.”
  • Q40 “Nella maggioranza dei casi un ergastolano non vive, non pensa ma vegeta ripetendosi sempre che la speranza è l’ultima a morire e così facendo muore tutti i giorni…perché la tortura della speranza è un meccanismo perverso e sadico che il legislatore ha messo in opera. La speranza è la forma più struggente che il diritto potesse escogitare per far soffrire un condannato all’ergastolo.”
  • Q39 “Vive accontentandosi delle piccole cose che riescono a farlo sentire vivo e cerca di pensare in modo positivo, nel senso che spera di avere una altra opportunità.”
  • Q30 “Vivo una quotidianità sempre uguale, il pensiero che impera è di uscire un giorno.”
  • Q24 “Vive con la speranza che aboliscano l’ergastolo e danno una scadenza alla condanna. I pensieri sono sempre gli stessi, la famiglia, la libertà una vita diversa ecc.”
  • Q41 “Se pensi da ergastolano non tiri sera!”
  • Q37 “Principalmente pensa al futuro che non può più avere e cerca di farsene una ragione; ognuno poi vive secondo le proprie forze e com’era sistemato fuori… individualmente ci creiamo un nostro mondo e col tempo ci si abitua. Alcuni addirittura arrivano ad istituzionalizzarsi rifiutando il mondo esterno.”
  • Q32 “Credo che questo sia soggettivo, io penso che respiro e va bene così.” Q23 “Sperando!”
  • Q13 “In funzione dell’ambiente circostante.”
  • Q7 “Io vivo e penso solo ad uscire, il più presto possibile.”
  • Q22 “Posso dire come penso io con l’ergastolo. Sono entrato per fare sei mesi, e sono da 31 anni in carcere, la colpa non è solo mia ma anche dell’istituzione, loro non mi mollano, cosa devo pensare, che Dio che li aiuti.”
  • Q3 “Con il massimo della fantasia”.
  • Q15 “Vive sempre con la speranza che un giorno l’angoscia del fine pena mai finisca, pensa come una persona consapevole di aver una grossa condanna da scontare senza perdere mai la speranza che un giorno possa riabbracciare la propria famiglia.”
  • Q8 “Alla giornata”
  • Q31“Io, con odio”.
  • Q9 “L’ergastolo più che vivere ti fa stare in uno stato vegetativo, pensa al momento del risveglio, non arriva a pensare al giorno seguente”.
  • Q20 “In diversi modi nella speranza e vive nei ricordi della propria vita”.
  • Q4 “Come si vive la pena di un ergastolano: bisogna avere tanta pazienza e tanta fede e pensare positivo ed affrontare la vita giorno per giorno, quello che ci offre nostro Signore”.
  • Q19 “Si tira avanti, giorno per giorno senza pensare alle cose tristi”.
  • Q21 “Vive da pena e pensa di non morire in carcere”.
  • Q27 “Un ergastolano non pensa e non vive, ma sopravive e basta”.
  • Q28 “Ogni persona pensa e vive a modo suo, la condizione di ergastolano non accomuna il modo di vivere e di pensare”.
  • Q6 “Vivo poco e penso poco”.
  • Q38 “Vive male, pensa sempre in negativo, diciamo una vita da cani”.
  • Q29 “Giorno per giorno”.
  • Q34 “L’ergastolano vive alla giornata e più che pensare spera sempre che arrivi il giorno per uscire”.
  • Q33 “Io non ho mai accettato l’ergastolo non riesco ad immedesimarmi”.
  • Q43 “Che ci sarà un giorno nel quale anche io potrò essere dichiarato libero di vivere!” Q45 “Vive la giornata e pensa molto poco per disilludersi.”
  • Q42 “Vive alla giornata. Pensa…”
  1. Ci sono stati dei cambiamenti in te stesso che hai notato in questi ultimi anni di carcere?
  • Q46 “Ci sono stati molti cambiamenti in me in questi anni di carcere. Il primo cambiamento che posso constatare è stata la graduale maturità, una trasformazione totale (sono entrato in carcere che ero un ragazzo); la seconda cosa, un nuovo modo di pensare e di vedere le cose, riflettere su tutto, in breve, tutte cose che si notano quando senti che in te c’è stato un cambiamento.”
  • Q47 “Si ho valutato la vita e non rifarei gli errori fatti”.
  • Q16 “Sì, negli ultimi 3 anni ho dato un’intera svolta alla mia vita, ho proprio voltato pagina e sono cambiato in meglio, mentalmente tanto che spesso non ci credo neppure io, mi stupisco da solo.”
  • Q10 “Sono diventato più riflessivo, razionale, ma questo è dovuto all’età!”
  • Q1 “Sicuramente sono molto più riflessivo, poi mi sono adeguato a non dire sempre quello che penso, cioè a fingere.”
  • Q5 “I cambiamenti che maggiormente fanno paura non sono quelli che ogni mattina si possono vedere attraverso lo specchio, ma l’evoluzione psicologica che spesso ci porta a farci perdere la fiducia in noi stessi e la costante paura di un futuro incerto.”
  • Q40 “Solo i sassi non cambiano anche se con il tempo e le intemperie cambiano anche loro. Ho notato che sono cresciuto interiormente accettando la mia sensibilità non più come un difetto ma come un pregio…per il resto il carcere così com’è non rieduca nessuno.”
  • Q39 “Sono diventato più riflessivo e accomodante.”
  • Q30 “Solo gli stupidi non cambiano mai. Sono cresciuto e di molto, ho compreso chi ho incontrato, sono stato me stesso.”
  • Q24 “Sono diventato molto più riflessivo e paziente, ero molto istintivo, questo mi ha sempre creato problemi.”
  • Q41 “Sicuramente si muta molto di più interiormente, è capitato a me.”
  • Q37 “Sì, ho maturato la convinzione che l’Italia non è mai uscita da quell’infame regime fascista…ha cambiato solo pelle. In un paese democratizzato un cittadino che “devia” va aiutato e guidato sulla retta via e non represso con un tipo di carcere fine a se stesso.”
  • Q32 “Che non mi frega niente, tanto è tutto relativo.”
  • Q23 “Passano gli anni e si ha tanto tempo per pensare, è inevitabile che si cambi. Soprattutto si cambia ripensando alle conseguenze del proprio passato.”
  • Q13 “Il tempo modifica sempre le persone, il luogo ne accudisce le peculiarità.‖
  • Q7 “Più vecchio e meno disposto a subire prepotenze.
  • Q22 “Uno cambia nella vita quando fa cose storte, se vive nel giusto per il giusto e con il giusto, non può mai dire di aver fatto errori.”
  • Q15 “Si, i tantissimi anni di lunga e sofferente detenzione mi hanno portato a meditare e a farmi riflettere su alcuni episodi della mia vita, sono certo di avere la volontà di comprendere quale strada dovrò intraprendere per stare in una società sana e civile”.
  • Q11“Si, qui dentro sono arrivato a capire bene cosa vuol dire famiglia, cosa vuol dire essere padre, dato che avevo 22 anni quando sono entrato qui”
  • Q8 “Sì, arrabbiato”
  • Q31 “Sì, più maturità dopo 22 anni e 6 mesi di vita in carcere”.
  • Q4 “Sì, ho visto molti cambiamenti in me stesso in questi anni di galera, parecchi, una per tutte l’affetto dei miei cari, la mia personalità verso gli altri più umana”.
  • Q21 “Sì, sono più riflessivo e meno permaloso”.
  • Q23 “Il primo cambiamento che noto è che sto invecchiando, ho tutti i capelli bianchi”.
  • Q28 “Sì, anche se non fossi stato in carcere sarei cambiato, anche se indubbiamente tale condizione ha influenzato il cambiamento”
  • Q38 “Più sensibilità e maturità: sono certo però che sarei migliorato anche fuori”.
  • Q34 “Certamente sono invecchiato prima per la sofferenza mia e dei miei cari”.
  • Q45 “Più maturità e tanta pazienza.”
  • Q42 “Sicuramente, il tempo cambia le persone, ovunque esse si trovino.”
  1. Come percepisci il tempo che trascorri in carcere? É per te un tempo vuoto, un tempo perso o comunque un tempo di vita?
  • Q8 “L‘ergastolo c‘è ma non c‘è ma se non c‘è perché c‘è? La vita dell‘ergastolano è proprio una lunga marcia attraverso la notte e si avanza al buio per tutta la vita”
  • Q6 “Il tempo in carcere è difficile da percepire, si dilata andando oltre il vero tempo reale. Non si avverte il trascorrere effettivo di esso ma tutto si riduce ad un qualcosa di aspettativa, sembra tutto fermo, si parla di anni come se si discutesse di giorni, lo si estende e lo si altera. Ma, come sia, lo percepisco sempre come un’esistenza di vita”.
  • Q2 “Credo che dopo aver perso i primi anni di carcerazione a questo punto diventa un tempo di vita da trascorrere il meno duro possibili.”
  • Q10 “A mio avviso, il tempo in carcere è vuoto, perso. Se pure mi applichi per utilizzarlo al meglio delle mie possibilità.”
  • Q1 “In generale il carcere è vita persa però in tanti cerchiamo di tenerci occupati svolgendo varie attività che il più delle volte vengono ostacolate da chi è preposto alla custodia. È comunque un tempo di vita.”
  • Q5 “In questi posti il tempo non è un concetto ben definito ma se dovessi esprimere tale emozione, potrei certamente dire che si tratta di un tempo di vita drasticamente perso.”
  • Q40 “Sinceramente, grazie al mio attivismo, un tempo di vita.”
  • Q39 “Penso che nonostante tutto oltre a vegetare, ci sono momenti di vita, soprattutto quando vediamo i nostri cari e quando riusciamo in qualcosa.”
  • Q30 “È tempo perso stando chiusi qui dentro, ma lo vivo come vita reale.”
  • Q24 “La detenzione è un” vivere fuori dal mondo” pertanto sicuramente un tempo perso, purtroppo senza recupero.”
  • Q41 “Se non c’è speranza si affaccia solo il “borderline”.
  • Q37 “Occupo le mie giornate facendo piccoli lavoretti artigianali… poi vengono le guardie e me li rubano e mi fanno incazzare … Anche questo è un modo per trascorrere qualche momento diverso…”
  • Q32 “Per me il tempo è relativo perché prima o poi finisce con la morte.”
  • Q23 “Ho sempre vissuto il tempo in carcere come una “risalita” che veniva premiata con graduali “scatti” di libertà infraumana ma in questo carcere mi sento tornato ai tempi della custodia cautelare.”
  • Q13 “Il tempo è vuoto ovunque ci sia l’ozio. Tempo perso (no) se mai rubato ai miei cari, è un tempo di vita in quanto occupa uno spazio in un determinato tempo.”
  • Q7 “Il tempo passa per lo più vuoto, e in ogni modo, è un tempo di vita.”
  • Q22 “Nel carcere il tempo non è vuoto ma è super vivo.”
  • Q15 “Lo percepisco del tutto simile alla vita dell’uomo condannato”.
  • Q11 “Per me è un tempo vuoto”.
  • Q8 “Comunque tempo di vita”.
  • Q9 “Cerco di riempire il vuoto, per quel che si può è un passaggio obbligato, imposto, ma guardo oltre con speranza”.
  • Q12 “È un tempo perso ma di vita”.
  • Q19 “Come un tempo di vita, anche se ripetitiva.”
  • Q21 “Lo percepisco studiando e per me è un tempo di vita”.
  • Q27 “Per me è un tempo vuoto ma è manche un tempo di vita a vuoto”.
  • Q6 “Sempre vita è”.
  • Q38 “Inutile, sicuramente un tempo perso”.
  • Q35 “Un tempo di sofferente vita”.
  • Q29 “Nessun tempo penso che sia perso, anche se mi manca qualcosa”.
  • Q34 “In carcere il tempo è morto di monotonia, insomma non si vive ma si sopravvive”.
  • Q43 “E’ un tempo di vita che cerco di vivere malgrado tutto!”
  • Q45 “Sicuramente un tempo di vita, ma dentro di noi lo sentiamo come perso.”
  • Q42 “Sicuramente potrei sfruttarlo molto meglio. Comunque un tempo di vita.”
  • Q33 “Cerco migliorare nel mio povero bagaglio culturale.”

