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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

19 marzo 2018

IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.

di Luca Proietti

Koukopoulos e Ghaemi ribaltano la visione tradizionale per cui la mania sarebbe una reazione alla depressione. Il “core” della psicopatologia ed il target terapeutico dei disturbi dell’umore potrebbe essere dunque la mania o in generale l’arousal psicomotorio. Secondo la teoria del primato della Mania, la depressione consisterebbe in un esaurimento conseguente a una fase di eccitamento, e la cura dei disturbi dell’umore dovrebbe quindi essere volta alla prevenzione delle fase di iperattivazione.

Nel 2009 è stato pubblicato sulla rivista European Psychiatry l’articolo “The primacy of mania: A reconsideration of mood disorders” di Athanasios Koukopoulos e Nassir Ghaemi. Un articolo da non perdere assolutamente poichè capovolge la visione tradizionale del disturbo Bipolare in cui la mania altro non sarebbe che una reazione difensiva, una “fuga”, dalla depressione.

A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo. Link alla pagina pubmed: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/18789854.

REPORT

Gli autori propongono una visione dei disturbi dell’umore per cui la Mania e la Depressione sarebbero strettamente connesse, in maniera unidirezionale e opposta alla concezione tradizionale che vede la Mania come una reazione, una lotta alla Depressione. Koukopoulos e Ghaemi sostengono che la Depressione deriverebbe dall’ “esaurimento neuropsichico” conseguente ai processi eccitatori della Mania: Primato della mania (PM), ovvero “mania is fire and depression its ash”.

Secondo gli autori la Psichiatria moderna assume infatti una concezione troppo ristretta della “Mania” e troppo ampia della “Depressione”. La Mania, secondo loro, comprenderebbe anche l’ampio spettro di quei comportamenti “non esplicitamente euforici” ma comunque caratterizzati da attivazione o agitazione psicomotoria. Ciò spiegherebbe il verificarsi della maggior parte degli episodi depressivi, in particolare nei disturbi bipolari, nelle persone con labilità emotiva e nei quadri ansioso-depressivi.

I due autori riportano le evidenze della Psicopatologia e della Psicofarmacologia a sostegno della loro ipotesi, per poi dibattere le questioni che sembrerebbero invece contraddirla.

Alcuni brevi cenni di evidenze a sostegno di questa ipotesi:

  1. Il pattern di ciclicità Mania-Depressione-Intervallo libero (MDI) mostra la migliore risposta alla terapia: se si tratta in primo luogo la fase di mania, quella successiva di depressione tende a non comparire.

  2. L’eccitamento psicomotorio, più frequentemente di quanto si pensi, comprende o è parte di stati depressivi: più del 50% degli episodi diagnosticati come maniacali (Cassidy et al., 1998) e fino al 50% di quelli depressivi maggiori (Benazzi 2001) sarebbero in realtà stati misti.

  3. Le persone con disturbo bipolare riportano l’ esperienza soggettiva per cui la Depressione seguirebbe la Mania piuttosto che viceversa.

Gli autori sostengono che l’efficacia del Litio e degli antiepilettici nella profilassi delle ricadute depressive del Litio e degli antiepilettici deriverebbe dalla loro attività antimaniacale, questi farmaci non dimostrano infatti attività antidepressiva diretta. Gli episodi depressivi che rispondono agli antipsicotici sarebbero invece stati misti depressivi. Il trattamento più efficace della depressione nel D. Bipolare è quindi quello indiretto, cioè la prevenzione degli episodi maniacali, mentre in acuto sarebbe indicata la riduzione del dosaggio di stabilizzatore, e l’eventuale aggiunta di un antidepressivo, solo se necessario, per poi sospenderlo appena raggiunta l’eutimia.

Obiezioni all’ipotesi del primato della mania:

a) La depressione unipolare non è preceduta da periodi di eccitamento della psicomotricità. Potrebbe essere un altro disturbo rispetto a quella del D. bipolare o essere conseguente a:

  1. Periodi di ansia intensa, come nel caso delle “depressioni ansiose” (Kendler et al., 1992; Silverstone & Von Studnitz, 2003)
  2. Non riconoscimento di episodi ipomaniacali precedenti (Cassano et al.,2004)
  3. Alcune depressioni avvengono in persone con temperamenti ipertimici (Cassano et al., 1992)

b) La presenza di pattern di ciclicità Depressione-Mania-Intervallo libero (DMI) nel 25% dei pazienti (Koukopulos et al 1980). In questo caso da notare come tale pattern sia frequentemente “indotto” dalla terapia antidepressiva. Inoltre, nei periodi precedenti la depressione, spesso sarebbero presenti:

  1. Sintomi di eccitamento o attivazione psicomotoria non riconosciuti (Whitman & Leitenberg, 1990; Akiskal & Benazzi 2005),

  2. Abuso di sostanze eccitanti come la caffeina (Veleber & Templer 1984; Wehr et al., 1988)

  3. Disturbi del sonno (Frank et al., 2006)

c) La sospensione degli antidepressivi nel 5-10% dei casi può portare inspiegabilmente a episodi maniformi (Ali & Milev, 2003). Secondo alcuni autori questi casi contraddirebbero il primato della mania (Goldstein et al. 1999). Sono però casi rari e sembrano dovuti a meccanismi da iper-attivazione da rebound di alcuni sistemi neurotrasmettitoriali (Dilsaver et al., 1994).

In conclusione, l’ipotesi che la Mania anticipi ed in certo senso determini la fase successiva di depressione potrebbe essere un indirizzo promettente per future ricerche volte a chiarire i meccanismi del Disturbo Bipolare. Detto questo, è evidente come ci sia ancora molta strada da fare prima di poter definire se, tra mania e depressione dei pazienti bipolari, “venga prima l’uovo o la gallina”.

BIBLIOGRAFIA

Akiskal HS, Benazzi F. Optimizing the detection of bipolar II disorder in outpatient private practice: toward a systematization of clinical diagnostic wisdom. J Clin Psychiatry 2005;66(7):914-21.

Ali S, Milev R. Switch to mania upon discontinuation of antidepressants in patients with mood disorders: a review of the literature. Can J Psychiatry 2003;48(4):258-64

Benazzi F. Depressive mixed state: testing different definitions. Psychiatry Clin Neurosci 2001;55(6):647-52.

Cassano GB, Rucci P, Frank E, Fagiolini A, Dell’Osso L, Shear MK, et al. The mood spectrum in unipolar and bipolar disorder: arguments for a unitary approach. Am J Psychiatry 2004;161(7):1264-9.

Cassidy F, Murry E, Forest K, Carroll B. Signs and symptoms of mania in pure and mixed episodes. J Affect Disord 1998;50:187-201.

Dilsaver S, Chen Y, Swann A, Shoaib A, Krajewski KJ. Suicidality in patients with pure and depressive mania. Am J Psychiatry 1994;151: 1312-5.

Frank E, Gonzalez JM, Fagiolini A. The importance of routine for preventing recurrence in bipolar disorder. Am J Psychiatry 2006;163(6): 981e5.

Goldstein T, Frye M, Denicoff K, Smith-Jackson E, Leverich G, Bryan A, et al. Antidepressant discontinuation-related mania: critical prospective observation and theoretical implications in bipolar disorder. J Clin Psychiatry 1999;60(8):563-7.

Kendler KS, Heath AC, Martin NG, Eaves LJ. Symptoms of anxiety and symptoms of depression. Arch Gen Psychiatry 1987;44:451-7.

Kendler KS, Neale MC, Kessler RC. Major depression and generalized anxiety disorder: same genes, (partly) different environment? Arch Gen Psychiatry 1992;49:716-22.

Koukopoulos A, Koukopoulos A. Agitated depression as a mixed state and the problem of melancholia. Psychiatr Clin N Am 1999;22(3):547-64.

Koukopoulos A, Reginaldi D, Minnai G, Serra G, Pani L, Johnson FN. The long-term prophylaxis of affective disorders. In: Gessa G, Fratta W, Pani L, Serra G, editors. Depression and mania: from neurobiology to treatment. New York: Raven Press; 1995.

Koukopulos A, Reginaldi D. Does lithium prevent depressions by suppressing manias? Int Pharmacopsychiatry 1973;8(3):152-8.

Kukopulos A, Reginaldi D, Laddomada P, Floris G, Serra G, Tondo L. Course of the manic-depressive cycle and changes caused by treatment. Pharmakopsychiatr Neuropsychopharmakol 1980;13(4):156-67.

Silverstone PH, von Studnitz E. Defining anxious depression: going beyond comorbidity. Can J Psychiatry 2003;48(10):675-80

Veleber DM, Templer DI. Effects of caffeine on anxiety and depression. J Abnorm Psychol 1984;93(1):120-2.

Whitman PB, Leitenberg H. Negatively biased recall in children with self-reported symptoms of depression. J Abnorm Child Psychol 1990; 18(1):15-27.

Article by admin / Formazione / lucaproietti, neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

9 marzo 2018

COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD

di Raffaele Avico

Il saggio breve Lutto e Melanconia di Freud rappresenta un eccezionale documento ed esempio di lucidità descrittiva intorno al tema che porta in oggetto, oltre essere una testimonianza unica del talento narrativo di Sigmund Freud.

