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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

2 marzo 2021

PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD

di Raffaele Avico

A riguardo dell’intervento peri-traumatico, troviamo più letteratura e materiali in rete che ci descrivono come muoverci in senso farmacologico (per gli psichiatri e i medici soccorritori), che argomenti in ambito psicoterapico.

Un autore che si è lanciato nella proposta di una procedura semplice, da attuare con un paziente che abbia appena subito un evento traumatico (per esempio una donna violentata), è Peter Levine. Peter Levine porta avanti da anni un lavoro esemplare sul trauma, improntato su di una lettura delle stesso evento traumatico molto “naturale”, mediata da un’attenta osservazione del mondo animale. Il corpo, secondo Levine, dissipa il trauma.

Nel suo Waking the Tiger, nella parte finale del libro, propone una procedura per un intervento peritraumatico con un soggetto che abbia vissuto un evento di questo tipo.

Vediamo cosa propone. Teniamo conto che l’approccio è americano, quindi molto pragmatico e applicato. Cosa dovrebbe fare un soccorritore?

FASE 1: LA SCENA DELL’INCIDENTE

Come sappiamo, Peter Levine osserva come, sia nell’uomo che nell’animale, il trauma si produca quando siano presenti -insieme- immobilità e paura.

Senza immobilità, c’è paura “rilasciata” per via corporea (lo stato di attacco e fuga, si risolve appunto con un movimento di fuga).

Senza paura, invece, avremo semplicemente “immobilità senza paura”, che è lo stato ideale di benessere psichico.

Quindi, per Levine, trauma=immobilità+paura.

Inoltre, Levine intende mettere al centro l’esperienza interpersonale, altamente protettiva per soggetti che abbiano appena subito un evento traumatico, insieme a quello che chiama felt sense (il sentire ciò che succede nel proprio corpo).

Al fine di prestare un miglior intervento peri-traumatico, quindi, propone di :

  • dare precedenza ai soccorsi medici
  • far distendere l’individuo e tenerlo/a calmo/a e al caldo
  • occorre evitare che l’individuo si alzi per “fare qualcosa”: è più importante che si conceda il tempo di “rilasciare energia”
  • comunicare a lui/lei che si starà in loro compagnia fino all’arrivo dei soccorsi
  • se l’incidente non è troppo grave, occorre chiedere alla persona come si senta in senso fisico (felt sense), così da nominare eventuali stati di “rush adrenalinico”, senso di essere intorpidito (numbness), bisogno di tremare, vampate di calore incoraggiare l’individuo a tremare e scuotersi, se lo vorrà
  • Questa fase, Levine osserva, potrebbe durare 15/20 minuti

FASE 2: QUANDO LA PERSONA SIA PORTATA ALL’OSPEDALE O A CASA


  • la persona, a seguito di un incidente, dovrebbe poter passare uno o due giorni a casa, a riposo
  • in questa fase di convalescenza, ci saranno reazioni emotive forti (rabbia, terrore, colpa)
  • andranno assecondate le “tendenze all’azione fisiche”

FASE 3: ACCEDERE AL TRAUMA E RINEGOZIARLO


  • quando la persona sarà disposta a farlo, occorrerà chiederle/gli i dettagli del racconto del trauma, in particolare le immagini e -in un secondo momento- le sensazioni periferiche, non strettamente connesse al momento del trauma
  • a questo punto, le reazioni fisiche del paziente potrebbero cambiare: potremo osservare un’accelerazione del respiro e una reazione “simpatica” (generata da un’accensione del sistema nervoso simpatico) durante il racconto, o reazioni di allarme più acute, procedendo sempre di più verso il “kernel patogeno”: lasciamo che il corpo lo “esprima”
  • avviciniamoci al centro dell’esperienza traumatica in modo graduale

FASE 4: IL TRAUMA – IL KERNEL PATOGENO


  • arriviamo all’evento traumatico attraverso il felt sense
  • osserviamo le reazioni del corpo del soggetto, assecondandone le tendenze
  • lasciamo che il paziente esprima ciò che sente per via corporea
  • è importante che il paziente non salti nessuna parte dell’esperienza: TUTTO dev’essere ri-narrato attraverso la lente del felt sense (come l’ho sentito nel corpo)
  • eventualmente, dividiamo questo lavoro in 2 o 3 sedute o momenti
  • chiediamo al paziente di ri-narrare completamente l’accaduto, dall’inizio, osservando se e in che frangente si ripresenti la reazione fisica

Per quanto riguarda il primo soccorso psicologico, troviamo qui un manuale in italiano ben costruito e chiaro, per lo più pensato per chi lavori in contesti di forte crisi umanitaria o si occupi di psicologia delle emergenze.

Vengono sottolineati alcuni aspetti chiave che potremmo sintetizzare in:

  • attenzione a ri-creare insieme al soggetto colpito un micro-luogo sicuro, cercando di ritagliare un luogo che venga percepito dal soggetto stesso come calmo e appunto sicuro
  • mantenere una forte connessione comunicativa con il soggetto, anche solo per via oculare dove non fosse possibile usare il dialogo, e mantenendo allo stesso tempo il rispetto dei confini corporei di lui/lei
  • se dovessimo osservare una reazione dissociativa, dovremo usare le tecniche di grounding o stimolazione sensoriale. Cos’è il grounding? Il grounding è semplicemente un insieme di tecniche con cui possiamo “riportare la persona a terra” durante un episodio dissociativo.
    Ricordiamone alcune estrapolate dal libro PTSD:che fare?
    Esempio di esercizio N. 1 

    Sperimentare con il paziente, da posizione seduta, la sensazione procurata dal tenere i piedi ben appoggiati a terra, aderenti al terreno. Si può suggerire al paziente di spingere con un po’ di forza prima un piede, poi l’altro e in seguito insieme i piedi verso terra, coinvolgendo cosce e glutei. Si chiede al paziente di notare che sensazioni provi nei piedi, nelle gambe, lungo la colonna vertebrale e il resto del corpo. L’esercizio va eseguito fino a percepire sensazioni nelle gambe e senso di radicamento.

    Esempio di esercizio N. 2

    Un altro esercizio che può aiutare a regolare l’arousal e dare senso diradicamento consiste nel massaggiare gambe e piedi. Da seduti (meglio se a terra) si stringono e si massaggiano gambe e piedi: è importante avere un po’ di tempo a disposizione e mantenere un atteggiamento curioso verso l’esperienza, per raccogliere più informazioni possibile: vanno eseguite pressioni più intense e più leggere massaggiando tutte le dita del piede, lo spazio tra le dita, il dorso e il tallone, le caviglie, i polpacci, le ginocchia e le cosce, per poi fare il percorso inverso e riscendere fino a terminare nuovamente con i piedi. Se dovessero comparire dei pensieri giudicanti, è opportuno lasciarli andare ritornando a concentrarsi sulle sensazioni del corpo.

Sostanzialmente, come osserviamo, gli interventi di primo soccorso si muovono usando logiche di buon senso: un punto fondamentale da ricordare, in ogni caso, è quello di prestare attenzione alle tendenze all’azione del corpo, favorendo i micro-movimenti del corpo, “senza aggiungere immobilità” (Levine, come sappiamo, sottolinea in particolare la questione del tremore neurogeno da far evacuare al paziente).

Per quanto riguarda l’intervento farmacologico, riportiamo qui di seguito ciò che abbiamo già scritto altrove.


L’INTERVENTO FARMACOLOGICO PERITRAUMATICO E IL LAVORO DI ALAIN BRUNET

Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, alcune evidenze portano a considerare l’utilizzo di un principio attivo in modo peri-traumatico (ovvero, a ridosso temporale del trauma stesso, per esempio subito dopo aver assistito a un evento traumatico, o l’averlo subìto); in questo articolo scritto da Rachel Yahuda, uno dei riferimenti mondiali sullo studio del PTSD, viene approfondito l’uso dell’idrocortisone come possibile prevenzione dal formarsi di un PTSD.

A proposito di intervento peritraumatico, recentemente questo articolo uscito su Repubblica ha riproposto il lavoro fatto da Alain Brunet, docente di psichiatria e ricercatore al McGill’s Douglas Research Center di Montreal, e pubblicato su American Journal of Psychiatry a proposito dell’utilizzo di propranololo come “coadiuvante” nel lavoro con il PTSD.

Così come per l’utilizzo di MDMA, si tratterebbe in questo caso di “facilitare” il lavoro della psicoterapia somministrando al paziente questo betabloccante circa un’ora prima della seduta. In questo caso quindi, così come appunto si fa con l’MDMA, l’obiettivo sembra essere facilitare l’elaborazione del ricordo traumatico attenuando le reazioni somatiche conseguenti al suo presentarsi alla coscienza dell’individuo. Non è quindi un farmaco pensato per un intervento “mirato” alla rielaborazione del ricordo (di fatto inesistente), ma qualcosa che, come l’MDMA, potrebbe facilitare il suo “presentificarsi” alla coscienza poichè in grado di attenuarne le ripercussioni neurofisiologiche.

Anche qui osserviamo come il problema del PTSD non sia tanto la natura del ricordo traumatico in sé ma, a quanto sembra, lo scatenarsi di reazioni difensive potenti e autonome in senso corporeo quando il paziente tenti di “pensarlo” e, in teoria, elaborarlo.

Alcuni articoli di approfondimento sul lavoro di Alain Brunet, sono:

  1. articolo 1 (pubblicato nel 2018 sull’American Journal of Psychiatry, uno studio RCT su un campione di 60 adulti con PTSD; l’accento viene posto sul razionale clinico definito “pre-riattivazione”, ovvero, avrebbe senso che il farmaco venga somministrato prima della seduta terapeutica, e non dopo, proprio per evitare gli effetti neurofisiologici dell’accesso al ricordo traumatico).
  2. articolo 2 (gli autori valutano la differenza esistente tra somministrare propranololo prima o dopo la seduta terapeutica, osservando come i risultati in termini di consolidamento delle memorie traumatiche siano evidenti solo nel caso “prima”)
  3. articolo 3 (un editoriale di Brunet che riassume lo stato dell’arte della sua ricerca a proposito dell’utilizzo del farmaco)
  4. articolo 4 (sul gruppo di ricerca di Brunet)

Il lavoro di Brunet si è concentrato sul processo di riconsolidamento delle memorie traumatiche, qui approfondito.

In modo estremamente sintetico, possiamo definire il processo di riconsolidamento delle memorie come un processo di “riattivazione e ri- consolidamento” di memorie/ricordi già in precedenza immagazzinati. La terapia espositiva tenta di “smuovere” tracce mnestiche già consolidate, così da provocarne un ri-consolidamento migliore (qui un approfondimento)

Sappiamo genericamente che il PTSD può essere considerato un problema inerente la memoria.

Come qui approfondito, tutto ciò che nella terapia del PTSD possa produrre o condurre il paziente a smuovere le memorie traumatiche (EMDR, terapia espositiva), senza che queste vengano poi riconsolidate, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.

Considerato l’approccio trifasico al PTSD (prima fase: stabilizzazione dei sintomi, seconda fase: approccio alle memorie traumatiche, terza fase: integrazione), stiamo qui ragionando (così come Brunet e il lavoro con il propranololo) su come accedere in modo diretto al ricordo (quindi, la fase 2), per finalmente “lasciare il passato nel passato”.


IL LAVORO DI ESSAM DAOD NEI CONTESTI TRAUMATICI

Chi è Essam Doad?

Essam Daod è uno psichiatra esperto di disturbi traumatici, fondatore insieme alla compagna di un’associazione chiamata Humanity Crew. Insieme ad altri collaboratori, si stanno occupando di fornire un aiuto concreto ai migranti del Mar Mediterraneo meridionale (la base di lavoro, per loro, è la Grecia).

Daod è mediaticamente molto conosciuto, si veda per esempio questo Ted talk:

La missione principale del suo gruppo di lavoro è di portare cura psichiatrica immediata, ai bambini sopravvissuti a traumi legati al contesto dell’emigrazione. Nei video che lo riprendono, lo si vede per lo più con bambini appena sbarcati dopo pesanti viaggi in mare, spesso senza genitori.

La domanda che si fa Daod è semplice: come prevenire l’insorgere di un PTSD violento nella mente di questi bambini? Già solo il viaggio potrebbe costituirsi come evento traumatico, non tenendo conto di tutto ciò che questi bambini possano aver subito in precedenza.

Daod ragiona sugli aspetti dirompenti del trauma in termini narrativi. Un po’ come vediamo fare a Roberto Benigni ne La vita è bella -nel tentativo di spiegare al figlio gli eventi dell’Olocausto così da crearsene in tempo reale una narrazione coerente ed “edulcorata”- Doad tenta, con questi bambini, una ristrutturazione cognitiva peri-traumatica, una ri-narrazione di ciò che stanno vivendo.

Qui il suo sito.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

25 febbraio 2021

“SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA

di Raffaele Avico

The Guardian ha definito il progetto Shared Lives, presente su tutto il territorio del Regno Unito, come una delle 10 pratiche da adottare in futuro per cambiare il mondo in meglio.

Il progetto conta qualcosa come 12000 persone coinvolte, in altrettante famiglie. Consiste in una forma di accoglienza famigliare  -pagata- rivolta a persone con difficoltà di varia natura, dalla malattia mentale alla disabilità psichica, ed è usufruito anche da persone anziane.

L’idea è che all’interno di famiglie che si rendano disponibili in termini di tempo e spazio (per esempio offendo una camera vuota di casa propria), vengano inseriti ospiti che trascorreranno un tempo definito all’interno di un ambiente accogliente e differente dalle normali strutture di accoglienza presenti sul territorio.

Negli ultimi 20 anni progetti di questo tipo sono nati in molti paesi europei (partendo dalla cittadina di Geel in Belgio, poi in Francia e Germania) arrivando anche in Italia nella forma del piemontese IESA.

