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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

7 marzo 2021

VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA

di Raffaele Avico

Con questa intervista a Caterina Bossa (link alla biografia) proseguiamo la serie di video brevi a tema trauma e dissociazione per Il Foglio Psichiatrico.

La precedente intervista era con Costanzo Frau (per ora solo accessibile tramite area Patreon –area che verrà prossimamente ri-progettata con differenti costi e altre modalità di abbonamento).

Le domande che vengono fatte agli intervistati nell’ambito di questa serie sono 3:

  • qual è la tua definizione di trauma e la tua idea di dissociazione?
  • come lavori con il trauma e quali sono le tue migliori prassi cliniche?
  • qual è il riferimento per te centrale nel lavoro clinico, o la teoria a cui più ti ispiri?

L’obiettivo è approfondire la natura teorica del concetto “trauma”, e osservare da vicino il lavoro di una persona esperta sul tema.

Qui il video (di libera fruizione):


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

Article by admin / Generale / psichiatria, psicologia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD

25 febbraio 2021

“SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA

di Raffaele Avico

The Guardian ha definito il progetto Shared Lives, presente su tutto il territorio del Regno Unito, come una delle 10 pratiche da adottare in futuro per cambiare il mondo in meglio.

Il progetto conta qualcosa come 12000 persone coinvolte, in altrettante famiglie. Consiste in una forma di accoglienza famigliare  -pagata- rivolta a persone con difficoltà di varia natura, dalla malattia mentale alla disabilità psichica, ed è usufruito anche da persone anziane.

L’idea è che all’interno di famiglie che si rendano disponibili in termini di tempo e spazio (per esempio offendo una camera vuota di casa propria), vengano inseriti ospiti che trascorreranno un tempo definito all’interno di un ambiente accogliente e differente dalle normali strutture di accoglienza presenti sul territorio.

Negli ultimi 20 anni progetti di questo tipo sono nati in molti paesi europei (partendo dalla cittadina di Geel in Belgio, poi in Francia e Germania) arrivando anche in Italia nella forma del piemontese IESA.

Shared Lives è una delle risposte offerte dalla sharing economy. Dove mancano le risorse, si organizzano forme di mutuo aiuto, a volte dando vita a servizi che rappresentano balzi in avanti in termini di pratiche sociali. Come succede anche per il nostrano IESA (attivo sul territorio piemontese da fine anni ’90), si tratta di produrre un’alternativa valida alla pratica del ricovero cronico e della lungodegenza in strutture protette. Le strutture, inoltre, sono genericamente estremamente dispendiose sia quando vi si acceda come privati (con rette che arrivano ai 6000€ al mese) che in termini di costi statali (la retta rimane uguale, ma viene pagata dall’Asl).

Progetti come Shared Lives riducono di molto i costi statali legati all’amministrazione clinica di pazienti con problematiche croniche, contemporaneamente facendo un atto di profonda intelligenza sociale. Immaginiamo per esempio il caso di un ragazzo con problematiche psichiche ospitato da una donna sola, come in questo breve video inglese. Come si osserva nel video, la “vita condivisa”, in questo caso, prosegue da 20 anni, con vantaggi reciproci per entrambi.

Nel video è posta anche la questione della “purezza” dell’intento della signora ospitante, che di fatto riceve settimanalmente dai 200£ ai 400£ per la gestione dell’ospite.

Su questo punto anche in Italia ci si imbatte in pareri contrari, che interpretano l’atto di ospitare come un gesto fatto esclusivamente a fini economici. L’esperienza dei nostri operatori IESA, di fatto, ha osservato il contrario, con convivenze armoniche che trascendono dalle mere questioni di denaro. Il fatto che il servizio venga pagato, è un normale incentivo ad attivare la presa in carico e a riconoscerne il valore, a vantaggio della famiglia, dell’ospitato e anche della struttura sanitaria in sé, enormemente sgravata dal punto di vista economico (un ospite IESA costa allo Stato qualcosa in più di 1000 euro, quando se lo stesso fosse residente in una struttura protetta, la sua permanenza potrebbe arrivare a costare anche 100/150€ al giorno).

I NUMERI NEL REGNO UNITO

The Guardian ha quindi eletto Shared Lives e il modello di inserimento “famigliare”, ottima pratica clinica che in futuro potrebbe allargarsi e diventare un modello ricorrente e diffuso.

Nel Regno Unito si conta, per il continente europeo, il maggior successo di questo modello, con 12.000 casi attivi e un incremento del 27% di casi negli ultimi due anni (secondo il report del 2016) e un taglio del 4% di casi inseriti in strutture protette. L’obiettivo, stando a questo report, è di raddoppiare la dimensione di Shared Lives nel giro di pochi anni, estendendo la pratica anche ai casi di persone anziane sole che preferiscano evitare l’inserimento all’interno di strutture chiuse.

Il servizio, sul territorio del Regno Unito, prevede l’inserimento di persone con problematiche diverse, compresa la macro-categoria dei disturbi dell’apprendimento (entro questa categoria il maggior numero di casi inseriti), la demenza e ovviamente la malattia mentale. Il progetto, alla cui guida c’è Alex Fox (qui il suo blog), nel caso -probabile- di un’espansione avente lo stesso tenore di crescita, permetterà di “salvare” una cifra equivalente a mezzo miliardo di sterline sul territorio del Regno Unito, nel giro di 4 anni.

NUOVE FORME DI INSERIMENTO

Tornando al territorio italiano e al citato progetto IESA, il mantenimento di un ospite all’interno di una famiglia ospitante costa allo Stato fino ai 1050€ al mese, con un risparmio di migliaia di euro al mese.

Queste nuove forme di politica sanitaria, quando possibili, rappresentano esperimenti di avanguardia in termini di de-isituzionalizzazione del paziente, non più costretto a forme nascoste di segregazione e lungodegenza, sia nel caso della malattia mentale che nei casi di disabilità psichica o legata all’età. Oltre a essere buona pratica clinica (si offre alla persona una reale possibilità di ricollocamento e un ambiente meno medicalizzato e freddo), presenta indiscussi vantaggi in termini economici, nell’ottica di creare migliori servizi usando le risorse del territorio, con costi minori.

Abbiamo altrove già scritto su questo tipo di reinserimento di pazienti psichiatrici.

Qui i link agli altri articoli:

  1. IESA su Psicologia Fenomenologica
  2. una mostra fotografica organizzata a Collegno sullo IESA
  3. Intervista scritta a Gianfranco Aluffi (responsabile IESA Collegno)
  4. Intervista video Gianfranco Aluffi

Article by admin / Generale / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicotraumatologia, raffaeleavico

15 febbraio 2021

FLOW: una definizione

di Raffaele Avico

In ambito di psicologia dello sport, ma non solo, un particolare concetto merita di essere approfondito, soprattutto vista la tendenza attuale alla dispersione dell’attenzione e il successo che il concetto di “multitasking” riscuote: l’esperienza di flow, o “flusso ottimale”.

Lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi, fu il primo a teorizzare questo stato mentale o posizione della mente, impegnata e assorbita nell’eseguire una serie di operazioni in modo sequenziale, una dopo l’altra, come appunto in un flusso.

Csikszentmihalyi ha fatto del flow l’oggetto principale delle sue ricerche inerenti la psicologia generale.

Lo psicologo definisce il flow come uno stato di assorbimento totale della mente in una serie di operazioni che sono una collegata all’altra: queste azioni sono svolte a una velocità sufficiente a far sì che la mente sia costretta a prestare attenzione all’atto eseguito, ma non così velocemente da frustrarla.

In ambito sportivo immaginiamo una sequenza di esercizi che si susseguano con la giusta velocità tale da necessitare un’attenzione completamente assorbita dal momento presente.

Esistono anche altri ambiti in cui può essere ricercato il flow: l’ambito dell’artigianato in tutte le sue forme o l’ambito musicale. Per fare un esempio, una scala può essere suonata sul manico di una chitarra a una velocità tale da non procurare ansia nel cercare “di “stare dietro” alla velocità di esecuzione, ma con sufficiente rapidità da impedire che la mente si distragga e “si allontani” durante l’esecuzione.

In questo modo, seguendo il flow, entriamo in uno stato mentale simil-alterato (lo psicologo lo paragona a uno stato di estasi, ovvero -come l’etimo del termine suggerisce- di entrata in una realtà “differente”), dato che l’attenzione e la nostra intera coscienza divengono l’atto stesso, incarnato durante il movimento. In quel momento, Csikszentmihalyi spiega, noi diveniamo quel gesto, la nostra intera esistenza si concentra in quel momento.

Lo psicologo, inoltre, sottolinea come per elicitare lo stato di flow, due condizioni possano favorire “innesco”: il fare qualcosa che si ama (il lavoro, un atto creativo, etc.) e il portare la mente in uno stato, come si diceva, di “tensione positiva”, ovvero di arousal lievemente alterato così da far convergere l’attenzione in quel solo gesto (come quando ci si sente coinvolti in una “sfida” e ci si sente sotto pressione).

MINDFULNESS E FLOW

Il successo che le pratiche di mindfulness hanno riscosso negli ultimi anni, testimonia la necessità e la voglia di molti di tornare al “mono-tasking”, di fare una cosa alla volta, con più calma e assorbimento.

Il flow è un esempio di pratica mindful dato che conduce a un’esperienza di mente “piena” e chiarificata, totalmente concentrata nel momento presente. Eseguire il flow, entrare nel flow, ha la stessa funzione ansiolitica di una pratica meditativa, poiché l’attenzione è allo stesso modo incatenata al momento presente. La differenza è che si sta svolgendo una sequenza di azioni.

Interessante in questo senso approfondire il concetto di craftfulness.

Qui il TED talk in cui Mihaly Csikszentmihalyi parla in modo molto chiaro dei suoi studi e dei suoi propositi di ricerca:


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8 febbraio 2021

NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD)

di Marco Colamartino

La neurobiologia del PTSD è un argomento tutt’oggi in fase di studio e di approfondimento in quanto non sono stati ancora compresi chiaramente i meccanismi che collegano l’esposizione ad un evento traumatico e le conseguenze neurobiologiche sottostanti.

La ricerca oggi ci suggerisce però che la neurobiologia del PTSD è sicuramente multifattoriale e legata a fattori evoluzionistici; e, seppur ancora in fase di studio, si può andare a delineare uno schema generale di quelli che sono i principali meccanismi neurobiologici alterati dall’esposizione all’evento traumatico. I principali meccanismi sono legati a:

  • Fattori endocrini
  • Catecolamine
  • Serotonina
  • GABA
  • Neuropeptide Y

Per “fattori endocrini” intendiamo il coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA – Hypothalamic Pituitary-Adrenal axis) che solitamente risponde a diversi fattori stressanti.