L’autore apre facendo una breve descrizione della differenza tra il lutto e la melanconia. Freud descrive il lutto come:

“la reazione alla perdita di una persona amata o di un’astrazione che ne ha preso il posto, la patria ad esempio, o la libertà, o un ideale o così via”,

che ha come conseguenze

“un doloroso stato d’animo, la perdita d’interesse per il mondo esterno – fintantoché esso non richiama alla memoria colui che non c’è più- , la perdita della capacità di scegliere un qualsiasi nuovo oggetto d’amore (che significherebbe rimpiazzare il caro defunto), l’avversione per ogni attività che non si ponga in rapporto con la sua memoria”.

Freud spiega inoltre come per compiere il lavoro del lutto debba essere effettuato uno spostamento di investimento libidico su un altro oggetto che non siano l’oggetto perso. Strutturalmente, tuttavia, l’uomo pare essere portato a mantenere per più tempo possibile l’adesione libidica verso l’oggetto (“gli uomini non abbandonano volentieri una posizione libidica”), e quindi il lavoro del lutto richiede tempo e richiede dei passaggi (per esempio, Freud sottolinea, il sovra-investimento di tutti i ricordi e le aspettative connesse all’oggetto perduto, che devono essere uno per uno abbandonati). Solo allora, Freud scrive, “l’Io ridiventa in effetti libero e disinibito”.

Per quanto riguarda invece la melanconia, Freud sottolinea che i pazienti melanconici paiono soffrire del lutto (intenso come perdita) per un qualcosa che però rimane “enigmatico”. Ovvero, sembra che il lavoro del lutto venga svolto al di sotto del livello della coscienza. Si sa che qualcosa si è perso, ma non si capisce bene cosa. Questo avviene in altri termini quando la perdita è “inconsapevole”. Le conseguenze di questo lavoro di elaborazione del lutto a livello sub-cosciente, Freud afferma, sono un progressivo svuotamento del senso dell’Io: in questo caso non è tanto il mondo a essersi svuotato di qualcosa (come nel lutto), quanto il senso dell’Io.

Freud afferma:

“ll quadro di questo delirio d’inferiorità (prevalentemente morale) è completato da insonnia, rifiuto del nutrimento e da un tratto notevolissimo sotto il profilo psicologico, ossia dal superamento di quella pulsione che costringe ogni essere vivente a restare fortemente attaccato alla vita“.

Freud prosegue notando come nel paziente melanconico esista una grande lucidità nel descrivere il suo stato interiore, come una limpidezza acquisita che gli consente ora di osservare dentro di sé la natura più psicologica e morale del suo essere. In questo caso, Freud dice, avviene una divisione verticale dell’Io, che si configura ora come scisso, e con una parte che critica l’altra: la coscienza (che rappresenta una delle parti dell’Io diviso) interviene a giudicare l’Io stesso da un punto di vista morale:

“Nel quadro morboso della melanconia emerge in primo piano, rispetto alle altre rimostranze, la riprovazione morale nei confronti del proprio Io; la valutazione di sé si basa assai più raramente su imperfezioni fisiche, bruttezza, debolezza, inferiorità sociale; solo l’impoverimento assume una posizione di rilievo fra i timori o le dichiarazioni del malato“

Inoltre, Freud sostiene, questo meccanismo di auto-accusa proverrebbe, a sua volta, da un atteggiamento di “rivolta” verso qualcosa di esterno, messo in piedi dal soggetto, solo in seguito rivolto a sé. A ben guardare la sintomatologia del paziente melanconico, Freud sottolinea, si nota che il soggetto melanconico rivolge a sé delle accuse che in realtà vorrebbe indirizzare all’esterno di sé:

“tutto ciò è possibile soltanto perché il loro modo di reagire continua a derivare da una costellazione psichica di rivolta, la quale poi, in virtù di un determinato processo, è evoluta fino a trasformarsi in contrizione melanconica“

Il processo citato in questo passaggio, Freud lo descrive come un passaggio anomalo dell’investimento libidico del paziente: trovandosi a dover abbandonare l’oggetto d’amore iniziale, e non riuscendo a investire in tempo breve su un altro oggetto, il soggetto melanconico sarebbe stato obbligato a far ricadere su di sé l’investimento libidico (lasciato “libero di fluttuare”), con però la conseguenza dell’instaurarsi di una “identificazione” con l’oggetto perduto (da qui la famosa espressione “l’ombra dell’oggetto [abbandonato] cade così sull’Io”).

A questo punto, si instaura secondo Freud un conflitto tra la parte critica dell’Io e l’Io stravolto dall’identificazione con l’oggetto abbandonato. In questo senso la melanconia si rivela essere il risultato di un investimento sull’Io di tipo narcisistico (che aiuta in qualche modo a preservare il legame con l’oggetto perduto, portando tutto “in casa dell’Io”)

Freud scrive:

“Quando l’amore per un oggetto si è rifugiato nell’identificazione narcisistica –ma si tratta di un amore a cui non si può rinunciare nonostante si sia rinunciato all’oggetto stesso – accade che l’odio si metta all’opera contro questo oggetto sostitutivo oltraggiandolo, denigrandolo, facendolo soffrire e derivando da questa sofferenza un sadico soddisfacimento”.

Freud dunque vede la melanconia come una distorsione del lutto, la quale prevede un ritiro narcisistico dell’energia libidica, energia poi riflessa sull’Io e che lo conduce, quando troppo potente, a comportamenti anche apertamente anti-conservativi come il suicidio (l’odio verso l’oggetto perduto viene riflesso sull’Io): in questo senso paragona la malattia melanconica ad una ferita aperta che attira su di sé “da tutte le parti energie di investimento e svuota l’Io fino all’impoverimento totale”.

A proposito invece dei sintomi della malattia melanconica, Freud cita l’insonnia (prodotta da un eccesso di investimento energetico rivolto su di sé) e il curioso fenomeno di riduzione della portata dei sintomi nelle ore serali. In conseguenza di questo, passa poi a descrivere lo stato contrapposto alla melanconia, ovvero la mania, che avviene in questo modo:

“in questi casi avviene qualcosa che fa sì che un grande spiegamento di energia psichica, sostenuto a lungo o trasformatosi in abitudine, a un certo momento diventi superfluo, talché questa energia è resa disponibile per molteplici impieghi e possibilità di scarica. Ciò si verifica ad esempio quando un povero diavolo è sollevato improvvisamente –perché gli piove addosso una grande quantità di denaro –dalla cronica preoccupazione per il pane quotidiano; o quando una lotta lunga e difficile è coronata infine dal successo; o quando,d’un tratto, riusciamo a liberarci da una pesante costrizione o da una posizione falsa in cui avevamo indugiato a lungo; e così di seguito. Tutte queste situazioni sono caratterizzate da un umore allegro, dai segni di scarica dati da un affetto gioioso e da un’accresciuta disponibilità a compiere ogni sorta di atti proprio come nella mania, e in assoluto contrasto con la depressione e l’inibizione tipiche della melanconia. Possiamo azzardarci a dire che la mania non è altro che un trionfo di questo genere, solo che anche questa volta l’Io ignora quali prove ha superato e perché sta cantando vittoria”

Come si nota, la mania rappresenta una cambio di posizione psichica in termini economici: le risorse vengono spese, reindirizzate, altrove, spostandosi dall’Io verso l’esterno, e producendo un senso di trionfo e di alleggerimento. Freud, tuttavia, conclude il breve saggio rimandando ad ulteriori approfondimenti che possano chiarire perché alla melanconia segua spesso una fase di mania, e non così, invece, nella fase di risoluzione del semplice lutto.

Per una lettura integrale: http://www.idipsi.it/it/wp-content/uploads/2014/09/lutto-e-malinconia.-S-Freud.pdf

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, raffaeleavico

4 dicembre 2017

JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016

di Matteo Respino

Autore: Massimo Recalcati

Recensione originalmente pubblicata su Psychiatry on line Italia

http://www.psychiatryonline.it/node/6096

INTRODUZIONE

Il celebre filosofo e psicanalista sloveno Slavo Zizek ha recentemente tenuto una lezione sulla teoria dei quattro discorsi di Jacques Lacan, di cui è possibile prendere visione sul canale Zizekian Studies, su Youtube (https://www.youtube.com/watch?v=PMZRdahvMuA). In tale occasione il filosofo racconta un aneddoto dalla grande forza chiarificatrice, condito dal suo stile immancabilmente irriverente, che ben introduce alla prospettiva sulla quale si fonda il lavoro scientifico-letterario di Massimo Recalcati, con particolare riferimento all’opera in oggetto. Tale fondamento è un concetto che il Lettore dovrebbe avere chiaro per non cadere nei fraintendimenti su cui si basano alcune delle critiche allo stile dell’Autore, nonché per procedere alla lettura del testo consapevole di ciò che lo attende.


Zizek racconta il privilegio di cui poté avvalersi partecipando in prima persona, all’inizio degli anni ’80, ad alcuni seminari settimanali tenuti da Jacques-Alain Miller_l’unico lettore_di Lacan, come Lacan stesso lo nominava, nonché maestro e riferimento teorico di Recalcati durante la sua formazione parigina. Zizek si pronuncia così, in riferimento alla lettura del testo lacaniano Kant avec Sade:


“This was the miracle of Miller: you read the page, you understand nothing. Then you listen to Miller for two hours and it becomes so transparent […] Why was I so stupid? Everything is self-evident […] He is the only absolute pedagogical genius that I know. Lacan was happy to have him because […] Miller made Lacan readable.”