Shared Lives è una delle risposte offerte dalla sharing economy. Dove mancano le risorse, si organizzano forme di mutuo aiuto, a volte dando vita a servizi che rappresentano balzi in avanti in termini di pratiche sociali. Come succede anche per il nostrano IESA (attivo sul territorio piemontese da fine anni ’90), si tratta di produrre un’alternativa valida alla pratica del ricovero cronico e della lungodegenza in strutture protette. Le strutture, inoltre, sono genericamente estremamente dispendiose sia quando vi si acceda come privati (con rette che arrivano ai 6000€ al mese) che in termini di costi statali (la retta rimane uguale, ma viene pagata dall’Asl).

Progetti come Shared Lives riducono di molto i costi statali legati all’amministrazione clinica di pazienti con problematiche croniche, contemporaneamente facendo un atto di profonda intelligenza sociale. Immaginiamo per esempio il caso di un ragazzo con problematiche psichiche ospitato da una donna sola, come in questo breve video inglese. Come si osserva nel video, la “vita condivisa”, in questo caso, prosegue da 20 anni, con vantaggi reciproci per entrambi.

Nel video è posta anche la questione della “purezza” dell’intento della signora ospitante, che di fatto riceve settimanalmente dai 200£ ai 400£ per la gestione dell’ospite.

Su questo punto anche in Italia ci si imbatte in pareri contrari, che interpretano l’atto di ospitare come un gesto fatto esclusivamente a fini economici. L’esperienza dei nostri operatori IESA, di fatto, ha osservato il contrario, con convivenze armoniche che trascendono dalle mere questioni di denaro. Il fatto che il servizio venga pagato, è un normale incentivo ad attivare la presa in carico e a riconoscerne il valore, a vantaggio della famiglia, dell’ospitato e anche della struttura sanitaria in sé, enormemente sgravata dal punto di vista economico (un ospite IESA costa allo Stato qualcosa in più di 1000 euro, quando se lo stesso fosse residente in una struttura protetta, la sua permanenza potrebbe arrivare a costare anche 100/150€ al giorno).

I NUMERI NEL REGNO UNITO

The Guardian ha quindi eletto Shared Lives e il modello di inserimento “famigliare”, ottima pratica clinica che in futuro potrebbe allargarsi e diventare un modello ricorrente e diffuso.

Nel Regno Unito si conta, per il continente europeo, il maggior successo di questo modello, con 12.000 casi attivi e un incremento del 27% di casi negli ultimi due anni (secondo il report del 2016) e un taglio del 4% di casi inseriti in strutture protette. L’obiettivo, stando a questo report, è di raddoppiare la dimensione di Shared Lives nel giro di pochi anni, estendendo la pratica anche ai casi di persone anziane sole che preferiscano evitare l’inserimento all’interno di strutture chiuse.

Il servizio, sul territorio del Regno Unito, prevede l’inserimento di persone con problematiche diverse, compresa la macro-categoria dei disturbi dell’apprendimento (entro questa categoria il maggior numero di casi inseriti), la demenza e ovviamente la malattia mentale. Il progetto, alla cui guida c’è Alex Fox (qui il suo blog), nel caso -probabile- di un’espansione avente lo stesso tenore di crescita, permetterà di “salvare” una cifra equivalente a mezzo miliardo di sterline sul territorio del Regno Unito, nel giro di 4 anni.

NUOVE FORME DI INSERIMENTO

Tornando al territorio italiano e al citato progetto IESA, il mantenimento di un ospite all’interno di una famiglia ospitante costa allo Stato fino ai 1050€ al mese, con un risparmio di migliaia di euro al mese.

Queste nuove forme di politica sanitaria, quando possibili, rappresentano esperimenti di avanguardia in termini di de-isituzionalizzazione del paziente, non più costretto a forme nascoste di segregazione e lungodegenza, sia nel caso della malattia mentale che nei casi di disabilità psichica o legata all’età. Oltre a essere buona pratica clinica (si offre alla persona una reale possibilità di ricollocamento e un ambiente meno medicalizzato e freddo), presenta indiscussi vantaggi in termini economici, nell’ottica di creare migliori servizi usando le risorse del territorio, con costi minori.

Abbiamo altrove già scritto su questo tipo di reinserimento di pazienti psichiatrici.

Qui i link agli altri articoli:

  1. IESA su Psicologia Fenomenologica
  2. una mostra fotografica organizzata a Collegno sullo IESA
  3. Intervista scritta a Gianfranco Aluffi (responsabile IESA Collegno)
  4. Intervista video Gianfranco Aluffi

Article by admin / Generale / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicotraumatologia, raffaeleavico

21 febbraio 2021

IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1)

di Raffaele Avico


INTRODUZIONE

In un essere umano sano, un’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di creare un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. Nel resoconto che un individuo post-traumatizzato farà della sua esperienza, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà, nel ricordo, colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo ricordarlo, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato.

Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la non elaborabilità in termini mnestici.

La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria.

Sembrerebbe cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo ormai trascorso. Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, pur tuttavia attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamato Disturbo da Stress Post Traumatico, in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo.

Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè; centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, in realtà però meno intensa, ma in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo intenso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento, per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi, vissuti spesso nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo, verrà in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale, durato per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. Il trauma ha, in un certo senso, un impatto sempre identitario: con esso, la vita dell’individuo, cambia. Tuttavia, esisteranno differenti gradi di modellamento dell’identità dell’individuo a partire dalla differente tipologia di evento traumatico, come prima sottolineato.

All’interno di questo filone di articoli a tema “trauma negli animali”, ci occuperemo di traumi singoli e unici.

Non verranno cioè presi in considerazione traumi cumulativi, protratti, e in grado di alterare l’identità di un individuo nel contesto di un disturbo da attaccamento. Questo perché, come è chiaro dal titolo, questo vuole essere un approfondimento sulla natura più naturale dell’impatto del trauma sul corpo e sulla mente, questa volta in ambito animale.

La teoria psicotraumatologica riguardante l’essere umano, ci servirà come base per esplorare quali sono le conseguenze di una trauma nel mondo animale; l’obiettivo sarà tuttavia, a partire dalle constatazione che da queste osservazioni arriveranno, comprendere ancora una volta, e possibilmente meglio, come l’uomo fuoriesca e gestisca un evento traumatico.

Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto.

Per questo, il PTSD è stato definito come una patologia della memoria, ponendo appunto l’accento sulla sua difficile digestione in termini di memoria. I potenti strumenti di apprendimento messi a disposizione dell’uomo dall’evoluzione, sembrano ritorcersi contro di lui/lei contribuendo a far sì che per lungo tempo non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del ricordo traumatico.

Per questo, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.

Differenti autori hanno osservato come gli animali sembrino possedere strumenti differenti per far fronte a un PTSD, oppure al contrario riescano a gestire l’elaborazione di un ricordo traumatico per via dell’assenza di alcune strutture “ingombranti” invece possedute dall’uomo.

In questa serie di articoli verrà tentato un lavoro di comparazione tra le risposte post-traumatiche osservate sia nell’uomo che negli animali (in particolare cercando di fare una rilevazione della letteratura che, in ambito animale, si è occupata di trauma), al fine di arrivare a una lettura il più possibile “naturalistica”, per così dire, del PTSD nell’uomo.

Osservando più in profondità lo sviluppo della risposta post-traumatica in un animale, può essere più semplice per l’uomo rispecchiarsi in esso, tentando di rispondere alla domanda centrale di questo filone di articoli, riguardante in definitiva il perchè di una così diversa durata dello stress post-traumatico da animale, appunto, all’uomo.

Per comprendere come venga studiato il trauma negli animali, dobbiamo cercare di addentrarci nella letteratura specialistica, a cavallo tra studi di etologia animale, etologia trasposta all’essere umano, neurobiologia (come funziona nel dettaglio il sistema nervoso di un animale colpito da trauma, cosa che in teoria potrebbe illuminare ciò che succede nell’uomo), e in generale all’interno di quell’enorme contenitore colmo di lavori scientifici che cercano di creare un “modello animale” del PTSD, così da facilitarne, appunto, lo studio nell’uomo.

Troviamo a questo proposito molteplici studi, che tra l’altro potrebbero porre alcuni quesiti etici: maltrattare un animale a fini di ricerca (quello che viene fatto con gli animali, di fatto, sottoponendoli a shock termici, deprivazione sociale, violenza fisica), potrebbe da un lato aiutarci a capire meglio le nostre stesse reazioni, dall’altro metterci di fronte alla sostanziale brutalità dei metodi di ricerca. Non sembra però al momento esserci alternativa, vista la necessità sostanziale di osservare animali vivi sopravvissuti a un trauma, ed essendo necessario applicare a questi alcuni requisiti basali di ricerca quantitativa, per esempio la numerosità del campione, cosa che obbliga i ricercatori a “produrre” animali traumatizzati in modo artificioso/non naturale.

Diversi studi, dicevamo, hanno formulato un parallelismo tra il comportamento animale e quello umano: l’idea di fondo sembra essere connessa alla possibilità di meglio capire il comportamento umano a partire da quello animale. Il che è avvenuto, se pensiamo per esempio alla letteratura psicotraumatologica recente. Quando uno psicotraumatologo osserva un paziente in una condizione di alterazione neurofisiologica, di iper-arousal, la sua mente va a spiegare l’evento partendo da alcune griglie teoriche per lo più etologiche, del tutto simili a quelle che un etologo appunto userebbe per descrivere un cane pietrificato dalla paura improvvisamente illuminato da due fari di auto, nella notte. Osserverà cioè un comportamento umano leggendolo usando un filtro etologico, naturalistico, come farebbe appunto con un animale. Questo perchè esistono alcuni meccanismi, definiti “paleopsicologici”, che ci accomunano agli animali dotati di un sufficientemente evoluto sistema nervoso, tali da produrre in noi reazioni animalesche, pre-razionali, di fatto istintuali.

Cosa ci distingue, però, dagli animali sopravvissuti a un trauma? Alcuni hanno sostenuto che quello che veramente rende unico il PTSD umano, sembrano essere le tempistiche del suo sviluppo e soprattutto del suo mantenersi. Il PTSD umano si mantiene per tempi lunghissimi, arrivando a modellare in modo durevole il comportamento e la vita in generale dell’individuo. Gli animali al contrario riuscirebbero prima degli uomini a fuoriuscire da uno stress post traumatico, per via di alcuni meccanismi naturali di dissipazione corporea del trauma.

A proposito di questo, dobbiamo fare riferimento al concetto di abreazione e a quello di dissipazione.

La parole abreazione è un neologismo coniato per esprimere il senso di “lasciare andare”, evacuare per via corporea, un malessere di origine psicologica. Veniva usata, e viene usata, soprattutto in ambito psicoanalitico, per descrivere appunto il senso di “sfogare per via corporea” dopo aver portato alla “soglia della coscienza” del materiale psicologico rimosso, fino a quel momento inaccessibile alla coscienza.  Una crisi di nervi violenta, un corpo che si tende allo spasmo arcuandosi -come succedeva nella pazienti isteriche “classiche”-, sono esempi di tentativi di abreazione. Abreagire non vuol dire somatizzare: prevede un intervento più totale del corpo, incarnando il corpo stesso, in un momento definito, il malessere psichico portato dall’individuo, rivolto però verso l’”esterno”, verso il fuori.

Possiamo parlare di abreazione anche negli animali?

Se originariamente il termine abreazione indicava un evento di natura per lo più corporea (il fenomeno del tarantismo, le grandi crisi di agitazione durante un rituale sostenuto da una collettività osservante, potrebbe essere un altro esempio di abreazione), questo pareva essere giustificato da quello che -sempre psicoanaliticamente- potremmo chiamare “ritorno del rimosso”. Gli stessi precursori nella studi sull’isteria classica, osservavano come le isteriche sembrassero soffrire a causa del riaffiorare di “reminiscenze” -ricordi rimossi di origine traumatica.

Se ci spostiamo in ambito animale, si pongono ovvi problemi di ordine metodologico, non potendo accedere ad alcun tipo di comunicazione diretta inerente la mente di alcun tipo di animale, essendo noi costretti a bypassare i contenuti mentali dell’animale da noi osservato, per ragionare in termini di output e input. Per questo, sembra naturale osservare l’impossibilità di usare lo stesso termine -abreazione- per descrivere il fenomeno dell’evacuazione del “vissuto traumatico” per via corporea: è più appropriato in questo caso usare il termine dissipazione.

Il fatto che un vissuto post traumatico venga dissipato per via corporea, è stato osservato su diversi animali, con modalità differenti.

Ma come viene studiato, negli animali, il trauma, e con quali metodi?

Cerchiamo di addentrarci all’interno della questione dei “modelli animali”.

Può sembrare naturale che gli animali vengano studiati per comprendere alcuni meccanismi umani, ma questo approccio di base reca con sè una serie di assunti di fondamentale importanza scientifica, che potremmo riassumere in alcuni punti:

  • se studiamo gli animali, è perché assumiamo che alcuni meccanismi neurobiologici siano sostanzialmente sovrapponibili ai meccanismi neurobiologici umani (per esempio, riteniamo sostanzialmente sovrapponibili i meccanismi neurobiologici dei topi ai meccanismi paleopsicologici umani -pensiamo per esempio l’enorme mole di studi che sono stati condotti e vengono tuttora condotti sul tema addiction/gratificazione). Naturalmente questo lo riteniamo vero con alcuni tipi di animali: vedremo successivamente come esistano delle differenze neuroanatomiche specifiche, che ci porteranno a ulteriori riflessioni in merito.
  • se studiamo gli animali, è perchè siamo in grado di rappresentare la nostra specie come composta da “animali”, con le stesse proprietà di altri animali dotati di sistema nervoso; implicitamente, inoltre, in questo modo sottolineiamo come alcuni dei comportamenti umani siano figli di meccanismi neurobiologici non mediati da libero arbitrio, e non velleitari; questo punto ci fa inoltre riflettere su quando una parte della ricerca in ambito psichiatrico/psicologico porti con sè una visione del comportamento umano per lo più “biologista”. Questa visione implica che l’uomo sia figlio dei suoi stessi meccanismi biologici, almeno per alcuni tipi di comportamento (quelli per esempio che più ci rendono simili agli animali, mediati da zone profonde e antiche del cervello)

UN ARTICOLO INTRODUTTIVO (da Nature)

In questo articolo pubblicato su Nature, troviamo alcune considerazioni importanti a riguardo dello studio del PTSD negli animali.