Durante una condizione di stress, l’ipotalamo (in particolar modo il nucleo ipotalamico ventricolare, PVN) produce un ormone, la corticotropina (CRH); questa stimola l’azione dell’ipofisi anteriore che risponderà producendo l’adrenocorticotropina (ACTH). L’adrenocorticotropina infine stimolerà il rilascio di cortisolo (ormone glucocorticoide) legandosi a recettori ad hoc posti sulle ghiandole surrenali. In seguito, il cortisolo prodotto si legherà a recettori specifici in grado di generare una cascata di modificazioni biochimiche nell’organismo. I recettori per i glucocorticoidi sono posti praticamente in ogni parte del cervello e hanno l’importantissimo ruolo di stimolare o sopprimere la risposta di un soggetto ad un evento, o prepararlo a rispondere a stimoli successivi.

Durante l’esposizione ad uno stress (soprattutto cronico) l’asse HPA risponde con una produzione alterata e continua di glucocorticoidi. Diversi studi dimostrano che alti livelli di glucocorticoidi riducono il funzionamento dei neuroni ippocampali e corticali, producendo effetti negativi anche sul sistema immunitario; oltre questo, iperattivano i neuroni dell’amigdala e del tronco encefalico (Arborelius L. et al, 1999; Nestler EJ. et al, 2002).

Il processo appena descritto viene alterato esponendo il soggetto a traumi particolarmente importanti e nel PSTD. Infatti, studi effettuati su pazienti abusati (Yehuda R., 2006) hanno osservato una diminuzione della concentrazione, nel sangue e nelle urine, del cortisolo rispetto a soggetti sani. L’abbassamento della concentrazione di cortisolo in questi soggetti può essere dovuto al fatto che l’HPA diventi più sensibile ad un feedback negativo; tale spiegazione è supportata dal fatto che, in questi pazienti, è stata trovato un aumento consistente dei recettori per i glucocorticoidi (Yehuda R., 2006). La diminuita produzione basale di cortisolo porterebbe, inoltre, questi soggetti ad avere delle risposte maladattative a stimoli stressanti sia cronici che acuti.

Il fatto che l’HPA sia uno dei meccanismi neuroendocrini colpiti dall’esposizione ad un evento traumatico ci porta a considerare che un soggetto che presenta di per sé bassi livelli di cortisolo, potrebbe essere più suscettibile ad un evento traumatico e quindi allo sviluppo del PTSD (Resnick HS. et al, 1995).

L’importanza del coinvolgimento dell’HPA è supportata dal fatto che l’utilizzo di idrocortisone è efficace nel trattamento sintomatologico di pazienti con PSTD (l’idrocortisone stimola il normale cortisolo circadiano).

Le catecolamine sono una famiglia di neurotrasmettitori che includono la dopamina (DA) e la noradrenalina (NE).

Misurazioni dei livelli di metaboliti dopaminergici nelle urine in soggetti con PSTD hanno dimostrato un aumento dei livelli di dopamina in questi pazienti. I meccanismi sono ancora oggi in fase di approfondimento, ma è probabile che la disregolazione dell’asse HPA come sopra descritto possa esserne una delle cause; infatti, in situazioni stressanti, il rilascio dopaminergico viene molto influenzato dall’attività dell’asse HPA.

La noradrenalina è uno dei neurotrasmettitori più coinvolti nelle risposte allo stress. La maggior parte dei neuroni noradrenergici è presente nel Locus Ceruleus e da qui proiettano praticamente a quasi tutto il cervello (principalmente corteccia prefrontale, amigdala, ippocampo, ipotalamo). Inoltre, è nota l’esistenza di un circuito che connette amigdala-ipotalamo e Locus Ceruleus nel quale il CRH e la NE sono coinvolte nell’aumentare il condizionamento alla paura, la codifica dei ricordi emotivi, l’arousal e la vigilanza. Questo circuito viene solitamente influenzato dai glucocorticoidi. E’ noto anche che la NE insieme all’adrenalina sia uno dei principali neurotrasmettitori responsabili dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, che è proprio uno dei principali sistemi coinvolti nei pazienti con PSTD. Infatti, soggetti traumatizzati manifestano una sostenuta iperattività del sistema nervoso simpatico autonomo, mostrando elevata frequenza cardiaca, pressione sanguigna e conduttanza cutanea; inoltre, questi soggetti hanno un’elevata presenza di metaboliti noradrenergici presenti nelle urine.

Soffermandoci per un attimo sulla farmacologia, possiamo aggiungere che somministrando yohimbina (agonista di uno dei recettori noradrenergici, α2) i soggetti con PSTD mostrano un’esasperazione della sintomatologia, soprattutto delle risposte autonome e dei flashback (Southwick SM. et al, 1999); viceversa, somministrando antagonisti noradrenergici, la gravità dei sintomi e la reattività al trauma diminuisce drasticamente (Pitman RK. et al, 2002).

La serotonina (5HT) è un neurotrasmettitore monoaminergico. I neuroni serotoninergici hanno origine nei nuclei del Raphe e proiettano in diverse regioni cerebrali, quali l’amigdala, lo striato, l’ippocampo, l’ipotalamo e la corteccia prefrontale. La serotonina regola solitamente funzioni importanti come il sonno, l’appetito, il comportamento sessuale, l’aggressione/impulsività, le funzioni motorie. Studi effettuati su modelli murini hanno dimostrato che l’esposizione cronica ad uno stimolo stressante aumenta la produzione di specifici recettori serotoninergici (chiamati 5HT1A) che amplificano gli effetti ansiogeni a lungo termine.

La serotonina interagisce anche con il CRH e la NE nel coordinare le risposte affettive e quelle di stress (Vermetten E. et al, 2002; Ressler K. et al, 2000).

Anche se attualmente il legame tra il sistema serotoninergico e il PSTD non è ancora del tutto chiaro, è la farmacologia a darci prove più concrete. Non solo gli SSRI (antidepressivi che agiscono inibendo il reuptake serotoninergico) hanno buoni effetti terapeutici sui pazienti con PSTD, ma soggetti che hanno assunto droghe agenti sul sistema serotoninergico come l’MDMA (chiama più comunemente “Ecstasy”) hanno avuto miglioramenti terapeutici sostanziali nella sintomatologia del PSTD (Bonne O. et al, 2005)

Il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio cerebrale ed ha effetti inibitori diretti anche sul circuito CRH/NE di cui abbiamo parlato sopra. Un particolare recettore del neurotrasmettitore GABA, il GABAA, si accoppia ai recettori benzodiazepinici che hanno la funzione di potenziare l’effetto inibitorio del GABA. Stress molto elevati o traumi possono alterare il complesso recettoriale GABAA – benzodiazepine. Studi di neuroimmagine (PET) hanno osservato che i pazienti con PSTD mostrano effettivamente questa alterazione e una diminuzione sostanziale dei recettori benzodiazepinici accoppiati al GABAA nella corteccia prefrontale, talamo e ippocampo (Bremner JD. et al, 2000; Geuze E. et al, 2008).

Passiamo ora a discutere sull’ultimo aspetto neurobiologico collegato allo sviluppo del PSTD: il neuropeptide Y. Il neuropeptide Y (NPY) è un polipeptide abbastanza diffuso nel sistema nervoso centrale e modula diverse azioni (come l’appetito, la vasocostrizione) interagendo spesso con i neuroni noradrenergici. Infatti, il NPY inibisce il circuito CRH/NE coinvolto nello stress e nella paura condizionata e riduce il rilascio noradrenergico dal sistema nervoso simpatico. E’ stato osservato che pazienti con PSTD hanno un bassissimo livello plasmatico di NPY (Rasmusson AM. et al, 2000) e che soggetti che presentano elevati livelli basali di NPY sembrano avere una maggiore resilienza al PSTD rispetto agli altri (Yehuda R., 2006).

CONCLUSIONI

Concludendo, possiamo dire che le alterazioni biologiche che colpiscono i pazienti con PSTD sono molte e probabilmente tutte connesse l’una con l’altra.

La disregolazione complessiva di molti sistemi biologici è probabilmente dovuta a una serie di risposte messe in atto con lo scopo di adattarsi allo stimolo traumatico ma che alterano definitivamente un equilibrio biologico.

Nella costellazione di alterazioni biologiche, emerge sicuramente quella del cortisolo, che sembra essere uno dei meccanismi chiave coinvolti nella comparsa della sintomatologia del PSTD. Questa alterazione, insieme a tutte le altre, (come abbiamo visto) porta a modifiche strutturali di varie aree cerebrali (come l’ippocampo o l’amigdala) che provocano a loro volta la cascata di sintomi tipici del PSTD (ipervigilanza, iperattivazione, associazioni di paura, flashback).

Gli studi futuri dovranno concentrarsi sul chiarificare e approfondire tutti i meccanismi biologici coinvolti in questo disturbo, con l’obiettivo di trovare una cura definitiva che possa diminuire (o risolvere) la sintomatologia dei pazienti con PSTD e che abbia effetti positivi sulla qualità della loro vita.

BIBLIOGRAFIA

  1. Arborelius L, Owens MJ, Plotsky PM, Nemeroff CB. The role of corticotropin-releasing factor in depression and anxiety disorders. J Endocrinol. 1999;160:1-12.
  2. Bonne O, Bain E, Neumeister A, et al. No change in serotonin type 1A receptor binding in patients with posttraumatic stress disorder. Am J Psychiatry. 2005;162:383-385.
  3. Bremner JD, Innis RB, Southwick SM, Staib L, Zoghbi S, Charney DS. Decreased benzodiazepine receptor binding in prefrontal cortex in combatrelated posttraumatic stress disorder. Am J Psychiatry. 2000;157:1120-1126.
  4. Geuze E, van Berckel BN, Lammertsma AA, et al. Reduced GABAA benzodiazepine receptor binding in veterans with post-traumatic stress disorder. Mol Psychiatry. 2008;13:74-83.
  5. Nestler EJ, Barrot M, DiLeone RJ, Eisch AJ, Gold SJ, Monteggia LM. Neurobiology of depression. Neuron. 2002;34:13-25.
  6. Pitman RK, Sanders KM, Zusman RM, et al. Pilot study of secondary prevention of posttraumatic stress disorder with propranolol. Biol Psychiatry. 2002;51:189-192.
  7. Rasmusson AM, Hauger RL, Morgan CA, Bremner JD, Charney DS, Southwick SM. Low baseline and yohimbine-stimulated plasma neuropeptide Y (NPY) levels in combat-related PTSD. Biol Psychiatry. 2000;47:526-539.
  8. Resnick HS, Yehuda R, Pitman RK, Foy DW. Effect of previous trauma on acute plasma cortisol level following rape. Am J Psychiatry. 1995;152:1675-1677.
  9. Ressler K, Nemeroff CB. Role of serotonergic and noradrenergic systems in the pathophysiology of depression and anxiety disorders. Depress Anxiety. 2000;12:2-19.
  10. Southwick SM, Bremner JD, Rasmusson A, Morgan CA 3rd, Arnsten A, Charney DS. Role of norepinephrine in the pathophysiology and treatment of posttraumatic stress disorder. Biol Psychiatry. 1999;46:1192-1204.
  11. Vermetten E, Bremner JD. Circuits and systems in stress. II. Applications to neurobiology and treatment in posttraumatic stress disorder. Depress Anxiety. 2002;16:14-38.
  12. Yehuda R. Advances in understanding neuroendocrine alterations in PTSD and their therapeutic implications. Ann N Y Acad Sci. 2006;1071:137-166.