Un “genio pedagogico”, così Zizek inquadra il cuore del lavoro di Miller, ovvero “rendere Lacan leggibile”. E’ su questa linea di pensiero e di lavoro che si può e si deve inquadrare lo sforzo di Recalcati, che in tale prospettiva raggiunge l’apice con questo Volume dando al testo il carattere di pietra miliare del suo lavoro. Il “miracolo” di Miller, come lo chiama Zizek, diviene qui, traslato, il “miracolo” di Recalcati: articolandosi lungo un asse duplice di decifrazione e di sistematizzazione del pensiero clinico di Jacques Lacan, improvvisamente “everything is self-evident”. L’insegnamento del grande psicoanalista francese appare chiaro nel suo rimandare ad una verità che non è universale, ma soggettiva. I concetti della sua produzione divengono più che leggibili, divengono comprensibili, in molti passaggi semeioticamente e clinicamente concreti. Più di tutto, divengono trasmissibili: lo stile di Recalcati non si limita a favorire l’introiezione di contenuti grandemente complessi, ma ne sostiene la ritenzione e la trasmissibilità. Contenuti che si spostano dal contesto elitario delle società psicoanalitiche agli “addetti ai lavori”, ovvero coloro che lavorano nella clinica istituzionale, e ad una parte di “non addetti” appartenenti alla cultura borghese di centro sinistra. Questa diffusione è un fatto, come lo è il ruolo primario di Recalcati e delle sue Opere nell’avere determinato questo cambiamento radicale del lacanismo in Italia.
Ciò accade peraltro senza la pretesa, e ad essere onesti nemmeno la possibilità, di produrre una sostituzione dei Seminari o degli altri Scritti di Lacan.


L’opera dello psicoanalista francese rimane infatti un unicum insostituibile, fenomeno in grado di trasmettere un sapere “bucato” che incarna, con il suo insegnamento, il linguaggio come “muro”, come evento di separtition, come struttura che separa il soggetto between something and nothing, che evoca l’amore del transfert e rimanda metonimicamente ad un Desiderio Altro. Fare innamorare del desiderio di verità (la verità del soggetto) è l’effetto del transfert indotto dal soggetto-supposto-sapere Jacques Lacan come lo dovrebbe essere quello del dispositivo analitico, in una coincidenza di funzione che giustifica la natura testimoniale di Lacan psicoanalista, insegnante, clinico.
Pur con tutti i dubbi storiografici del caso, Zizek sostiene che Lacan fosse felice di Miller “unico lettore”, di Miller che dà corpo alla lingua (straniera) del suo insegnamento e che aiuta gli allievi ad apprenderne i fondamenti.  Da allievo, sostengo che lo stesso valga per lo stile di Recalcati, e che sia esattamente questo il merito maggiore del suo lavoro. Ma tornerò su questo punto in conclusione.

ASPETTI GENERALI DEL TESTO

Con quest’ultima, attesa opera Recalcati conclude il dittico esordito nel 2012 con “Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione”. Se la prima parte approfondiva il contesto ed il contenuto teoretico del lavoro del grande psicoanalista francese, il passo compiuto con questo secondo Volume è nella direzione, fondamentale, del consentire al Lettore la possibilità di incarnare l’immane corpus teoretico del pensiero di Jacques Lacan nelle membra vivissime, cocenti, della Clinica. E’ questo il perno centrale dell’Opera, come sottolinea l’Autore introducendola: 

“Il rigore dell’insegnamento di Lacan […] raggiunge indubbiamente il suo vertice nel ripensare e aggiornare rigorosamente la clinica della psicoanalisi. Questo rettifica immediatamente un luogo comune: Lacan-filosofo, Lacan-intellettuale, Lacan-topologo, Lacan-linguista, Lacan-scrittore, Lacan-pensatore stravagante. Egli è stato prima di tutto uno psicoanalista che passava le sue giornate a ricevere pazienti afflitti dai sintomi più diversi […]”. 


Il nodo della centralità della Clinica percorre tutto il testo, dal primo all’ultimo capitolo, sostenuto dall’integrazione sistematica della lezione teorica con un numero poderoso di casi clinici: dai più noti di Freud e Lacan fino a casi clinici di altri Autori postfreudiani o dello stesso Recalcati.
Appare poi utile sottolineare altri aspetti generali, alcuni trasversali alla struttura dell’Opera: l’approccio logico-didattico, il taglio cronologico, il (ri)ritorno a Freud, l’inquadramento storico-filosofico e il confronto con la critica post-strutturalista, il rapporto e la differenza con la psicoanalisi postfreudiana, la dialogica e la distinzione dal discorso medico. Andiamo con ordine:

  1. Lo scheletro dell’Opera si articola con un approccio più logico che cronologico, sebbene anche quest’ultimo non manchi ed anzi, assuma una posizione trasversale al testo (vedi punto 2). La logica seguita dall’Autore è riassumibile come una descrizione sistematica a scopo didattico. Si sviluppa dalla visione del “bambino lacaniano”, segue nella disamina delle principali organizzazioni patologiche della clinica psicoanalitica e culmina nei due capitoli finali, nucleari sul piano pratico, che propongono l’insieme dei suggerimenti che Lacan ha trasmesso circa la pratica della psicoanalisi e la direzione della cura.

  2. Il taglio cronologico del testo si delinea come puntuale ricorrenza nel riportare lo sviluppo di determinati concetti alla biografia del pensiero di Lacan, aiutando il Lettore ad orientarsi, appunto cronologicamente, nell’evoluzione storico-biografica che ha avuto sviluppo nei decenni del suo insegnamento. Un esempio su tutti, a cui potrebbero seguirne molti altri, è l’evoluzione del concetto sovrano del pensiero di Lacan, il Desiderio: il testo non manca infatti di rimandarne con costanza allo sviluppo intercorso negli anni. Da Funzione e Campo  e la dialettica intersoggettiva del desiderio come desiderio dell’Altro, come “desiderio di riconoscimento”, per arrivare al La Direzione della Cura con il desiderio come “pura metonimia” e infine al Seminario VII con il desiderio come “desiderio di Altra Cosa” e l’introduzione del concetto di jouissance.

  3. Fin dalle prime pagine, complice la trattazione dello sviluppo psichico del bambino, l’Autore riprende elementi centrali della psicoanalisi freudiana, quali la distinzione tra Istinto e Pulsione, la struttura perverso-polimorfa del bambino ed il concetto fondante di Rimozione. Lo stile con cui questi concetti vengono riletti è quello del “ritorno a Freud” inaugurato da Lacan e non manca della stessa sistematicità che l’Autore dedica all’insegnamento dello psicoanalista francese. La rilettura lacaniana del testo freudiano accompagnerà il Lettore per tutto il testo, tanto nei nodi coincidenti quanto negli sviluppi inediti.

  4. Recalcati, da didatta, non dà per scontate quelle nozioni pertinenti l’idealismo tedesco, l’esistenzialismo ontologico e lo strutturalismo da cui Lacan ha sviluppato il proprio lavoro. Hegel riletto attraverso Kojeve, Heidegger, Sartre e de Saussure trovano quello spazio sufficiente di trattazione che consente tal Lettore, non necessariamente in confidenza con la storia del pensiero, di comprendere da dove arrivano i concetti alla base della psicoanalisi lacaniana. Altresì, sono numerose le occasioni in cui Recalcati riprende la critica dell’Antiedipo di Deleuze-Guattari.

  5. Un aspetto trasversale al testo è poi il confronto (critico) con elementi più o meno marginali delle altre scuole di psicoanalisi. Alcuni esempi sono il frequente riferimento alla distanza polare con la psicologia dell’Io ed il suo programma pedagogico-riabilitativo di colonizzazione e bonifica dell’Es da parte dell’Io, come centrale è la critica all’utilizzo del controtransfert come “sonda emotiva”, introdotto da P. Heimann e sostenuto da gran parte delle scuole postfreudiane. Non mancano i punti di contatto, quali l’intuizione di D. Winnicott delle sedute a tempo variabile, portata alle sue estreme conseguenze da Lacan o la vicinanza tra il concetto dell’analista senza memoria e desiderio di matrice Bioniana con quello freudiano di specchio opaco e di desiderio dell’analista come vuoto singolare concepito da Lacan.

  6. E’ con una costanza martellante che l’Autore ricorre a distinguere finalità e metodologia del discorso medico da quello psicoanalitico. La perseveranza di Recalcati su questo punto sembra voler eliminare nel Lettore ogni possibile dubbio su che cosa è e soprattutto su che cosa non è la psicoanalisi. Non una riparazione, non una restituito ad integrum, ma semmai, coniugando due delle definizioni usate da Lacan e riportate da Recalcati, un trucco per avere la possibilità di ricominciare. Il tentativo è certamente riuscito. In tal senso, unica porta aperta sul dubbio rimane quella contraddizione implicita che rende peraltro l’Opera tanto unica quanto preziosa, espressa dal tentare (con successo) una sistematizzazione didattica, “chiusa”, “positiva”, di un pensiero viceversa “aperto”, “negativo”, di un linguaggio manifestamente bucato come quello lacaniano. Non è forse questa la specificità dello stile dell’Autore? La mia idea è che questo sviluppo singolare del lacanismo tragga la sua forza espressiva e comunicativa (inedita) proprio dal fatto che in queste contraddizioni si esprime chiaramente una soggettività singolare, un desiderio autentico. Ciò a connotare la differenza tra il fenomeno Recalcati, che nel concreto sta diffondendo il lacanismo in Italia, e fenomeni tristi quali Verdiglione e affini, dove lo scimmiottare Lacan di alcune élite psicoanalitiche altro non è che il rimanere intrappolati in un transfert speculare-immaginario che, di certo, non ha granché contribuito alla conoscenza e alla diffusione della dottrina lacaniana nel nostro paese.