OSSERVAZIONI

  • l’esperienza del carcere è l’esperienza del limite. Rappresenta in questo senso quanto di più prossimo al lutto esista: il lutto arriva imponendosi come “limite” invalicabile, separazione tra il prima e il dopo, evento esterno o deus ex machina totalmente al di fuori del controllo individuale da parte del soggetto. Inoltre, il carcere è un limite fisico, “reale”. Auto-indursi dei limiti tramite pratiche di rinuncia o auto-disciplina, presuppone una scelta ragionata da parte dell’individuo e la libertà di poter sgarrare alle stesse regole a cui ci si assoggetta. Qui invece parliamo di un limite posto da qualcosa di esterno, un intervento “genitoriale” radicale eseguito su un bambino impotente. É un limite in grado di produrre regressione a stati mentali infantili, il più verosimile degli “interventi paterni”.
  • Nelle risposte alle domande sopra svolte, il tema della riflessione e della “produzione” di pensiero entro un regime di “punizione” mette in luce il razionale stesso di intervento giuridico relativo alla coercizione che, oltre a basarsi sul “preservare la società da individui pericolosi”, mira a promuovere “riflessione“ e “redenzione” dei soggetti tramite auto-osservazione e ascolto “interiore”, un po’ come fa la comunità terapeutica (a metà tra custodia e terapia), ma in modo più totalizzante. Per un approfondimento sulla comunità terapeutica e il ruolo degli operatori di comunità, si veda qui.
  • il problema dell’igiene del sonno sembra dilagante (almeno, in questo campione ristretto). Alcune osservazioni:
    • Il sonno è complicato da una condizione di assenza di “sicurezza percepita”; il percepire l’ambiente in cui si dorme come non totalmente sicuro altera il livello di arousal, frammentando il sonno, favorendo poi una condizione psicologica di prostrazione cronica e di abbattimento delle performance cognitive. Ma le spiegazioni all’origine dell’insonnia potrebbero essere più complesse, più varie.
    • Occorrerebbe in questo senso fare un’indagine sugli effetti della deprivazione sociale: quali sono gli effetti sul sistema nervoso autonomo della deprivazione sociale? Le situazioni di confinamento sono spesso correlate all’insonnia, come approfondito in questo articolo.
    • la scomparsa della fatica fisica, un corpo obbligato alla stasi e alla non attività, non si stanca e riposa peggio.
  • Interessante notare la quantità di volte che viene sottolineato il fatto che, seppur passato in carcere, il tempo di un “fine pena mai” venga vissuto in ogni caso come un “tempo di vita”, in grado di esprimere un suo valore intrinseco, al di là di come un individuo utilizzi il tempo stesso.
  • in generale, viene osservato come l’intervento carcerario non rappresenti un vero intervento riabilitativo per il singolo, ma più un intervento atto a preservare la società stessa dalla “pericolosità sociale” dell’individuo.

Qui la prima parte di questo articolo.

Il sito da cui è tratto il materiale presente su questo articolo è il già citato ristretti.it


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Article by admin / Formazione / neuroscienze, psichiatria, psicologia, psicoterapia

25 gennaio 2021

LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION?

di Luca Proietti, Raffaele Avico

É possibile considerare il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) come una variante del disturbo da addiction, o il disturbo da addiction come una variante del disturbo ossessivo compulsivo?

Per parlare di questo dobbiamo fare un passo indietro e tentare di mettere a confronto i due disturbi.

Alcuni filoni di ricerca assimilano, per la loro dinamica di funzionamento, il disturbo ossessivo compulsivo ai disturbi da addiction.

I disturbi da addiction possono comprendere dipendenze da sostanze o dipendenze comportamentali. Le prime riguardano la dipendenza da droghe, dall’alcool e da farmaci -come le benzodiazepine, gli analgesici o i vasodilatatori nasali. Nelle dipendenze comportamentali rientrano invece il gioco d’azzardo patologico, lo shopping compulsivo, il vomiting, le nuove dipendenze come da porno-online, da social media e da videogiochi.

Sul tema addiction si veda questo approfondimento.

Prendiamo come paradigma teorico la cosiddetta teoria unidimensionale. (Per approfondire questo approccio teorico relativo ai problemi di addiction, si vedano i testi Le nuove dipendenze di Portelli e Papantuono e Neuropiscofarmacologia Essenziale di Stahl; in questi due testi osserviamo come venga ipotizzato un funzionamento simile tra disturbi da addiction e Disturbo Ossessivo Compulsivo basato sul piacere).

Nel contesto di questa teoria, viene ipotizzato che il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e i disturbi di addiction si collochino rispettivamente agli estremi di un continuum definito Spettro Impulsivo-compulsivo.

Come sappiamo, nelle fasi avanzate dei disturbi da addiction, la condotta di abuso, l’assunzione della sostanza o il comportamento vengono ripetuti in maniera compulsiva al fine di ridurre uno stato di tensione interna generato dall’astinenza creata dal consumo stesso.

La dinamica, come osserviamo, è simile a quella dei disturbi ossessivo compulsivi: il soggetto in quest’ultimo caso mette in atto dei comportamenti compulsivi finalizzati a ridurre una sensazione di disagio o ansia iniziale, creata da un conflitto.

Qui un approfondimento sul DOC.

Possiamo in questo senso dire che le dipendenze nascono da una base di piacere ricercato, per poi mantenersi -dato che la ripetizione della condotta di abuso porterà a ridurre lo stato di tensione derivante dall’astinenza-; nel DOC, invece, il rituale solleva dall’ansia e protegge dalla paura procurando un senso di sollievo in grado di gratificare il soggetto, che ne diventerà dipendente.

In questi disturbi, quindi, osserviamo all’inizio una ricompensa diretta (nelle dipendenze) e indiretta (derivata dalla riduzione della paura o dell’ansia nel DOC) che verrà, una volta strutturato il disturbo, ricercata per lenire la sintomatologia da “astinenza”.

Vediamo altri punti comuni tra disturbi da dipendenza e Doc:

  1. l’ossessività: il pensiero ricorrente, che assedia la mente del soggetto, combattuto senza successo
  2. il cosiddetto fenomeno del triggering: è sufficiente un odore, un colore o un evento minimale che il soggetto collega per la propria esperienza alla sostanza o alla condotta d’abuso, per indurre la sensazione di necessità urgente di assumere la sostanza o mettere in atto il comportamento additivo. Allo stesso modo, il soggetto con Disturbo Ossessivo Compulsivo potrà essere fortemente turbato da uno stimolo trigger minimale che sappia innescare la rimuginazione ossessiva.
  3. il craving: il richiamo cioè all’azione/sostanza/compulsione. Il craving letteralmente chiama il soggetto alla messa in atto di un determinato comportamento; per scomparire, dovrà essere risolto con la messa in atto del comportamento compulsivo (non mediato dalla volontà). Il craving si presenta come un pensiero battente nella mente del soggetto, in parallelo a sensazioni fisiche di “attivazione verso”: come si diceva, decade una volta “chiuso” il cerchio della ricompensa (finalmente ottenuta).
  4. entrambi questi disturbi rappresentano dei fallimenti nella volontà di interrompere una certa azione: per questo sono definiti akratici

A questo punto ha senso riprendere il concetto che abbiamo già introdotto: quello di Spettro impulsivo compulsivo.

Usando questo costrutto teorico i comportamenti di abuso e il Doc si collocano lungo un continuum, dove ad un estremo troviamo i comportamenti che iniziano sulla base di una predominante spinta impulsiva (dipendenze) mentre all’altro estremo troviamo quelli che originano come prettamente compulsivi (DOC propriamente detto), come nell’immagine sopra riportata.

ASPETTI NEUROBIOLOGICI

Entrambi i comportamenti sono correlabili con vie neurali che coinvolgono il circuito della ricompensa e i nuclei della base. In ottica neurobiologica entrambi modulano la capacità del cervello di “dire no”: nel caso dell’impulsività si ha la sensazione soggettiva di essere incapaci di fermare l’inizio di un’azione, nel caso della compulsione la sensazione è quella di essere incapacità di terminare un’azione. 

Nel caso dell’addiction la via nervosa coinvolta è quella del circuito della motivazione e del reward: Striato Ventrale (N.Accumbens), Corteccia Prefrontale, in particolare la porzione Ventromediale.

Nei comportamenti compulsivi invece è coinvolto il circuito del mantenimento della risposta motoria: Striato Dorsale (N. Caudato), Corteccia Prefrontale, in particolare l’area Orbitofrontale.

Ad uno sguardo più attento possiamo vedere come entrambi i circuiti partano dallo Striato, una zona cioè del Sistema Nervoso Centrale localizzata sotto le cortecce cerebrali che comprende differenti nuclei: i cosiddetti Nuclei della Base.

Questi si dividono in una parte ventrale (Nucleo Accumbens) coinvolta direttamente nel fenomeno di ricompensa e reward, e in una dorsale prettamente motoria (Nucleo Caudato).

Altre formazioni implicate nei fenomeni impulsivi compulsivi sono l’Amigdala e l’Ippocampo, rispettivamente per i fenomeni di condizionamento da gratificazione (riduzione dell’ansia o delle sensazioni negative) e per i fenomeni di memoria (facilità alla ripetizione di un comportamento già messo in atto).

Entrambi i circuiti sono modulati in senso top down dai centri corticali superiori delle cortecce prefrontali.

In questo senso un comportamento impulsivo può essere letto, ipersemplificando, come il risultato di un insufficiente controllo corticale o di un’eccessiva spinta impulsiva sottocorticale.

Analogamente, la ripetizioni compulsiva di un rituale può essere dovuta a un eccessivo drive (spinta) compulsivo a livello sottocorticale o un insufficiente resistenza/controllo da parte della corteccia prefrontale.