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3 febbraio 2021

PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI

di Raffaele Avico

Abbiamo nella prima parte di questo articolo cercato di approfondire alcuni aspetti psicologici della carcerazione prendendo spunto dal sito, molto ricco, ristretti.it

Sempre su questo sito troviamo delle tesi, pubblicate intere, svolte da studenti o studiosi di diritto, psicologia, sociologia e altre discipline, a proposito della vita in carcere e dei suoi risvolti sulla psiche e le relazioni.

Tra queste troviamo una tesi in sociologia del Diritto scritta da Carmelo Musumeci, egli stesso incarcerato a vita, dal titolo “Vivere l’ergastolo“.

Musumeci scrive:

“La pena dell‘ergastolo non è un deterrente, non migliora l’uomo, non ha niente di ragionevole e istituzionalizza la vendetta attraverso la sofferenza, rispondendo alla violenza criminale con la violenza legale”

Il suo proposito è indagare il vissuto dei carcerati “fine pena mai”. In questo lavoro si propone di eseguire un’indagine allargata su alcuni aspetti della vita da ergastolano, attraverso alcune domande mirate da far rispondere a più persone possibile.

La tesi è di estremo interesse perchè ci consente di gettare uno sguardo diretto sull’esperienza portata da un campione di individui -suddivisi in questo modo, su più carceri: Opera (Milano) 1 questionario, Novara 1, Prato 2, Sollicciano (Firenze) 1, Livorno 4, Volterra 1, Fossombrone 10, Rebibbia (Roma) 3, Sulmona 4, L‘Aquila 1, Carinola 8, Melfi 1, Palmi 1, Trapani 1, Bicocca (Catania) 1, Ucciardone (Palermo) 1, Trapani 1, Nuoro 6.

Ecco un estratto dal lavoro.

A domanda fatta (in grassetto) si susseguono le risposte date dai diversi intervistati (indicati con Q46, Q35, etc.), in corsivo.