Viene fatta una rassegna di quelli che sono i principali sintomi del PTSD, divisi per cluster, nell’uomo, interrogando il lettore con una semplice domanda: quali sono i sintomi misurabili in senso empirico, del PTSD, nel topo?

Ne risulta una breve rassegna su cosa sia indagabile e cosa no, arrivando a concludere che l’unico sintomo realmente non misurabile, per ovvie ragioni, è la presenza di pensieri intrusivi.

É forse utile fare un brevissimo riassunto di come il DSM 5 raggruppi i sintomi da PTSD. Sappiamo che i sintomi del post trauma sono divisibili in 4 cluster:

  1. Riesperienza
  2. Evitamento
  3. Cognizioni negative
  4. Iper-arousal e iperestesia

Sappiamo cioè che un evento traumatico tende a essere rivissuto in modo acceso per via di coinvolgenti flashback vissuti dal “sopravvissuto”, a causa dei quali lo stesso tenderà a evitare alcuni luoghi/situazioni. Inoltre, sappiamo che lo stress post traumatico tende a generare nell’individuo un senso di negatività auto-diretta, relativa a sè, attraverso quelle che vengono chiamate “cognizioni negative”. Infine, come a contorno di tutto questo, osserviamo come nel PTSD il livello di attivazione generale del sistema nervoso autonomo (l’arousal), sia costantemente sbilanciato verso l’alto, con tutto ciò che ne deriva: in particolare, un livello costante di iper-arousal conduce all’iper-estesia, cioè a una percezione anomala e amplificata di alcuni aspetti dell’esperienza sensoriale (come sentire i rumori, o alcuni rumori, in modo troppo acceso, o interpretare alcuni aspetti dell’esperienza in modo minaccioso/distorto).

Per quanto riguarda la ricerca nel topo, come si diceva, i pensieri intrusivi, la riesperienza e i flashback non sono indagabili, per l’impossibilità di accedere all’esperienza rappresentata -mentale- del topo stesso; l’evitamento è tuttavia facilmente osservabile, di fronte a possibili trigger che rievochino nella mente del topo l’evento traumatico; per quanto riguarda le cognizioni negative, i ricercatori sostengono di riuscire a inferire la presenza di cognizioni negative attraverso test inerenti la motivazione, la preferenza sociale e il test della “preferenza edonica”; per quanto riguarda invece lo stato di attivazione neurofisiologica del topo (arousal), viene osservato come esistano molteplici strumenti di rilevazione del livello di arousal; infine, osservano che, così come accade per l’uomo, per poter attribuire al topo il vivere una condizione di post trauma, debba essere passato un certo lasso di tempo (non necessariamente un mese), così da escludere l’ipotesi che il topo studiato non stia vivendo semplicemente una condizione di post trauma acuta e strettamente contestuale.

Torniamo all’articolo su Nature. Gli autori si pongono alcuni domande:

  1. Come costruire un buon modello animale (per meglio capire il PTSD nell’uomo)?
  2. Come poter asserire che il PTSD in un uomo si comporta allo stesso modo, in un topo?

Gli autori elencano alcuni aspetti inerenti la neurobiologia del PTSD, compresi gli aspetti più profondi, genetici, cercando parallelismi nel topo. Si domandano infatti se il trovare distorsioni in alcuni meccanismi neurobiologici conseguenti al PTSD, sia negli animali che nell’uomo, non sia segno di una prova provata dell’intervento di quello stesso meccanismo nell’insorgere di un PTSD.

Qui, riassunti, tutti i parallelismi.

Sempre su questa linea, osservano anche come per costruire un buon modello animale del PTSD, si possa passare per via farmacologica: se uno stesso farmaco ottiene stessi risultati, benefici, sul PTSD di un animale e di un uomo, potremo trarne che i meccanismi sui cui il farmaco agisce, sono perlomeno simili. Il problema, osservano gli autori, è che non esiste un approccio farmacologico gold-standard, come altrove abbiamo osservato.

Che fare, dunque? Gli autori intendono proporre una nuova linea di ricerca. Come premessa, osservano che:

  • generalmente, il PTSD negli animali è studiato a partire dal tipo di trauma, sottoponendo gli animali (in questo caso, il topo) a differenti tipi di stress. Qui una rassegna completa delle tipologie di traumi costruiti artificialmente per il topo.
  • Uno dei paradigmi più studiati, è il paradigma della risposta condizionata alla paura. Seguendo questo tipo di ragionamento, il PTSD sarebbe da considerarsi una forma distorta e grave di condizionamento primario, un apprendimento pavloviano in piena regola. Ne abbiamo scritto altrove quando abbiamo parlato del PTSD come di un “apprendimento a prova singola”, teoria proposta anche da Stephen Porges

Continuando nella lettura dell’articolo, notiamo come uno degli aspetti più difficili nella costruzione di un modello animale per il trauma, sia il replicare gli eventi traumatici all’interno della vita dell’animale.

Come si è visto e qui troviamo riassunto, esistono molteplici vie che ci consentono di ricreare un trauma in un animale.

Il punto, al di là del tipo di trauma ricreato in laboratorio, è ragionare sul perché applicare un certo tipo di stimolo a quel particolare animale, e in che modo.

L’aspetto più importante su cui riflettono gli autori, è senza dubbio il tema della risposta condizionata alla paura.

Anche qui, vediamo come lo stress post traumatico venga interpretato come una forma estrema e prolungata di condizionamento, tanto forte e duraturo da modellare la vita dell’individuo in più modi.

Ovviamente, ragionano gli autori, questa visione assume che il meccanismo di fondo per lo sviluppo del PTSD sia un meccanismo di condizionamento, cioè di apprendimento: questa cosa non è scontata e andrebbe tenuta in “forse”.

COME DIAGNOSTICARE CORRETTAMENTE PTSD NEGLI ANIMALI DA LABORATORIO?

Procedendo nella disamina su “come stressare” in modo eticamente corretto e alla stesso tempo utile a generare nell’animale una riposta post traumatica, gli autori si pongono alcune questioni importanti; in sequenza:

  1. sulla popolazione umana colpita da trauma, solo il 10% sviluppa PTSD
  2. in questo senso, “procurare” una trauma a un animale, potrebbe non essere sufficiente affinché questo sviluppi uno stress post traumatico
  3. come risolvere questo problema? in due modi: A e B
  4. A) valutando fattori di rischio pregressi nel corso della vita dell’animale
  5. B) effettuando analisi dettagliate del comportamento dell’animale a seguito della traumatizzazione, per comprendere se abbia sviluppato -effettivamente – un PTSD

Per quanto riguarda i fattori di rischio, diverse evidenze sono state trovate in termini di fattori di rischio (nei ratti).

I fattori di rischio predisporrebbero a uno sviluppo di PTSD da parte dell’animale.

Nello specifico:

  1. una tendenza ansiosa precendente all’evento traumatico, misurata in vari modi

Per quanto riguarda l’uomo:

  1. eventi distali avversi (infanzia traumatica, eventi avversi generici antecedenti al trauma) in grado di procurare alterazioni in senso epigenetico sullo sviluppo del soggetto stesso
  2. eventi prossimali avversi (deprivazione del sonno, uso di alcol, droghe, etc.)

Per quanto riguarda invece il problema della resilienza individuale animale, cosa che renderebbe difficile capire quale degli animali abbia realmente sviluppato un PTSD, gli autori raccontano di un procedimento altamente specifico di diagnosi del PTSD negli animali partendo ovviamente da un criterio temporale (+ di 30 giorni di sintomi continuativi, criterio tra l’altro valido anche nell’uomo), per arrivare a una serie di test e procedure molto selettive qui descritte.

Gli autori concludono con alcune considerazioni:

  1. un modello animale ci vuole, con tutti i limiti del caso: solo così sarà possibile dettagliare meglio le ragioni di forme di resilienza presenti in alcuni individui piuttosto che altri, a partire da aspetti neurobiologici finora controversi o non ancora pienamente compresi
  2. esistono fattori predisponenti al PTSD. Allo stato attuale, le donne sono maggiormente predisposte (nell’essere umano più che nei ratti, anche per ragioni sociali), così come altri fattori (eventi distali, prossimali, etc.). Qui il riassunto di questi aspetti
  3. la possibilità in futuro di creare animali mutati geneticamente allo scopo di studiare la correlazione tra differenze genetiche, e sviluppo di stress post traumatico, è un elemento da tenere in considerazione nella creazione di modelli animali sempre più raffinati (si veda qui)
  4. la localizzazione più dettagliata dei circuiti neurali implicati nel PTSD, si potrà giovare, in futuro, di tecniche di avanguardia, come la deep brain stimulation -si veda per un approfondimento, sempre su Nature, qui)

Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

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15 febbraio 2021

FLOW: una definizione

di Raffaele Avico

In ambito di psicologia dello sport, ma non solo, un particolare concetto merita di essere approfondito, soprattutto vista la tendenza attuale alla dispersione dell’attenzione e il successo che il concetto di “multitasking” riscuote: l’esperienza di flow, o “flusso ottimale”.

Lo psicologo Mihaly Csikszentmihalyi, fu il primo a teorizzare questo stato mentale o posizione della mente, impegnata e assorbita nell’eseguire una serie di operazioni in modo sequenziale, una dopo l’altra, come appunto in un flusso.

Csikszentmihalyi ha fatto del flow l’oggetto principale delle sue ricerche inerenti la psicologia generale.

Lo psicologo definisce il flow come uno stato di assorbimento totale della mente in una serie di operazioni che sono una collegata all’altra: queste azioni sono svolte a una velocità sufficiente a far sì che la mente sia costretta a prestare attenzione all’atto eseguito, ma non così velocemente da frustrarla.

In ambito sportivo immaginiamo una sequenza di esercizi che si susseguano con la giusta velocità tale da necessitare un’attenzione completamente assorbita dal momento presente.

Esistono anche altri ambiti in cui può essere ricercato il flow: l’ambito dell’artigianato in tutte le sue forme o l’ambito musicale. Per fare un esempio, una scala può essere suonata sul manico di una chitarra a una velocità tale da non procurare ansia nel cercare “di “stare dietro” alla velocità di esecuzione, ma con sufficiente rapidità da impedire che la mente si distragga e “si allontani” durante l’esecuzione.

In questo modo, seguendo il flow, entriamo in uno stato mentale simil-alterato (lo psicologo lo paragona a uno stato di estasi, ovvero -come l’etimo del termine suggerisce- di entrata in una realtà “differente”), dato che l’attenzione e la nostra intera coscienza divengono l’atto stesso, incarnato durante il movimento. In quel momento, Csikszentmihalyi spiega, noi diveniamo quel gesto, la nostra intera esistenza si concentra in quel momento.

Lo psicologo, inoltre, sottolinea come per elicitare lo stato di flow, due condizioni possano favorire “innesco”: il fare qualcosa che si ama (il lavoro, un atto creativo, etc.) e il portare la mente in uno stato, come si diceva, di “tensione positiva”, ovvero di arousal lievemente alterato così da far convergere l’attenzione in quel solo gesto (come quando ci si sente coinvolti in una “sfida” e ci si sente sotto pressione).

MINDFULNESS E FLOW

Il successo che le pratiche di mindfulness hanno riscosso negli ultimi anni, testimonia la necessità e la voglia di molti di tornare al “mono-tasking”, di fare una cosa alla volta, con più calma e assorbimento.

Il flow è un esempio di pratica mindful dato che conduce a un’esperienza di mente “piena” e chiarificata, totalmente concentrata nel momento presente. Eseguire il flow, entrare nel flow, ha la stessa funzione ansiolitica di una pratica meditativa, poiché l’attenzione è allo stesso modo incatenata al momento presente. La differenza è che si sta svolgendo una sequenza di azioni.

Interessante in questo senso approfondire il concetto di craftfulness.

Qui il TED talk in cui Mihaly Csikszentmihalyi parla in modo molto chiaro dei suoi studi e dei suoi propositi di ricerca:


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8 febbraio 2021

NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD)

di Marco Colamartino

La neurobiologia del PTSD è un argomento tutt’oggi in fase di studio e di approfondimento in quanto non sono stati ancora compresi chiaramente i meccanismi che collegano l’esposizione ad un evento traumatico e le conseguenze neurobiologiche sottostanti.

La ricerca oggi ci suggerisce però che la neurobiologia del PTSD è sicuramente multifattoriale e legata a fattori evoluzionistici; e, seppur ancora in fase di studio, si può andare a delineare uno schema generale di quelli che sono i principali meccanismi neurobiologici alterati dall’esposizione all’evento traumatico. I principali meccanismi sono legati a:

  • Fattori endocrini
  • Catecolamine
  • Serotonina
  • GABA
  • Neuropeptide Y

Per “fattori endocrini” intendiamo il coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA – Hypothalamic Pituitary-Adrenal axis) che solitamente risponde a diversi fattori stressanti.

Durante una condizione di stress, l’ipotalamo (in particolar modo il nucleo ipotalamico ventricolare, PVN) produce un ormone, la corticotropina (CRH); questa stimola l’azione dell’ipofisi anteriore che risponderà producendo l’adrenocorticotropina (ACTH). L’adrenocorticotropina infine stimolerà il rilascio di cortisolo (ormone glucocorticoide) legandosi a recettori ad hoc posti sulle ghiandole surrenali. In seguito, il cortisolo prodotto si legherà a recettori specifici in grado di generare una cascata di modificazioni biochimiche nell’organismo. I recettori per i glucocorticoidi sono posti praticamente in ogni parte del cervello e hanno l’importantissimo ruolo di stimolare o sopprimere la risposta di un soggetto ad un evento, o prepararlo a rispondere a stimoli successivi.