Lesioni della Corteccia prefrontale infatti, in particolare quella Orbitofrontale, danno luogo a una sindrome chiamata Sindrome disinibita (variante della sindrome Prefrontale) dato che, venendo a mancare le inibizioni corticali, assistiamo alla manifestazione di comportamenti primitivi e socialmente inaccettabili, come avviene nelle demenze e nelle sindromi organiche con danno alla corteccia prefrontale.

Secondo queste moderne teorie neurobiologiche (qui approfondite in dettaglio), i comportamenti come le dipendenze originano dal circuito ventrale, per poi “migrare” nel circuito dorsale: con il tempo si passa dall’impulso -volto alla ricerca del piacere-, alla compulsione -volta a ricercare sollievo dall’astinenza-, e viceversa.

Bibliografia

  • American Psychiatric Association, World Psychiatry. DSM‑5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) 5th Edition: 2013.
  • Gibson, P. (2019b) Escaping the Anxiety Trap. Panic, Obsession, Fear and Phobias. Lettertec Books.
  • Nardone G., Portelli C., Ossessioni compulsioni manie; Capirle e sconfiggerle in tempi brevi. Milano: Ponte alle Grazie, Adriano Salani Ed, 2013.
  • Pietrabissa, Giada & Manzoni, Gian Mauro & Gibson, Padraic & Boardman, Donald & Gori, Alessio & Castelnuovo, Gianluca. (2016). Brief strategic therapy for obsessive–compulsive disorder: a clinical and research protocol of a one-group observational study. BMJ Open. 6. e009118.
  • Stahl, S., Neuropsicofarmacologia essenziale. Basi neuroscientifiche e applicazioni pratiche. Milano: Edi-Ermes, 2016.
  • articolo su Nature

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24 novembre 2020

AREA PATREON DEL BLOG: UNO SGUARDO AI CONTENUTI

L’area Patreon de Il Foglio Psichiatrico consente di accedere ad alcuni contenuti esclusivi a tema trauma, in forme diverse (PDF, podcast e video).

Accedere al formato Patreon, consente di avere accesso immediato a tutti i contenuti -che vengono di volta in volta inviati, mensilmente, agli abbonati all’area membri.

Il tema è sempre lo stesso: il trauma e la dissociazione. L’obiettivo di questo lavoro è approfondire in modo sempre più verticale la questione, costruendo un serpente editoriale e di contenuti che consenta al fruitore di averne una visione sempre più completa. Già molto materiale lo si trova su questo blog, raccolto qui.

Qui alcuni dei contenuti per ora inviati:

  1. NOVEMBRE 2020 PODCAST: I FONDAMENTI EMOTIVI DELLA PERSONALITÁ (di Jaak Panksepp), recensione per punti
  2. IL TRAUMA IN JAAK PANKSEPP
  3. PATREON LUGLIO 2020: cos’è la dissociazione? Proviamo a dare una definizione generale
  4. PODCAST: IL MODELLO LIOTTIANO, I PUNTI CENTRALI DEL LAVORO DI GIOVANNI LIOTTI
  5. RECENSIONE DI “GUARIRE DAL TRAUMA” DI JUDITH LEWIS HERMAN: SECONDA PARTE
  6. COME SI USA LA TAVOLA DISSOCIATIVA DI FRASER CON PAZIENTI TRAUMATIZZATI
  7. LUGLIO 2020 PODCAST RECENSIONE PER PUNTI DI “GUARIRE DAL TRAUMA ” DI JUDITH LEWIS HERMAN (PRIMA PARTE)
  8. RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS
  9. VIDEOPATREON N.2 – GIUGNO 2020. APPROCCIO FISICO AL PTSD: spunti di approfondimento e riflessioni.
  10. GIUGNO 2020 PODCAST: RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”
  11. FARMACOLOGIA DEL PTSD e INTERVENTO PERI-TRAUMATICO
  12. VIDEOCORSO #1: INTRODUZIONE E DEFINIZIONE DI TRAUMA
  13. PODCAST #1 – LA TEORIA POLIVAGALE: INTRODUZIONE E SPUNTI
  14. 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD
  15. IL PDF di PTSD: CHE FARE?
  16. IL TRAUMA NEGLI ANIMALI

Qui il progetto Patreon (con il patrocinio di AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione).

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12 novembre 2020

PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm)

di Laura Salvai, Psychofilm

Sono moltissimi i film che si sono occupati di raccontare la malattia mentale e i modi in cui è stata definita, trattata e vissuta.

Alfred Hitchcock, Stanley Kubrick, Ron Howard, Lars Von Trier, Scott Hicks, David Cronenberg, Milos Forman, M. Night Shyamalan (cfr. “Split“), sono solo alcuni dei grandi registi ad averci raccontato la sofferenza psicologica, in modo estremamente realistico o attraverso significati simbolici e scelte stilistiche originali.

La narrazione cinematografica ha cercato di spiegare, con diverse sfaccettature e suggestioni, il complesso mondo delle emozioni, dei comportamenti e delle motivazioni che spingono i soggetti psichiatrici e chi si è occupato e si occupa di loro a determinate scelte e azioni e alle relative loro conseguenze.

È molto difficile fare una scelta tra le tante apprezzabili opere che il Cinema internazionale ha prodotto nel corso degli anni e che sta continuando a produrre sul tema. Escludere dalla selezione film come “Ragazze interrotte”, “Shine”, “Spider”, “Melancholia”, o il più recente e acclamato “Joker”, da una lista di opere sull’argomento dispiace un po’, ma quella che vorrei fare è una riflessione storica, clinica e temporale per la quale alcuni titoli mi sembrano particolarmente indicati.

La malattia mentale è stata studiata, definita e trattata a livello pratico in modi molto diversi nel corso dei secoli.

La sua storia è infatti legata a quella delle società, con i loro sistemi di valori, di conoscenze e di credenze. Le circostanze storiche, il progresso scientifico, le condizioni sociali ed economiche che hanno caratterizzato le diverse epoche, hanno determinato il modo in cui i disturbi mentali sono stati “giudicati”, descritti e curati nel corso del tempo.

Durante tutto il Medioevo prevale l’idea che la “follia” non sia una malattia da curare, bensì la manifestazione di una possessione demoniaca. Essa non è dunque oggetto di competenza dei medici, bensì della Chiesa: c’è un “male esterno”, che è entrato in un corpo e che deve essere sconfitto per mezzo dell’esorcismo, della preghiera e della fede. Sono molti i film che hanno parlato e ancora oggi parlano di queste pratiche, ma non mi soffermerò su questi, che benché apprezzabili sono spesso legati al genere cinematografico “horror”, proprio per la loro vicinanza al “male”, all’oscuro, all’incomprensibile e al non spiegabile. In passato, tutti gli eventi che l’uomo non riusciva a comprendere ed era costretto in qualche modo a subire, venivano attribuiti alla volontà di entità potenti e incontrollabili: la siccità poteva essere la conseguenza di un maleficio, il terremoto l’espressione dell’ira di un dio, l’epilessia (che non si chiamava così, perché non era ancora stata studiata) la manifestazione di una possessione malefica.

Per quanto queste spiegazioni e questi “trattamenti” fossero bizzarri e spesso nocivi, c’era comunque l’idea che i soggetti vittime di queste sofferenze fossero “curabili”, appunto con la preghiera e la fede. L’idea di guaribilità viene soppiantata però con l’avvento dell’Inquisizione, per la quale solo attraverso la distruzione del corpo l’anima corrotta poteva essere liberata e il male sconfitto.

La segregazione del malato mentale ha inizio con l’avvento dell’Illuminismo e dell’Era della Ragione. A partire dal XVII secolo, tutte le forme di superstizione vengono osteggiate e combattute. Nei luoghi di contenzione si trovano tutte quelle forme sociali che si scontrano con la razionalità secentesca e che possono ledere la solidità della struttura sociale e famigliare: il malato mentale, il povero, il libertino, il sifilitico, il mendicante, l’omosessuale, il criminale, sono messi tutti sullo stesso piano e segregati nelle stesse strutture. Repressione, coercizione e isolamento servono ad assicurare l’ordine e la sicurezza sociale. 

Il “folle” rimane in catene fino alla fine del Settecento, quando il medico francese Philippe Pinel dà il via alla medicalizzazione della malattia mentale. Nascono gli istituti manicomiali, preposti ancora al controllo e alla custodia, ma anche allo studio e al trattamento del disturbo mentale. Si tratta di un trattamento che prevede l’utilizzo di mezzi coercitivi, ma l’uso di questi metodi ha un significato diverso rispetto al passato: la reclusione, la camicia di forza, le docce fredde, sono delle pratiche abominevoli che al tempo però avevano aggiunto al fine di custodire (per la sicurezza sociale) anche quello di “curare”.

Fino al processo di deistituzionalizzazione, la vita asilare è caratterizzata dalla segregazione e dall’utilizzo di metodi di cura esasperati e spesso brutali, tra i quali quello della lobotomia, procedura utilizzata dalla psichiatria a partire dagli anni Quaranta dello scorso secolo. 

Il film che maggiormente riflette quanto detto finora sulla vita manicomiale, un cult dalla drammaticità e potenza emotiva finora ineguagliate, è “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Milos Forman (1975), prima tappa imprescindibile del nostro excursus storico sulla malattia mentale.

A partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo, iniziarono ad imporsi delle teorie alternative a quelle più propriamente legate al modello medico: tra queste quella comportamentale. Il modello behavioristico descriveva la devianza e la malattia mentale come conseguenze di condizionamenti esercitati dall’ambiente sul soggetto. Alcune “distorsioni” delle tecniche di condizionamento furono utilizzate all’interno delle prigioni e degli ospedali psichiatrici criminali. Donata Francescato (1977) riporta un esempio di trattamento utilizzato nella “cura” delle “devianze sessuali”, che associava le tecniche di condizionamento all’uso di farmaci. In particolare, cita l’uso di una tecnica “usata sempre con omosessuali: al soggetto venne fatta un’iniezione di apomorfina. Dopo circa 8 minuti cominciò a sentirsi nauseato. Si mirava ad ottenere una forte nausea che durasse circa dieci minuti senza arrivare al vomito e la dose è stata aggiustata costantemente per ottenere questa risposta. Un minuto prima della nausea, il paziente azionava un proiettore e vedeva la diapositiva d’un uomo nudo o parzialmente nudo”. 

Arriviamo così alla seconda fondamentale tappa della nostra analisi cinematografica, e approdiamo a un altro must see movie, tratto, come il precedente di Milos Forman, da un libro. Si tratta di “Arancia meccanica”, di Stanley Kubrick (1971). 