IL BAMBINO LACANIANO

In questa prima parte Recalcati ripercorre le tappe dello sviluppo del soggetto. A partire dalla sua costituzione eterodeterminata, situata nel campo dell’Altro, l’Autore si concentra su alcuni nodi quali il ribaltamento della visione postfreudiana dell’onnipotenza dell’infante, interpretata piuttosto come un totale assoggettamento ad un’onnipotenza che é viceversa dell’Altro, specificatamente materna. E’ la condizione oggettuale (bambino-oggetto, assujet, assoggettato) su cui si fonda ogni dipendenza. Allo stesso tempo l’Autore evolve il concetto di Edipo freudiano: prima che alla madre, il potere di assoggettamento è in mano al campo del Linguaggio, preliminare e strutturale l’esistenza umana. Ciò che “castra” è prima di tutto l’iscrizione del corpo vivente nelle leggi del linguaggio. Prosegue, riprendendo Freud, con una chiarificazione grandemente didattica tra istinto e pulsione, nonché con il concetto di bambino “perverso-polimorfo”, mostrando la persistenza di un residuato pulsionale anarchico, non iscritto nel linguaggio, che resiste a ogni tentativo di governo fallico. Segue la critica al concetto di “personalità genitale” intesa come ideale normativo e un’introduzione al concetto, fondante la clinica delle nevrosi, di Rimozione. La concezione del “bambino-fallo”, oggetto atto a completare il godimento materno, risulta determinante, in senso preliminare, al successivo approfondimento delle psicosi, intese come evento che si instaura alla mancanza del significante del Nome-del-Padre. Non solo, la descrizione del caso del piccolo Hans proposta nel testo mostra come il sintomo fobico si costituisca ad “argine simbolico”, a super-investimento di significazione-separazione, a paradigma simbolico, a difesa di un godimento materno altrimenti soverchiante. Oltre a questo “bambino-oggetto” piccolo (a), atteso dal soggetto dell’inconscio materno come colui che potrà colmarne la mancanza, Recalcati descrive poi il “bambino-sintomo” della verità familiare, di coppia, e conclude ricordando ai Lettori le diverse specificità della funzione paterna e materna.

LA CLINICA DELLE PSICOSI

Recalcati introduce la clinica psicoanalitica delle psicosi descrivendo i tre movimenti teorici a cui Lacan ha dato corpo occupandosi, sin dalla sua tesi di laurea, di questi fenomeni.

Il primo movimento intende la follia come cifra umana per eccellenza, come atto estremo di libertà nei confronti della schiavitù imposta dal programma della Civiltà e dal linguaggio come struttura. E’ una prospettiva “attiva”, una scelta etica, una “decisione insondabile”.

Il secondo movimento è, viceversa, quello dell’incatenamento del soggetto al linguaggio, della sua prigionia in un linguaggio che non gli appartiene. Questo essere “più parlato che parlante” si manifesta in relazione a un eccesso di attività del registro immaginario rispetto a quello simbolico, contesto che rimanda alle “nevrosi narcisistiche” freudiane.

Il terzo movimento ha invece a che fare con l’in-operatività del significante del Nome-del-Padre, per cui il simbolico, escluso dal soggetto, ritorna persecutoriamente “al soggetto” dall’esterno come un evento reale. E’ su questa dinamica che si basa la luminosa teoria lacaniana sull’allucinazione, intesa appunto come fenomeno di “ritorno” ed esaustivamente descritta nel testo. Di altrettanto valore clinico è poi l’argomentazione circa lo scatenamento delle psicosi, il ruolo in tale evento del “terzo” come agente che scompagina la compensazione immaginaria del soggetto e lo confronta con quella mancanza che c’è da sempre. Il valore clinico sta, qui, nell’accurata descrizione delle condizioni pre-psicotiche, a rischio, le cui caratteristiche di irrigidimento sul piano immaginario ricordano, come citato dall’Autore, le “personalità come se” di Helen Deutsch. Conclude con il contributo di Joyce alla concettualizzazione del Sinthomo come alternativa al significante del Nome-del-Padre nella tenuta del nodo Borromeo.


I capitoli che seguono descrivono nel dettaglio le tre principali formazioni di adattamento psicotico. La paranoia, descritta con il complesso ed esaustivo caso di Aimée, la cui formula è “tutto è segno”. Segno della certezza che abita il paranoico, il cui Io è irrigidito, congelato al punto inabilitare ogni possibile dialettica con l’Altro. Nell’antidialettica della “totale non-credenza” della propria responsabilità, l’Io paranoico vive il luogo dell’Altro come il luogo del godimento più maligno, una forza distruttrice che “mi guarda”, che “mi vuole”. Nell’identificazione con questo luogo dell’Altro maligno il paranoico si fa persecutore, agisce questo godimento. In tal senso, la descrizione del caso delle sorelle Papin e del loro omicidio appare come un contributo fondamentale alla clinica psicoanalitica delle psicosi e, più in generale, alla comprensione della natura dei crimini più efferati.
La schizofrenia, descritta come una psicosi caratterizzata da un difetto nello stadio dello specchio: il soggetto schizofrenico non accede all’immaginario, non beneficia dell’Ideale dell’Io, non struttura un’immagine completa, unitaria, positiva del sé, il quale rimane “a brandelli” (le corps morcelé), totalmente in balia di una spinta pulsionale originaria destrutturante e ingovernabile.
Nel caso della melanconia, Recalcati riparte dovutamente da Freud e dal suo lavoro Lutto e Melanconia, dove quest’ultima è descritta come un lavoro di anti-lutto legato all’identificazione pervicace del soggetto all’oggetto perduto, del quale rivive, fantasmaticamente, la relazione. E’ il “trionfo dell’oggetto”: il melanconico si identifica massicciamente all’oggetto perduto, rifiuta la vita per consentire alla “Cosa materna” di essere piena, completa. Reificandosi, il soggetto diviene reale, e ne assume le proprietà. Reificazione e rifiuto della vita spiegano molti dei sintomi tipici della condizione melanconica, dal rifiuto del cibo alla cacosmia all’atto suicidario, il ritorno definitivo nel reale.

CONCLUSIONE

Cosa caratterizza l’approccio di Recalcati ed emerge prepotentemente in quest’Opera è senza dubbio il rigore con cui l’insegnamento lacaniano viene organizzato in rapporto alla Clinica. Questa tensione positiva (positivista?) a strutturare un corpus di sapere solidamente organizzato, linneano, esprime tutta l’influenza della pedagogia e dell’educativa sul pensiero dell’Autore, non casualmente concentrato in alcune sue opere proprio sul ruolo dell’erotica dell’insegnamento. Inoltre, implicitamente, questa tensione evoca atmosfere legate alla più classica tradizione psicoanalitica, rappresentata dal lavoro, sistematico, di Freud con il suo Progetto di un psicologia nonché, mi verrebbe da aggiungere, dalla Psicopatologia Generale di Jaspers.

In un tempo in cui la psichiatria è dominata dal discorso scientifico al punto da rischiare una nuova forma, tanto speciale quanto grigia e triste, di analfabetismo lessicale ed emotivo, appare utile trovare una qualche forma di stratagemma o di trucco del linguaggio con cui trasmettere il sapere psicoanalitico a chi si trova dentro tale discorso e vorrebbe, in una certa misura, “imparare una nuova lingua”, coerentemente con le possibilità concrete di approcciarsi a tale Lezione. Queste “possibilità concrete” (tempo a disposizione e letture accessibili sarebbero sufficienti) appaiono oggi come gli unici presupposti plausibili per colorare lo scientismo del mondo psichiatrico, tanto nel contesto della clinica quanto in quello della ricerca, dei colori della parola, delle meraviglie del linguaggio e dei suoi buchi.


Nel giugno 2013 Recalcati tenne una lezione su “Lacan e la clinica della Schizofrenia” presso l’Ateneo di Genova, ed io, in qualità di specializzando in Psichiatria al primo anno di formazione, vi partecipai insieme a gran parte dei miei colleghi:

Al termine della lezione lo sconcerto era palpabile. Formati come medici e giustamente usi al discorso scientifico, pochi tra noi si sarebbero aspettati di rinvenire, in una lezione di psicoanalisi lacaniana, elementi di concretezza semeiotica e clinica. Ricordo nel dettaglio il commento di una collega: “Finalmente, spiegata è tutta un’altra cosa!”. Il Lettore che non abbia ancora approfondito il testo originale di Lacan per mancanza di tempo o di altro genere di possibilità, o quello in tutto o in parte scettico ma comunque desideroso di approfondire questa riflessione, si troverà facilitato dall’approccio sistemico qui adottato e, alla fine del libro, potrebbe trovarsi a pronunciare una o entrambe le seguenti: “Why was I so stupid? Everything is self-evident”  e “Finalmente, spiegato è tutta  un’altra cosa”. Ritrovarsi poi a traslare, anche solo marginalmente, questa teoria nella clinica, sarebbe la gioia di Kurt Lewin, che affermava: “There is nothing so pratical as a good theory!”