Durante l’esposizione ad uno stress (soprattutto cronico) l’asse HPA risponde con una produzione alterata e continua di glucocorticoidi. Diversi studi dimostrano che alti livelli di glucocorticoidi riducono il funzionamento dei neuroni ippocampali e corticali, producendo effetti negativi anche sul sistema immunitario; oltre questo, iperattivano i neuroni dell’amigdala e del tronco encefalico (Arborelius L. et al, 1999; Nestler EJ. et al, 2002).

Il processo appena descritto viene alterato esponendo il soggetto a traumi particolarmente importanti e nel PSTD. Infatti, studi effettuati su pazienti abusati (Yehuda R., 2006) hanno osservato una diminuzione della concentrazione, nel sangue e nelle urine, del cortisolo rispetto a soggetti sani. L’abbassamento della concentrazione di cortisolo in questi soggetti può essere dovuto al fatto che l’HPA diventi più sensibile ad un feedback negativo; tale spiegazione è supportata dal fatto che, in questi pazienti, è stata trovato un aumento consistente dei recettori per i glucocorticoidi (Yehuda R., 2006). La diminuita produzione basale di cortisolo porterebbe, inoltre, questi soggetti ad avere delle risposte maladattative a stimoli stressanti sia cronici che acuti.

Il fatto che l’HPA sia uno dei meccanismi neuroendocrini colpiti dall’esposizione ad un evento traumatico ci porta a considerare che un soggetto che presenta di per sé bassi livelli di cortisolo, potrebbe essere più suscettibile ad un evento traumatico e quindi allo sviluppo del PTSD (Resnick HS. et al, 1995).

L’importanza del coinvolgimento dell’HPA è supportata dal fatto che l’utilizzo di idrocortisone è efficace nel trattamento sintomatologico di pazienti con PSTD (l’idrocortisone stimola il normale cortisolo circadiano).

Le catecolamine sono una famiglia di neurotrasmettitori che includono la dopamina (DA) e la noradrenalina (NE).

Misurazioni dei livelli di metaboliti dopaminergici nelle urine in soggetti con PSTD hanno dimostrato un aumento dei livelli di dopamina in questi pazienti. I meccanismi sono ancora oggi in fase di approfondimento, ma è probabile che la disregolazione dell’asse HPA come sopra descritto possa esserne una delle cause; infatti, in situazioni stressanti, il rilascio dopaminergico viene molto influenzato dall’attività dell’asse HPA.

La noradrenalina è uno dei neurotrasmettitori più coinvolti nelle risposte allo stress. La maggior parte dei neuroni noradrenergici è presente nel Locus Ceruleus e da qui proiettano praticamente a quasi tutto il cervello (principalmente corteccia prefrontale, amigdala, ippocampo, ipotalamo). Inoltre, è nota l’esistenza di un circuito che connette amigdala-ipotalamo e Locus Ceruleus nel quale il CRH e la NE sono coinvolte nell’aumentare il condizionamento alla paura, la codifica dei ricordi emotivi, l’arousal e la vigilanza. Questo circuito viene solitamente influenzato dai glucocorticoidi. E’ noto anche che la NE insieme all’adrenalina sia uno dei principali neurotrasmettitori responsabili dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, che è proprio uno dei principali sistemi coinvolti nei pazienti con PSTD. Infatti, soggetti traumatizzati manifestano una sostenuta iperattività del sistema nervoso simpatico autonomo, mostrando elevata frequenza cardiaca, pressione sanguigna e conduttanza cutanea; inoltre, questi soggetti hanno un’elevata presenza di metaboliti noradrenergici presenti nelle urine.

Soffermandoci per un attimo sulla farmacologia, possiamo aggiungere che somministrando yohimbina (agonista di uno dei recettori noradrenergici, α2) i soggetti con PSTD mostrano un’esasperazione della sintomatologia, soprattutto delle risposte autonome e dei flashback (Southwick SM. et al, 1999); viceversa, somministrando antagonisti noradrenergici, la gravità dei sintomi e la reattività al trauma diminuisce drasticamente (Pitman RK. et al, 2002).

La serotonina (5HT) è un neurotrasmettitore monoaminergico. I neuroni serotoninergici hanno origine nei nuclei del Raphe e proiettano in diverse regioni cerebrali, quali l’amigdala, lo striato, l’ippocampo, l’ipotalamo e la corteccia prefrontale. La serotonina regola solitamente funzioni importanti come il sonno, l’appetito, il comportamento sessuale, l’aggressione/impulsività, le funzioni motorie. Studi effettuati su modelli murini hanno dimostrato che l’esposizione cronica ad uno stimolo stressante aumenta la produzione di specifici recettori serotoninergici (chiamati 5HT1A) che amplificano gli effetti ansiogeni a lungo termine.

La serotonina interagisce anche con il CRH e la NE nel coordinare le risposte affettive e quelle di stress (Vermetten E. et al, 2002; Ressler K. et al, 2000).

Anche se attualmente il legame tra il sistema serotoninergico e il PSTD non è ancora del tutto chiaro, è la farmacologia a darci prove più concrete. Non solo gli SSRI (antidepressivi che agiscono inibendo il reuptake serotoninergico) hanno buoni effetti terapeutici sui pazienti con PSTD, ma soggetti che hanno assunto droghe agenti sul sistema serotoninergico come l’MDMA (chiama più comunemente “Ecstasy”) hanno avuto miglioramenti terapeutici sostanziali nella sintomatologia del PSTD (Bonne O. et al, 2005)

Il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio cerebrale ed ha effetti inibitori diretti anche sul circuito CRH/NE di cui abbiamo parlato sopra. Un particolare recettore del neurotrasmettitore GABA, il GABAA, si accoppia ai recettori benzodiazepinici che hanno la funzione di potenziare l’effetto inibitorio del GABA. Stress molto elevati o traumi possono alterare il complesso recettoriale GABAA – benzodiazepine. Studi di neuroimmagine (PET) hanno osservato che i pazienti con PSTD mostrano effettivamente questa alterazione e una diminuzione sostanziale dei recettori benzodiazepinici accoppiati al GABAA nella corteccia prefrontale, talamo e ippocampo (Bremner JD. et al, 2000; Geuze E. et al, 2008).

Passiamo ora a discutere sull’ultimo aspetto neurobiologico collegato allo sviluppo del PSTD: il neuropeptide Y. Il neuropeptide Y (NPY) è un polipeptide abbastanza diffuso nel sistema nervoso centrale e modula diverse azioni (come l’appetito, la vasocostrizione) interagendo spesso con i neuroni noradrenergici. Infatti, il NPY inibisce il circuito CRH/NE coinvolto nello stress e nella paura condizionata e riduce il rilascio noradrenergico dal sistema nervoso simpatico. E’ stato osservato che pazienti con PSTD hanno un bassissimo livello plasmatico di NPY (Rasmusson AM. et al, 2000) e che soggetti che presentano elevati livelli basali di NPY sembrano avere una maggiore resilienza al PSTD rispetto agli altri (Yehuda R., 2006).

CONCLUSIONI

Concludendo, possiamo dire che le alterazioni biologiche che colpiscono i pazienti con PSTD sono molte e probabilmente tutte connesse l’una con l’altra.

La disregolazione complessiva di molti sistemi biologici è probabilmente dovuta a una serie di risposte messe in atto con lo scopo di adattarsi allo stimolo traumatico ma che alterano definitivamente un equilibrio biologico.

Nella costellazione di alterazioni biologiche, emerge sicuramente quella del cortisolo, che sembra essere uno dei meccanismi chiave coinvolti nella comparsa della sintomatologia del PSTD. Questa alterazione, insieme a tutte le altre, (come abbiamo visto) porta a modifiche strutturali di varie aree cerebrali (come l’ippocampo o l’amigdala) che provocano a loro volta la cascata di sintomi tipici del PSTD (ipervigilanza, iperattivazione, associazioni di paura, flashback).

Gli studi futuri dovranno concentrarsi sul chiarificare e approfondire tutti i meccanismi biologici coinvolti in questo disturbo, con l’obiettivo di trovare una cura definitiva che possa diminuire (o risolvere) la sintomatologia dei pazienti con PSTD e che abbia effetti positivi sulla qualità della loro vita.

BIBLIOGRAFIA

  1. Arborelius L, Owens MJ, Plotsky PM, Nemeroff CB. The role of corticotropin-releasing factor in depression and anxiety disorders. J Endocrinol. 1999;160:1-12.
  2. Bonne O, Bain E, Neumeister A, et al. No change in serotonin type 1A receptor binding in patients with posttraumatic stress disorder. Am J Psychiatry. 2005;162:383-385.
  3. Bremner JD, Innis RB, Southwick SM, Staib L, Zoghbi S, Charney DS. Decreased benzodiazepine receptor binding in prefrontal cortex in combatrelated posttraumatic stress disorder. Am J Psychiatry. 2000;157:1120-1126.
  4. Geuze E, van Berckel BN, Lammertsma AA, et al. Reduced GABAA benzodiazepine receptor binding in veterans with post-traumatic stress disorder. Mol Psychiatry. 2008;13:74-83.
  5. Nestler EJ, Barrot M, DiLeone RJ, Eisch AJ, Gold SJ, Monteggia LM. Neurobiology of depression. Neuron. 2002;34:13-25.
  6. Pitman RK, Sanders KM, Zusman RM, et al. Pilot study of secondary prevention of posttraumatic stress disorder with propranolol. Biol Psychiatry. 2002;51:189-192.
  7. Rasmusson AM, Hauger RL, Morgan CA, Bremner JD, Charney DS, Southwick SM. Low baseline and yohimbine-stimulated plasma neuropeptide Y (NPY) levels in combat-related PTSD. Biol Psychiatry. 2000;47:526-539.
  8. Resnick HS, Yehuda R, Pitman RK, Foy DW. Effect of previous trauma on acute plasma cortisol level following rape. Am J Psychiatry. 1995;152:1675-1677.
  9. Ressler K, Nemeroff CB. Role of serotonergic and noradrenergic systems in the pathophysiology of depression and anxiety disorders. Depress Anxiety. 2000;12:2-19.
  10. Southwick SM, Bremner JD, Rasmusson A, Morgan CA 3rd, Arnsten A, Charney DS. Role of norepinephrine in the pathophysiology and treatment of posttraumatic stress disorder. Biol Psychiatry. 1999;46:1192-1204.
  11. Vermetten E, Bremner JD. Circuits and systems in stress. II. Applications to neurobiology and treatment in posttraumatic stress disorder. Depress Anxiety. 2002;16:14-38.
  12. Yehuda R. Advances in understanding neuroendocrine alterations in PTSD and their therapeutic implications. Ann N Y Acad Sci. 2006;1071:137-166.

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3 febbraio 2021

PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI

di Raffaele Avico

Abbiamo nella prima parte di questo articolo cercato di approfondire alcuni aspetti psicologici della carcerazione prendendo spunto dal sito, molto ricco, ristretti.it

Sempre su questo sito troviamo delle tesi, pubblicate intere, svolte da studenti o studiosi di diritto, psicologia, sociologia e altre discipline, a proposito della vita in carcere e dei suoi risvolti sulla psiche e le relazioni.

Tra queste troviamo una tesi in sociologia del Diritto scritta da Carmelo Musumeci, egli stesso incarcerato a vita, dal titolo “Vivere l’ergastolo“.

Musumeci scrive:

“La pena dell‘ergastolo non è un deterrente, non migliora l’uomo, non ha niente di ragionevole e istituzionalizza la vendetta attraverso la sofferenza, rispondendo alla violenza criminale con la violenza legale”

Il suo proposito è indagare il vissuto dei carcerati “fine pena mai”. In questo lavoro si propone di eseguire un’indagine allargata su alcuni aspetti della vita da ergastolano, attraverso alcune domande mirate da far rispondere a più persone possibile.

La tesi è di estremo interesse perchè ci consente di gettare uno sguardo diretto sull’esperienza portata da un campione di individui -suddivisi in questo modo, su più carceri: Opera (Milano) 1 questionario, Novara 1, Prato 2, Sollicciano (Firenze) 1, Livorno 4, Volterra 1, Fossombrone 10, Rebibbia (Roma) 3, Sulmona 4, L‘Aquila 1, Carinola 8, Melfi 1, Palmi 1, Trapani 1, Bicocca (Catania) 1, Ucciardone (Palermo) 1, Trapani 1, Nuoro 6.

Ecco un estratto dal lavoro.

A domanda fatta (in grassetto) si susseguono le risposte date dai diversi intervistati (indicati con Q46, Q35, etc.), in corsivo.