  1. La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere, a tuo parere, ti ha cambiato in meglio o in peggio?
  • Q46 “La sofferenza dell’ergastolo è qualcosa di davvero indescrivibile, ti stordisce, ti lascia il segno per tutta la vita, stravolge la tua esistenza a tal punto che non sai se è stato un cambiamento peggiore o migliore, solo l’esperienza del carcere ti lascia capire il tuo cambiamento”.
  • Q16 “La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere non mi hanno certo cambiato in meglio, con la soppressione non si migliorano le persone; quello che mi ha totalmente cambiato è stato l’amore della mia famiglia che mi ha dimostrato in questo periodo particolare”.
  • Q10 “Come è noto la sofferenza fa crescere interiormente, ti fa avere un concetto del mondo diverso rispetto a quando la tua vita era libera dalle catene”.
  • Q1 “La sofferenza indurisce e chi soffre spesso diventa egoista ed individualista, quindi credo anche se in minima parte di essere peggiorato.”
  • Q5 “Sicuramente la detenzione non influisce positivamente sul carattere di alcuna persona, difatti porta inesorabilmente ad uno stato di sottomissione parziale, nonché perenne nei casi degli ergastolani.”
  • Q40 “Il carcere non fa altro che aggiungere male al male”
  • Q39 “Sono più consapevole della vita, ma credo che questo dipenda dall’età. Il carcere se non sai affrontarlo può abbrutirti o rincretinirti”.
  • Q30 “Questo carcere non può cambiare niente, solo aggiungere dolore.”
  • Q24 “Certamente in meglio, dopo tanti anni di carcere riesci ad apprezzare tutto ciò che ti offre la vita.”
  • Q41 “Credo in meglio perché conosco il dolore… non vorrei che il mio prossimo avesse la stessa la sorte.”
  • Q37 “Nella sofferenza s’imparano tante cose… il tutto è saperli mettere in pratica poi, purtroppo, non tutti ci riescano però. La gente cosiddetta per bene discrimina il detenuto… Fa male! Guai se il mondo si dividesse in buoni e cattivi, sarebbe la fine.
  • Q32 “Questo lo dovrebbero giudicare gli altri; io so solo che vorrei vivere da eremita.”
  • Q23 “Sicuramente mi ha insegnato a conoscere meglio le persone, a dominare l’impulsività, a conoscere meglio me stesso e cosa voglio veramente dalla vita.”
  • Q13 “In peggio.”
  • Q9 “L’esperienza del carcere non ti cambia in meglio specie quando è afflittiva, ci vorrebbe poco per migliorarla”.
  • Q20 “Sicuramente mi ha fatto riflettere su molti aspetti della propria persona, e sicuramente mi ha cambiato in meglio”.
  • Q4 “La sofferenza dell’ergastolo e l’esperienza del carcere ha rafforzato il mio carattere, mi ha cambiato in meglio, almeno credo”.
  • Q12 “Per certi versi in peggio”.
  • Q19 “In peggio”.
  • Q27 “Mi porta a riflettere sul mio passato”.
  • Q28 “Mi hanno fatto conoscere la grandezza e la miseria umana. Non so se sono cambiato in meglio o in peggio, non riesco a giudicarmi”.
  • Q38 “Sicuramente in peggio”.
  • Q35 “Non lo so …, a volte mi faccio forza per dirmi che in fondo anche questa nuova esperienza tragica … è un segno positivo…”.
  • Q29 “Sicuramente in peggio! Il carcere può tirarti fuori solo quello”.
  • Q34 “In peggio perché non solo danno ergastoli con molta facilità ma poi in carcere c’è pure chi se la gode”.
  • Q33“Mi ha migliorato sotto l’aspetto culturale, fuori non avevo tempo di leggere tanti libri. Mi ha fatto conoscere di più la cattiveria umana. Sono cambiato in meglio”.
  • Q43“Lo valuterò un giorno che avrò l’occasione di confrontarmi con il mondo esterno”.
  • Q45 “Non so se sono cambiato in meglio o in peggio, so solo che la sofferenza ha il sopravvento su tutto.” 
  1. Hai oggi disturbi psicofisici come: difficoltà a dormire, paure, manie, problemi riguardanti il cibo… ecc.?
  • Q46 “Maggiormente sono i problemi psicofisici che in questi lunghi anni di detenzione mi hanno colpito di più, quello che più mi tormenta e mi fa disperare è la difficoltà a dormire. Da anni soffro di una grave forma d’insonnia, una sofferenza che ha aggravato di molto il mio stato detentivo
  • Q16 “No, non ho disturbi psicofisici, per dormire ci riesco bene perché durante il giorno mi stanco moltissimo tra sport, artigianato, ecc. manie non per niente, paure no, forse più che la paura è la preoccupazione quando i miei vengono a trovarmi, caso mai succeda qualcosa durante il tragitto. Per il cibo ripeto che problemi si possono avere o mangi quello che passano o che ti permettono di comprare, sempre che uno abbia disponibilità economica, o stai a digiuno, dalla finestra non ti puoi buttare, ci sono le sbarre.”
  • Q10 “Ho difficoltà a dormire, questi sono gli effetti devastanti che ha il carcere sul tuo sistema nervoso, il quale è sottoposto quotidianamente ad una “buona” dose di stress.”
  • Q1 “Non ho difficoltà, tranne il fatto che ormai dormo pochissimo massimo 4, 5 ore.”
  • Q5 “Niente di tutto questo, a parte un po’ di insonnia.”
  • Q40 “Ho sempre la paura, tutte le mattine, di svegliarmi in carcere e quando la sera mi chiudono il blindato (la seconda porta) mi sento in trappola…”
  • Q39 “Si, ma nulla che non riesca a controllare.”
  • Q30 “Ho solo problemi con alcuni cibi, il latte e le melanzane.”
  • Q24 “Sono fissato per l’ordine e l’igiene.”
  • Q32 “Ho solo il desiderio di morire presto.”
  • Q23 “Non ho particolare problemi di dormire… ho comunque anch’io le mie paure, le mie ansie, come tutti, ed in periodi in cui si accentuano, ne risento un po’ di più, ma in linea di massima riesco a stare abbastanza tranquillo”
  • Q7 “No, certo con l’avanzare degli anni dormo un po’ di meno, manie non me ne vedo, ma su di me, sono sempre stato poco critico.”
  • Q3 “Difficoltà nel dormire “
  • Q11 “Sì, per mangiare posso mangiare poche cose e qui dentro è un problema dato che da mangiare non danno nulla”
  • Q31 “No, me ne frego di tutto e di tutti negli ultimi anni. Fino a metà pena cioè ai 12 anni di carcere, avevo dei problemi a dormire e nervosismo”.
  • Q9 “Difficoltà a dormire, problemi riguardanti il cibo, paure interiori”.
  • Q4 “Sì, oggi dopo tanti lunghi anni di galera ho difficoltà di dormire”.
  • Q21 “Sì, a volte quando mi spoglio ho degli incubi”.
  • Q27 “I problemi più duri sono il cibo, infatti spesso mi cucino da me per i miei problemi di stomaco.”
  • Q38 “In linea di massima non avverto ansia immotivata a parte quando magari i miei familiari ritardano al colloquio”.
  • Q35 “Difficoltà nel dormire…se lo spioncino del blindo resta aperto… per via della luce…e la luce della torcia… alla conta.”
  • Q34 “Ho problemi con il cibo a causa di problemi allo stomaco”.              
  1. Come vive e pensa un ergastolano?
  • Q46 “L’esistenza di un ergastolano, a mio modo di vedere, vive e pensa in modo del tutto particolare: è meno incline a crearsi amicizie, è un po’ chiuso in se stesso, intrattiene pochi rapporti sociali, sceglie con cura quei pochi amici che lo circondano è molto diffidente verso tutti, caratterialmente è molto forte, cerca sempre di adattarsi ad ogni situazione, coordina tutto con eccessiva cura, dedica molto tempo alla cura della sua persona, analizza tutto ed è più razionale dei detenuti che devono scontare una pena temporale”.
  • Q44 “ Pieno di angosce per il futuro”
  • Q2 “Un ergastolano vive una vita normale come altri detenuti, ma pensa diversamente dagli altri, la sua è una pena che deve scontare per tutta la vita, mentre gli altri possono pensare ad un fine pena e fare progetti.”
  • Q16 “Io personalmente vivo alla giornata e le uniche cose che penso sono se la mia famiglia sta bene, se ai miei manca qualcosa, se possono mangiare e la sera dopo la preghiera ringrazio Dio perché un altro giorno è trascorso e mi chiedo: ma quanti altri? Una vita.”
  • Q1 “Credo che nei primi 10 – 15 anni di carcerazione la sua vita sia pressoché uguale a quella degli altri detenuti, forse con un po’ più di attenzione verso il prossimo. Da quella data in poi in tanti subentra una specie di metamorfosi e si tende ad incarognirsi cioè a curare il proprio orticello.”
  • Q5 “L’ergastolano vive con una marcia in meno e pensa di non poter sperare nemmeno tanto.”
  • Q40 “Nella maggioranza dei casi un ergastolano non vive, non pensa ma vegeta ripetendosi sempre che la speranza è l’ultima a morire e così facendo muore tutti i giorni…perché la tortura della speranza è un meccanismo perverso e sadico che il legislatore ha messo in opera. La speranza è la forma più struggente che il diritto potesse escogitare per far soffrire un condannato all’ergastolo.”
  • Q39 “Vive accontentandosi delle piccole cose che riescono a farlo sentire vivo e cerca di pensare in modo positivo, nel senso che spera di avere una altra opportunità.”
  • Q30 “Vivo una quotidianità sempre uguale, il pensiero che impera è di uscire un giorno.”
  • Q24 “Vive con la speranza che aboliscano l’ergastolo e danno una scadenza alla condanna. I pensieri sono sempre gli stessi, la famiglia, la libertà una vita diversa ecc.”
  • Q41 “Se pensi da ergastolano non tiri sera!”
  • Q37 “Principalmente pensa al futuro che non può più avere e cerca di farsene una ragione; ognuno poi vive secondo le proprie forze e com’era sistemato fuori… individualmente ci creiamo un nostro mondo e col tempo ci si abitua. Alcuni addirittura arrivano ad istituzionalizzarsi rifiutando il mondo esterno.”
  • Q32 “Credo che questo sia soggettivo, io penso che respiro e va bene così.” Q23 “Sperando!”
  • Q13 “In funzione dell’ambiente circostante.”
  • Q7 “Io vivo e penso solo ad uscire, il più presto possibile.”
  • Q22 “Posso dire come penso io con l’ergastolo. Sono entrato per fare sei mesi, e sono da 31 anni in carcere, la colpa non è solo mia ma anche dell’istituzione, loro non mi mollano, cosa devo pensare, che Dio che li aiuti.”
  • Q3 “Con il massimo della fantasia”.
  • Q15 “Vive sempre con la speranza che un giorno l’angoscia del fine pena mai finisca, pensa come una persona consapevole di aver una grossa condanna da scontare senza perdere mai la speranza che un giorno possa riabbracciare la propria famiglia.”
  • Q8 “Alla giornata”
  • Q31“Io, con odio”.
  • Q9 “L’ergastolo più che vivere ti fa stare in uno stato vegetativo, pensa al momento del risveglio, non arriva a pensare al giorno seguente”.
  • Q20 “In diversi modi nella speranza e vive nei ricordi della propria vita”.
  • Q4 “Come si vive la pena di un ergastolano: bisogna avere tanta pazienza e tanta fede e pensare positivo ed affrontare la vita giorno per giorno, quello che ci offre nostro Signore”.
  • Q19 “Si tira avanti, giorno per giorno senza pensare alle cose tristi”.
  • Q21 “Vive da pena e pensa di non morire in carcere”.
  • Q27 “Un ergastolano non pensa e non vive, ma sopravive e basta”.
  • Q28 “Ogni persona pensa e vive a modo suo, la condizione di ergastolano non accomuna il modo di vivere e di pensare”.
  • Q6 “Vivo poco e penso poco”.
  • Q38 “Vive male, pensa sempre in negativo, diciamo una vita da cani”.
  • Q29 “Giorno per giorno”.
  • Q34 “L’ergastolano vive alla giornata e più che pensare spera sempre che arrivi il giorno per uscire”.
  • Q33 “Io non ho mai accettato l’ergastolo non riesco ad immedesimarmi”.
  • Q43 “Che ci sarà un giorno nel quale anche io potrò essere dichiarato libero di vivere!” Q45 “Vive la giornata e pensa molto poco per disilludersi.”
  • Q42 “Vive alla giornata. Pensa…”
  1. Ci sono stati dei cambiamenti in te stesso che hai notato in questi ultimi anni di carcere?
  • Q46 “Ci sono stati molti cambiamenti in me in questi anni di carcere. Il primo cambiamento che posso constatare è stata la graduale maturità, una trasformazione totale (sono entrato in carcere che ero un ragazzo); la seconda cosa, un nuovo modo di pensare e di vedere le cose, riflettere su tutto, in breve, tutte cose che si notano quando senti che in te c’è stato un cambiamento.”
  • Q47 “Si ho valutato la vita e non rifarei gli errori fatti”.
  • Q16 “Sì, negli ultimi 3 anni ho dato un’intera svolta alla mia vita, ho proprio voltato pagina e sono cambiato in meglio, mentalmente tanto che spesso non ci credo neppure io, mi stupisco da solo.”
  • Q10 “Sono diventato più riflessivo, razionale, ma questo è dovuto all’età!”
  • Q1 “Sicuramente sono molto più riflessivo, poi mi sono adeguato a non dire sempre quello che penso, cioè a fingere.”
  • Q5 “I cambiamenti che maggiormente fanno paura non sono quelli che ogni mattina si possono vedere attraverso lo specchio, ma l’evoluzione psicologica che spesso ci porta a farci perdere la fiducia in noi stessi e la costante paura di un futuro incerto.”
  • Q40 “Solo i sassi non cambiano anche se con il tempo e le intemperie cambiano anche loro. Ho notato che sono cresciuto interiormente accettando la mia sensibilità non più come un difetto ma come un pregio…per il resto il carcere così com’è non rieduca nessuno.”
  • Q39 “Sono diventato più riflessivo e accomodante.”
  • Q30 “Solo gli stupidi non cambiano mai. Sono cresciuto e di molto, ho compreso chi ho incontrato, sono stato me stesso.”
  • Q24 “Sono diventato molto più riflessivo e paziente, ero molto istintivo, questo mi ha sempre creato problemi.”
  • Q41 “Sicuramente si muta molto di più interiormente, è capitato a me.”
  • Q37 “Sì, ho maturato la convinzione che l’Italia non è mai uscita da quell’infame regime fascista…ha cambiato solo pelle. In un paese democratizzato un cittadino che “devia” va aiutato e guidato sulla retta via e non represso con un tipo di carcere fine a se stesso.”
  • Q32 “Che non mi frega niente, tanto è tutto relativo.”
  • Q23 “Passano gli anni e si ha tanto tempo per pensare, è inevitabile che si cambi. Soprattutto si cambia ripensando alle conseguenze del proprio passato.”
  • Q13 “Il tempo modifica sempre le persone, il luogo ne accudisce le peculiarità.‖
  • Q7 “Più vecchio e meno disposto a subire prepotenze.
  • Q22 “Uno cambia nella vita quando fa cose storte, se vive nel giusto per il giusto e con il giusto, non può mai dire di aver fatto errori.”
  • Q15 “Si, i tantissimi anni di lunga e sofferente detenzione mi hanno portato a meditare e a farmi riflettere su alcuni episodi della mia vita, sono certo di avere la volontà di comprendere quale strada dovrò intraprendere per stare in una società sana e civile”.
  • Q11“Si, qui dentro sono arrivato a capire bene cosa vuol dire famiglia, cosa vuol dire essere padre, dato che avevo 22 anni quando sono entrato qui”
  • Q8 “Sì, arrabbiato”
  • Q31 “Sì, più maturità dopo 22 anni e 6 mesi di vita in carcere”.
  • Q4 “Sì, ho visto molti cambiamenti in me stesso in questi anni di galera, parecchi, una per tutte l’affetto dei miei cari, la mia personalità verso gli altri più umana”.
  • Q21 “Sì, sono più riflessivo e meno permaloso”.
  • Q23 “Il primo cambiamento che noto è che sto invecchiando, ho tutti i capelli bianchi”.
  • Q28 “Sì, anche se non fossi stato in carcere sarei cambiato, anche se indubbiamente tale condizione ha influenzato il cambiamento”
  • Q38 “Più sensibilità e maturità: sono certo però che sarei migliorato anche fuori”.
  • Q34 “Certamente sono invecchiato prima per la sofferenza mia e dei miei cari”.
  • Q45 “Più maturità e tanta pazienza.”
  • Q42 “Sicuramente, il tempo cambia le persone, ovunque esse si trovino.”
  1. Come percepisci il tempo che trascorri in carcere? É per te un tempo vuoto, un tempo perso o comunque un tempo di vita?
  • Q8 “L‘ergastolo c‘è ma non c‘è ma se non c‘è perché c‘è? La vita dell‘ergastolano è proprio una lunga marcia attraverso la notte e si avanza al buio per tutta la vita”
  • Q6 “Il tempo in carcere è difficile da percepire, si dilata andando oltre il vero tempo reale. Non si avverte il trascorrere effettivo di esso ma tutto si riduce ad un qualcosa di aspettativa, sembra tutto fermo, si parla di anni come se si discutesse di giorni, lo si estende e lo si altera. Ma, come sia, lo percepisco sempre come un’esistenza di vita”.
  • Q2 “Credo che dopo aver perso i primi anni di carcerazione a questo punto diventa un tempo di vita da trascorrere il meno duro possibili.”
  • Q10 “A mio avviso, il tempo in carcere è vuoto, perso. Se pure mi applichi per utilizzarlo al meglio delle mie possibilità.”
  • Q1 “In generale il carcere è vita persa però in tanti cerchiamo di tenerci occupati svolgendo varie attività che il più delle volte vengono ostacolate da chi è preposto alla custodia. È comunque un tempo di vita.”
  • Q5 “In questi posti il tempo non è un concetto ben definito ma se dovessi esprimere tale emozione, potrei certamente dire che si tratta di un tempo di vita drasticamente perso.”
  • Q40 “Sinceramente, grazie al mio attivismo, un tempo di vita.”
  • Q39 “Penso che nonostante tutto oltre a vegetare, ci sono momenti di vita, soprattutto quando vediamo i nostri cari e quando riusciamo in qualcosa.”
  • Q30 “È tempo perso stando chiusi qui dentro, ma lo vivo come vita reale.”
  • Q24 “La detenzione è un” vivere fuori dal mondo” pertanto sicuramente un tempo perso, purtroppo senza recupero.”
  • Q41 “Se non c’è speranza si affaccia solo il “borderline”.
  • Q37 “Occupo le mie giornate facendo piccoli lavoretti artigianali… poi vengono le guardie e me li rubano e mi fanno incazzare … Anche questo è un modo per trascorrere qualche momento diverso…”
  • Q32 “Per me il tempo è relativo perché prima o poi finisce con la morte.”
  • Q23 “Ho sempre vissuto il tempo in carcere come una “risalita” che veniva premiata con graduali “scatti” di libertà infraumana ma in questo carcere mi sento tornato ai tempi della custodia cautelare.”
  • Q13 “Il tempo è vuoto ovunque ci sia l’ozio. Tempo perso (no) se mai rubato ai miei cari, è un tempo di vita in quanto occupa uno spazio in un determinato tempo.”
  • Q7 “Il tempo passa per lo più vuoto, e in ogni modo, è un tempo di vita.”
  • Q22 “Nel carcere il tempo non è vuoto ma è super vivo.”
  • Q15 “Lo percepisco del tutto simile alla vita dell’uomo condannato”.
  • Q11 “Per me è un tempo vuoto”.
  • Q8 “Comunque tempo di vita”.
  • Q9 “Cerco di riempire il vuoto, per quel che si può è un passaggio obbligato, imposto, ma guardo oltre con speranza”.
  • Q12 “È un tempo perso ma di vita”.
  • Q19 “Come un tempo di vita, anche se ripetitiva.”
  • Q21 “Lo percepisco studiando e per me è un tempo di vita”.
  • Q27 “Per me è un tempo vuoto ma è manche un tempo di vita a vuoto”.
  • Q6 “Sempre vita è”.
  • Q38 “Inutile, sicuramente un tempo perso”.
  • Q35 “Un tempo di sofferente vita”.
  • Q29 “Nessun tempo penso che sia perso, anche se mi manca qualcosa”.
  • Q34 “In carcere il tempo è morto di monotonia, insomma non si vive ma si sopravvive”.
  • Q43 “E’ un tempo di vita che cerco di vivere malgrado tutto!”
  • Q45 “Sicuramente un tempo di vita, ma dentro di noi lo sentiamo come perso.”
  • Q42 “Sicuramente potrei sfruttarlo molto meglio. Comunque un tempo di vita.”
  • Q33 “Cerco migliorare nel mio povero bagaglio culturale.”