Il protagonista del film è Alex, leader di una banda giovanile dedita allo stupro, al furto e alla violenza. Tradito dai suoi compagni, Alex viene catturato e immesso in un programma di “riabilitazione”. Attraverso la “terapia del disgusto” Alex diventa momentaneamente inoffensivo e viene reintegrato nella società. L’utilizzo di sostanze che provocano la nausea, associate alla proiezione di scene di violenza, fanno sì che Alex si senta male ogni volta che si trovi di fronte a un atto criminale o che tenti di compierlo. La stessa cosa accade quando Alex sente la musica di Ludwig Van Beethoven, che fino a quel momento era stata lo stimolo per le sue malefatte: la Quinta Sinfonia è infatti stata utilizzata per le sue sedute di “terapia”, battezzata per questa ragione come “Tecnica Ludovico”.

Molti passi sono stati fatti, nel tempo, per migliorare le condizioni dei pazienti, per cambiare il modo di definire e trattare i disturbi mentali e anche per decostruire i consolidati stereotipi negativi culturali su questi temi, anche se molto è il lavoro ancora da fare. In Italia la prima vera grande innovazione nell’ambito della legislazione psichiatrica è stata fatta in seguito all’opera di Basaglia e all’approvazione della Legge 180/1978, assorbita nello stesso anno dalla Legge 833 di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Uno dei passi più fondamentali fatti nell’ambito della salute, sia fisica che mentale, è stato inoltre certamente quello di coinvolgere sempre di più i pazienti nelle decisioni di cura, grazie all’introduzione della pratica del consenso informato in medicina, in psichiatria e in psicoterapia.

Parlando di passi, non posso non citare tra i miei film consigliati il film di Bille August del 2017 “55 passi”, che racconta della battaglia legale per il consenso informato sull’utilizzo dei farmaci con i pazienti psichiatrici messa in atto da una paziente e dalla sua avvocata. 

La storia si focalizza sul fatto che sia fondamentale che i medici condividano, con i pazienti in grado di comprendere, i piani terapeutici, illustrino in modo trasparente e chiaro lo scopo delle terapie, i rischi e gli effetti collaterali spesso gravi delle cure, le conseguenze dell’accumulo di certe sostanze nei trattamenti a lungo termine.

Un ultimo aspetto da considerare, per completare questo quadro certamente non esaustivo sulla sofferenza mentale, è quello a cui ho già accennato: l’importanza del cambiamento di visione non solo in ambito scientifico, ma anche “popolare” della malattia mentale. Le visioni del passato, radicate in stereotipi e false credenze, si sono consolidate e sono difficili da scardinare, si trascinano ancora oggi, nonostante le grandi innovazioni in campo scientifico, nonostante i cambiamenti a livello sanitario e legislativo, nonostante le lotte contro le discriminazioni e la diffusione dell’informazione.

Sono molti i film che ci aiutano a comprendere la sofferenza psichica, la sua umanità, la sua vicinanza al nostro complesso mondo interiore, e quanto siano immense le risorse e il patrimonio culturale scaturiti da molte menti travagliate e geniali della nostra storia. 

Gli ultimi due suggerimenti di visione che vi voglio lasciare in proposito, al termine di questo breve viaggio, sono “A beautiful mind”, di Ron Howard, del 2001 e “Il professore e il pazzo” di P.B. Shemran del 2019.

Come affermai tempo fa in un articolo, forse se le vite di alcuni uomini, ad esempio pittori, compositori e poeti, fossero state prive di sofferenze e disagi, oggi noi avremmo dei girasoli in meno da ammirare, delle sinfonie in meno da ascoltare, delle poesie in meno da recitare.


BIBLIOGRAFIA:

  • Basaglia F. (a cura di), Che cos’è la psichiatria?
  • Basaglia F. (a cura di), L’istituzione negata
  • Burgess. A., Arancia Meccanica
  • Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia
  • Foucault M., Malattia mentale e psicologia
  • Foucault M., Storia della follia nell’età classica
  • Francescato D., Psicologia di Comunità
  • Goffman E., Asylum – Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza
  • Szasz T.S., Il mito della malattia mentale

[Per chi fosse interessato all’argomento “Film psicologici e psicologia spiegata attraverso il cinema” può seguirmi sul sito www.psicofilm.it]


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2 novembre 2020

SCOPRIRE IL FOREST BATHING

di Raffaele Avico

Il contraccolpo psicologico del prossimo lockdown, imminente, sarà forte. D’altronde, la seconda ondata era pressochè inevitabile.

Che fare?

Per chi può, e dpcm permettendo, ci viene in aiuto un concetto mutuato dalla cultura giapponese, il forest-bathing.

In cosa consiste il forest bathing? Parliamo in realtà di qualcosa di molto semplice, biofilico, basilare, che contiene in sé antiche saggezze sommate a più recenti verità neuroscientifiche: si tratta, per lo più, di fare escursioni dentro foreste, usando un approccio mindful, di attenzione cioè allo stesso tempo focalizzata e aperta.

In questo video vengono riassunte le caratteristiche principali di questo tipo di attività, in cosa consiste, perchè ricercarla e dove poterla fare (per esempio all’oasi Zegna, nel biellese). Un aspetto da sottolineare, è quello che nel video viene spiegata essere una teoria formulata dai coniugi Kaplan a proposito dell’attenzione. I Kaplan sostengono l’esistenza di due tipologie di attenzione (libera, aperta, e rigenerante VS focalizzata, con il cervello impegnato a filtrare tutte le informazioni non necessarie, e quindi  stancante): il contatto con la natura ha -nell’ambito di questa teoria (chiamata Attention restoration theory)- il potere di promuovere il passaggio da un tipo di attenzione all’altra.

Il tutto potrebbe sembrare molto new age, o banale.

Stare a contatto con la natura, tuttavia, è stato studiato a fondo in senso neuroscientifico, con molteplici risultati interessanti, sia per gli effetti diretti sul sistema nervoso che in senso più esperienziale, a riguardo degli effetti del “guardare ambienti naturali”, entro una branca neuroscientifica chiamata neuroestetica.

Vediamo alcuni studi:

  • Osservare una pianta, un albero, è una delle poche attività umane che, già in sé, possiede proprietà calmanti, regolative, terapeutiche se si ragioni in termini di medicina preventiva. Si veda per esempio questo studio.
  • in senso “psicoterapico”, il contatto con la natura ha effetti deossessivizzanti, abbassando la potenza della ruminazione in soggetti con disturbo ossessivo compulsivo, come qui approfondito dall’università di Stanford
  • come nel video spiegato, stare in un bosco regala un’esperienza di “aerosol di composti volatili”, con molteplici effetti: qui un approfondimento
  • gli effetti sul sistema immunitario

Per approfondire:

  • tesi dell’autore del video sopra riportato -per bibliografia
  • Articolo su The Guardian

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28 ottobre 2020

IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING)

di Raffaele Avico

Nel libro La guida alla Teoria Polivagale (qui recensito in area Patreon) scritto da Stephen Porges, leggiamo che il trauma, l’evento traumatico, potrebbe suscitare nell’individuo una risposta estremamente forte di rifiuto/disgusto/minaccia, cosa che Porges propone di rileggere come una sorta di “apprendimento a prova singola”.

Perchè ne parla in questo modo?

Porges paragona gli effetti del trauma sull’individuo, alla reazione di disgusto che sperimentiamo in concomitanza con l’assunzione di un cibo che ci procura malessere fisico. A seguito di quell’assunzione, l’individuo può sperimentare gli effetti di quello che Porges ci ricorda essere un “apprendimento a prova singola”: alcuni eventi di vita divengono, per noi, così impattanti in senso emotivo, da rimanere per sempre vincolati a particolari sensazioni disturbanti.

Se lo leggiamo in questo modo, un evento traumatico diventa un “apprendimento a prova singola”: gli strumenti messi in atto per memorizzarlo, saranno quindi in questo caso talmente potenti da impedirci, in seguito, di scordarlo.

Se cerchiamo di capire più a fondo cosa significa “apprendimento a prova singola”, troviamo che la maggior parte della letteratura si concentra sul tema dell’imprinting; osserveremo inoltre che la questione è stata studiata a fondo, per lo più in abito di etologia. É infatti, l’apprendimento a prova singola, un tema strettamente naturale, osservabile prima di tutto negli animali. L’imprinting potrebbe certamente essere considerato un esempio di one trail learning, come si legge qui.

Altri esempi, come prima dicevamo, sono il disgusto per un particolare cibo a seguito di un evento associato al cibo stesso (per esempio un superalcolico), oppure un evento altamente pericoloso per l’integrità fisica del corpo (un contatto sessuale a seguito di un abuso, per esempio) -e in questo caso entriamo nell’ambito della psicotraumatologia.

Il concetto di One trial learning viene usato anche per spiegare l’origine di alcune fobie specifiche: se infatti da bambini ci si sia spaventati in modo estremo a causa di un particolare accadimento, possiamo rintracciare l’origine di una particolare fobia spiegandola come apprendimento a prova singola vissuto molto tempo prima (per esempio, un bambino che si spaventi in modo estremo a causa del contatto con un piccione, è possibile che instauri una fobia specifica con quel tipo di animale per gli anni a venire, a seguito anche solo di un singolo evento traumatico).

In questo video viene chiarita la differenza tra l’apprendimento a prova singola e il condizionamento classico: viene ben spiegato come l’apprendimento a prova singola sia iper-specifico, non sia estinguibile come invece succede nell’apprendimento classico, e si crei in modo subitaneo, SUBITO dopo l’evento, in modo istantaneo. É dunque una variante, potremmo dire, del condizionamento classico, con caratteristiche proprie e molto peculiari.

Stephen Porges riflette sullo stress post traumatico, chiedendosi: è possibile che il PTSD possa essere considerato come una forma di apprendimento a prova singola? Torna qui, come osserviamo, il problema della memorizzazione dell’evento traumatico: il problema dello stress post traumatico è proprio quello, infatti, di riconsegnarlo al passato, di elaborarlo in termini di memoria. Il trauma vive nel presente, nella memoria di chi lo subì: non rappresenta qualcosa di lontano nel tempo, ma è perfettamente presente nella vita dell’individuo, che rivive gli effetti sul corpo del suo ricordarlo.

In particolare, Porges considera come apprendimento a prova singola, la reazione di spegnimento a seguito del trauma, come leggiamo alla pagina 25 di questo documento (la trascrizione di un’intervista fattagli). Come prima accennato, mettere a paragone questa reazione con un apprendimento a prova singola nel caso per esempio di una reazione forte da avversione verso un determinato cibo o gusto, potrebbe costituirsi come un parallelismo interessante. L’ipotesi di Porges a questo riguardo è, in definitiva: nel momento in cui una persona subisca un forte collasso peri-traumatico (quindi in prossimità dell’esperienza traumatica) mediato dalla parte più antica del nervo vago (il nervo dorsovagale), potrebbe in quel momento crearsi un apprendimento a prova singola che poi, in seguito, renderebbe la stessa esperienza difficile da estinguere e “riconsegnare” al passato.

Questo modo di concettualizzare il PTSD, si rifà a un filone di studi sul PTSD inerente l’apprendimento, come qui approfondito. Come si nota da questo articolo, anche in questo caso il PTSD viene considerato una forma distorta ed eccessiva di apprendimento.