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4 dicembre 2017

DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica

di Raffaele Avico

La delibera regionale 29 del settembre 2016, primariamente ideata per far fronte all’esigenza di un ridimensionamento in termini di spesa pubblica, e che impone perciò una revisione sostanziale della realtà psichiatrica regionale, ha suscitato perplessità tra gli operatori impegnati nel lavoro della Salute Mentale, in riferimento ad alcune questioni:

  • La delibera si pone come obiettivo principale un “riordino” e una riorganizzazione degli enti di erogazione di servizi psichiatrici nella Regione Piemonte, e si mostra a favore dei servizi “domiciliarizzati” (in questo senso, un servizio come lo IESA dell’AslTo3 -l’unico servizio citato per nome- ne risulta favorito: http://www.lastampa.it/2017/01/24/scienza/benessere/ospitare-un-malato-psichico-lui-torna-in-contatto-con-la-vita-la-famiglia-ottiene-mille-euro-K71KxdbtEjqycEyvySFqVI/pagina.html).

  • Domiciliare i servizi, portandoli “a casa” e “alle persone”, ha vantaggi sia economici (i pazienti domiciliarizzati costano meno) che socio-assistenziali; sulla scia di molteplici realtà europee (per esempio il servizio di welfare sanitario “polverizzato” sul territorio olandese), i servizi sanitari andranno nella direzione di una sempre maggiore capillarità sul territorio.

  • Il secondo obiettivo è costituito dall’esigenza di distribuire meglio i pazienti entro le strutture del territorio: è importante che un paziente in fase acuta venga ricoverato in una struttura adibita a tale scopo, e che poi venga dimesso; questo obiettivo origina da una lunga ricognizione e indagine (in appendice al testo della delibera) sulla tipologia di pazienti nelle diverse strutture, e dall’aver notato come i pazienti non sempre fossero “al loro posto” (per esempio pazienti acuti venivano trattenuti per troppo tempo dentro strutture deputate al solo periodo di crisi, di fatto creando confusione in termini di “chi deve fare cosa”).

  • Il messaggio generale è che “non arriveranno nuove risorse, occorre far funzionare meglio quello che già si ha”(questo in senso economico)

  • E’ stata creata una griglia di suddivisione delle strutture, al fine di meglio inserire i pazienti a seconda dei disturbi, con criteri specifici: questo per evitare, per esempio, che pazienti psichiatrici finiscano in una residenza per anziani (RSA).

  • A partire dall’emanazione della presente DGR, educatori e tecnici della riabilitazione psichiatrica dovranno possedere titolo di studio appropriato (non sarà più possibile quindi ri-convertire titoli “vecchi”, come potrà fare chi oggi lavora in struttura ed è assunto da almeno 2 anni)

  • Psicologi e laureati in scienze dell’educazione e della formazione potranno continuare a lavorare dove lavorano, purchè assunti da almeno 2 anni; dal momento dell’attuazione della presente DGR, potranno essere assunti rispettando un monte ore diverso e specificato in seguito. L’attuazione della DGR comporterà un aumento massivo delle ore erogate da parte di, in particolare, due sole tipologie di professionisti:

    a) educatori professionali

    b) tecnici della riabilitazione psichiatrica

  • Dal punto di vista delle strutture, la DGR configura due tipologie di intervento clinico: un intervento intensivo (legato a interventi più psichiatrico-infermieristici per pazienti in fase acuta, per esempio in crisi psicotica) e un intervento estensivo, per il quale è maggiormente rilevante l’aspetto di risocializzazione, rispetto a quello di riabilitazione.

  • Per le strutture a carattere intensivo, il monte ore totale settimanale prevederà:

    • Medico psichiatra: 38 ore a settimana;

    • Psicologo: 28 ore a settimana;

    • Capo sala: 20 ore a settimana;

    • Infermiere: 168 ore a settimana;

    • Pronta disponibilità infermieristica: 84 ore a settimana;

    • Educatore / Tecnico della riabilitazione psichiatrica: 160 ore a settimana;

    • Ausiliari (OSS): 168 ore a settimana.

  • Per le strutture a carattere estensivo invece, il monte ore totale prevede:

    • Medico psichiatra: 21 ore a settimana;

    • Psicologo: 15 ore a settimana;

    • Infermiere: 116 ore a settimana;

    • Pronta disponibilità infermieristica: 84 ore a settimana;

    • Educatore / Tecnico della riabilitazione psichiatrica: 168 ore a settimana;

    • Ausiliari (OSS): 145 ore a settimana

  • si riducono le rette giornaliere (con un massimo di 160€ al giorno), in funzione di un ridimensionamento di budget.

RIFLESSIONI

Come si nota dai quadri relativi al monte ore di ogni singolo professionista, pare che la DGR29 apra a un nuovo modo (che in realtà è vecchio) di fare psichiatria, aumentando l’apporto dei professionisti “sanitari” (tecnico della riabilitazione psichiatrica, OSS, infermiere), a scapito del personale specificatamente formato a offrire servizi/consulenze psicologiche

Cosa significa questo? Se immaginiamo un paziente con un disturbo di personalità grave, che entra in una struttura che lo accoglierà per un tempo sicuramente superiore a un anno, potremo figurarci che questo paziente accederà a un ventaglio di strumenti di cura nettamente inferiore a quello che, dal punto di vista clinico, potrebbe giovargli.

In ambito psicopatologico, gli interventi più efficaci e duraturi nel tempo si sono rivelati gli interventi multi – professionistici, con una struttura a rete. Tanto più il caso del singolo paziente è complesso e di difficile approccio, tanto più è richiesta un’equipe multi professionale che contrasti il sintomo psichico da più direzioni contemporaneamente. Questo vale in particolare nei casi poli-diagnostici, quadri clinici in cui coesistono molteplici disturbi(per esempio casi psico-traumatologici, casi borderline, casi di doppia-diagnosi, ecc.).

I fattori patogenetici dai quali si origina una sindrome psichiatrica/psicopatologica sono da ricercare in 3 ambiti differenti: l’ambito neuropsichiatrico, l’ambito cognitivo/psicologico, l’ambito relativo all’inserimento nella società/comunità di appartenenza. Un disturbo può originarsi in ognuno di questi ambiti, per poi estendersi agli altri territori. Chi abbia profonde difficoltà di inserimento sociale, può sviluppare sintomi psicopatologici di varia natura; chi abbia uno squilibrio transitorio in ambito neurobiologico (come succede nelle sindromi bipolari), può trovare grande difficoltà nell’inserirsi all’interno del contesto sociale.

Viene facile intuire come l’attuale DRG29 riporti la psichiatria pubblica a un modello maggiormente centrato sull’assistenza infermieristica coordinata dal personale medico, e come preveda il parziale sacrificio di alcuni altrettanto importanti strumenti nella lotta alla malattia mentale (gruppi terapeutici, psicoterapie strutturate, intensive e continuative, attività di riabilitazione basate sull’espressione creativa, possibilità di lavorare sulle “social skills”, percorsi di psicoanalisi): un passo indietro i cui effetti “concreti” andranno osservati nei prossimi anni, con l’adeguamento delle strutture regionali, costrette ad un’involuzione in termini di servizi erogati al paziente.

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2 dicembre 2017

PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

di Matteo Respino

CONTESTO

A partire dal “progetto di una psicologia” elaborato da Freud sino allo sviluppo di molti altri sistemi teorico-tecnici e clinici, gli ultimi 100 anni hanno visto lo sviluppo di una grandissima quantità di modelli su cui fondare diversi tipi di psicoterapie, ovvero diverse prassi volte alla cura della sofferenza mentale.

La domanda che ci poniamo oggi è quanto queste pratiche siano diverse l’una dall’altra e se queste differenze, in un certo senso, “facciano la differenza”.

Nel tempo molte psicoterapie (curiosamente non tutte) hanno mantenuto l’interesse, o l’ambizione, di dimostrare la loro utilità al di là delle impressioni o credenze soggettive, ossia di validarsi scientificamente, come ogni altra terapia medica. In fondo, questo è ciò quello che solitamente si propone chi lavora nell’ambito della cura: offrire terapie che funzionino. Senza aprire parentesi sulla natura della “domanda” posta dal paziente, che talora è esplicita (“vorrei non avere tale sintomo”) talora meno (pazienti che attraverso il sintomo esprimono una domanda più profonda, di cambiamento più radicale), penso che la spinta a voler dimostrare l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici sia un sano movimento scientifico di verità, sebbene talora difficile da perseguire. Perché difficile? Per diverse ragioni, soprattutto metodologiche, ad esempio:

  1. la durata degli interventi e la distanza temporale che si interpone tra la “somministrazione” delle sedute ed il “miglioramento” (cosa ci garantisce che nel frattempo non siano accaduti altri eventi, nella vita della persona, che ne hanno migliorato la condizione indipendentemente dal nostro intervento?).
  2. La complessità dell’intervento psicoterapeutico, che per quanto “semplificabile” rimane pur sempre una complessa interazione linguistica tra due esseri umani, certo non come somministrare un farmaco.
  3. L’impossibilità strutturale di effettuare studi “randomizzati in doppio cieco” (in cui sia paziente che terapeuta non sanno se il paziente sta assumendo un farmaco o un semplice placebo), il che riduce la “qualità” delle evidenze di efficacia in psicoterapia. Pur considerando tutti questi limiti, molte psicoterapie possiedono buone evidenze di efficacia.

Al di là della ricerca sull’efficacia, oggi sembra essere necessario approfondire la ricerca sul “processo”, ovvero su quali eventi specifici, o meccanismi, conducano al miglioramento del paziente. Altro modo di porre la domanda è, semplicemente, “come funziona la psicoterapia”? Più specificamente, a funzionare sono i “fattori comuni” a tutte le psicoterapie (ad esempio avere un buon rapporto con il terapeuta) o sono piuttosto “le tecniche specifiche” di questa o quell’altra psicoterapia? Recentemente la rivista Lancet Psychiatry ha proposto una review di Mulder e colleghi, dal titolo “Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box”, che cerca di fare il punto su questo tema. A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo.