OSSERVAZIONI

  • l’esperienza del carcere è l’esperienza del limite. Rappresenta in questo senso quanto di più prossimo al lutto esista: il lutto arriva imponendosi come “limite” invalicabile, separazione tra il prima e il dopo, evento esterno o deus ex machina totalmente al di fuori del controllo individuale da parte del soggetto. Inoltre, il carcere è un limite fisico, “reale”. Auto-indursi dei limiti tramite pratiche di rinuncia o auto-disciplina, presuppone una scelta ragionata da parte dell’individuo e la libertà di poter sgarrare alle stesse regole a cui ci si assoggetta. Qui invece parliamo di un limite posto da qualcosa di esterno, un intervento “genitoriale” radicale eseguito su un bambino impotente. É un limite in grado di produrre regressione a stati mentali infantili, il più verosimile degli “interventi paterni”.
  • Nelle risposte alle domande sopra svolte, il tema della riflessione e della “produzione” di pensiero entro un regime di “punizione” mette in luce il razionale stesso di intervento giuridico relativo alla coercizione che, oltre a basarsi sul “preservare la società da individui pericolosi”, mira a promuovere “riflessione“ e “redenzione” dei soggetti tramite auto-osservazione e ascolto “interiore”, un po’ come fa la comunità terapeutica (a metà tra custodia e terapia), ma in modo più totalizzante. Per un approfondimento sulla comunità terapeutica e il ruolo degli operatori di comunità, si veda qui.
  • il problema dell’igiene del sonno sembra dilagante (almeno, in questo campione ristretto). Alcune osservazioni:
    • Il sonno è complicato da una condizione di assenza di “sicurezza percepita”; il percepire l’ambiente in cui si dorme come non totalmente sicuro altera il livello di arousal, frammentando il sonno, favorendo poi una condizione psicologica di prostrazione cronica e di abbattimento delle performance cognitive. Ma le spiegazioni all’origine dell’insonnia potrebbero essere più complesse, più varie.
    • Occorrerebbe in questo senso fare un’indagine sugli effetti della deprivazione sociale: quali sono gli effetti sul sistema nervoso autonomo della deprivazione sociale? Le situazioni di confinamento sono spesso correlate all’insonnia, come approfondito in questo articolo.
    • la scomparsa della fatica fisica, un corpo obbligato alla stasi e alla non attività, non si stanca e riposa peggio.
  • Interessante notare la quantità di volte che viene sottolineato il fatto che, seppur passato in carcere, il tempo di un “fine pena mai” venga vissuto in ogni caso come un “tempo di vita”, in grado di esprimere un suo valore intrinseco, al di là di come un individuo utilizzi il tempo stesso.
  • in generale, viene osservato come l’intervento carcerario non rappresenti un vero intervento riabilitativo per il singolo, ma più un intervento atto a preservare la società stessa dalla “pericolosità sociale” dell’individuo.

Qui la prima parte di questo articolo.

Il sito da cui è tratto il materiale presente su questo articolo è il già citato ristretti.it


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15 gennaio 2021

ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA)

di Raffaele Avico

Il disturbo ossessivo compulsivo, storicamente preso in carico esclusivamente dagli psicoanalisti, oggi è trattato usando modalità più complessificate e attraverso il ricorso a farmaci deossessivizzanti.

La psichiatria, lungo il suo corso, ha assorbito e metabolizzato molteplici apporti teorici provenienti da scuole di pensiero diverse a riguardo di questo pesante disturbo, arrivando, come succede anche per altri tipi di problematiche mediche, a un approccio multidisciplinare e integrato (psichiatra insieme a psicoterapeuta).

La gravità dell’OCD varia dai casi limite a base maggiormente organica (squilibri neurobiologici che vengono trattati quasi esclusivamente attraverso la farmacoterapia), fino ad arrivare alle forme “sfumate” del disturbo, che colpiscono moltissime persone (pensiamo per esempio al timore di non aver chiuso la porta di casa, o la macchina, o al senso di “non aver finito” una determinata cosa -“not just right experience”) e che rispondono anche a un trattamento esclusivamente psicoterapico.

La struttura centrale del disturbo è la stessa, ma l’entità della sua gravità varia, e soprattutto varia la sua forma, in termini di tipologia di compulsione, e in particolare:

  •     i “checkers” sentono l’impulso irrefrenabile di controllare (to check) che “qualcosa” sia chiuso/bloccato: eseguire quella chiusura o quel gesto rituale, spazza via mentalmente la sensazione che qualcosa non sia finito o non chiuso (la prima citata “not just right experience”)
  •     i “washers” compulsivamente (si) lavano o puliscono, raggiungendo una certa soglia di senso di pulizia e igiene, fugando il timore di essere contaminati o non perfettamente puliti
  •     gli “orders”, per ripulire la mente dai pensieri ossessivi, creano intorno a sé un ambiente perfetto, usando simmetria e rigore
  •     i “repeaters” o i “thinking ritualizers” scacciano via i pensieri ossessivi ripetendo un gesto o un’azione, anche mentale (contare fino a 10, ripetere delle parole o dei mantra), fino al punto in cui sia raggiunto uno stato di tranquillità percepita
  •     gli “hoarders”, o “accumulatori”, rappresentano una categoria laterale dei pazienti con disturbo DOC (qui un articolo che approfondisce la questione:)

Le cause non sono totalmente note, la psichiatria biologica presume ci possa essere uno scompenso nel milieu neurotrasmettitoriale (in particolare in riferimento al livello di serotonina), e un comportamento difettoso entro alcuni circuiti che collegano zone antiche del cervello a zone più recenti (qui l’approfondimento); la teoria psicoanalitica dà altre spiegazioni, la psicoterapia a matrice cognitivista ancora altre.

Quello che si osserva in occasione di una “crisi” di DOC (rush ossessivo) è l’innalzarsi, a seguito della comparsa di un pensiero ossessivo, del livello di ansia e di timore esperito soggettivamente, che viene “placato” con il ricorso alla compulsione, che riporta la mente a un livello di funzionamento normale.

Per fare un esempio: un pensiero ossessivo relativamente comune (e che quindi  non corrisponde a un desiderio reale) è quello di agire violenza (anche sessuale) su persone care (bambini, famigliari): il pensiero emerge come improvviso e procura un senso di timore e allarme (in seguito a una valutazione che il soggetto fa nei confronti del suo stesso pensiero): la curva dell’arousal (il livello di attivazione neurofisiologica dell’organismo) sale fino a raggiungere picchi insostenibili per il soggetto, che deve tentare, in tutti i modi, di placare il suo malessere: da qui le compulsioni.

É da notare che questo stato mentale di confusione e paura proviene da un timore che il pensiero possa essere foriero di passaggio all’atto, ovvero, che ci possa essere una sorta di sovrapposizione e identificazione tra il pensiero e l’azione descritta dal pensiero stesso (per esempio la paura di essere ladro solo perchè si pensa di rubare, il timore di coltivare desideri violenti se si pensa anche solo per un attimo di picchiare o uccidere qualcuno: qui un breve approfondimento sulla “fusione pensiero-azione”)

Si osserva poi un fenomeno successivo per cui le compulsioni assumono forma di oggetto di dipendenza, e quand’anche il soggetto sperimentasse uno stato di relativa tranquillità con la mente vuota, “qualcosa”, in assenza del pensiero ossessivo, sembrerebbe mancare: da qui il ritorno al pensiero fisso, che viene come ricercato, a metà tra il desiderio e la coazione.

Le cause, come si diceva, non sono completamente note; alcune teorie tuttavia sono più accreditate di altre: si tende a credere esista una forte componente biologica: per questo in prima linea l’approccio è farmacologico; se in presenza di sintomi troppo invalidanti vengono usati farmaci serotoninergici ad azione deossessivizzante, prescritti da uno psichiatra che conosca nel dettaglio la storia clinica del paziente.

A riguardo della terapia farmacologica del DOC, si veda questo articolo di Luca Proietti.

In ambito psicodinamico/psicoanalitico, il lavoro è mirato a una comprensione del significato che l’ossessione riveste per il soggetto. Non dunque l’origine, ma il significato dell’ossessione stessa.

Nel bellissimo romanzo di Yalom “Le lacrime di Nietzsche”, viene descritta in modo romanzato la vicenda di un rapporto di cura tra Breuer (mentore di Freud) e il celebre filosofo. Uno dei temi affrontati è l’ossessione di Breuer per una giovane paziente, presente a tal punto da divenire invalidante e pericolosa per la vita del celebre medico, che verrà nel proseguire della storia smontata, contestualizzata e ri-significata da Nietzsche, in un interessante dialogo clinico, realistico seppur d’invenzione.