Abbiamo più volte sottolineato come il problema del trauma, sia proprio dimenticarlo: gli studi fatti in questo senso confermano l’idea del PTSD come patologia della memoria (per un approfondimento, qui).


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18 ottobre 2020

INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO


di Raffaele Avico

In questa intervista effettuata per il canale Youtube di Psychiatry on Line, Jonas di Gregorio parla di psichedelici e loro utilizzo in ambito clinico, e in particolare con il PTSD. Ricordiamo che al momento nessun farmaco si è dimostrato realmente efficace, o risolutivo, per il PTSD (qui un approfondimento per i Patreon).

Jonas fornisce nel corso dell’intervista molteplici spunti, tra cui, in particolare, due documentari:

  1. A new understanding
  2. Trip of compassion

Qui trovate alcuni approfondimenti sull’MDMA nel trattamento del PTSD semplice (cioè conseguente a un unico episodio traumatico):

  1. 1
  2. 2

Altro.


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30 settembre 2020

L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI

di Raffaele Avico

PREMESSA: questo articolo fa parte del pacchetto Patreon, dedicato a trauma e dissociazione

Questo editoriale (Maxfield, 2019, clinician’s guide to EMDR’s efficacy) uscito per un numero speciale della rivista Journal of emdr practice and research a 30 anni dalla prima applicazione dell’EMDR (1989), vuole raccogliere una serie di ricerche il più possibile rigorose (RCT, review sistematiche fatte su articoli con campioni numerosi e pazienti correttamente diagnosticati) a proposito dell’efficacia dell’EMDR sia per disturbi post-traumatici, che relativa ad altre problematiche psichiche.

Ecco i risultati, in breve, distinti per “target” clinico:

  • DISTURBI TRAUMA E STRESS-CORRELATI: esistono 44 studi RCT su pazienti adulti e non, sofferenti di disturbi connessi a trauma e stress post traumatico, divisi come riportato nell’immagine sottostante. Come si nota, dei 44 studi citati quelli più “solidi” in termini metodologici sono gli studi relativi al PTSD “semplice” su pazienti adulti. A riguardo di questi ultimi lavori, nell’editoriale vengono evidenziati risultati pressoché non contestabili: “The evidence for EMDR treatment for PTSD appears to be solid, consistent, and well established, and the treatment guideline committee of the International Society for Traumatic Stress Studies gave EMDR a strong recommendation for adults and children with PTSD and a standard recommendation for early intervention (ISTSS Guidelines Committee, 2018)”. Manca una folta letteratura sul PTSD nei bambini (solo 4 studi RCT). Non ne esistono al momento su PTSD complex, vista anche l’ampiezza e i contorni “fumosi” della categoria diagnostica
  • DEPRESSIONE: nell’editoriale vengono quindi presi in considerazione altri ambiti clinici; viene fatto notare che nel momento in cui siano evidenti benefici prodotti dall’EMDR anche su altre patologie, questo potrebbe interrogare i clinici sull’eziologia dei disturbi stessi, potenzialmente di natura traumatica. Questo ragionamento diagnostico effettuato usando un criterio ex adiuvantibus che, seppur debole in termini logici e di metodologia di ricerca (dato che si sa poco sul meccanismo di funzionamento effettivo, reale, dell’EMDR) interroga i clinici su quali “aspetti” del sintomo o del disturbo l’EMDR vada a “toccare”, supponendo -in caso di risultati positivi- l’esistenza di una radice “traumatica” del disturbo stesso.
    A riguardo della depressione, viene citata una review su 7 studi RCT prodotti tra il 2001 e il 2019, da cui risulterebbe un’efficacia dell’utilizzo dell’EMDR per la depressione uguale o superiore all’efficacia della psicoterapia CBT. Gli autori concludono osservano come l’EMDR potrebbe essere integrato in modo efficace alla psicoterapia “standard” CBT.
  • DISTURBO BIPOLARE: gli autori osservano come esista un solo studio RCT che abbia indagato l’impatto dell’EMDR sul disturbo bipolare, con risultati poco significativi al momento
  • PSICOSI: Esistono delle linee di ricerca che vorrebbero indagare l’efficacia dell’uso dell’EMDR sul trattamento degli aspetti post-traumatici della psicosi. Chi fa ricerca in questo ambito contempla l’esistenza di “nervature” o aspetti PTSD nel disturbo psicotico, o almeno l’esistenza di comorbilità tra disturbo psicotico e PTSD (e, in questo caso, l’uso dell’EMDR sarebbe giustificato). Gli studi sono in una fase preliminare. Gli autori sottolineano infine come limitarsi nell’utilizzo di EMDR per paura di esacerbare i sintomi psicotici, sia insensato.
  • DISTURBI D’ANSIA: vista la grande eterogeneità dei disturbi d’ansia in sè, l’argomento si presenta qui molto ampio. L’editoriale in questione presenta questo articolo di Faretta e Dal Farra (Elisa Faretta in particolare è impegnata da molti anni nell’approfondire le implicazioni cliniche dell’uso di EMDR nell’attacco di panico), che sintetizza lo stato dell’arte. I risultati ci raccontano di un utilizzo dell’EMDR particolarmente efficace per quanto riguarda panico e disturbi fobici specifici
  • DOC: nessun risultato significativo
  • DISTURBI DA ADDICTION: l’EMDR appare in questi casi non controindicato, ma neanche significativo
  • DOLORE: l’editoriale in questione cita 6 studi RCT effettuati negli ultimi 10 anni sull’utilizzo dell’EMDR per il dolore cronico. I risultati vengono definitivi “impressive”, ma da prendere in considerazione con cautela, visti i grossi bias metodologici che gli studi portano con sè. L’utilizzo quindi dell’EMDR per il dolore o il dolore cronico viene definito ai suoi “albori”, promettente ma ancora poco sorretto da dati di ricerca rigorosi. Si ripresenta qui il problema “hard” relativo ai meccanismi di funzionamento profondi dell’EMDR, non ancora chiari (per cui non risulta pienamente chiaro il suo funzionare o meno con disturbi diversi)

Come si osserva, l’EMDR conserva il suo posto elettivo nel trattamento dei disturbi inerenti il trauma: non ha senso usarlo ovunque. In particolare, è bene ricordarlo, l’EMDR va usato laddove siano presenti dei ricordi target particolarmente intrusivi che faticano a essere elaborati in senso mnestico, nel contesto di un percorso di psicoterapia di tipo trifasico.

Visti inoltre gli ambiti dove l’EMDR sembri meglio funzionare (trauma e fobia), è logico supporre che l’EMDR non agisca tanto sulle generiche memorie traumatiche, quanto sulla fear response nei confronti di un oggetto fobico: servirebbe dunque ad aiutare il paziente ad affrontare meglio, di petto, il confronto mentale con un oggetto di fobia (per esempio una memoria traumatica molto impattante, e in grado di procurare la fear response, oppure il pensiero di un oggetto fobico specifico). La fear response è la reazione di allarme di fronte a uno stimolo ignoto o con particolari caratteristiche di salienza, presente ovunque in natura, anche in animali “basici”, con un sistema nervoso molto semplice.

Sappiamo che l’affacciarsi mentalmente a un contenuto traumatico, procura nel soggetto una reazione di forte allarme (la fear response, appunto), un po’ come succede a un individuo fobico esposto al suo oggetto di paura (per esempio un individuo che abbia fobia dei ragni che se ne trovasse uno molto vicino): l’emdr, in entrambi i casi, “placherebbe” la fear response consentendo una migliore esposizione allo stimolo stesso.


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7 agosto 2020

ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO

di Raffaele Avico

Abbiamo qui sul Foglio Psichiatrico approfondito alcuni aspetti del problema degli attacchi di panico.

L’attacco di panico potrebbe essere definito in modo generico come un attacco di “ansia parossistica”, dove per parossistica intendiamo “estrema”, “estremamente intensa”, “esasperata”.

Un attacco di panico, per essere tale, deve avere una durata limitata nel tempo, non superiore ai 10 minuti. Si presenta accompagnato da sintomi fisici molto marcati e riconoscibili (palpitazione, irrequietezza crescente che diventa intollerabile, accelerazione del respiro) e da una sensazione di perdita di controllo sulla propria stabilità psichica, come si dovesse impazzire, o collassare, o morire.

L’attacco di panico viene quasi sempre vissuto in modo traumatico, e rimane per lungo tempo nella memoria di chi lo abbia sperimentato, rendendolo/a sospettoso e “guardingo” a riguardo di tutto ciò che lo possa innescare o annunciare.

Il diagramma di flusso che potrebbe genericamente riassumere il crearsi di un disturbo di panico (quindi non solo l’attacco stesso, ma tutto ciò che ne consegue dopo), è:

  1. per cause da indagare (ma a volte in modo casuale) viene sperimentato per la prima volta il panico
  2. il ricordo del panico rimane vivido nella mente del soggetto: il soggetto fuoriesce dall’attacco di panico estremamente spaventato
  3. si innesta un comportamento di controllo su due piani: il piano dei contenuti di pensiero, e il piano dei sintomi fisici
  4. il soggetto diventa un attentissimo osservatore dei suoi stessi contenuti di pensiero, e dello stato interno del suo corpo; la consapevolezza a riguardo di ciò che succede “dentro” e “nel corpo” subisce una forte accelerata, rendendo l’individuo altamente sensibile al tema, facilmente suscettibile quando se ne parli,”triggerato” (cioè “attivato”) da qualsiasi indizio possa rievocare, anche alla lontana, il problema dell’attacco di panico stesso
  5. il soggetto mette in atto comportamenti di controllo ed evitamento: tenterà cioè di controllare il flusso del suo stesso pensiero, cercando di normalizzarlo, e allo stesso tempo il procedere fisiologico del suo corpo, sempre allertato a riguardo dell’emergere di possibili “indizi di pericolo”
  6. l’evitamento, allontana l’individuo da luoghi/persone/atmosfere o esperienze
  7. il controllo, irrigidisce il soggetto su una posizione di “preoccupazione” costante; inoltre, è frequentemente sperimentato un senso di “distacco” dal momento presente, all’emergere dell’allarme: il soggetto è assorbito dal rash di allarme, accede al mondo dei pensieri, si focalizza sul funzionamento del suo corpo tentando di bloccarne ogni deviazione dalla norma; di fatto viene tentato un controllo sul sistema nervoso autonomo, impossibile per definizione
  8. il controllo ossessivo risulta fallimentare, alimentato da una sovra-interpretazione di ogni singolo micro-segnale dal corpo ricondotto al tema “panico”: aumenta così l’ansia, verso nuovo panico

Come si osserva spesso, un vero attacco di panico è presente magari una o due volte nella vita di un soggetto: tutto il “dopo”, sarà il disturbo, la paura che il panico stesso si ripresenti.

Il tema del controllo, come si nota, è qui centrale.