L’ARTICOLO

Gli Autori esordiscono sottolineando un dato apparentemente contradditorio: esistono sia evidenze a supporto del fatto che le diverse psicoterapie funzionano “allo stesso modo” (qui gli Autori citano la famosa review di Luborski et al.), ovvero producono effetti di dimensioni del tutto paragonabili, sia evidenze di superiorità di certe psicoterapie specifiche su altre, quantomeno per certi disturbi (gli Autori citano Hoffman et al.). In sostanza, esistono dati a sufficienza per sostenere sia che le psicoterapie funzionano sulla base di “fattori comuni”, da cui ne deriverebbe grossomodo la medesima efficacia, sia che esistono differenze specifiche legate a fattori altrettanto specifici di trattamento. Non solo entrambe queste posizioni sembrano plausibili sul piano teorico, ma vi sono dati sufficienti a confermarle entrambe.

Come sottolineato nell’articolo, questa dicotomia di posizioni non è affatto nuova, anzi, si potrebbe citare un famoso dibattito tra Skinner e Rogers (padri, rispettivamente, del comportamentismo e della “terapia fondata sul cliente”) nel quale il primo sosteneva che specifiche componenti di apprendimento indicevano certi cambiamenti, mentre il secondo sosteneva che una relazione terapeutica genuina, sana, fosse “necessaria e sufficiente”. Tale dicotomia, alla luce delle evidenze a sostegno di entrambe le posizioni, ha ancora senso? Oppure, a beneficio dell’avanzamento di questo affascinante campo, è possibile (quanto necessario) superarla? Forse, in linea con le evidenze di cui sopra, le differenze tra queste posizioni sono meno rilevanti in concreto di quanto appaiano in teoria.

Gli Autori sottolineano come sembri esserci un riconoscimento reciproco, da parte dei teorici dei due poli, della rilevanza “dell’altra parte”. Sostenitori dei “fattori specifici” riconoscono l’importanza di fattori aspecifici quali il coinvolgimento del paziente, l’ottimismo e la collaborazione attiva ed esplicita al raggiungimento di obiettivi chiari e condivisi. Viceversa, teorici dei “fattori comuni” riconoscono come in alcuni contesti clinici molto specifici, come i disturbi d’ansia di stampo fobico, interventi per nulla “comuni”, ma piuttosto molto limitati/specifici, come l’esposizione del paziente allo stimolo fobico, siano necessari.

Inoltre, punto fondamentale, gli Autori sottolineano come i “fattori comuni” non siano più considerati come un contenitore generico: quando si parla di fattori comuni non si parla di un “va bene tutto”, ma piuttosto di interventi che per quanto “comuni” a diverse psicoterapie sono del tutto specifici nella loro funzione, e che potrebbero possedere un loro distinto potere curativo. In sostanza, il dibattito sulla dicotomia fattori comuni versus fattori specifici sembra essere oggi più che altro una distrazione rispetto alla “semplice” ed unica domanda che bisognerebbe porsi: “quali sono i meccanismi che producono un effetto in psicoterapia”?

Per promuovere la ricerca sul processo in psicoterapia in questa direzione, gli Autori sostengono sia necessario focalizzarsi su diversi approcci, attraverso i quali si potrà a) rispondere alla domanda di cui sopra e b) superare l’obsoleta dicotomia fattori comuni versus fattori specifici. Eccone alcuni:

  • Trattamenti transdiagnostici.
    Molte psicoterapie sono manualizzate allo scopo di trattare uno o più specifici disturbi mentali. I cosiddetti “fattori specifici” sarebbero procedure che si applicano nel contesto ristretto del trattamento di quel disturbo. In realtà, sia in ricerca che in clinica si assiste oggi ad una grande attenzione per le dimensioni “transdiagnostiche”. Ad esempio, l’incapacità di regolare le emozioni è un problema che si trova in alcune forme di depressione, ma anche in disturbi d’ansia ed in diversi disturbi di personalità. Lo sviluppo di trattamenti o fattori applicabili a diversi disturbi (poiché transdiagnostici) sembra essere una prima via per superare questa dicotomia.
  • Studi su “componenti terapeutiche”.
    In questa prospettiva lo scopo è chiaramente quello di studiare quanto le specifiche componenti di un trattamento psicoterapeutico contribuiscano, individualmente, all’effetto finale. Metaforicamente è come voler dividere un piatto nei suoi ingredienti originali e capire quanto un certo ingrediente contribuisca al risultato finale. Cosa fareste se voleste sperimentare qualcosa del genere su una vostra ricetta? Provereste a cucinare nuovamente quel piatto “togliendo” l’ingrediente che volete studiare! Similmente, questo ambito prevede dismantling designs, dove un trattamento psicoterapeutico è confrontato con lo stesso trattamento “meno una sua parte”, ed additive designs, dove un certo fattore viene aggiunto al trattamento “standard” per valutarne l’effetto individuale.
  • E-therapies.
    Si tratta di terapie somministrate online, senza l’interazione diretta con un curante. Pur potendo apparire come un’eresia inconcepibile, sembra che le e-therapies (per lo più training di tipo cognitivo-comportamentale) abbiano un effetto che è paragonabile a quello delle terapie standard, sebbene limitato ad alcuni disturbi (gli Autori citano la review di Hedman). Questo approccio è particolarmente prono ad un uso sperimentale volto a comprendere “quali meccanismi specifici producono quali cambiamenti”, potendo essere manipolato nel dettaglio “aggiungendo” o “togliendo” parti di training e riducendo l’influenza della relazione terapeutica (intesa, in tal contesto sperimentale, come fattore di confondimento).

Gli Autori sottolineano infine come vi sia necessità di aspirare ad una scienza clinica “accurata”. Questo significa non limitarsi a fare ricerca sull’efficacia di una certa psicoterapia, ma piuttosto cercare di integrare la ricerca sul processo (“cosa succede in psicoterapia?”; “quale aspetto specifico di questa terapia funziona? Quale no?”) con la ricerca di base (neurobiologica) sui determinanti del benessere e della malattia.

PROSPETTIVE

Le linee d’indirizzo oggi perseguibili per far avanzare questo il campo della ricerca in psicoterapia sembrano andare nella direzione di una comprensione più limpida dei “fattori” che producono un cambiamento, al di là del loro essere comuni a molte psicoterapie o meno.

Aggiungo che questo approccio proposto dagli Autori sembra andare di pari passo con quello di altri lavori, pubblicati di recente sulle più illustri riviste di psichiatria al mondo, che propongono lo sviluppo di psicoterapie molto “semplificate”, allo scopo di diffondere trattamenti che siano “semplici da apprendere e somministrare” e che mirino a trattare “chiare dimensioni comportamentali validate neurobiologicamente” (Alexopoulos et al., 2013).

BIBLIOGRAFIA

Alexopoulos et al. A model for streamlining psychotherapy in the RDoC era: the example of Engage. Molecular Psychiatry 2013; 19,14-19.

Hedman et al. Cognitive behavior therapy via the internet: a systematic review of applications, clinical efficacy and cost-effectiveness. Expert Rev Pharmacoecon Outcomes Res 2012; 12:745-64.

Hoffman et al. The efficacy of cognitive behavioral therapy: a review of meta-analysis. Cognit Ther Res 2012; 36:427-40.

Luborsky et al., The Dodo bird verdict is alive and well-mostly. Clin Psycho Sci Pract 2002; 9:2-12.

Mulder et al., 2017. Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box. Lancet Psychiatry 2017.

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2 dicembre 2017

IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI

 

di Raffaele Avico

Sui manuali diagnostici alla voce disturbi borderline di personalità compare un elenco di sintomi che tentano di circoscrivere una situazione clinica di indubbia complessità, caratterizzata da aspetti diversi:

  1. La predominanza della rabbia come emozione prevalente che regola e caratterizza la vita del paziente, rabbia che interviene a regolamentare l’andamento delle relazioni del soggetto, che si presentano come esplosive o bruciate (c’è una difficoltà a mantenere i rapporti in modo duraturo perchè è tanto forte l’intensità dell’investimento iniziale sull’altro, da rendere la relazione con un soggetto borderline troppo intensa e troppo carica di aspettative-emozioni in gioco: il tutto finisce spesso con una rottura, come un’onda anomala che ricade su se stessa)
  2. I manuali di psichiatria psicodinamica parlano del soggetto borderline facendo riferimento alconcetto di “posizione schizo-paranoide” di Melanie Klein, psicoanalista inglese che osservò in questi soggetti la tendenza a comportarsi in senso relazionale usando modalità primitive o infantili (non riuscendo a integrare le parti buone con le parti cattive all’interno dello stesso oggetto relazionale, e oscillando quindi tra emozioni di segno opposto, per esempio tra una forte passione e sentimenti di svalutazione e rabbia): Melanie Klein chiamava la posizione alternativa a quella schizo-paranoide “depressiva”, ovvero che consente di integrare i diversi aspetti di uno stesso oggetto in una visione più allargata e adulta tale da consentire l’instaurare di rapporti di durata maggiore
  3. I soggetti borderline paiono aver familiarià con tutto ciò che riguarda la gestione corporea dell’impulsività e l’uso del corpo a fini regolativi: c’è un ricadere della malattia sul corpo (autolesionismo, familiarità con le sostanze d’abuso e spesso dipendenze in corso -che peggiorano l’andamento irregolare del tono dell’umore-, problematiche di tipo alimentare, soprattutto per le donne)
  4. La difficoltà per un paziente borderline è cavalcare il tumulto emotivo senza procurarsi grandi sbalzi d’umore (passando per esempio da una gioia euforica a un senso di vacuità e depressione abissale): in questo senso l’uso di farmaci prescritti da uno psichiatra che conosca a fondo la situazione clinica del paziente può aiutare a regolare meglio un’emotività vissuta come troppo veemente e di cui si è in “balia”
  5. La gestione delle emozioni veementi procura la difficoltà di mantenere e alimentare relazioni durature, visto l’alternarsi di momenti di grande entusiasmo e sentimenti di svalutazione, rancore e distruttività
  6. Esiste un senso di “non-amabilità” (da intendersi nel senso di “percezione di non meritare affetto per quello che si è”) ontologica, radicata, che rappresenta il nucleo del problema e concorre a rendere complessa la gestione delle relazioni, che sembrano seguire sempre lo stesso schema: idealizzazione, rottura, distruttività, ripresa, rottura, etc. Consigliamo per approfondire questo punto il famoso articolo di Kernberg  Limitations to the capacity of love
  7. Spesso il ricorrere a comportamenti distruttivi è un tentativo di gestire le emozioni, sperimentate come troppo intense: “distruggere” un rapporto o provocare l’altro, portandolo a un contraddittorio acceso e violento, può rappresentare un paradossale tentativo di gestire e modulare emozioni intense che faticano a essere auto-gestite: prendendo a prestito la teoria di Freud, possiamo immaginare una quota di energia psichica in eccesso che in qualche modo deve essere smaltita/evacuata.

La psicologia del paziente con ddp Borderline ha contorni fumosi e poco chiari, questo ha portato e porta tutt’ora a un eccesso di diagnosi e al crearsi di una categoria “cestino”, che raccoglie cioè tutto quello che non si sa dove mettere altrove. Al di là delle difficoltà di diagnosi, il disturbo presenta come nucleo centrale la difficoltà nel gestire l’impulsività, le conseguenti difficoltà relazionali e l’emozione della rabbia mal-gestita come tratto distintivo di questo tipo di paziente.

In questo video ironico ma acuto, vengono approfondite alcune questioni inerenti il DPB attraverso le immagini:

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1 dicembre 2017

OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE

di Matteo Respino

Otto Kernberg.

New York Presbyterian Hospital, White Plains (NY). Weill Cornell Medicine, Department of Psychiatry.

Il Professor Otto Kernberg è uno dei più importanti psichiatri e psicoanalisti della nostra epoca, forse anche di quelle precedenti. È riuscito ad apportare contributi insuperati alla comprensione delle “organizzazioni patologiche di personalità”, alla teorizzazione delle relazioni oggettuali e in generale alla sistematizzazione della psicoanalisi contemporanea. Tutto ciò senza mai allontanarsi dal mondo reale dei pazienti, mantenendo un approccio alla teorizzazione sufficientemente pragmatico da poter essere effettivamente applicato in contesti reali, e senza mai provocare fratture con la psichiatria biologica o il mondo accademico. Nel corso della sua carriera è stato Presidente dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi e ancora oggi, all’età di 89 anni, pratica la psicoanalisi privatamente ed insegna psichiatria all’università Weill Cornell Medicine di New York, supervisionando la formazione dei giovani specializzandi.

Per questo insieme di ragioni indiscutibili, oltre ad elementi personali che mi rendono particolarmente interessato al suo lavoro, ho deciso di scrivere una serie di brevi pezzi che ne riassumano il pensiero, o quantomeno alcune sue parti, procedendo con una logica “dal generale al particolare”. Rigorosamente seguendo in nostro stile, questi pezzi saranno il riassunto, semplificato ed accessibile, di articoli scientifici o d’opinione pubblicati dallo stesso Kernberg su riviste scientifiche di alta qualità.

Se siete all’inizio della vostra formazione o semplicemente curiosi, questi pezzi faranno per voi. Per coloro invece già formati, un adeguato approfondimento sarà disponibile accedendo alla fonte diretta presente ai relativi link.

Cominciamo con il primo, tratto da qui.

Le componenti fondamentali del trattamento psicoanalitico secondo Otto Kernberg.

Nell’articolo “The four basic components of psychoanalytic technique and derived psychoanalytic psychotherapies”, pubblicato nel 2016 sulla rivista World Psychiatry, Kernberg sintetizza efficacemente gli elementi centrali che caratterizzano il trattamento psicoanalitico e le cosiddette psicoterapie “ad orientamento psicoanalitico”, distinguendole da altre forme di trattamento della sofferenza mentale. Quando qualcuno, ad un esame o in una discussione davanti a un bicchiere di vino, vi chiederà che differenza c’è tra la psicoanalisi e la psicoterapia in generale (domanda classica, prima o poi arriva sempre se studiate o lavorate nel contesto “psi”), potrete rispondere come segue, citando il maestro e il suo articolo del 2016. Seguendo una logica “dal generale al particolare”, pare sensato partire da qui.

In sostanza ciò che caratterizza il trattamento psicoanalitico si riassume in quattro elementi: interpretazione, analisi del transfert, neutralità tecnica e analisi del controtransfert.

  • L’interpretazione è la comunicazione verbale, da parte dell’analista, di ciò che l’analista ipotizza sia il conflitto inconscio che domina il funzionamento del paziente. Kernberg sottolinea come questa definizione, piuttosto generica, includa di fatto diversi tipi di intervento verbale/comunicativo. Ad esempio, forme di intervento ascrivibili al contesto “interpretativo” sono la clarification (in cui l’analista cerca di far luce, di mettere ordine, su quello che sta avvenendo nella mente del paziente a livello conscio) e la confrontation (il portare cautamente alla luce aspetti non-verbali del comportamento del paziente). Vi è poi ovviamente l’interpretazione vera e propria, ovvero la comunicazione di ciò che l’analista ritiene sia il significato inconscio ed unitario dell’insieme di esperienze, comportamenti e comunicazioni che paziente mette in atto.
  • Il transfert è la ripetizione inconscia, nel presente, di un conflitto passato. Kernberg sostiene che la sua analisi sia la fonte principale del “cambiamento” indotto dal trattamento psicoanalitico. Inoltre, l’Autore sottolinea come il transfert operi come una “resistenza” (ovviamente al cambiamento) nella forma di patterns stabili di difesa caratterologica. In tal senso, l’analisi del transfert e la sua interpretazione sono una via possibile alla modificazione del carattere.
  • Cosa si intende per neutralità tecnica? Trattasi della disposizione dell’analista ad approcciarsi al paziente, citando l’Autore, “con naturalezza e sincerità […] nel contesto di comportamenti socialmente appropriati, parte dei quali include che l’analista eviti di riferirsi o focalizzarsi sui propri interessi o problemi”. Kernberg, trattando questo punto, prende le distanze da un approccio “anonimo” sottolineando come sia inevitabile che alcuni elementi personali propri dell’analista emergano nel corso del trattamento, e come questi non siano un male tout-court, ma anzi possano essere a loro volta elementi di analisi del transfert nel contesto della diade paziente-terapeuta. Attenzione però! L’Autore sottolinea anche come le reazioni del paziente ai comportamenti dell’analista non vadano lette costantemente come “reazioni di transfert”!! Esistono infatti anche reazioni “fisiologiche” (realistic reactions) che vanno distinte dal transfert, ovvero reazioni emotive a fatti/contesti/situazioni reali in cui il paziente e/o l’analista si possono trovare.
  • Il controtransfert è oggi definito come un concetto piuttosto allargato: si tratta “semplicemente” dell’insieme delle reazioni emotive dell’analista “momento per momento”. Queste reazioni includono a) reazioni al transfert del paziente; b) reazioni alla realtà della vita del paziente (ad esempio, la compassione per una perdita reale che il paziente può subire); c) reazioni alla realtà della vita dell’analista stesso; d) infine (definizione più ristretta e classica) le reazioni transferali attivate nell’analista dai contenuti espressi dal paziente. In questo sensoi, Kernberg puntualizza come serie difficoltà caratterologiche dell’analista possano portare a “distorsioni croniche” del controtransfert, implicitamente sottolineando il noto fatto che un analista dovrebbe essere “sufficientemente sano”.

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28 novembre 2017

PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

di Matteo Respino

A partire dal “progetto di una psicologia” elaborato da Freud sino allo sviluppo di molti altri sistemi teorico-tecnici e clinici, gli ultimi 100 anni hanno visto lo sviluppo di una grandissima quantità di modelli su cui fondare diversi tipi di psicoterapie, ovvero diverse prassi volte alla cura della sofferenza mentale. La domanda che ci poniamo oggi è quanto queste pratiche siano diverse l’una dall’altra e se queste differenze, in un certo senso, “facciano la differenza”.

Nel tempo molte psicoterapie (curiosamente non tutte) hanno mantenuto l’interesse, o l’ambizione, di dimostrare la loro utilità al di là delle impressioni o credenze soggettive, ossia di validarsi scientificamente, come ogni altra terapia medica. In fondo, questo è ciò quello che solitamente si propone chi lavora nell’ambito della cura: offrire terapie che funzionino. Senza aprire parentesi sulla natura della “domanda” posta dal paziente, che talora è esplicita (“vorrei non avere tale sintomo”) talora meno (pazienti che attraverso il sintomo esprimono una domanda più profonda, di cambiamento più radicale), penso che la spinta a voler dimostrare l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici sia un sano movimento scientifico di verità, sebbene talora difficile da perseguire.