É interessante notare come per Breuer la giovane paziente fosse diventata nel tempo il simbolo di una speranza di vita e di appagamento di potenti bisogni, inespressi altrove, che aveva fatto di Bertha (la giovane paziente) una sorta di pretesto per l’immobilismo del celebre medico, bloccato nel suo percorso di evoluzione umana. Inoltre, il rapporto con la paziente sembrava compromesso e pervertito da emozioni di rabbia, possessione, e mistificato da un’idealizzazione della paziente stessa tale, da impedire a Breuer di compiere il necessario esame di realtà che avrebbe spogliato Bertha della sua allure “magica”, facendo decadere l’ossessione.

In ambito di psicoterapia cognitivo-comportamentale (valutata la più efficace per contrastare i disturbo) si lavora molto, ma non solo, sul tema della responsabilità e del senso morale.

Un senso di responsabilità ipertrofico, e un rigido assetto morale, producono pensieri ossessivi (alcuni studi indagarono le conseguenze di uno stile di leadership autoritario e puntiglioso sugli impiegati, che vennero osservati sviluppare comportamenti simil-ossessivi): il lavoro è quindi finalizzato ad “ammorbidire” il proprio approccio alla realtà e il proprio senso morale.

Vengono inoltri usati qui dei protocolli che de-strutturano il pensiero del paziente, osservando lo svolgimento della dinamica ossessiva nel suo nascere (a partire dall’evento scatenante, fino alla messa in atto della compulsione), per imparare a “disimpararla”.

Alcune osservazioni sul disturbo (nella sua variante più sfumata):

  • il sintomo ossessivo si presenta contro la volontà del soggetto, alla sua coscienza, producendo sofferenza e disorientamento; esistono alcuni bias cognitivi, errori di pensiero che rendono la sua gestione più difficile. Come visto in precedenza, per esempio, l’idea che pensare una cosa equivalga a desiderarla (anche a causa, per alcuni soggetti, di interpretazioni sbagliate di concetti psicoanalitici ambigui e mai veramente divulgati, per cui pensare o sognare una cosa equivarrebbe a desiderarla -nel senso più letterale del termine); oppure l’idea che pensare una cosa la farà accadere
  • il sintomo ossessivo, sembra in un certo senso creare dipendenza. É cioè in grado di essere richiamato alla coscienza quando assente, ed è in grado di dare senso di reward -come in una dipendenza. Questo fenomeno è di lettura molto complicata (perchè il soggetto dovrebbe “attirarsi” il pensiero intrusivo anche quando stesse vivendo un momento di libertà?) e chiama in causa aspetti appunto di dipendenza, masochistici o paradossali (ne abbiamo scritto in questa intervista a Rossella Valdrè sul concetto di masochismo).
  • gli aspetti paradossali riguardano il tema del controllo; un po’ come succede per il disturbo di attacco di panico, tentare di tenere lontano dalla mente un certo pensiero, conduce al suo ripresentarsi. Parliamo dunque di un controllo che fa perdere il controllo.
  • in generale la risoluzione di un DOC, o un suo alleviarsi, dovrebbe corrispondere al passaggio da una logica di conflitto, a una logica di scelta. Ovvero, occorre che il paziente acquisisca maggiori quote di controllo sul pensiero. In che modo? Una modalità può essere agire in modo contro-paradossale, scegliendo il/la paziente stesso/a di pensare a quello stesso pensiero, o di eseguire quel particolare rituale. Oppure, il senso di maggiore controllo potrebbe derivare da un lavoro sulla meta-cognizione sugli schemi di pensiero che di solito si fa in psicoterapia cognitivo-comportamentale (qua un approfondimento)
  • spesso i contenuti di pensiero vengono giudicati come immorali: questo accade quando non si sia abituati a considerare il pensiero stesso come naturale, o quando appunto lo si interpreti come desiderio (se lo penso, lo desidero/lo sono); pensieri di questo tipo possono riguardare qualsiasi cosa, dall’essere pedofili a desiderare la morte per una persona cara, tanto più giudicati scandalosi quanto rigida fu -a monte- l’educazione ricevuta in senso morale. Un’educazione rigidamente cattolica è un buon terreno su cui si possono innestare disturbi di questo tipo. In questo senso il lavoro di psicoterapia sarà finalizzato a “liberalizzare” il pensiero stesso
  • accettare il rischio di poter essere qualcosa, o di poter fare una certa fine, spesso allevia il conflitto interno, arrivando la persona a fare un salto logico su di un livello superiore (se anche lo fossi/lo desiderassi, non sarebbe un problema poi così grave), operando quindi quella che viene chiamata “esposizione con accettazione del rischio”
  • lavarsi fisicamente, vuole essere anche un lavaggio in termini morali. Sappiamo che nel DOC il tema della reponsabilità e della colpa -e dell’indegnità- sono centrali; si veda questo articolo su Science a proposito di quello che è stato definito Effetto Lady Macbeth)

Su questo blog abbiamo svolto diversi approfondimenti sul DOC, che riportiamo qui di seguito:

  1. recensione di “La mente ossessiva” di Francesco Mancini
  2. intervista a Andrea Vallarino e Luca Proietti sulla terapia strategica del DOC
  3. il già citato articolo sulla farmacoterapia del DOC
  4. un approfondimento sul DOC in ottica strategica, visto in questo caso come un’esasperazione della razionalità
  5. DOC ed effetto placebo

Qui per approfondimenti (articoli di ricerca)


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6 gennaio 2021

GIORNALISMO = ENTERTAINMENT

di Raffaele Avico

Diamo benvenuto nel gruppo di lavoro di questo blog a Silvia Bussone e Marco Colamartino.

Il Foglio Psichiatrico ha cercato, dalla sua nascita (2017), di coniugare rigore delle fonti e chiarezza espositiva. Abbiamo mantenuto una politica editoriale chiara, che riprendiamo qui:

  • NO risposte facili a problemi complessi (purtroppo in psichiatria e in psicologia clinica non esistono risposte definitive, diffida da chi te le offre)
  • NO banalizzazioni: chi soffre di disturbi psichiatrici, di qualunque entità, vuole essere preso sul serio
  • NO ad articoli acchiappa-click: quelli li troverai sulle pagine delle testate nazionali 🙂
  • NO ideologie: la nostra è una posizione post-ideologica (se una cosa non funziona, lo ammettiamo)
  • SÍ a un approccio integrato, che metta insieme più discipline, unite per convergere
  • SÍ a un lavoro sulle fonti: i nostri post si fondano su riferimenti ad articoli scientifici estrapolati da riviste autorevoli (Lancet, JAMA Psychiatry, World Psychiatry, riviste con fattore d’impatto scientifico alto).

Il lavoro di Silvia e Marco sarà focalizzato sull’approfondimento di questioni inerenti la neuroscienza, la psicobiologia, la farmacologia, la psicologia comparata, la metodologia della ricerca, adottando uno stile chiaro, sul modello di altri blog/testate che sempre più si stanno distinguendo nel mondo della buona informazione, come il Post o Medical Facts.

Ecco le rispettive presentazioni:

Silvia Bussone, Psicologa, Psicoterapeuta in Formazione, Dottoranda in Psicologia Dinamica, Clinica e della Salute, Esperta in Psicologia Giuridico-Forense.

Salve a tutti e tutte, sono Silvia Bussone, una giovane psicologa appassionata di ricerca clinica con una declinazione psicobiologica. Per coniugare clinica e biologia, ho deciso sin dalla laurea triennale di dedicarmi a lavori di tesi sperimentali che mi potessero formare in ambito psicobiologico, per poi abbracciare la psicologia clinica, con una piccola parentesi in psicologia giuridico-forense durante l’anno di tirocinio.

Al momento sono impegnata in un dottorato di ricerca in psicologia dinamica, clinica e della salute presso la Sapienza, Università di Roma, con un progetto sui correlati psicobiologici di eventi traumatici infantili e successivo rischio psicopatologico.

Dal momento che credo fortemente che la formazione di uno psicologo debba essere più comprensiva ed esaustiva possibile, sono anche psicoterapeuta in formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T. Beck di Roma, grazie al quale collaboro occasionalmente col servizio per le dipendenze patologiche di una delle ASL romane.

Sono appassionata di scrittura, lettura e mi tengo continuamente aggiornata sulle ultime tendenze in campo neuroscientifico, in particolare sul trauma, o sui meccanismi biologici alla base delle relazioni e/o dell’attaccamento. Apprezzo molto anche i diversi orientamenti delle psicoterapie e lo scambio con i professionisti del settore, dai quali mi piace prendere spunti di riflessione per la mia pratica professionale.

Marco Colamartino, Psicologo, Dottore di Ricerca in Neuroscienze del Comportamento (Psicobiologia e Psicofarmacologia), Psicoterapeuta in formazione.

Marco Colamartino, psicologo formato all’Università “La Sapienza” di Roma. Sin dall’inizio della mia carriera universitaria ho voluto scegliere un percorso che aderisse alla mia passione principale: la psicobiologia e le neuroscienze, materie che mi appassionavano sin dalle scuole superiori. Ho conseguito la laurea triennale in Psicologia Cognitiva e la laurea specialistica in Neuroscienze Cognitive e Riabilitazione Psicologica. La laurea specialistica mi ha offerto la possibilità di applicarmi in campo psicobiologico e di lavorare ad una tesi sperimentale per circa un anno e mezzo; grazie a questa esperienza, ho iniziato a lavorare su un modello murino di ritardo mentale (fenilchetonuria) e su eventuali terapie farmacologiche che potessero risolverne i deficit biologici e comportamentali. Successivamente ho conseguito il dottorato di ricerca, grazie al quale ho approfondito le mie conoscenze in campo psicobiologico e psicofarmacologico a livello preclinico.

Terminato il dottorato, ho sentito il bisogno di integrare lo studio della psicologia clinica alla mia formazione ed ho iniziato la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T Beck di Roma che attualmente sto svolgendo. Grazie a questo nuovo percorso, ho svolto attività di tirocinio nel dipartimento di Neuropsichiatria Infantile in una delle ASL romane.

Oltre alla psicobiologia e alle neuroscienze, che rimangono i miei interessi principali, grazie alla scuola di specializzazione mi sono appassionato a moltissimi argomenti come il trauma, i meccanismi dissociativi, ma anche ad alcuni tipi di disturbi (es: alimentari) che miro ad approfondire nel corso dei miei studi.

Questi anni di formazione in psicologia mi hanno portato, oltre che a confermare la mia passione, anche alla consapevolezza che la qualità di un professionista derivi non solo dalla sua preparazione e dalla sua esperienza, ma anche dalla sua apertura mentale e da quanto è disposto a confrontarsi in maniera collaborativa con gli altri colleghi. Credo che il confronto, l’integrazione e la divulgazione siano degli aspetti base, che non possono mancare all’interno della nostra professione.