Ne abbiamo già scritto qui, intervistando Andrea Vallarino a proposito del “controllo che fa perdere il controllo”: Vallarino chiarisce molto bene (nel video che riportiamo sotto) come il tema sia quello di contrastare il controllo, di fatto “ammorbidendo” la potenza espressa nell’individuo nell’osservarsi.

Rendiamoci conto che il problema del panico è un problema mantenuto da un sovrapporsi progressivo di distorsioni cognitive: è, di fatto, un problema originatosi per via cognitiva.

Leggere un problema di questo tipo attraverso le emozioni non ha senso se non entro due aspetti:

  1. a riguardo della paura sperimentata
  2. a riguardo di ciò che “scatenò” il primo attacco, nel caso in cui se ne volessero indagare i retroscena, che tuttavia a volte sono casuali, non sempre sviscerabili; in ogni caso non serve necessariamente, come altrove abbiamo scritto, capire il “perchè”: in questi casi è più importante capire il “come” questo problema viene mantenuto

Il problema del controllo è purtroppo rintracciabile in altre situazioni.

L’impressione è che vi siano più livelli di pensiero, sovrapposti: un primo livello, “naturale”, con cui l’individuo riflette e pensa secondo il suo proprio stile, così come ha sempre fatto; un secondo livello, sovrastrutturale, allo stesso tempo in grado di operare un controllo feroce sulla forma del pensiero del primo livello, operando un giudizio di valore sulla qualità di quest’ultimo.

A seconda poi del responso formulato in seguito a questa operazioni di controllo e giudizio, l’individuo potrà sperimentare un aumento o un rilascio della tensione.

In ogni caso, il controllo manifesta il suo potenziale “distruttivo” quando riesce a interferire con meccanismi fisiologici che necessiterebbero di spontaneità e “istinto”, come durante un atto sessuale.

Osserviamo in questi casi quanto il subentro del controllo (come il voler controllare la tenuta di un’erezione durante un atto sessuale) riesca in realtà a produrre cali di performance, spegnimento del desiderio, impossibilità di vivere il momento presente.

Oppure, viene spesso fatto notare come per un insonne, il voler controllare il momento dell’addormentamento sia in grado di interferire sul naturale “scivolare” nel sonno stesso da parte del “controllore”, a conferma di come l’accanirsi della nostra volontà di controllo su processi fisiologici regolati da meccanismi “autonomi” rischi quasi sempre di peggiorare la situazione.

Tornando al tema degli attacchi di panico, è più che probabile che il raggiungere una posizione di “accettazione” di ciò che succede dentro la mente e nel corpo, lasciando per così dire che il corpo e la mente si “esprimano” come devono, conduca l’individuo a liberarsi dal problema.

Il risolvere un problema del genere, infine, viene spesso percepito dal soggetto come una “liberazione”, come se la “sovrastruttura” di pensieri prima citata venisse implicitamente considerata un parassita “esterno”, alieno a sè, oppure una gabbia in qualche modo auto-eretta nel tempo.

Sempre sul panico, per approfondire, si veda questo articolo.

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31 luglio 2020

SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO

di Raffaele Avico


PREMESSA: l’articolo qui di seguito pubblicato è estratto da un PDF scaricabile da questo articolo pubblicato su Psychiatry On Line, a cura di Paolo F. Peloso

Estratto da: “Nevrosi in fotogramma: documenti sulle nevrosi di guerra negli archivi cinematografici e militari. Approccio storiografico pionieristico di un quarto di secolo fa” di Giovanni Nobili Vitelleschi

[…]

Fonti filmiche per la storia delle malattie mentali

Se gli studi sulla grande guerra e i traumi erano già noti a partire dai primi anni Ottanta, dalla storiografia di area anglosassone (Fussell, 1975; Leed, 1979), italiana (Gibelli, 1991; Bianchi, 2001) fino agli storici afferenti all’Historial de la Grande Guerre (Peronne, 1999), fu grazie al «Festival del Cinema Ritrovato», organizzato dalla Cineteca di Bologna nel 1993 a Bologna, nell’ambito della «Mostra internazionale del Cinema Libero», che, per la prima volta, furono proiettati e presentati, insieme alle tante riprese che riguardavano le operazioni militari e le battaglie, numerosi filmati realizzati dalla Sezione fotografica e cinematografica dell’esercito francese (S.P.C.A., Ivry-sur-Seine), per il Sottosegretariato di stato al servizio della sanità (Service de Santé). Tra questi filmati, oltre a quelli sulle protesi maxillo-facciali (Service de prothèse maxillo- faciale du docteur Pont à Lyon, Francia, 1918. Ecpad) sulla riabilitazione dei mutilati di guerra (Le retour a la terre des mutiles, Francia, 1918. Ecpad), sull’ortopedia di guerra (Officine Rizzoli, Italia, 1918. Cineteca Comunale di Bologna) e sul Camouflage (Les surprises du camouflage,1916. Ecpad), vi erano anche quei filmati dedicati ai traumi di guerra.

Per l’argomento da noi trattato, le nevrosi di guerra, presso lo stabilimento cinematografico e fotografico dell’esercito francese (E.C.P.A.,ora ECPAD), sono conservate alcune pellicole (35 mm), oggi anche in digitale, di breve durata (dai 4 ai 15 minuti) di notevole interesse per gli studiosi di queste patologie. Il filmato più interessante presentato al Festival di Bologna nel 1993, fu senza dubbio Troubles nerveux chez le commotionès du Val de Grace (1918), sulle terapie praticate ai malati con problemi neurologici. Nei giardini dell’Ospedale di Val de Grace (Parigi), una trentina di malati, alcuni nudi, vengono ripresi in presenza di infermieri e medici. Tutti soffrono di problemi psichici quali la claudicazione, i tremori, gli irrigidimenti e le fobie come quelle delle uniformi di color rosso, talora legate alla esperienza della guerra, come spiegano le didascalie del filmato «lunghi ed intensi bombardamenti, traumi da pallottola al cervello, seppellimenti da esplosione di un siluro aereo». Un altro documento storico proiettato fu Le progrés de la science au profit des victimes de la guerre. Une decouverte du Docteur Vincent (1918), della durata di 8 minuti. Il filmato mostra l’applicazione del metodo elettrofisiologico (Torpillage) ai disturbati funzionali di nervi presso l’ospedale di Tours diretto dallo stesso dr. Clovis Vincent, nel reparto degli psiconevrotici. Al fine di mostrare l’efficacia del metodo del Torpillage, inventato dallo stesso Clovis Vincent nel 1915, fu proprio la Section photographique et cinématographique des armée (SPCA) a girare questo filmato a fini propagandistici. Troubles fonctionnels. Service du Docteur Sollier à Lyon (1918) della durata di 8 minuti, sulla presentazione di malati affetti da disturbi nervosi funzionali. Infine, Centre des psychonévroses du G.P.M. Laignel-Lavastine (1918) della durata di 4 minuti. Il filmato mostra soldati affetti da nevrosi di guerra presso l’ospedale di Maison Blanche diretto dallo stesso Maxime Laignel-Lavastine nel reparto dei psiconevrotici.

Nel 1993, il Wellcome Institute for the History of Medicine di Londra, ha organizzato un progetto di ricerca dedicato alla catalogazione e alla reperibilità del materiale audiovisivo sulla medicina in generale, ed anche sulla neurologia e sulla psichiatria, dal 1915 in avanti, dal titolo «Film sources in medical history», sotto la direzione di Michael Clark.

Nel 1996, invece, presso il Wellcome Building di Londra veniva organizzato dal Society for the Social History of Medicine, il convegno «Picturing Health? Archival Medical Film and History», sull’utilizzo del film in ambito medico. Nell’ambito delle psiconevrosi e le sue cure sono reperibili presso l’archivio del Wellcome, oggi anche in rete, alcuni filmati molto interessanti come: War Neuroses. Netley, 1917. Seale Hayne Military Hospital, 1918. Il filmato mostra infatti la sintomatologia delle cosiddette nevrosi da esplosione (Shell shock) su 18 soldati e la loro cura da parte di due insigni neurologi del R.A.M.C (Royal Army Medical Corps), Arthur Hurst e J.L.M. Symns, negli ospedali inglesi di Netley e Hayne verso la fine della guerra. Il 12 maggio 1918, Hurst presentò il filmato nell’ambito di una conferenza sulle nevrosi di guerra alla Royal Society of Medicine (Sezione neurologica), auspicando tra l’altro che le sue «Kinematographic records» potessero servire in futuro ai medici nelle loro diagnosi su tali patologie e, inoltre, di conseguire altri «results of scientific value». (Hurst, 1918, p. 39) Tra le forme cliniche mostrate nel filmato possiamo includervi una varietà di andature atassiche ed isteriche, paralisi isteriche, contratture e insensibilità al dolore, paralisi facciali e spasmi, paraplegia, mutismo e cecità, perdita del riflesso rotuleo ed achilleo. Inoltre, vengono mostrati l’uso della fisioterapia e la suggestione ipnotica nella cura e i lavori in fattoria per la riabilitazione dei pazienti convalescenti.

Una copia in pellicola (35 mm) della durata di 27 minuti è anche posseduta dal National Film and Television Archive di Londra. L’altro filmato posseduto dal Wellcome è Abnormal Movements and Paralyses in Combattants and their Treatment by Hypnosis (1918- 1919), della durata di 13 minuti. Il filmato mostra l’uso della suggestione ipnotica nella cura di gravi disordini neurologici nei soldati e marinai tedeschi in una clinica neurologica ad Amburgo alla fine della prima guerra mondiale.

Per quanto concerne la conservazione di materiale documentario, il loro uso a scopo didattico e di informazione alla popolazione tedesca durante la Grande Guerra, resta fondamentale la pubblicazione di M. Weiser Medizinsche Kinematographie, pubblicata nel 1919 sui filmati che trattavano i disturbi motori a seguito delle nevrosi di guerra. L’utilizzo della cinematografia nello studio delle nevrosi di guerra, soprattutto i filmati (purtroppo andati dispersi) realizzati in Germania da Alt a Uchtspringe e da Krapf a Dresda nel 1918, furono, scrive l’autore del libro, «un campo straordinariamente fecondo per la cinematografia» non solo per scopo scientifico ma anche per informare la «popolazione sulle nevrosi di guerra e sulla loro curabilità» (Weiser, 1919, p. 134). Sono stati invece conservati dal Bundesarchiv-Filmarchiv di Berlino due documentari realizzati durante il primo conflitto mondiale: Funktionell – motorische Reiz-und Lahmungs-Zustande bei Kriegsteilnehmern und deren Heilung durch Suggestion in Hypnose/Stati di eccitazione e di paralisi motorio-funzionale nei combattenti e loro cura attraverso la suggestione ipnotica prodotto nel 1917 dal Bild-und Film-Ant in collaborazione col dottor Max dell’Ospedale generale di Amburgo-Eppendorf e Reserve Lazarett Hornberg im Scwarzwald-Behandlung der Kriegs- Neuroticher/Ospedale di retrovia di Hornberg in Scwarzwald- Trattamento dei nevrotici di guerra, girato in collaborazione con il dottor Ferdinand Kehrer del National Hygiene-Museum di Dresda.