  1. La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere, a tuo parere, ti ha cambiato in meglio o in peggio?
  • Q46 “La sofferenza dell’ergastolo è qualcosa di davvero indescrivibile, ti stordisce, ti lascia il segno per tutta la vita, stravolge la tua esistenza a tal punto che non sai se è stato un cambiamento peggiore o migliore, solo l’esperienza del carcere ti lascia capire il tuo cambiamento”.
  • Q16 “La sofferenza della pena dell’ergastolo e l’esperienza del carcere non mi hanno certo cambiato in meglio, con la soppressione non si migliorano le persone; quello che mi ha totalmente cambiato è stato l’amore della mia famiglia che mi ha dimostrato in questo periodo particolare”.
  • Q10 “Come è noto la sofferenza fa crescere interiormente, ti fa avere un concetto del mondo diverso rispetto a quando la tua vita era libera dalle catene”.
  • Q1 “La sofferenza indurisce e chi soffre spesso diventa egoista ed individualista, quindi credo anche se in minima parte di essere peggiorato.”
  • Q5 “Sicuramente la detenzione non influisce positivamente sul carattere di alcuna persona, difatti porta inesorabilmente ad uno stato di sottomissione parziale, nonché perenne nei casi degli ergastolani.”
  • Q40 “Il carcere non fa altro che aggiungere male al male”
  • Q39 “Sono più consapevole della vita, ma credo che questo dipenda dall’età. Il carcere se non sai affrontarlo può abbrutirti o rincretinirti”.
  • Q30 “Questo carcere non può cambiare niente, solo aggiungere dolore.”
  • Q24 “Certamente in meglio, dopo tanti anni di carcere riesci ad apprezzare tutto ciò che ti offre la vita.”
  • Q41 “Credo in meglio perché conosco il dolore… non vorrei che il mio prossimo avesse la stessa la sorte.”
  • Q37 “Nella sofferenza s’imparano tante cose… il tutto è saperli mettere in pratica poi, purtroppo, non tutti ci riescano però. La gente cosiddetta per bene discrimina il detenuto… Fa male! Guai se il mondo si dividesse in buoni e cattivi, sarebbe la fine.
  • Q32 “Questo lo dovrebbero giudicare gli altri; io so solo che vorrei vivere da eremita.”
  • Q23 “Sicuramente mi ha insegnato a conoscere meglio le persone, a dominare l’impulsività, a conoscere meglio me stesso e cosa voglio veramente dalla vita.”
  • Q13 “In peggio.”
  • Q9 “L’esperienza del carcere non ti cambia in meglio specie quando è afflittiva, ci vorrebbe poco per migliorarla”.
  • Q20 “Sicuramente mi ha fatto riflettere su molti aspetti della propria persona, e sicuramente mi ha cambiato in meglio”.
  • Q4 “La sofferenza dell’ergastolo e l’esperienza del carcere ha rafforzato il mio carattere, mi ha cambiato in meglio, almeno credo”.
  • Q12 “Per certi versi in peggio”.
  • Q19 “In peggio”.
  • Q27 “Mi porta a riflettere sul mio passato”.
  • Q28 “Mi hanno fatto conoscere la grandezza e la miseria umana. Non so se sono cambiato in meglio o in peggio, non riesco a giudicarmi”.
  • Q38 “Sicuramente in peggio”.
  • Q35 “Non lo so …, a volte mi faccio forza per dirmi che in fondo anche questa nuova esperienza tragica … è un segno positivo…”.
  • Q29 “Sicuramente in peggio! Il carcere può tirarti fuori solo quello”.
  • Q34 “In peggio perché non solo danno ergastoli con molta facilità ma poi in carcere c’è pure chi se la gode”.
  • Q33“Mi ha migliorato sotto l’aspetto culturale, fuori non avevo tempo di leggere tanti libri. Mi ha fatto conoscere di più la cattiveria umana. Sono cambiato in meglio”.
  • Q43“Lo valuterò un giorno che avrò l’occasione di confrontarmi con il mondo esterno”.
  • Q45 “Non so se sono cambiato in meglio o in peggio, so solo che la sofferenza ha il sopravvento su tutto.” 
  1. Hai oggi disturbi psicofisici come: difficoltà a dormire, paure, manie, problemi riguardanti il cibo… ecc.?
  • Q46 “Maggiormente sono i problemi psicofisici che in questi lunghi anni di detenzione mi hanno colpito di più, quello che più mi tormenta e mi fa disperare è la difficoltà a dormire. Da anni soffro di una grave forma d’insonnia, una sofferenza che ha aggravato di molto il mio stato detentivo
  • Q16 “No, non ho disturbi psicofisici, per dormire ci riesco bene perché durante il giorno mi stanco moltissimo tra sport, artigianato, ecc. manie non per niente, paure no, forse più che la paura è la preoccupazione quando i miei vengono a trovarmi, caso mai succeda qualcosa durante il tragitto. Per il cibo ripeto che problemi si possono avere o mangi quello che passano o che ti permettono di comprare, sempre che uno abbia disponibilità economica, o stai a digiuno, dalla finestra non ti puoi buttare, ci sono le sbarre.”
  • Q10 “Ho difficoltà a dormire, questi sono gli effetti devastanti che ha il carcere sul tuo sistema nervoso, il quale è sottoposto quotidianamente ad una “buona” dose di stress.”
  • Q1 “Non ho difficoltà, tranne il fatto che ormai dormo pochissimo massimo 4, 5 ore.”
  • Q5 “Niente di tutto questo, a parte un po’ di insonnia.”
  • Q40 “Ho sempre la paura, tutte le mattine, di svegliarmi in carcere e quando la sera mi chiudono il blindato (la seconda porta) mi sento in trappola…”
  • Q39 “Si, ma nulla che non riesca a controllare.”
  • Q30 “Ho solo problemi con alcuni cibi, il latte e le melanzane.”
  • Q24 “Sono fissato per l’ordine e l’igiene.”
  • Q32 “Ho solo il desiderio di morire presto.”
  • Q23 “Non ho particolare problemi di dormire… ho comunque anch’io le mie paure, le mie ansie, come tutti, ed in periodi in cui si accentuano, ne risento un po’ di più, ma in linea di massima riesco a stare abbastanza tranquillo”
  • Q7 “No, certo con l’avanzare degli anni dormo un po’ di meno, manie non me ne vedo, ma su di me, sono sempre stato poco critico.”
  • Q3 “Difficoltà nel dormire “
  • Q11 “Sì, per mangiare posso mangiare poche cose e qui dentro è un problema dato che da mangiare non danno nulla”
  • Q31 “No, me ne frego di tutto e di tutti negli ultimi anni. Fino a metà pena cioè ai 12 anni di carcere, avevo dei problemi a dormire e nervosismo”.
  • Q9 “Difficoltà a dormire, problemi riguardanti il cibo, paure interiori”.
  • Q4 “Sì, oggi dopo tanti lunghi anni di galera ho difficoltà di dormire”.
  • Q21 “Sì, a volte quando mi spoglio ho degli incubi”.
  • Q27 “I problemi più duri sono il cibo, infatti spesso mi cucino da me per i miei problemi di stomaco.”
  • Q38 “In linea di massima non avverto ansia immotivata a parte quando magari i miei familiari ritardano al colloquio”.
  • Q35 “Difficoltà nel dormire…se lo spioncino del blindo resta aperto… per via della luce…e la luce della torcia… alla conta.”
  • Q34 “Ho problemi con il cibo a causa di problemi allo stomaco”.              
  1. Come vive e pensa un ergastolano?
  • Q46 “L’esistenza di un ergastolano, a mio modo di vedere, vive e pensa in modo del tutto particolare: è meno incline a crearsi amicizie, è un po’ chiuso in se stesso, intrattiene pochi rapporti sociali, sceglie con cura quei pochi amici che lo circondano è molto diffidente verso tutti, caratterialmente è molto forte, cerca sempre di adattarsi ad ogni situazione, coordina tutto con eccessiva cura, dedica molto tempo alla cura della sua persona, analizza tutto ed è più razionale dei detenuti che devono scontare una pena temporale”.
  • Q44 “ Pieno di angosce per il futuro”
  • Q2 “Un ergastolano vive una vita normale come altri detenuti, ma pensa diversamente dagli altri, la sua è una pena che deve scontare per tutta la vita, mentre gli altri possono pensare ad un fine pena e fare progetti.”
  • Q16 “Io personalmente vivo alla giornata e le uniche cose che penso sono se la mia famiglia sta bene, se ai miei manca qualcosa, se possono mangiare e la sera dopo la preghiera ringrazio Dio perché un altro giorno è trascorso e mi chiedo: ma quanti altri? Una vita.”
  • Q1 “Credo che nei primi 10 – 15 anni di carcerazione la sua vita sia pressoché uguale a quella degli altri detenuti, forse con un po’ più di attenzione verso il prossimo. Da quella data in poi in tanti subentra una specie di metamorfosi e si tende ad incarognirsi cioè a curare il proprio orticello.”
  • Q5 “L’ergastolano vive con una marcia in meno e pensa di non poter sperare nemmeno tanto.”
  • Q40 “Nella maggioranza dei casi un ergastolano non vive, non pensa ma vegeta ripetendosi sempre che la speranza è l’ultima a morire e così facendo muore tutti i giorni…perché la tortura della speranza è un meccanismo perverso e sadico che il legislatore ha messo in opera. La speranza è la forma più struggente che il diritto potesse escogitare per far soffrire un condannato all’ergastolo.”
  • Q39 “Vive accontentandosi delle piccole cose che riescono a farlo sentire vivo e cerca di pensare in modo positivo, nel senso che spera di avere una altra opportunità.”
  • Q30 “Vivo una quotidianità sempre uguale, il pensiero che impera è di uscire un giorno.”
  • Q24 “Vive con la speranza che aboliscano l’ergastolo e danno una scadenza alla condanna. I pensieri sono sempre gli stessi, la famiglia, la libertà una vita diversa ecc.”
  • Q41 “Se pensi da ergastolano non tiri sera!”
  • Q37 “Principalmente pensa al futuro che non può più avere e cerca di farsene una ragione; ognuno poi vive secondo le proprie forze e com’era sistemato fuori… individualmente ci creiamo un nostro mondo e col tempo ci si abitua. Alcuni addirittura arrivano ad istituzionalizzarsi rifiutando il mondo esterno.”
  • Q32 “Credo che questo sia soggettivo, io penso che respiro e va bene così.” Q23 “Sperando!”
  • Q13 “In funzione dell’ambiente circostante.”
  • Q7 “Io vivo e penso solo ad uscire, il più presto possibile.”
  • Q22 “Posso dire come penso io con l’ergastolo. Sono entrato per fare sei mesi, e sono da 31 anni in carcere, la colpa non è solo mia ma anche dell’istituzione, loro non mi mollano, cosa devo pensare, che Dio che li aiuti.”
  • Q3 “Con il massimo della fantasia”.
  • Q15 “Vive sempre con la speranza che un giorno l’angoscia del fine pena mai finisca, pensa come una persona consapevole di aver una grossa condanna da scontare senza perdere mai la speranza che un giorno possa riabbracciare la propria famiglia.”
  • Q8 “Alla giornata”
  • Q31“Io, con odio”.
  • Q9 “L’ergastolo più che vivere ti fa stare in uno stato vegetativo, pensa al momento del risveglio, non arriva a pensare al giorno seguente”.
  • Q20 “In diversi modi nella speranza e vive nei ricordi della propria vita”.
  • Q4 “Come si vive la pena di un ergastolano: bisogna avere tanta pazienza e tanta fede e pensare positivo ed affrontare la vita giorno per giorno, quello che ci offre nostro Signore”.
  • Q19 “Si tira avanti, giorno per giorno senza pensare alle cose tristi”.
  • Q21 “Vive da pena e pensa di non morire in carcere”.
  • Q27 “Un ergastolano non pensa e non vive, ma sopravive e basta”.
  • Q28 “Ogni persona pensa e vive a modo suo, la condizione di ergastolano non accomuna il modo di vivere e di pensare”.
  • Q6 “Vivo poco e penso poco”.
  • Q38 “Vive male, pensa sempre in negativo, diciamo una vita da cani”.
  • Q29 “Giorno per giorno”.
  • Q34 “L’ergastolano vive alla giornata e più che pensare spera sempre che arrivi il giorno per uscire”.
  • Q33 “Io non ho mai accettato l’ergastolo non riesco ad immedesimarmi”.
  • Q43 “Che ci sarà un giorno nel quale anche io potrò essere dichiarato libero di vivere!” Q45 “Vive la giornata e pensa molto poco per disilludersi.”
  • Q42 “Vive alla giornata. Pensa…”
  1. Ci sono stati dei cambiamenti in te stesso che hai notato in questi ultimi anni di carcere?
  • Q46 “Ci sono stati molti cambiamenti in me in questi anni di carcere. Il primo cambiamento che posso constatare è stata la graduale maturità, una trasformazione totale (sono entrato in carcere che ero un ragazzo); la seconda cosa, un nuovo modo di pensare e di vedere le cose, riflettere su tutto, in breve, tutte cose che si notano quando senti che in te c’è stato un cambiamento.”
  • Q47 “Si ho valutato la vita e non rifarei gli errori fatti”.
  • Q16 “Sì, negli ultimi 3 anni ho dato un’intera svolta alla mia vita, ho proprio voltato pagina e sono cambiato in meglio, mentalmente tanto che spesso non ci credo neppure io, mi stupisco da solo.”
  • Q10 “Sono diventato più riflessivo, razionale, ma questo è dovuto all’età!”
  • Q1 “Sicuramente sono molto più riflessivo, poi mi sono adeguato a non dire sempre quello che penso, cioè a fingere.”
  • Q5 “I cambiamenti che maggiormente fanno paura non sono quelli che ogni mattina si possono vedere attraverso lo specchio, ma l’evoluzione psicologica che spesso ci porta a farci perdere la fiducia in noi stessi e la costante paura di un futuro incerto.”
  • Q40 “Solo i sassi non cambiano anche se con il tempo e le intemperie cambiano anche loro. Ho notato che sono cresciuto interiormente accettando la mia sensibilità non più come un difetto ma come un pregio…per il resto il carcere così com’è non rieduca nessuno.”
  • Q39 “Sono diventato più riflessivo e accomodante.”
  • Q30 “Solo gli stupidi non cambiano mai. Sono cresciuto e di molto, ho compreso chi ho incontrato, sono stato me stesso.”
  • Q24 “Sono diventato molto più riflessivo e paziente, ero molto istintivo, questo mi ha sempre creato problemi.”
  • Q41 “Sicuramente si muta molto di più interiormente, è capitato a me.”
  • Q37 “Sì, ho maturato la convinzione che l’Italia non è mai uscita da quell’infame regime fascista…ha cambiato solo pelle. In un paese democratizzato un cittadino che “devia” va aiutato e guidato sulla retta via e non represso con un tipo di carcere fine a se stesso.”
  • Q32 “Che non mi frega niente, tanto è tutto relativo.”
  • Q23 “Passano gli anni e si ha tanto tempo per pensare, è inevitabile che si cambi. Soprattutto si cambia ripensando alle conseguenze del proprio passato.”
  • Q13 “Il tempo modifica sempre le persone, il luogo ne accudisce le peculiarità.‖
  • Q7 “Più vecchio e meno disposto a subire prepotenze.
  • Q22 “Uno cambia nella vita quando fa cose storte, se vive nel giusto per il giusto e con il giusto, non può mai dire di aver fatto errori.”
  • Q15 “Si, i tantissimi anni di lunga e sofferente detenzione mi hanno portato a meditare e a farmi riflettere su alcuni episodi della mia vita, sono certo di avere la volontà di comprendere quale strada dovrò intraprendere per stare in una società sana e civile”.
  • Q11“Si, qui dentro sono arrivato a capire bene cosa vuol dire famiglia, cosa vuol dire essere padre, dato che avevo 22 anni quando sono entrato qui”
  • Q8 “Sì, arrabbiato”
  • Q31 “Sì, più maturità dopo 22 anni e 6 mesi di vita in carcere”.
  • Q4 “Sì, ho visto molti cambiamenti in me stesso in questi anni di galera, parecchi, una per tutte l’affetto dei miei cari, la mia personalità verso gli altri più umana”.
  • Q21 “Sì, sono più riflessivo e meno permaloso”.
  • Q23 “Il primo cambiamento che noto è che sto invecchiando, ho tutti i capelli bianchi”.
  • Q28 “Sì, anche se non fossi stato in carcere sarei cambiato, anche se indubbiamente tale condizione ha influenzato il cambiamento”
  • Q38 “Più sensibilità e maturità: sono certo però che sarei migliorato anche fuori”.
  • Q34 “Certamente sono invecchiato prima per la sofferenza mia e dei miei cari”.
  • Q45 “Più maturità e tanta pazienza.”
  • Q42 “Sicuramente, il tempo cambia le persone, ovunque esse si trovino.”
  1. Come percepisci il tempo che trascorri in carcere? É per te un tempo vuoto, un tempo perso o comunque un tempo di vita?
  • Q8 “L‘ergastolo c‘è ma non c‘è ma se non c‘è perché c‘è? La vita dell‘ergastolano è proprio una lunga marcia attraverso la notte e si avanza al buio per tutta la vita”
  • Q6 “Il tempo in carcere è difficile da percepire, si dilata andando oltre il vero tempo reale. Non si avverte il trascorrere effettivo di esso ma tutto si riduce ad un qualcosa di aspettativa, sembra tutto fermo, si parla di anni come se si discutesse di giorni, lo si estende e lo si altera. Ma, come sia, lo percepisco sempre come un’esistenza di vita”.
  • Q2 “Credo che dopo aver perso i primi anni di carcerazione a questo punto diventa un tempo di vita da trascorrere il meno duro possibili.”
  • Q10 “A mio avviso, il tempo in carcere è vuoto, perso. Se pure mi applichi per utilizzarlo al meglio delle mie possibilità.”
  • Q1 “In generale il carcere è vita persa però in tanti cerchiamo di tenerci occupati svolgendo varie attività che il più delle volte vengono ostacolate da chi è preposto alla custodia. È comunque un tempo di vita.”
  • Q5 “In questi posti il tempo non è un concetto ben definito ma se dovessi esprimere tale emozione, potrei certamente dire che si tratta di un tempo di vita drasticamente perso.”
  • Q40 “Sinceramente, grazie al mio attivismo, un tempo di vita.”
  • Q39 “Penso che nonostante tutto oltre a vegetare, ci sono momenti di vita, soprattutto quando vediamo i nostri cari e quando riusciamo in qualcosa.”
  • Q30 “È tempo perso stando chiusi qui dentro, ma lo vivo come vita reale.”
  • Q24 “La detenzione è un” vivere fuori dal mondo” pertanto sicuramente un tempo perso, purtroppo senza recupero.”
  • Q41 “Se non c’è speranza si affaccia solo il “borderline”.
  • Q37 “Occupo le mie giornate facendo piccoli lavoretti artigianali… poi vengono le guardie e me li rubano e mi fanno incazzare … Anche questo è un modo per trascorrere qualche momento diverso…”
  • Q32 “Per me il tempo è relativo perché prima o poi finisce con la morte.”
  • Q23 “Ho sempre vissuto il tempo in carcere come una “risalita” che veniva premiata con graduali “scatti” di libertà infraumana ma in questo carcere mi sento tornato ai tempi della custodia cautelare.”
  • Q13 “Il tempo è vuoto ovunque ci sia l’ozio. Tempo perso (no) se mai rubato ai miei cari, è un tempo di vita in quanto occupa uno spazio in un determinato tempo.”
  • Q7 “Il tempo passa per lo più vuoto, e in ogni modo, è un tempo di vita.”
  • Q22 “Nel carcere il tempo non è vuoto ma è super vivo.”
  • Q15 “Lo percepisco del tutto simile alla vita dell’uomo condannato”.
  • Q11 “Per me è un tempo vuoto”.
  • Q8 “Comunque tempo di vita”.
  • Q9 “Cerco di riempire il vuoto, per quel che si può è un passaggio obbligato, imposto, ma guardo oltre con speranza”.
  • Q12 “È un tempo perso ma di vita”.
  • Q19 “Come un tempo di vita, anche se ripetitiva.”
  • Q21 “Lo percepisco studiando e per me è un tempo di vita”.
  • Q27 “Per me è un tempo vuoto ma è manche un tempo di vita a vuoto”.
  • Q6 “Sempre vita è”.
  • Q38 “Inutile, sicuramente un tempo perso”.
  • Q35 “Un tempo di sofferente vita”.
  • Q29 “Nessun tempo penso che sia perso, anche se mi manca qualcosa”.
  • Q34 “In carcere il tempo è morto di monotonia, insomma non si vive ma si sopravvive”.
  • Q43 “E’ un tempo di vita che cerco di vivere malgrado tutto!”
  • Q45 “Sicuramente un tempo di vita, ma dentro di noi lo sentiamo come perso.”
  • Q42 “Sicuramente potrei sfruttarlo molto meglio. Comunque un tempo di vita.”
  • Q33 “Cerco migliorare nel mio povero bagaglio culturale.”