Perché difficile? Per diverse ragioni, soprattutto metodologiche, ad esempio

  • la durata degli interventi e la distanza temporale che si interpone tra la “somministrazione” delle sedute ed il “miglioramento” (cosa ci garantisce che nel frattempo non siano accaduti altri eventi, nella vita della persona, che ne hanno migliorato la condizione indipendentemente dal nostro intervento?).
  • La complessità dell’intervento psicoterapeutico, che per quanto “semplificabile” rimane pur sempre una complessa interazione linguistica tra due esseri umani, certo non come somministrare un farmaco.
  • L’impossibilità strutturale di effettuare studi “randomizzati in doppio cieco” (in cui sia paziente che terapeuta non sanno se il paziente sta assumendo un farmaco o un semplice placebo), il che riduce la “qualità” delle evidenze di efficacia in psicoterapia.

Pur considerando tutti questi limiti, molte psicoterapie possiedono buone evidenze di efficacia. Al di là della ricerca sull’efficacia, oggi sembra essere necessario approfondire la ricerca sul “processo”, ovvero su quali eventi specifici, o meccanismi, conducano al miglioramento del paziente. Altro modo di porre la domanda è, semplicemente, “come funziona la psicoterapia”?

Più specificamente, a funzionare sono i “fattori comuni” a tutte le psicoterapie (ad esempio avere un buon rapporto con il terapeuta) o sono piuttosto “le tecniche specifiche” di questa o quell’altra psicoterapia? Recentemente la rivista Lancet Psychiatry ha proposto una review di Mulder e colleghi, dal titolo “Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box”, che cerca di fare il punto su questo tema. A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28689019).

REPORT

Gli Autori esordiscono sottolineando un dato apparentemente contradditorio: esistono sia evidenze a supporto del fatto che le diverse psicoterapie funzionano “allo stesso modo” (qui gli Autori citano la famosa review di Luborski et al.), ovvero producono effetti di dimensioni del tutto paragonabili, sia evidenze di superiorità di certe psicoterapie specifiche su altre, quantomeno per certi disturbi (gli Autori citano Hoffman et al.). In sostanza, esistono dati a sufficienza per sostenere sia che le psicoterapie funzionano sulla base di “fattori comuni”, da cui ne deriverebbe grossomodo la medesima efficacia, sia che esistono differenze specifiche legate a fattori altrettanto specifici di trattamento. Non solo entrambe queste posizioni sembrano plausibili sul piano teorico, ma vi sono dati sufficienti a confermarle entrambe. Come sottolineato nell’articolo, questa dicotomia di posizioni non è affatto nuova, anzi, si potrebbe citare un famoso dibattito tra Skinner e Rogers (padri, rispettivamente, del comportamentismo e della “terapia fondata sul cliente”) nel quale il primo sosteneva che specifiche componenti di apprendimento indicevano certi cambiamenti, mentre il secondo sosteneva che una relazione terapeutica genuina, sana, fosse “necessaria e sufficiente”. Tale dicotomia, alla luce delle evidenze a sostegno di entrambe le posizioni, ha ancora senso? Oppure, a beneficio dell’avanzamento di questo affascinante campo, è possibile (quanto necessario) superarla? Forse, in linea con le evidenze di cui sopra, le differenze tra queste posizioni sono meno rilevanti in concreto di quanto appaiano in teoria.

Gli Autori sottolineano come sembri esserci un riconoscimento reciproco, da parte dei teorici dei due poli, della rilevanza “dell’altra parte”. Sostenitori dei “fattori specifici” riconoscono l’importanza di fattori aspecifici quali il coinvolgimento del paziente, l’ottimismo e la collaborazione attiva ed esplicita al raggiungimento di obiettivi chiari e condivisi. Viceversa, teorici dei “fattori comuni” riconoscono come in alcuni contesti clinici molto specifici, come i disturbi d’ansia di stampo fobico, interventi per nulla “comuni”, ma piuttosto molto limitati/specifici, come l’esposizione del paziente allo stimolo fobico, siano necessari. Inoltre, punto fondamentale, gli Autori sottolineano come i “fattori comuni” non siano più considerati come un contenitore generico: quando si parla di fattori comuni non si parla di un “va bene tutto”, ma piuttosto di interventi che per quanto “comuni” a diverse psicoterapie sono del tutto specifici nella loro funzione, e che potrebbero possedere un loro distinto potere curativo. In sostanza, il dibattito sulla dicotomia fattori comuni versus fattori specifici sembra essere oggi più che altro una distrazione rispetto alla “semplice” ed unica domanda che bisognerebbe porsi: “quali sono i meccanismi che producono un effetto in psicoterapia”?

Per promuovere la ricerca sul processo in psicoterapia in questa direzione, gli Autori sostengono sia necessario focalizzarsi su diversi approcci, attraverso i quali si potrà a) rispondere alla domanda di cui sopra e b) superare l’obsoleta dicotomia fattori comuni versus fattori specifici. Eccone alcuni:

  • Trattamenti transdiagnostici
    Molte psicoterapie sono manualizzate allo scopo di trattare uno o più specifici disturbi mentali. I cosiddetti “fattori specifici” sarebbero procedure che si applicano nel contesto ristretto del trattamento di quel disturbo. In realtà, sia in ricerca che in clinica si assiste oggi ad una grande attenzione per le dimensioni “transdiagnostiche”. Ad esempio, l’incapacità di regolare le emozioni è un problema che si trova in alcune forme di depressione, ma anche in disturbi d’ansia ed in diversi disturbi di personalità. Lo sviluppo di trattamenti o fattori applicabili a diversi disturbi (poiché transdiagnostici) sembra essere una prima via per superare questa dicotomia
  • Studi su “componenti terapeutiche”
    In questa prospettiva lo scopo è chiaramente quello di studiare quanto le specifiche componenti di un trattamento psicoterapeutico contribuiscano, individualmente, all’effetto finale. Metaforicamente è come voler dividere un piatto nei suoi ingredienti originali e capire quanto un certo ingrediente contribuisca al risultato finale. Cosa fareste se voleste sperimentare qualcosa del genere su una vostra ricetta? Provereste a cucinare nuovamente quel piatto “togliendo” l’ingrediente che volete studiare! Similmente, questo ambito prevede dismantling designs, dove un trattamento psicoterapeutico è confrontato con lo stesso trattamento “meno una sua parte”, ed additive designs, dove un certo fattore viene aggiunto al trattamento “standard” per valutarne l’effetto individuale
  • E-therapies
    Si tratta di terapie somministrate online, senza l’interazione diretta con un curante. Pur potendo apparire come un’eresia inconcepibile, sembra che le e-therapies (per lo più training di tipo cognitivo-comportamentale) abbiano un effetto che è paragonabile a quello delle terapie standard, sebbene limitato ad alcuni disturbi (gli Autori citano la review di Hedman). Questo approccio è particolarmente prono ad un uso sperimentale volto a comprendere “quali meccanismi specifici producono quali cambiamenti”, potendo essere manipolato nel dettaglio “aggiungendo” o “togliendo” parti di training e riducendo l’influenza della relazione terapeutica (intesa, in tal contesto sperimentale, come fattore di confondimento).

Gli Autori sottolineano infine come vi sia necessità di aspirare ad una scienza clinica “accurata”. Questo significa non limitarsi a fare ricerca sull’efficacia di una certa psicoterapia, ma piuttosto cercare di integrare la ricerca sul processo (“cosa succede in psicoterapia?”; “quale aspetto specifico di questa terapia funziona? Quale no?”) con la ricerca di base (neurobiologica) sui determinanti del benessere e della malattia.

PROSPETTIVE

Le linee d’indirizzo oggi perseguibili per far avanzare questo il campo della ricerca in psicoterapia sembrano andare nella direzione di una comprensione più limpida dei “fattori” che producono un cambiamento, al di là del loro essere comuni a molte psicoterapie o meno. Aggiungo che questo approccio proposto dagli Autori sembra andare di pari passo con quello di altri lavori, pubblicati di recente sulle più illustri riviste di psichiatria al mondo, che propongono lo sviluppo di psicoterapie molto “semplificate”, allo scopo di diffondere trattamenti che siano “semplici da apprendere e somministrare” e che mirino a trattare “chiare dimensioni comportamentali validate neurobiologicamente” (Alexopoulos et al., 2013).

BIBLIOGRAFIA

Alexopoulos et al. A model for streamlining psychotherapy in the RDoC era: the example of Engage. Molecular Psychiatry 2013; 19,14-19.

Hedman et al. Cognitive behavior therapy via the internet: a systematic review of applications, clinical efficacy and cost-effectiveness. Expert Rev Pharmacoecon Outcomes Res 2012; 12:745-64.

Hoffman et al. The efficacy of cognitive behavioral therapy: a review of meta-analysis. Cognit Ther Res 2012; 36:427-40.

Luborsky et al., The Dodo bird verdict is alive and well-mostly. Clin Psycho Sci Pract 2002; 9:2-12.

Mulder et al., 2017. Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box. Lancet Psychiatry 2017.

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A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicologo psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino
  • Matteo Respino, medico psichiatra, New York
  • Luca Proietti, medico specializzando in psichiatria e in psicoterapia strategica, Genova
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