Entrambi i documentari mostravano il metodo dell’ipnosi con successive esercitazioni sia obbligatorie che facoltative da parte dei soldati sottoposti a trattamento medico. Va osservato come in questi filmati venivano mostrati in modo propagandistico soltanto i risultati spettacolari e non le complicazioni che spesso conducevano ad esiti mortali conseguenti ad alcuni procedimenti, come il totale isolamento per settimane, gli impacchi freddi ed umidi, i bagni prolungati, i raggi X in camera oscura, le punture lombari e le operazioni in anestesia con etere. E ancora asfissia provocata mediante la sonda faringale di Muck e l’applicazione di scariche elettriche.

In Italia, è solo dal 2011, dopo due restauri di preservazione nel 1993 e 1997, che conosciamo i filmati medici girati durante la Grande Guerra da Roberto Omegna all’Ospedale Militare di Torino, sotto la direzione del neurologo Camillo Negro, già noto agli studiosi di cinema muto e anche agli storici della neurologia e psichiatria per aver realizzato alcuni filmati neuropatologici negli anni 1906-1908 (La neuropatologia 1906-1908). I filmati sulle sindromi di guerra girati da Camillo Negro e Roberto Omegna nel 1918 all’Ospedale Militare di Torino (reperibili presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino) sono stati presentati e proiettati nella mostra «Al Fronte. Cineoperatori e fotografi raccontano la grande guerra» tenutosi a Torino, presso la Mole Antonelliana a cura di Roberta Basano e Sarah Pesenti Compagnoni nel 2015.

In questa sede sono stati visti due documentari simili: il filmato sulle sindromi di guerra dell’Ospedale Militare di Torino (Museo Nazionale del Cinema di Torino) di Camillo Negro e Roberto Omegna (Terza parte della Antologia dei filmati neuropatologici di Camillo Negro e Omegna), e quello, sempre di Negro e Omegna, conservato alla Cineteca Nazionale di Bucarest, proveniente dalla collezione di Dem Paulian, allievo di Gheorghe Marinescu, dal titolo Nevropatie diagnosticate ai combattenti della Prima Guerra Mondiale (1915-1918) direzione e materiale clinico del Prof. Negro Direttore della Clinica di Neuropatologia dell’Università di Torino (reperibile presso l’Archivio Nationala de Filme Bucarest. Immagini montate all’interno di Miotomia Congenita). La scarsità di filmati sulle nevrosi di guerra, o sui mutilati ecc., è dovuto a una falsa costruzione delle notizie sul fronte di guerra, che dovevano corrispondere nello spirito alle tavole di Beltrame su la Domenica del Corriere. Le sequenze girate al fronte, sia nei film di fiction ma anche nei documentari e nei reportages, documentavano difatti solo eventi positivi, imprese eroiche e di eccezionale enfasi retorica e, per quasi tutti i documentari, valeva un tipo di messa in scena di totale disinformazione. Le riprese di scene ‘eroiche’ di combattimento, la visione delle stragi, le panoramiche, o le inquadrature ravvicinate sui morti, venivano eliminate quasi ovunque. D’altra parte, tutti i filmati di guerra erano sottoposti al controllo del Comando Supremo dell’Esercito, nell’articolo n. 17, comma c, del fascicoletto dal titolo Norme per i corrispondenti di guerra. Prescrizioni per il Servizio fotografico e cinematografico, pubblicato nel 1917 dal Comando Supremo, dove si legge, tra l’altro che è vietato l’invio di materiale relativo «allo stato sanitario delle truppe». Per quanto riguarda la fiction, uno dei pochi casi interessanti e fuori dal comune, considerato il periodo in cui venne realizzato, cioè il Ventennio fascista, è il film Camicia Nera, diretto nel 1933 da Gioacchino Forzano, per il decennale della marcia su Roma. Il film narra la storia di un giovane fabbro, che durante la prima guerra mondiale a causa di un trauma ha subito un’amnesia e ha perduto ogni nozione della realtà e della propria identità personale, e che recupera a poco a poco la pienezza delle facoltà spirituali, quando il medico tedesco gli riproduce su un portatile il Bollettino della Vittoria. Nel 2008 è uscito l’interessante film di Enrico Verra Scemi di guerra. La follia nelle trincee (50′), che ricostruisce attraverso filmati di repertorio rinvenuti negli archivi di tutta Europa, insieme alle cartelle cliniche di soldati affetti da sindromi di guerra ritrovati negli ospedali psichiatrici, le tappe che portarono migliaia di soldati ad affrontare il calvario della malattia mentale.

Una società mutilata

Un capitolo a parte è quello relativo a quei filmati che ritraggono i danni fisici provocati dalla guerra, mi riferisco ai filmati sulle protesi maxillo-facciali, sulle riabilitazioni dei mutilati e all’ortopedia di guerra; guerra che mostra in maniera plateale «il primato dell’artificio, della tecnologia, della scomposizione e della costruzione, della istantaneità e della simultaneità» (Gibelli, 2007, p. 226). Immagini brutali che tanto avrebbero colpito e traumatizzato molti intellettuali e artisti, tra cui Otto Dix, Grosz, Marc, Léger (Ballett Mecanique, 1923); alcuni anche volontari di guerra che, come scrive Annette Becker (2014), si confrontarono con la brutalità della guerra e con la brutalizzazione della politica del dopoguerra e «utilizzarono la pittura, l’incisione, il fotomontaggio per rappresentare lo choc traumatico, la mutilazione, le protesi, i volti devastati» (Becker, 2014, p. 668). Ma la guerra dette anche l’ispirazione al pittore cubista Fernand Léger per il quale la visione di una culatta da 75 in pieno sole contribuì alla sua evoluzione plastica più di tutti i musei del mondo. Molti pittori, in particolar modo coloro che appartenevano alla corrente cubista, furono impiegati nel camouflage, con la costruzione di falsi cannoni, postazioni, alberi. Oppure, per quello che riguarda l’Italia, la nascita della Metafisica come risposta allo straniamento e alla alienazione della guerra, attraverso anche, da un punto di vista figurativo, la realizzazione dei manichini in stile ortopedico de Le muse inquietanti di Giorgio de Chirico, dipinto mentre era ricoverato a Ferrara presso Villa Seminario, diretto da Gaetano Boschi, specialista nella cura delle nevrosi di guerra. Qui, furono infatti ricoverati, nella primavera del 1917, Giorgio de Chirico e Carlo Carrà, quest’ultimo affetto da depressione. In questo luogo crearono alcuni dei loro più importanti capolavori del periodo metafisico come per esempio i capolavori di de Chirico, Ettore e Andromaca e, soprattutto, le Muse inquietanti. Dipinti che vennero esposti alla Galleria Bragaglia a Roma nel 1919. La mostra fu stroncata dal giovane «ipercritique italien» – come lo definì Gustave Kahn sul Mercure de France – Roberto Longhi, con il celebre articolo, pubblicato sul «Tempo» nel 1919: Al dio ortopedico, attraverso l’impiego qui forse per la prima volta da parte di Longhi delle famose equivalenze verbali: «Spinta dalla sua mano di macchinista crudele, l’umanità orrendamente mutila e inesorabilmente manichina (…) appare fra grandi stridori e cigolamenti sui vasti palcoscenici deserti, guardati a vista dai pesanti scatoloni dei casamenti pieni di caldo e buio.(…) Ivi l’homo ortopedicus sgrana con voce di carrucola una sua parte impossibile alle statue diseredate della Grecia antica» (Longhi, 1919, p. 3). Una interpretazione della pittura metafisica da parte dell’autore di Officina ferrarese (1934), che è quasi un saggio sulla società post- bellica e industrializzata di là a venire; interpretazione della pittura dechirichiana ripresa anche da Jean Cocteau, con la sua esortazione a togliersi dal proprio armamentario pittorico ispirato al tromp l’oeil, i suoi corset orthopèdique (Roucloux, 2001). In quest’ottica, si conferma un’opera molto interessante il film Oh!Uomo del 2004, della durata di 68 minuti, diretto da Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, realizzato dal Museo Storico trentino (Archivio di Cinema e Storia), una sorta di catalogo del corpo ferito – sia psichico che fisico -, dove attraverso l’assemblaggio di materiale d’archivio ma di natura diversa, si passa dalla decostruzione del corpo umano alla ricomposizione e ricostruzione artificiale. Con un intervento di recadrage sull’immagine– vengono pressoché eliminati i gesti dei medici – si amplia l’immagine filmica, dai piani medi ai volti in primo piano. Nel 2014, è stata realizzata l’opera multimediale War Work: 8 Songs with Film, diretto dal musicista e film-maker Michael Nyman, con sequenze tratte da materiali d’archivio della Grande Guerra, con i immagini di soldati con sindromi di guerra, dell’ortopedia di guerra, di protesi facciali, dei mutilati del viso (Gueles casées) montate in parallelo con immagini di operai al lavoro in una fabbrica di bambole. A Brentonico (Tn) dal 6 agosto 2016 al 2 luglio 2017 è stata organizzata, dal Museo Storico trentino, una mostra sugli effetti devastanti della Grande guerra, dal titolo «Corpi disarmati: la meccanica della normalità», sul ritorno dei reduci con problemi psichici e con mutilazioni, insieme alle relative problematiche sul reinserimento nella società.

Il metodo storiografico degli Annales: approccio interdisciplinare

Antesignano dell’approfondimento sulla relazione Cinema/Storia, che si svilupperà anche in ambito accademico a partire dai primi anni Settanta, fu Boleslaw Matuszewski, il quale propose la creazione di un archivio cinematografico quale strumento visivo della memoria; risalgono infatti al 1898 i due opuscoli: Une Nouvelle Source de l’Histoire (Création d’un dépot de cinématographie historique) e La Photographie animée. Ce qu’elle est, ce qu’elle doit être, dove descrive in dettaglio il funzionamento di un deposito cinematografico pubblico. Risale al 1968 la proposta di ricerca di Marc Ferro, specialista della Prima Guerra Mondiale, su «Les Annales», sulla necessità di studiare in ambito scientifico la relazione tra cinema e storia del Novecento. Tuttavia, il primo storico a utilizzare il cinema in ambito accademico è stato Fernand Braudel presso la VI Section all’Ecole en Hautes Etudes en Sciences Sociales (EHESS), con il corso Cinéma et Histoire nel 1968. Per lo storico Marc Ferro – che divenne nel 1970 con-direttore con Jacques Le Goff della prestigiosa rivista fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre negli anni venti – Braudel è «uno dei pochissimi storici ad aver utilizzato le immagini e gli oggetti come fonte d’informazione e di riflessione allo stesso titolo delle altri fonti, e non invece come semplici supporti per illustrare tesi elaborate sulla base di altri documenti o per altre vie» (Ferro, 1988, p. 201). Le ipotesi di ricerca si amplieranno negli anni successivi, soprattutto in area francese, aprendo svariate piste, dovute anche alla tendenza della storiografia ad allargare il campo delle fonti tradizionali in una nuova prospettiva: guerra, medicina e malattia mentale… Nell’ambito storiografico di questo metodo s’iscrivono le ricerche fatte sul cinema come fonte per la storia sociale e la cultura materiale, ricerche che tentano di mettere in evidenza, durante un certo periodo, meglio se di lunga durata, le trasformazioni, le permanenze, gli atteggiamenti e le rappresentazioni di fronte a una certa tematica in relazione al contesto storico-sociale.