OSSERVAZIONI

  • l’esperienza del carcere è l’esperienza del limite. Rappresenta in questo senso quanto di più prossimo al lutto esista: il lutto arriva imponendosi come “limite” invalicabile, separazione tra il prima e il dopo, evento esterno o deus ex machina totalmente al di fuori del controllo individuale da parte del soggetto. Inoltre, il carcere è un limite fisico, “reale”. Auto-indursi dei limiti tramite pratiche di rinuncia o auto-disciplina, presuppone una scelta ragionata da parte dell’individuo e la libertà di poter sgarrare alle stesse regole a cui ci si assoggetta. Qui invece parliamo di un limite posto da qualcosa di esterno, un intervento “genitoriale” radicale eseguito su un bambino impotente. É un limite in grado di produrre regressione a stati mentali infantili, il più verosimile degli “interventi paterni”.
  • Nelle risposte alle domande sopra svolte, il tema della riflessione e della “produzione” di pensiero entro un regime di “punizione” mette in luce il razionale stesso di intervento giuridico relativo alla coercizione che, oltre a basarsi sul “preservare la società da individui pericolosi”, mira a promuovere “riflessione“ e “redenzione” dei soggetti tramite auto-osservazione e ascolto “interiore”, un po’ come fa la comunità terapeutica (a metà tra custodia e terapia), ma in modo più totalizzante. Per un approfondimento sulla comunità terapeutica e il ruolo degli operatori di comunità, si veda qui.
  • il problema dell’igiene del sonno sembra dilagante (almeno, in questo campione ristretto). Alcune osservazioni:
    • Il sonno è complicato da una condizione di assenza di “sicurezza percepita”; il percepire l’ambiente in cui si dorme come non totalmente sicuro altera il livello di arousal, frammentando il sonno, favorendo poi una condizione psicologica di prostrazione cronica e di abbattimento delle performance cognitive. Ma le spiegazioni all’origine dell’insonnia potrebbero essere più complesse, più varie.
    • Occorrerebbe in questo senso fare un’indagine sugli effetti della deprivazione sociale: quali sono gli effetti sul sistema nervoso autonomo della deprivazione sociale? Le situazioni di confinamento sono spesso correlate all’insonnia, come approfondito in questo articolo.
    • la scomparsa della fatica fisica, un corpo obbligato alla stasi e alla non attività, non si stanca e riposa peggio.
  • Interessante notare la quantità di volte che viene sottolineato il fatto che, seppur passato in carcere, il tempo di un “fine pena mai” venga vissuto in ogni caso come un “tempo di vita”, in grado di esprimere un suo valore intrinseco, al di là di come un individuo utilizzi il tempo stesso.
  • in generale, viene osservato come l’intervento carcerario non rappresenti un vero intervento riabilitativo per il singolo, ma più un intervento atto a preservare la società stessa dalla “pericolosità sociale” dell’individuo.

Qui la prima parte di questo articolo.

Il sito da cui è tratto il materiale presente su questo articolo è il già citato ristretti.it


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1 febbraio 2021

INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA

di Raffaele Avico

Con questa intervista a Costanzo Frau apriamo una serie di video brevi a tema trauma e dissociazione, che faranno parte dei contenuti extra in area Patreon.

Le domande che verranno fatte agli intervistati nell’ambito di questa serie sono 3:

  1. qual è la tua definizione di trauma e la tua idea di dissociazione?
  2. come lavori con il trauma e quali sono le tue migliori prassi cliniche?
  3. qual è il riferimento per te centrale nel lavoro clinico, o la teoria a cui più ti ispiri?

L’obiettivo è approfondire la natura teorica del concetto “trauma”, e osservare da vicino il lavoro di una persona esperta sul tema.

Costanzo in questa video cita il lavoro di Colin Ross  e di Remy Acquarone (intervistato in questo video), avendo avuto la possibilità di lavorare in presenza con entrambi questi clinici del trauma.

Costanzo si occupa in particolare di diagnosi differenziale tra disturbi dissociativi e psicosi; sappiamo infatti che alcuni sintomi dissociativi possono venire interpretati come sintomi di un disturbo psicotico, per esempio le “voci” (qui ne abbiamo scritto un approfondimento); ha scritto questo libriccino di cui consigliamo la lettura per chi fosse interessato al tema “disturbi dissociativi”; è inoltre curatore dell’edizione italiana di un volume di recente pubblicazione, questo:

Alcuni altri spunti bibliografici sul tema, in particolare a proposito di diagnosi differenziale tra sintomi dissociativi e sintomi psicotici:

  • riferimento bibliografico 1
  • riferimento bibliografico 2
  • Ross & Mosquera 2016 Treating voices (a psychotherapy approach to treating hostile voices, di Dolores Mosquera e Colin Ross, scaricabile in PDF)
  • Moskowitz et al. 2017 (Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives, di Andrew Moskowitz, Dolores Mosquera, Eleanor Longden, scaricabile in PDF)

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20 gennaio 2021

PSICOFARMACOLOGIA STRATEGICA: L’UTILIZZO DEGLI PSICOFARMACI IN PSICOTERAPIA (FORMAZIONE ONLINE)

di Luca Proietti, Raffaele Avico

Integrare la psicoterapia alla psicofarmacoterapia non è cosa semplice, spesso infatti manca  una buona comunicazione tra psicoterapeuta e psichiatra.

Inoltre entrambi gli attori di cura (psicoterapeuta e psichiatra) sono naturalmente portati a vedere il paziente e il quadro clinico secondo il proprio punto di vista.

Il rischio è che lo psichiatra faccia troppo affidamento sui farmaci e sulla componente biologica, mentre che lo psicoterapeuta non abbia mezzi per capire e interpretare le decisioni dello psichiatra e la comparsa degli effetti collaterali dei farmaci prescritti.

Sappiamo che per molti disturbi, la presa in carico integrata è fondamentale, tanto più quando il problema è complesso o di difficile gestione.

Pensiamo per esempio ai disturbi di dipendenza, alla doppia diagnosi, alla depressione maggiore, alle psicosi o ai disturbi di personalità gravi.

In questo caso la presa in carico integrata, se vissuta in accordo, permette non solo di potenziare l’efficacia dei rispettivi trattamenti (quello farmacologico e quello psicoterapeutico), ma anche di gestire al meglio la responsabilità, le difficoltà e le richieste della relazione terapeutica

Ci sono inoltre diversi problemi che intervengono nel rendere più complessa l’integrazione tra una buona presa in carico psicoterapica e l’uso di farmaci:

  1. gli effetti collaterali dei farmaci, che interferiscono con le funzioni cognitive normali di chi li assume; è possibile infatti che un farmaco influenzi il modo di pensare di un individuo, cosa che ricade inevitabilmente sul lavoro di psicoterapia. Oppure, alcuni farmaci antidepressivi -ottundendo l’affettività- potrebbero limitare l’efficacia dell’intervento psicoterapeutico, o ancora alcuni antipsicotici potrebbero causare la comparsa di disturbi ossessivo-compulsivi.
  2. è molto difficile, quando si assumano farmaci psichiatrici, capire quanto il beneficio sia da imputare al farmaco stesso, al lavoro di psicoterapia, o all’effetto placebo che ruota intorno al farmaco stesso. Cosa capiterà quando il paziente scalerà i farmaci, rimanendo coperto solo in senso psicoterapico? La letteratura ha denominato tale effetto context shift: in alcuni disturbi l’efficacia della psicoterapia sembra ridotta nella fase di scalaggio (ad es. Disturbi d’ansia); in altri invece questo sembra non avvenire (ad es. Disturbo Ossessivo Compulsivo).
  3. Si rischia, con i farmaci, di creare dipendenza psicologica nell’individuo? Studi in letteratura stanno dimostrando come in realtà molti psicofarmaci rischiano di modificare in maniera plastica il Sistema Nervoso inducendo fenomeni di tolleranza e dipendenza.
  4. Spesso la prescrizione dei farmaci, il loro utilizzo e la durata della terapia non seguono quelle che sono le indicazioni delle linee guida e della letteratura: l’associazione di più farmaci è a volte sconsigliata, così come lo sono le terapie farmacologiche “senza termine”.