Di recente abbiamo tutti assistito a un generale impoverimento e perdita di credibilità di testate che, fino a pochi anni fa, conservavano un’assoluta autorevolezza in senso giornalistico.

In questi ultimi mesi, la contraddittorietà delle informazioni riguardanti il Covid, i titoli clickbait, un’informazione impazzita e schizogena, ha impattato sulla nostra coscienza pressoché costantemente.

L’Italia si è specchiata sullo schermo degli smartphone controllati compulsivamente, uscendone a pezzi in senso psicopatologico. Titoli spazzatura, informazioni pompate in modo sensazionalistico dalle più autorevoli testate italiane sottoposte alla nostra attenzione centinaia di volte al giorno, a ogni scrollata compulsiva dello smartphone. L’additività e il potere dipendentogeno dei Social, hanno fatto il resto.

Alcune domande che è lecito farsi:

  1. le politiche editoriali dei giornali a cui prima si è accennato, stanno degradando la credibilità delle suddette testate, causando allontamenti di lettori e perdita di  abbonamenti, cosa che alimenterà l’ulteriore rilancio verso il baratro. É possibile che la cosa non sia stata compresa dai redattori? É il più semplice dei circoli viziosi
  2. Come reagisce un cervello sottoposto a informazioni incoerenti e contraddittorie su tematiche vitali per il soggetto, che riguardano la sua salute? Lo osserviamo: paralizzandosi di terrore e sviluppando un disturbo dell’adattamento
  3. come è possibile che nella redazioni delle maggiori testate italiane, non sia presente un comparto di giornalisti scientifici che sappiano mettere in piedi un’informazione di qualità, coerente e unitaria (su temi legati alla pandemia, in questo caso)?

Il problema della comunicazione di qualità è sempre più attuale.

In questo scenario da incubo si elevano, come dicevamo, poche eccezioni (Il Post) insieme alla categoria dei divulgatori: singoli individui (Enrico Bucci, Burioni, Entropy for Life, Biologi per la scienza) in grado di veicolare informazioni chiare e coerenti. Veri fari nella notte in questi ultimi mesi. Ringraziamo loro se conserviamo ancora un po’ di sanità mentale: almeno per le questioni scientifiche o che riguardino la salute degli individui, è auspicabile che la palla passi -per il futuro- ai divulgatori scientifici.

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2 gennaio 2021

SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO

di Raffaele Avico, Ilaria Carolina Bruschi

“Gli atti che rimangono atti inferiori possono essere chiamati atti subconsci… Vi sono nel mondo attuale dei fatti che sono scritti nei libri, e possiamo dire che tutta l’evoluzione attuale consiste nel trasformare in libri i fenomeni che esistono nel mondo. Esistono evidentemente dei fenomeni che ancora non sono scritti nei libri, ad ogni grado esistono fenomeni che non si trasformano, il che fa sì che gli atti inferiori sussistano in quelli superiori” (Pierre Janet)

INTRODUZIONE

In un essere umano sano, l’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di differenziare tra un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. 

Nel resoconto che un individuo farà del suo passato, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo riportarlo alla luce, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato. Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la sua non elaborabilità in termini mnestici. La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria. Sembra cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo finalmente trascorso. 

Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamata Disturbo da Stress Post Traumatico (e non, come a volte si legge, Disturbo Post traumatico da Stress), in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. 

Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo. Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè: centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, però meno intensa, in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo acceso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. 

Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi vissuti nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. 

Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e  traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo possa essere in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale perdurato, per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. 

Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto. I potenti strumenti di apprendimento messi a sua disposizione dall’evoluzione, sembrano ritorcerglisi contro contribuendo a far sì che per lungo tempo questi non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del suo ricordo. 

In questo senso, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale. 

L’uso dell’arte per rispondere allo stress post traumatico, è cosa nota e ben sperimentata; arte terapia, musicoterapia, uso di forme espressive di varia natura (come per esempio la sabbia terapia, strumento notoriamente in mano a psicoanalisti junghiani, ma non solo), ci raccontano di modalità alternative, non necessariamente verbali, per tentare di “ricomporre” una trama narrativa nella vita di un individuo, devastata, per esempio, da un evento traumatico. La parola chiave in questo caso è simbolizzazione.

IL RUOLO DELL’ARTE NELLA CLINICA 

In arte-terapia, quando si propone un lavoro clinico sul trauma, si cerca l’attivazione di un processo creativo tramite i medium artistici. 

L’arte ha, da sempre, rivestito un ruolo centrale nell’elaborazione dei traumi. 

Se il trauma è infatti un evento che spiazza il soggetto essendo inimmaginabile, scandaloso nella sua portata dirompente, l’arte ha nel tempo assunto un ruolo terapeutico tanto più importante quanto più profonda è la ferita inferta dal trauma stesso. Spesso, l’arte che potremmo definire post-traumatica, è altrettanto scandalosa e dirompente, inimmaginabile allo stesso modo del trauma, ma in senso positivo. 

L’artista, come spesso ripete Massimo Recalcati, lavora con i “resti”, con la ferita, esponendola, simbolizzandola. Dove il linguaggio verbale non sembra arrivare, può arrivare il pensiero artistico (un pensiero “de-burocratizzato”), espresso nel gesto artistico. Pensiamo per esempio a Guernica di Picasso, alle opere di Munch, all’espressionismo tedesco del dopo-guerra.  È più che probabile che il periodo post pandemico che si apre a noi davanti, porti molta nuova arte, necessaria ad aiutarci alla mentalizzazione di ciò che nel 2020 abbiamo trascorso. Non c’è protocollo CBT o strumento psicoterapeutico che tenga: l’arte avrà un ruolo centrale nel fornirci di una cornice simbolica che ci consenta di comprendere e, di nuovo, simbolizzare il trauma.

Il processo artistico, in grado di “forzare” l’artista a una simbolizzazione del trauma, prevede non solo gli aspetti concreti del “fare arte con le mani”: coinvolge anche specifiche funzioni cerebrali della memoria, dell’immagine e della generazioni di simboli.

L’attivazione del processo creativo è il motore dell’elaborazione emotiva. 

Il processo creativo svolge una funzione auto-regolatoria fondamentale. Sappiamo che l’emisfero destro -se confrontato con il sinistro- ha un ruolo determinante nell’elaborazione dell’esperienza emotiva e nell’autoregolazione. L’emisfero destro è il vero emisfero “dominante”, come sostiene Iain McGilchrist.

Nelle esperienze traumatiche la dissociazione si esprime con una mancata integrazione delle aree corticali – e le memorie traumatiche rimangono contenute nel CervelloMente in forma procedurale e implicita.

Ci sono varie tecniche in arte-terapia per collegarsi con queste esperienze profonde: una semplice modalità, e poco conosciuta, è imparare a disegnare con la mano non dominante, come spiega Lucia Capacchione in “The power of the other hand”. Disegnare, scrivere o dipingere con la mano che non è dominante aiuta a collegarsi con le parti più inespresse dell’esperienza emotiva, latenti e localizzate nelle aree limbiche dell’emisfero destro. Katherine Killick, in “Art, Psychotherapy ad psychosis”, scrive alcune riflessioni interessanti sul materiale artistico prodotto dai suoi pazienti relative alla capacità di simbolizzazione e agli effetti terapeutici: creando un’immagine essa “contiene” e “delimita” l’intensità energetica del processi emotivi e in accordo con le teorie freudiane delle sublimazione anche il “gesto pittorico” -ossia la manualità artistica-, delimita e incanala la personalità del materiale inconscio, producendo la spinta creativa.

Senza dimenticare che una volta creata l’immagine o l’opera, qualsiasi sentimento/affetto verrà da essa custodito, protetto e celato a seconda della volontà dell’artista, divenendo ancora una volta interscambio autoregolatore tra il mondo interno e il mondo esterno. Su questo tema, per approfondire, Massimo Recalcati ha scritto molteplici lavori. Si veda: Massimo Recalcati. Arte e psicanalisi: il mistero dell`opera – Rai Scuola. Sempre sul lavoro di Recalcati (relativamente anche al rapporto tra elaborazione del trauma e gesto artistico), questo libro di Nicolò Terminio: Introduzione a Massimo Recalcati. 


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28 dicembre 2020

PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum)

 

di Raffaele Avico

Qualche tempo fa, ho avuto la possibilità di visitare la città/struttura psichiatrica di Geel, a pochi chilometri da Bruxelles, in Belgio. Geel è conosciuta in ambito psichiatrico perché ospita un progetto antico (che va avanti da centinaia di anni) di inserimento di malati psichiatrici all’interno di famiglie cosiddette normali, chiamate “foster families”.

Sceso dal treno a Geel, chiedo consiglio a un passante a riguardo del Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum, dato che su Internet è pubblicizzato poco e si trova altrettanto poco materiale foto/video a riguardo. Vengo indirizzato verso una struttura poco distante dal centro (cosa di per sè inusuale, dato che soprattutto in passato agli ospedali psichiatrici veniva destinata una collocazione al di fuori del centro abitato per ragioni di sicurezza/igiene sociale), chiamata dal passante “Sano Clinic”.

La raggiungo e mi trovo immerso in un vero e proprio villaggio collegato da sentieri interni e caratterizzato dalla presenza di case indipendenti, strutture cubiche di legno con grandi finestre da cui si vedono gli interni ed edifici più simili ai moderni ospedali. Faccio una prima ricognizione e noto che, visti dall’esterno, gli ambienti interni sono puliti e arredati in modo semplice; osservo inoltre la presenza di pazienti di varie età in locali diversi.

In prossimità di una delle strutture noto la presenza di camere singole in cui vedo alcuni degenti intenti a compiere attività quotidiane: fin qui niente di particolarmente nuovo, eccezion fatta per il grado di pulizia e ordine dei locali, che non sono abituato a vedere in Italia.

Noto infine pazienti che lavorano nelle aree verdi circostanti le case; ci sono anche laboratori di falegnameria molto organizzati (con macchinari funzionanti, etc.) in cui presumo vengano fatte attività di preparazione al lavoro, o in cui vengano insegnate attività artigianali.

Cerco qualcuno a cui chiedere maggiori informazioni e vengo indirizzato ad una persona che si trova in un altro edificio: qui entro e trovo un help-desk con una ragazza a cui chiedo, se possibile, di poter avere alcune informazioni in più a riguardo del progetto. Dopo avermi fatto attendere alcuni minuti, la receptionist mi indirizza a una terza persona che a sua detta mi concederà mezz’ora per illustrarmi le caratteristiche principali del progetto.

Qui mi accoglie il Dott. Wilfried Bogaerts, psicoterapeuta della clinica, che mi conduce nel suo studio e con cui avrò al fortuna di poter intrattenere un colloquio vero e proprio a riguardo del progetto di Geel. Al mio presentarmi e raccontando della situazione attuale della psichiatria italiana, di ciò che faccio e della città da cui provengo (Torino), mi stupisco nel constatare che il terapeuta sia a conoscenza del progetto I.E.S.A., di fatto una copia del progetto belga che mi trovo a visitare, attivato sul territorio dell’ASLTO3, e che conosca addirittura il nome dello psicologo che per primo lo importò nel nostro Paese (Dott. Aluffi).