Fonti filmiche per la storia della neurologia e psichiatria

Spetta al neurologo rumeno George Marinescu, specialista delle malattie nervose e della riabilitazione dei paraplegici presso l’Ospedale Pontelimon di Bucarest, il primato in Europa (1898) a filmare i disturbi della locomozione e dei gesti provocati da certe malattie. Su tale esperienze Marinescu pubblicherà un articolo dal titolo Le troubles de la marche dans l’hemiplegiè etudiès à l’aide du cinématographe, sulla rivista medica «La Semaine Medicale» (1899). Nel 1899 Marinescu riprende una malata affetta da una emiplegia isterica filmandone dapprima le manifestazioni patologiche, poi la cura con l’ipnosi ed infine il comportamento normale dopo la guarigione. Nel dicembre del 1899, presenta il caso all’Accademia delle Scienze di Parigi pubblicando un articolo su la «Nouvelle Iconographie de la Salpetrière» (febbraio 1900), in cui rifacendosi al film, sottolinea tra i primi nella storia del cinema, l’importanza del mezzo cinematografico nella ricerca medica e in particolare in quella neurologica: «Quale documento scientifico potrebbe dimostrarsi più prezioso per lo studio dell’emiplegia isterica di questo?» (Tosi, 1983, p. 51). Il neurologo rumeno non fu, tuttavia, il solo ad intuire le potenzialità del cinematografo come strumento per lo studio delle malattie nervose. Nel 1898, vi era stata la pubblicazione, da parte di un fotografo sconosciuto di nome Boleslaw Matuszeswski, di un opuscolo dal titolo Una nuova fonte per la storia, in cui l’autore, anticipando i metodi storiografici della Nouvelle Histoire di Le Goff sulle nuove fonti storiche, esponeva le sue idee sulla necessità di creare delle cineteche e affermava tra l’altro di aver ripreso, tra il 1897 e il 1898, presso gli ospedali di San Pietroburgo, Varsavia e in Francia (San Antoine e La Pitiè) alcuni casi di malattia mentale. Nel 1898 in una conferenza il grande fisiologo E. J. Marey, parlerà del testo come di una «curiosa operetta» nella quale tuttavia si percorrevano con «ardite prospettive» i campi che sembravano aperti alla cronofotografia sottoforma di proiezioni. «Il signor Matuszewski – notò allora Marey – vuole anche che la cronofotografia studi e riproduca i diversi fenomeni delle malattie nervose» (Nobili Vitelleschi, 2003, p. 499). Un altro medico ad utilizzare la cronofotografia per riprendere i malati d’isteria fu Albert Londe, direttore del laboratorio fotografico dell’ospedale della Salpêtrière, diretto all’epoca da Jean Marie Charcot, il grande neurologo francese celebre per le sue cure dei malati isterici mediante l’impiego dell’ipnosi. Dapprima nel 1883 con un apparecchio a nove obiettivi, poi, nel 1892, con uno da dodici, Londe riprese le varie fasi dell’isteria e dell’epilessia. Su queste esperienze, che gli valsero anche la definizione di pioniere della storia del cinema in quanto scoprì l’aspetto cinetico della malattia, Albert Londe scisse il saggio La photographie médicale, in Conférences publiques sur la photographie (1893).

In Italia è solo a partire dal 1908 che si inizia ad utilizzare il cinema nello studio soprattutto dell’isteria e di alcune malattie neurologiche. In quest’anno, come detto sopra, viene realizzato a Torino dal professor Camillo Negro il filmato La neuropatologia, diretto dal documentarista e pioniere del cinema scientifico Roberto Omegna, su diversi casi clinici di malattie mentali e un attacco di isteria in una donna mascherata. Di particolare interesse, soprattutto per la descrizione reale di alcune patologie mentali e nervose, furono anche le lezioni e proiezioni del professor Gaetano Rummo realizzate nel 1909 presso la facoltà di medicina di Napoli nella Regia Università. Inoltre, lo stesso Rummo, avrebbe auspicato l’utilizzo del documentario come uno dei medium per la divulgazione della psichiatria sia nelle Università che negli Istituti superiori. Il neurologo Vincenzo Neri dopo la laurea si recò a Parigi presso l’ospedale Pitié-Salpêtrière sotto la direzione del grande neurologo Joseph Babinski dove iniziò a filmare i movimenti dei pazienti. Durante la guerra, dietro richiesta di Vittorio Putti, divenne consulente dell’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, dove studiò, tra l’altro, il sistema vaso-motorio dei soldati congelati durante la prima guerra mondiale. Nel 2008 è stato ritrovato a Bologna l’archivio di Vincenzo Neri, a Villa Baruzziana, dove all’interno dello studiolo si trovavano materiali di grande valore fotografico e cronofotografico. Nel 2011 è stato ultimata la preservazione e la digitalizzazione delle lastre fotografiche e di altro materiale.

Dall’isteria alle nevrosi di guerra

Camillo Negro, professore di neurologia all’Università di Torino, tra il 1906 e il 1908, con l’aiuto del suo assistente Giuseppe Rosaenda, fece riprendere a scopi scientifici e didattici alcuni dei suoi pazienti affetti da malattie nervose e mentali; tra i filmati, realizzati da Roberto Omegna, c’era il celebre ‘frammento’ della durata di 4 minuti della Neuropatologia del 1908 – filmato presentato, dopo la prima a Torino nel febbraio del 1908, alla clinica Salpêtrière di Parigi nel novembre del 1908 con il titolo Reméde contre la nevrastenie -, dove si vedeva il professore, aiutato dal dottor Rosaenda, produrre una crisi isterica in una donna, quindi eliminarne il sintomo premendole con forza le pelvi e poi mostrarla al pubblico rilassata e guarita. Il Museo Nazionale del Cinema di Torino, in collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Torino, nell’autunno 2011 ha presentato una nuova edizione critica dei filmati neuropatologici girati dal Professor Negro dopo i restauri di preservazione degli anni 1993 e 1997 (Dagna e Giannetto, 2012).

Nella nuova edizione critica del 2011, sono stati isolati e separati dal resto dei filmati, riconducibili agli anni 1906-1908, le immagini sulle sindromi di guerra girate all’Ospedale di Torino, dove il Prof. Negro era consulente volontario di neuropatologia e presentati in un ‘blocco unico’; immagini, quelle sulle nevrosi di guerra, introdotte da un cartello descrittivo, realizzate sempre con la regia di Roberto Omegna (Negro, 1916). Sul rapporto tra Omegna e il Prof. Negro anche nel periodo del conflitto mondiale, si veda un inedito documento del 1917: «[Roberto Omegna] ha collaborato con il Prof. Negro della R. Università di Torino per raccolte cinematografiche delle malattie nervose, lavoro a cui si dedica tuttora per il predetto professore all’Ospedale Militare di Torino» .

Nel filmato della crisi isterica della donna mascherata del 1908, il Professor Negro nel presentare al pubblico la malata mostrava una ostentata sicurezza e in alcuni casi anche un atteggiamento che sconfinava nell’istrionismo; egli infatti sorride, guarda in macchina come un attore comico, nel presentare il caso d’isteria, ambientato in una sorta di set teatrale. L’atteggiamento ricorda quello di un illusionista che incita il pubblico, in una mise en scene che si potrebbe definire da fenomeno da baraccone. In altre immagini, forse del 1906, soprattutto dopo l’edizione critica e restauro del 2011, si può constatare, anche attraverso i resoconti dell’epoca, la familiarità con tali patologie del professore: «dalle mani del Prof. Negro, due isterici sono trattati in pieno attacco, con la suggestione». Nei filmati girati presso l’Ospedale Militare di Torino, il comportamento del professore nel presentare i casi sembrava sottolineare, invece, una sorta di incapacità terapeutica nell’affrontare questa strana malattia; e, nello stesso tempo, come la prima guerra mondiale mutasse il contesto clinico degli studi e della pratica neurologica. «Le manifestazioni isteriche che con grande frequenza si riscontravano nei soldati, infatti, fin dall’inizio apparvero diverse da quelle del tempo di pace: prive di teatralità e di immaginazione. […] A poco a poco all’entusiasmo si andò sostituendo l’incertezza e la sfiducia nelle possibilità di cogliere la natura» di questa malattia – e, prosegue Bruna Bianchi in un saggio su psichiatria e guerra -, «di esplorare il meccanismo psicologico che stava alla base di tali sintomi» (Bianchi, 2014, p. 326).

Restauro

Il restauro di questi filmati in edizione critica del 2011 è stato realizzato dal Museo Nazionale del Cinema di Torino in collaborazione col laboratorio L’immagine Ritrovata di Bologna nel 2011, a partire da una copia positiva nitrato e dal contro tipo negativo del restauro del 1997, integrate grazie al ritrovamento nella collezione del Museo di tre rulli positivi nitrato, di un frammento di negativo nitrato e di un 35 mm safety positivo. L’antologia dei filmati del Prof. Negro (1906-1918) si compone di 3 sezioni: La neuropatologia del 1908, alcune riprese senza data e che mostrano il professor Negro con i suoi collaboratori, e i materiali dedicati alle sindromi di guerra.

I filmati sulle sindromi di guerra di Camillo Negro e Roberto Omegna, girati all’ospedale Militare di Torino, sono stati presentati e proiettati nel 2015 a Torino, nell’ambito delle manifestazioni del Centenario della Grande Guerra, nella mostra: Al Fronte. Cineoperatori e fotografi raccontano la grande guerra, presso la Mole Antonelliana sede del Museo Nazionale del Cinema, a cura di Roberta Basano e Sarah Pesenti Compagnoni e organizzata dal Museo Nazionale del Cinema di Torino. In questa sede sono stati, inoltre, presentati e proiettati due documentari “gemelli” di Camillo Negro e Roberto Omegna, provenienti dalla Cineteca Nazionale di Bucarest, appartenuti alla collezione di Dem Paulian, allievo del neurologo rumeno Gheorghe Marinescu con il titolo: Nevropatie diagnosticate ai combattenti della Prima Guerra Mondiale (1915-1918) direzione e materiale clinico del Prof. Negro Direttore della Clinica di Neuropatologia dell’Università di Torino; immagini montate all’interno di Miotomia Congenita .

Per un approfondimento:

“Scemi di guerra. La follia nelle trincee” (DOCUMENTARIO)


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