Per rispondere a queste domande occorre una buona conoscenza del funzionamento dei farmaci (i principi biologici su cui si basa il loro funzionamento, il razionale con cui vengono somministrati, i tempi di efficacia).

Sappiamo che, in generale, i farmaci regolano il rilascio di diverse categorie di neurotrasmettitori: a ogni neurotrasmettitore corrisponde un particolare “affetto” o “effetto” psichico: la dopamina rende più volitivi, la serotonina più caldi in senso affettivo e meno ansiosi.

Luca Proietti, psichiatra e psicoterapeuta di Genova, ha organizzato un corso di farmacologia approfondita per psicologi, che cercherà di rispondere alla domande prima riposte.

Il corso avrà due forme, entrambe online:

  • unico (due mattine, per un totale di 8 ore): Psicofarmacologia Strategica™ (Link con info e programma del corso).
  • seminariale (una volta al mese, in modo continuativo, con approfondimenti specifici su singoli farmaci o concetti); in questo caso lo scopo è quello di creare un gruppo di lavoro continuato sul tema

Il corso è rivolto a psicoterapeuti, o specializzandi in psicoterapia che lavorino quotidianamento con pazienti seguiti anche in senso psichiatrico, o in generale che vogliano meglio comprendere i “retroscena” dell’approccio farmacologico e capire come integrare adeguatamente il proprio intervento a quello farmacologico

Ecco il programma e i costi.


CORSO UNICO

Psicofarmacologia Strategica™: L’utilizzo strategico degli psicofarmaci in psicoterapia

PROGRAMMA:

  • Dal neurotrasmettitore al sintomo: correlati psicologici e comportamentali dei principali neurotrasmettitori.
  • Il razionale dell’utilizzo degli psicofarmaci nella pratica clinica, al di là delle linee guida e delle indicazioni da scheda tecnica.
  • Sorelle o Suocere? Integrare la psicoterapia e la farmacoterapia per ottenere la remissione.
  • Psicoterapia, Farmacoterapia o entrambi? decidere secondo le indicazioni della letteratura e la comune pratica clinica.
  • Corpo e psiche: ormoni, organi e farmaci non psicotropi che influenzano la nostra psiche.
  • Psicofarmacologia Strategica™  Pratica: saper risalire alle indicazioni, alle prerogative e agli effetti di ciascun farmaco.
  • Conoscerli nella pratica per riconoscerli: Antipsicotici, Antidepressivi, Benzodiazepine, Stabilizzatori dell’Umore.
  • Utilizzo dei farmaci secondo la pratica clinica nei principali disturbi (Depressione, Disturbi d’Ansia, DOC, DCA, Disturbi del Sonno, Disturbi di Personalità, Disturbo Bipolare, Psicosi).
  • Le Due D: Demenza e Depressione, riconoscerle con la diagnosi differenziale, terapia nella pratica clinica.
  • What’s next? Esketamina e le nuove frontiere della farmacologia.
  • Pratica: Esercitazioni pratiche con discussione delle risposte.

INFO:

  • Dove: On-line.
  • Quando: Sabato 27 e Domenica 28 Marzo 2021 dalle 9:00 alle 13:00 (vedi il form di iscrizione).
  • Quota di iscrizione: 120 euro.
  • Numero Massimo di iscritti: 12.
  • Modalità di iscrizione: Per iscriverti all’evento formativo compila il form cliccando su questo link ed effettua contestualmente il pagamento dell’importo di iscrizione seguendo le indicazioni che troverai nel form stesso. Una volta pervenuto il pagamento, riceverai una e-mail di conferma di avvenuta iscrizione.
  • Formazione Riservata: L’evento è aperto esclusivamente a psicoterapeuti, psicologi, studenti di psicologia e specializzandi in psichiatria o psicoterapia.
  • Attestato di Frequenza: Al termine dell’evento sarà consegnato un attestato di frequenza.
  • Il docente: Luca Proietti (clicca qui).

EDIZIONE SEMINARIALE

Gli incontri di Psicofarmacologia Strategica™: Masterclass annuale sull’utilizzo degli psicofarmaci in Psicoterapia  

12 incontri mensili: il programma copre tutti gli argomenti del corso.

Ciascun incontro si compone di una parte teorica e una parte interattiva dedicata a discussioni, esercitazioni e supervisioni per ciascun argomento.

PROGRAMMA:

  • Lezione 1: Neurotrasmettitori e neurobiologia. Dal neurotrasmettitore al sintomo: correlati psicologici e comportamentali dei principali neurotrasmettitori.  Consigliata a chiunque voglia seguire delle lezioni singole sui farmaci.
  • Lezione 2: Farmaci Antidepressivi. IMAO, Triciclici, Inibitori della ricaptazione della serotonina e Noradrenalina (SSRI, SNRI, NARI), Atipici, multifunzionali, l’ Esketamina e le nuove frontiere (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 3: Farmaci Antipsicotici. Tipici, Atipici e di 3a generazione. (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 4: Stabilizzatori dell’umore. Litio ed Antiepilettici (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 5: Benzodiazepine e farmaci ipnoinducenti, Z-drug, le varie preparazioni di melatonina (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 6:Panoramica generale di ripasso sui differenti neurotrasmettitori e gli effetti dei farmaci. L’effetto placebo, l’effetto nocebo, integrare la psicoterapia con la farmacoterapia, quale dei due trattamenti è il più efficace in senso generale e nei singoli disturbi.
  • Lezione 7: Disturbo Ossessivo Compulsivo: Terapia psicofarmacologica, psicoterapia o entrambe ? Tassi di risposta e di ricaduta. Il trattamento integrato è più efficace del singolo trattamento? Indicazioni della letteratura in base al tipo di paziente.
  • Lezione 8: Disturbi d’ansia, disturbi dissociativi e disturbo Post Traumatico. Farmacoterapia, psicoterapia o entrambe? Le evidenze della letteratura, delle linee guida e delle più importanti metanalisi.
  • Lezione 9: Depressione e Disturbo Bipolare. Depressione anaclitica e Depressione melanconica. Quando dare i farmaci e quando toglierli. Il paziente depresso non piange. Indicazioni di trattamento, la scelta di ciascun principio attivo. Cosa è il Disturbo Bipolare 2? Il primato della mania. Predittori di risposta a ciascun stabilizzatore dell’umore. Terapia in acuto e di mantenimento.
  • Lezione 10: Depressione, Pseudodemenza depressiva e Demenza. La depressione causa demenza? Diagnosi differenziale e trattamento delle differenti forme di demenza. Psicosi non affettive e dello spettro schizofrenico. Scelta dei farmaci antipsicotici, quando utilizzare i farmaci per la Schizofrenia resistente. Per quanto tempo continuare la terapia Antipsicotica.
  • Lezione 11: I disturbi di personalità e la farmacoterapia. Quali sono i farmaci indicati, quali invece da evitare. Cosa dicono le linee guida, per quanto tempo trattare farmacologicamente un paziente con disturbo di personalità. Panoramica delle indicazioni per i differenti Disturbi di personalità con focus particolare sul D. Borderline.
  • Lezione 12: Disturbi Somatici, disturbi conversivi, dolore neuropatico. Disturbi del sonno. ADHD. Disturbi del comportamento alimentare. La prevenzione farmacologica del suicidio. Sesso e farmaci.

INFO:

  • Dove: On-line.
  • Quando: 12 incontri mensili da 2 ore (vedi il form di iscrizione).
  • Quota di iscrizione: singola lezione 35 euro, seminario completo 350 euro.
  • Numero Massimo di iscritti: 20.
  • Modalità di iscrizione: Per iscriverti all’evento formativo compila il form cliccando su questo link ed effettua contestualmente il pagamento dell’importo di iscrizione seguendo le indicazioni che troverai nel form stesso. Una volta pervenuto il pagamento, riceverai una e-mail di conferma di avvenuta iscrizione.
  • Formazione Riservata: L’evento è aperto esclusivamente a psicoterapeuti, psicologi, studenti di psicologia e specializzandi in psichiatria o psicoterapia.
  • Attestato di Frequenza: Al termine dell’evento sarà consegnato un attestato di frequenza.
  • Il docente: Luca Proietti (clicca qui).

Qui alcune testimonianze di alcuni partecipanti alla scorsa edizione:

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15 gennaio 2021

ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA)

di Raffaele Avico

Il disturbo ossessivo compulsivo, storicamente preso in carico esclusivamente dagli psicoanalisti, oggi è trattato usando modalità più complessificate e attraverso il ricorso a farmaci deossessivizzanti.

La psichiatria, lungo il suo corso, ha assorbito e metabolizzato molteplici apporti teorici provenienti da scuole di pensiero diverse a riguardo di questo pesante disturbo, arrivando, come succede anche per altri tipi di problematiche mediche, a un approccio multidisciplinare e integrato (psichiatra insieme a psicoterapeuta).

La gravità dell’OCD varia dai casi limite a base maggiormente organica (squilibri neurobiologici che vengono trattati quasi esclusivamente attraverso la farmacoterapia), fino ad arrivare alle forme “sfumate” del disturbo, che colpiscono moltissime persone (pensiamo per esempio al timore di non aver chiuso la porta di casa, o la macchina, o al senso di “non aver finito” una determinata cosa -“not just right experience”) e che rispondono anche a un trattamento esclusivamente psicoterapico.

La struttura centrale del disturbo è la stessa, ma l’entità della sua gravità varia, e soprattutto varia la sua forma, in termini di tipologia di compulsione, e in particolare:

  •     i “checkers” sentono l’impulso irrefrenabile di controllare (to check) che “qualcosa” sia chiuso/bloccato: eseguire quella chiusura o quel gesto rituale, spazza via mentalmente la sensazione che qualcosa non sia finito o non chiuso (la prima citata “not just right experience”)
  •     i “washers” compulsivamente (si) lavano o puliscono, raggiungendo una certa soglia di senso di pulizia e igiene, fugando il timore di essere contaminati o non perfettamente puliti
  •     gli “orders”, per ripulire la mente dai pensieri ossessivi, creano intorno a sé un ambiente perfetto, usando simmetria e rigore
  •     i “repeaters” o i “thinking ritualizers” scacciano via i pensieri ossessivi ripetendo un gesto o un’azione, anche mentale (contare fino a 10, ripetere delle parole o dei mantra), fino al punto in cui sia raggiunto uno stato di tranquillità percepita
  •     gli “hoarders”, o “accumulatori”, rappresentano una categoria laterale dei pazienti con disturbo DOC (qui un articolo che approfondisce la questione:)

Le cause non sono totalmente note, la psichiatria biologica presume ci possa essere uno scompenso nel milieu neurotrasmettitoriale (in particolare in riferimento al livello di serotonina), e un comportamento difettoso entro alcuni circuiti che collegano zone antiche del cervello a zone più recenti (qui l’approfondimento); la teoria psicoanalitica dà altre spiegazioni, la psicoterapia a matrice cognitivista ancora altre.

Quello che si osserva in occasione di una “crisi” di DOC (rush ossessivo) è l’innalzarsi, a seguito della comparsa di un pensiero ossessivo, del livello di ansia e di timore esperito soggettivamente, che viene “placato” con il ricorso alla compulsione, che riporta la mente a un livello di funzionamento normale.

Per fare un esempio: un pensiero ossessivo relativamente comune (e che quindi  non corrisponde a un desiderio reale) è quello di agire violenza (anche sessuale) su persone care (bambini, famigliari): il pensiero emerge come improvviso e procura un senso di timore e allarme (in seguito a una valutazione che il soggetto fa nei confronti del suo stesso pensiero): la curva dell’arousal (il livello di attivazione neurofisiologica dell’organismo) sale fino a raggiungere picchi insostenibili per il soggetto, che deve tentare, in tutti i modi, di placare il suo malessere: da qui le compulsioni.

É da notare che questo stato mentale di confusione e paura proviene da un timore che il pensiero possa essere foriero di passaggio all’atto, ovvero, che ci possa essere una sorta di sovrapposizione e identificazione tra il pensiero e l’azione descritta dal pensiero stesso (per esempio la paura di essere ladro solo perchè si pensa di rubare, il timore di coltivare desideri violenti se si pensa anche solo per un attimo di picchiare o uccidere qualcuno: qui un breve approfondimento sulla “fusione pensiero-azione”)

Si osserva poi un fenomeno successivo per cui le compulsioni assumono forma di oggetto di dipendenza, e quand’anche il soggetto sperimentasse uno stato di relativa tranquillità con la mente vuota, “qualcosa”, in assenza del pensiero ossessivo, sembrerebbe mancare: da qui il ritorno al pensiero fisso, che viene come ricercato, a metà tra il desiderio e la coazione.

Le cause, come si diceva, non sono completamente note; alcune teorie tuttavia sono più accreditate di altre: si tende a credere esista una forte componente biologica: per questo in prima linea l’approccio è farmacologico; se in presenza di sintomi troppo invalidanti vengono usati farmaci serotoninergici ad azione deossessivizzante, prescritti da uno psichiatra che conosca nel dettaglio la storia clinica del paziente.

A riguardo della terapia farmacologica del DOC, si veda questo articolo di Luca Proietti.