Gli porgo delle domande specifiche a riguardo del progetto e si dimostra molto disponibile a spiegarmi in che modo il progetto si è evoluto nel tempo.

Le risposte da lui datemi potrebbero essere sintetizzate come segue:

  • il progetto di Geel è antichissimo: la leggenda narra che già dal 1300 a Geel fosse sorta una comunità di accoglienza per malati mentali (in seguito a un evento scatenante), e che nel tempo il tutto avesse assunto proporzioni sempre più importanti fino ad arrivare, alla fine dell’800, a contare un totale di 3000 malati psichici ospiti delle famiglie del paese, che contava in tutto 20000 persone. 3000 pazienti psichiatrici per 20000 persone: un numero elevatissimo. Il Dott. Bogaerts mi racconta di come all’inizio il progetto fosse stato spinto e promosso dai preti e dagli organi clericali del luogo (Wikipedia cita il caso del padre di Vincent Van Gogh, che in una lettera al fratello di Vincent Theo, esprime il suo desiderio di mandare Vincent a Geel affinché venga preso in carico dalla comunità di accoglienza)
  • con il progressivo affermarsi della scienza psichiatrica la gestione della malattia mentale migra entro il dominio della scienza medica, ma la modalità rimane sempre la stessa: le famiglie del paese accolgono i malati mentali introducendoli a uno stile di vita più “normalizzato” e famigliare
  • nel tempo il numero dei pazienti si abbassa e il servizio viene organizzato in modo più strutturato: al momento attuale a Geel si contano 300 pazienti ospitati dentro 300 famiglie, con gradi diversi di autonomia e con diagnosi diverse

Mi spiega quindi le tappe principali della presa in carico di un paziente all’interno del progetto:

  • i pazienti vengono in un primo momento presi in carico dalla struttura centrale (l’ospedale/villaggio in cui mi trovo) e in un secondo momento, se e quando ritenuti idonei, vengono indirizzati alla “foster family” che si è resa disponile all’accoglienza. Qui la persona viene inserita/o e si struttura per lei/lui un percorso di inserimento con grandi diversi di autonomia. Il dott. Bogaerts mi spiega come il grado di autonomia e la quantità di tempo di permanenza settimanale all’interno della famiglia, varino da caso a caso: molto dipende dalla gravità dei sintomi del paziente e da quanto a questo/a giovi il permanere all’interno di un contesto strettamente famigliare. Non per tutti, mi spiega infatti, sembra essere d’aiuto l’essere circondati da un ambiente ristretto come quello famigliare: alcuni tipi di pazienti lo patiscono, sembrano necessitare di più spazio e meno controllo
  • a proposito di questo, viene creato un profilo personalizzato per ogni paziente, a seconda anche di quali siano i mezzi della “foster family” ospitante: esistono infatti famiglie che ricevono in casa il paziente introducendolo/a negli spazi di vita comuni a tutti i membri (camere da letto, cucina, etc.), altre che invece hanno costruito una dependance in un cui ricevere l’ospite, concedendogli quindi maggiori autonomie nel muoversi “in famiglia”
  • è variabile inoltre il numero di giorni che il paziente dovrà passare con la famiglia: alcuni vi trascorrono solo una parte della settimana, dedicando gli altri giorni alla famiglia di origine (quando presente) o permanendo all’interno della struttura “madre”; altri potranno trascorrervi anche solo due giorni a settimana, in una sorta di affidamento (diurno e notturno insieme)
  • alla mia domanda sui quadri diagnostici presenti all’interno del progetto, il Dott. Bogaerts si dimostra totalmente indifferente alla necessità di categorizzare i disturbi del soggetto, facendomi osservare come a suo modo di vedere sia più una necessità del curante – quella di parlare di una specifica categoria diagnostica- che non del paziente. Parole come schizofrenia, disturbo dello spettro autistico, etc., perdono di senso di fronte a un progetto di reinserimento sociale che mantenga uno sguardo particolareggiato e ritagliato intorno alla personalità del paziente. Questo non esclude tuttavia che al paziente sia assegnato un piano di cura e di reinserimento che tenga conto della sue difficoltà e necessità
  • Infine, il Dott. Bogaerts mi spiega di come all’interno del progetto siano presenti anche alcuni bambini affidati a famiglie ospitanti (al momento attuale, circa una decina), e mi dà un’idea di quali possano essere i futuri sviluppi del progetto (la sua diffusione anche ai territori circostanti, e l’aumento del numero di pazienti presi in carico)

ALCUNE RIFLESSIONI

Quello che mi colpisce è innanzitutto l’apertura all’esterno del progetto: la facilità che ho trovato nell’ottenere un colloquio con un terapeuta in servizio all’interno della struttura, la distanza ravvicinata dei luoghi di cura con il centro cittadino e la visibilità in sé data ai pazienti, non nascosti/negletti ma esposti e osservabili.

É chiaro come il progetto sposi un’ideologia clinica fortemente orientata: si tratta cioè di cambiare la percezione che la società ha della malattia mentale, allargando la coscienza collettiva (in modo che essa possa abbracciare -contemplandola- l’esistenza e la natura della patologia psichiatrica) e di ridurre lo stigma nei confronti del malato mentale.

Inoltre si dà spazio e ci si concentra sulle risorse residue del paziente (sempre esistenti, come ci ricorda Vigotskij): questo avviene affidandogli responsabilità e autonomie reali perché calate nel contesto del territorio (e non create artificialmente nella bolla di una struttura chiusa e autarchica). Si fa cioè un lavoro di empowerment e di assegnazione di competenze civili a pazienti che di solito se ne vedono progressivamente, e quasi inesorabilmente, deprivati (chi lavora in ambito di salute mentale osserva questo fenomeno tutti i giorni).

Questo livello di intervento (territoriale/di reinserimento) viene ovviamente integrato a un approccio farmacologico e psicoterapeutico rendendo più “completo” e integrato, in un certo senso, l’approccio al sintomo e alle difficoltà del paziente, con risultati migliori in termini di qualità di vita e integrità psichica.

Colpisce poi la poca risonanza data a un fenomeno del genere in Italia (incluso il progetto IESA), segno di come avanguardie cliniche simili necessitino di essere spinte e copiate da modelli come quello di Geel, e maggiormente diffuse.

In Italia il modello di Geel è stato per primo adottato a Collegno (Torino) da parte del Dott. Aluffi e dagli operatori dell’ASLTO3 ; esiste inoltre una piccola realtà nel modenese chiamata “Rosa Bianca” e altre Asl che sul territorio italiano si sono mobilitate in questa direzione.

Il servizio IESA (acronimo con cui è stato chiamato il progetto, che sta per “Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”) permette di pagare le famiglie ospitanti: sul territorio di Torino alla “foster familiy” viene elargito un bonus di 1100 euro mensili -con variazioni-, che saranno in ogni caso meno rispetto a quanto costerebbe allo Stato collocare il paziente all’interno di una struttura riabilitativa.

Seguendo questo disegno di “politica clinica”, è facile osservare come possano essere avvicinati due bacini di utenza che necessitano -entrambi- di un supporto: la famiglia ospitante, che si avvantaggia di un apporto affettivo -ma anche economico- extra, e l’utente psichiatrico che in essa trova un nuovo contesto di crescita personale e di presenza affettiva; il tutto coordinato da operatori preposti e formati al progetto.

APPROFONDIMENTI

  • il sito del centro

 

Article by admin / Editoriali / psicologia, psicotraumatologia, raffaeleavico

14 dicembre 2020

Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti


di Raffaele Avico

Questa intervista ha lo scopo di chiarire alcuni aspetti della terapia del disturbo ossessivo compulsivo. Soffrire di DOC vuol dire essere intrappolati in pensieri ricorrenti, accompagnati o meno da comportamenti percepiti come compulsivi (non dipendenti dalla volontà). Il DOC è uno dei disturbi che più frequentemente si accompagnano al senso di “fallimento della volontà”: chi ne soffre è spesso “manipolato” dal suo stesso disturbo.

Tra l’altro il disturbo può prendere forme differenti: lo abbiamo approfondito estesamente qui.

In questa intervista fatta ad Andrea Vallarino e Luca Proietti, abbiamo cercato di approfondire alcuni aspetti della psicoterapia del DOC, e in particolare della psicoterapia a orientamento breve-strategico.

Alcuni punti toccati nell’intervista riguardano:

  1. la logica di funzionamento del DOC (come si esprime, seguendo quali percorsi di pensiero)
  2. le credenze che “puntellano” il DOC (per esempio un aspetto ricorrente nel DOC è l’iper-responsabilità su molteplici aspetti del mondo; oppure, esistono quote di pensiero magico che portano il soggetto a ritenere che pensando una cosa quella cosa accadrà, oppure di desiderare una certa cosa solo perchè la si pensa)
  3. l’uso di stratagemmi funzionali a far acquisire maggiore controllo sul sintomo da parte del paziente (per esempio il decidere insieme quando e in che modo violare la “legge” del sintomo)
  4. la personalità del terapeuta; Vallarino qui cita l’idea che il terapeuta debba essere percepito dal paziente come qualcuno che riesca a mettere in atto un controllo “più evoluto” di lui/lei; uno dei temi centrali su cui si imposta il DOC, è infatti il controllo.
  5. DOC e farmaci

Tendenzialmente emerge l’idea che la battaglia contro il DOC si giochi su di un piano logico: il paziente riuscirà ad abbandonare il sintomo solo raggiungendo una forma differente di pensiero, pur mantenendo il senso di controllo.

I teorici di Palo Alto (come Watzlawick, autore di Change, qui recensito) hanno compreso e approfondito la strutturazione logica della psicologia umana, arrivando a creare un approccio terapeutico al confine tra il maieutico e il suggestivo, nell’idea che il problema (in questo caso del disturbo ossessivo compulsivo, ma anche di altri disturbi) spesso poggi su “premesse” logiche errate e che, una volta risolte quelle, il disturbo costruito su di esse possa migliorare o risolversi.

Qui l’intervista:



Su questo blog, alcuni approfondimenti:

  • Farmacoterapia del DOC dal presente al futuro (Luca Proietti)
  • Recensione di La mente ossessiva

Per approfondire (libri):

  1. La mente ossessiva
  2. Cogito Ergo Soffro
  3. Avrò chiuso la porta di casa? (più divulgativo e breve)

NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

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  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.”
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI
  • IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI!
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • NO CASI, NO SUPERVISIONE: GRUPPI A TORINO
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL DEFAULT MODE NETWORK
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • CORRERE PER VIVERE: I BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULLA DEPRESSIONE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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