In ambito psicodinamico/psicoanalitico, il lavoro è mirato a una comprensione del significato che l’ossessione riveste per il soggetto. Non dunque l’origine, ma il significato dell’ossessione stessa.

Nel bellissimo romanzo di Yalom “Le lacrime di Nietzsche”, viene descritta in modo romanzato la vicenda di un rapporto di cura tra Breuer (mentore di Freud) e il celebre filosofo. Uno dei temi affrontati è l’ossessione di Breuer per una giovane paziente, presente a tal punto da divenire invalidante e pericolosa per la vita del celebre medico, che verrà nel proseguire della storia smontata, contestualizzata e ri-significata da Nietzsche, in un interessante dialogo clinico, realistico seppur d’invenzione.

É interessante notare come per Breuer la giovane paziente fosse diventata nel tempo il simbolo di una speranza di vita e di appagamento di potenti bisogni, inespressi altrove, che aveva fatto di Bertha (la giovane paziente) una sorta di pretesto per l’immobilismo del celebre medico, bloccato nel suo percorso di evoluzione umana. Inoltre, il rapporto con la paziente sembrava compromesso e pervertito da emozioni di rabbia, possessione, e mistificato da un’idealizzazione della paziente stessa tale, da impedire a Breuer di compiere il necessario esame di realtà che avrebbe spogliato Bertha della sua allure “magica”, facendo decadere l’ossessione.

In ambito di psicoterapia cognitivo-comportamentale (valutata la più efficace per contrastare i disturbo) si lavora molto, ma non solo, sul tema della responsabilità e del senso morale.

Un senso di responsabilità ipertrofico, e un rigido assetto morale, producono pensieri ossessivi (alcuni studi indagarono le conseguenze di uno stile di leadership autoritario e puntiglioso sugli impiegati, che vennero osservati sviluppare comportamenti simil-ossessivi): il lavoro è quindi finalizzato ad “ammorbidire” il proprio approccio alla realtà e il proprio senso morale.

Vengono inoltri usati qui dei protocolli che de-strutturano il pensiero del paziente, osservando lo svolgimento della dinamica ossessiva nel suo nascere (a partire dall’evento scatenante, fino alla messa in atto della compulsione), per imparare a “disimpararla”.

Alcune osservazioni sul disturbo (nella sua variante più sfumata):

  • il sintomo ossessivo si presenta contro la volontà del soggetto, alla sua coscienza, producendo sofferenza e disorientamento; esistono alcuni bias cognitivi, errori di pensiero che rendono la sua gestione più difficile. Come visto in precedenza, per esempio, l’idea che pensare una cosa equivalga a desiderarla (anche a causa, per alcuni soggetti, di interpretazioni sbagliate di concetti psicoanalitici ambigui e mai veramente divulgati, per cui pensare o sognare una cosa equivarrebbe a desiderarla -nel senso più letterale del termine); oppure l’idea che pensare una cosa la farà accadere
  • il sintomo ossessivo, sembra in un certo senso creare dipendenza. É cioè in grado di essere richiamato alla coscienza quando assente, ed è in grado di dare senso di reward -come in una dipendenza. Questo fenomeno è di lettura molto complicata (perchè il soggetto dovrebbe “attirarsi” il pensiero intrusivo anche quando stesse vivendo un momento di libertà?) e chiama in causa aspetti appunto di dipendenza, masochistici o paradossali (ne abbiamo scritto in questa intervista a Rossella Valdrè sul concetto di masochismo).
  • gli aspetti paradossali riguardano il tema del controllo; un po’ come succede per il disturbo di attacco di panico, tentare di tenere lontano dalla mente un certo pensiero, conduce al suo ripresentarsi. Parliamo dunque di un controllo che fa perdere il controllo.
  • in generale la risoluzione di un DOC, o un suo alleviarsi, dovrebbe corrispondere al passaggio da una logica di conflitto, a una logica di scelta. Ovvero, occorre che il paziente acquisisca maggiori quote di controllo sul pensiero. In che modo? Una modalità può essere agire in modo contro-paradossale, scegliendo il/la paziente stesso/a di pensare a quello stesso pensiero, o di eseguire quel particolare rituale. Oppure, il senso di maggiore controllo potrebbe derivare da un lavoro sulla meta-cognizione sugli schemi di pensiero che di solito si fa in psicoterapia cognitivo-comportamentale (qua un approfondimento)
  • spesso i contenuti di pensiero vengono giudicati come immorali: questo accade quando non si sia abituati a considerare il pensiero stesso come naturale, o quando appunto lo si interpreti come desiderio (se lo penso, lo desidero/lo sono); pensieri di questo tipo possono riguardare qualsiasi cosa, dall’essere pedofili a desiderare la morte per una persona cara, tanto più giudicati scandalosi quanto rigida fu -a monte- l’educazione ricevuta in senso morale. Un’educazione rigidamente cattolica è un buon terreno su cui si possono innestare disturbi di questo tipo. In questo senso il lavoro di psicoterapia sarà finalizzato a “liberalizzare” il pensiero stesso
  • accettare il rischio di poter essere qualcosa, o di poter fare una certa fine, spesso allevia il conflitto interno, arrivando la persona a fare un salto logico su di un livello superiore (se anche lo fossi/lo desiderassi, non sarebbe un problema poi così grave), operando quindi quella che viene chiamata “esposizione con accettazione del rischio”
  • lavarsi fisicamente, vuole essere anche un lavaggio in termini morali. Sappiamo che nel DOC il tema della reponsabilità e della colpa -e dell’indegnità- sono centrali; si veda questo articolo su Science a proposito di quello che è stato definito Effetto Lady Macbeth)

Su questo blog abbiamo svolto diversi approfondimenti sul DOC, che riportiamo qui di seguito:

  1. recensione di “La mente ossessiva” di Francesco Mancini
  2. intervista a Andrea Vallarino e Luca Proietti sulla terapia strategica del DOC
  3. il già citato articolo sulla farmacoterapia del DOC
  4. un approfondimento sul DOC in ottica strategica, visto in questo caso come un’esasperazione della razionalità
  5. DOC ed effetto placebo

Qui per approfondimenti (articoli di ricerca)


NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, raffaeleavico

6 gennaio 2021

GIORNALISMO = ENTERTAINMENT

di Raffaele Avico

Diamo benvenuto nel gruppo di lavoro di questo blog a Silvia Bussone e Marco Colamartino.

Il Foglio Psichiatrico ha cercato, dalla sua nascita (2017), di coniugare rigore delle fonti e chiarezza espositiva. Abbiamo mantenuto una politica editoriale chiara, che riprendiamo qui:

  • NO risposte facili a problemi complessi (purtroppo in psichiatria e in psicologia clinica non esistono risposte definitive, diffida da chi te le offre)
  • NO banalizzazioni: chi soffre di disturbi psichiatrici, di qualunque entità, vuole essere preso sul serio
  • NO ad articoli acchiappa-click: quelli li troverai sulle pagine delle testate nazionali 🙂
  • NO ideologie: la nostra è una posizione post-ideologica (se una cosa non funziona, lo ammettiamo)
  • SÍ a un approccio integrato, che metta insieme più discipline, unite per convergere
  • SÍ a un lavoro sulle fonti: i nostri post si fondano su riferimenti ad articoli scientifici estrapolati da riviste autorevoli (Lancet, JAMA Psychiatry, World Psychiatry, riviste con fattore d’impatto scientifico alto).

Il lavoro di Silvia e Marco sarà focalizzato sull’approfondimento di questioni inerenti la neuroscienza, la psicobiologia, la farmacologia, la psicologia comparata, la metodologia della ricerca, adottando uno stile chiaro, sul modello di altri blog/testate che sempre più si stanno distinguendo nel mondo della buona informazione, come il Post o Medical Facts.

Ecco le rispettive presentazioni:

Silvia Bussone, Psicologa, Psicoterapeuta in Formazione, Dottoranda in Psicologia Dinamica, Clinica e della Salute, Esperta in Psicologia Giuridico-Forense.

Salve a tutti e tutte, sono Silvia Bussone, una giovane psicologa appassionata di ricerca clinica con una declinazione psicobiologica. Per coniugare clinica e biologia, ho deciso sin dalla laurea triennale di dedicarmi a lavori di tesi sperimentali che mi potessero formare in ambito psicobiologico, per poi abbracciare la psicologia clinica, con una piccola parentesi in psicologia giuridico-forense durante l’anno di tirocinio.

Al momento sono impegnata in un dottorato di ricerca in psicologia dinamica, clinica e della salute presso la Sapienza, Università di Roma, con un progetto sui correlati psicobiologici di eventi traumatici infantili e successivo rischio psicopatologico.

Dal momento che credo fortemente che la formazione di uno psicologo debba essere più comprensiva ed esaustiva possibile, sono anche psicoterapeuta in formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T. Beck di Roma, grazie al quale collaboro occasionalmente col servizio per le dipendenze patologiche di una delle ASL romane.

Sono appassionata di scrittura, lettura e mi tengo continuamente aggiornata sulle ultime tendenze in campo neuroscientifico, in particolare sul trauma, o sui meccanismi biologici alla base delle relazioni e/o dell’attaccamento. Apprezzo molto anche i diversi orientamenti delle psicoterapie e lo scambio con i professionisti del settore, dai quali mi piace prendere spunti di riflessione per la mia pratica professionale.

Marco Colamartino, Psicologo, Dottore di Ricerca in Neuroscienze del Comportamento (Psicobiologia e Psicofarmacologia), Psicoterapeuta in formazione.

Marco Colamartino, psicologo formato all’Università “La Sapienza” di Roma. Sin dall’inizio della mia carriera universitaria ho voluto scegliere un percorso che aderisse alla mia passione principale: la psicobiologia e le neuroscienze, materie che mi appassionavano sin dalle scuole superiori. Ho conseguito la laurea triennale in Psicologia Cognitiva e la laurea specialistica in Neuroscienze Cognitive e Riabilitazione Psicologica. La laurea specialistica mi ha offerto la possibilità di applicarmi in campo psicobiologico e di lavorare ad una tesi sperimentale per circa un anno e mezzo; grazie a questa esperienza, ho iniziato a lavorare su un modello murino di ritardo mentale (fenilchetonuria) e su eventuali terapie farmacologiche che potessero risolverne i deficit biologici e comportamentali. Successivamente ho conseguito il dottorato di ricerca, grazie al quale ho approfondito le mie conoscenze in campo psicobiologico e psicofarmacologico a livello preclinico.

Terminato il dottorato, ho sentito il bisogno di integrare lo studio della psicologia clinica alla mia formazione ed ho iniziato la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T Beck di Roma che attualmente sto svolgendo. Grazie a questo nuovo percorso, ho svolto attività di tirocinio nel dipartimento di Neuropsichiatria Infantile in una delle ASL romane.

Oltre alla psicobiologia e alle neuroscienze, che rimangono i miei interessi principali, grazie alla scuola di specializzazione mi sono appassionato a moltissimi argomenti come il trauma, i meccanismi dissociativi, ma anche ad alcuni tipi di disturbi (es: alimentari) che miro ad approfondire nel corso dei miei studi.

Questi anni di formazione in psicologia mi hanno portato, oltre che a confermare la mia passione, anche alla consapevolezza che la qualità di un professionista derivi non solo dalla sua preparazione e dalla sua esperienza, ma anche dalla sua apertura mentale e da quanto è disposto a confrontarsi in maniera collaborativa con gli altri colleghi. Credo che il confronto, l’integrazione e la divulgazione siano degli aspetti base, che non possono mancare all’interno della nostra professione.

Di recente abbiamo tutti assistito a un generale impoverimento e perdita di credibilità di testate che, fino a pochi anni fa, conservavano un’assoluta autorevolezza in senso giornalistico.

In questi ultimi mesi, la contraddittorietà delle informazioni riguardanti il Covid, i titoli clickbait, un’informazione impazzita e schizogena, ha impattato sulla nostra coscienza pressoché costantemente.

L’Italia si è specchiata sullo schermo degli smartphone controllati compulsivamente, uscendone a pezzi in senso psicopatologico. Titoli spazzatura, informazioni pompate in modo sensazionalistico dalle più autorevoli testate italiane sottoposte alla nostra attenzione centinaia di volte al giorno, a ogni scrollata compulsiva dello smartphone. L’additività e il potere dipendentogeno dei Social, hanno fatto il resto.

Alcune domande che è lecito farsi:

  1. le politiche editoriali dei giornali a cui prima si è accennato, stanno degradando la credibilità delle suddette testate, causando allontamenti di lettori e perdita di  abbonamenti, cosa che alimenterà l’ulteriore rilancio verso il baratro. É possibile che la cosa non sia stata compresa dai redattori? É il più semplice dei circoli viziosi
  2. Come reagisce un cervello sottoposto a informazioni incoerenti e contraddittorie su tematiche vitali per il soggetto, che riguardano la sua salute? Lo osserviamo: paralizzandosi di terrore e sviluppando un disturbo dell’adattamento
  3. come è possibile che nella redazioni delle maggiori testate italiane, non sia presente un comparto di giornalisti scientifici che sappiano mettere in piedi un’informazione di qualità, coerente e unitaria (su temi legati alla pandemia, in questo caso)?

Il problema della comunicazione di qualità è sempre più attuale.

In questo scenario da incubo si elevano, come dicevamo, poche eccezioni (Il Post) insieme alla categoria dei divulgatori: singoli individui (Enrico Bucci, Burioni, Entropy for Life, Biologi per la scienza) in grado di veicolare informazioni chiare e coerenti. Veri fari nella notte in questi ultimi mesi. Ringraziamo loro se conserviamo ancora un po’ di sanità mentale: almeno per le questioni scientifiche o che riguardino la salute degli individui, è auspicabile che la palla passi -per il futuro- ai divulgatori scientifici.

Article by admin / Editoriali / psicoanalisi, psicologia, psicoterapia

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  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
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IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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