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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

2 dicembre 2017

IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN

di Raffaele Avico

A tutti è capitato di sperimentare come in alcuni momenti il nostro cervello sembri accelerare e farci prendere decisioni fulminee che non hanno a che fare con il ragionamento cosciente. Ci rendiamo conto che non tutto ciò che viviamo proviene dal ragionamento, non tutto è cognitivo: esiste un mondo di sensazioni ed emozioni che ci consente di approcciare la realtà in modo emotivo, non solamente in modo razionale. Una teoria che ci aiuta a fare chiarezza e a dare un senso a queste diverse velocità e modalità, è la teoria del cervello tripartito (o “trino”) formulata da Paul MacLean nei primi anni ’70, una “semplificazione accademica” (nelle parole di Panksepp) del funzioanamento del cervello, ma molto utile a fare chiarezza e a intuirne i meccanismi.

Essa trova le sue basi negli studi della psicologia evoluzionista (che cioè studia il comportamento dell’uomo a partire da ciò che in termini di evoluzione sia stato per lui più o meno utile). MacLean distingue tre parti del cervello, ognuna con funzioni distinte. Le tre parti funzionano in modo gerarchico, seguendo un principio chiamato di “principio di Jackson”: gli impulsi più basici vengono progressivamente raffinati e infine razionalizzati, “risalendo” dalle parti più antiche del nostro cervello fino alla neo-corteccia, più recente.

LA STRUTTURE

IL COMPLESSO RETTILIANO, che reagisce

La parte più antica dal punto di vista evoluzionistico è anche la più profonda in termini anatomici e viene definita “cervello rettiliano” dal momento che è paragonabile, per finalità e modalità di funzionamento, al cervello di un rettile. Si attiva nei momenti che ci richiedono massima velocità di esecuzione (per esempio nei casi di rischio di vita), non ci rendiamo conto di usarlo dato che è pre-cognitivo e funziona in termini relazionali secondo una logica di attacco/fuga (in inglese fight/fly), ovvero ci predispone a scappare o ad attaccare di fronte a un predatore (reale o immaginato). Quando ci troviamo in mezzo a una situazione di emergenza come un’aggressione o un incidente, è questa parte a essere coinvolta perchè ci consente di muoverci in modo molto più rapido, al limite della consapevolezza. Si nutre di impulsi, che non vengono modulati secondo un criterio di intensità: l’impulso o si esprime o resta silente.

IL SISTEMA LIMBICO, che sente

Procedendo verso la parte più esterna del cervello, esiste nella teoria di MacLean il “sistema limbico”, che si occupa di quello che concerne la nostra vita relazionale ed emotiva: ci permette di sentire emozioni e di provare sentimenti. Un bambino piccolo usa questa parte, provando emozioni e sentimenti, senza esserne totalmente consapevole. Il percorso di sviluppo di un essere umano ricapitola l’intero percorso evolutivo della specie: quando nasce, il bambino usa e risponde alle parti più antiche del cervello, per poi, crescendo, evolvere ed accedere a livelli più alti della coscienza e della consapevolezza. Il cervello di un ragazzo adolescente è prevalentemente limbico nel senso che, più che pensare, “sente” (e chi ha a che fare con gli adolescenti, di questo si rende conto).

LA NEO-CORTECCIA, che coordina

Proseguendo verso i livelli superiori e più recenti in termini di evoluzione, dell’anatomia del nostro cervello, MacLean illustra le proprietà della neo-corteccia, l’ultima in termini evolutivi e la sola che ci distingue realmente dagli altri mammiferi. La neo-corteccia ci consente di sapere di esistere, di impegnarci in progetti complessi e creativi che esulano dal semplice bisogno affettivo, riproduttivo o di sopravvivenza, e di dedicarci all’etica, alla filosofia, al ragionamento puro e astratto. Questa parte è la più recente in termini di evoluzione. Quando le cose funzionano bene, in modo integrato, coordina le attività delle altre parti e ne è allo stesso tempo impressionata: grazie alla neo-corteccia “razionalmente” possiamo inibire gli istinti o le pulsioni; allo stesso tempo ci accorgiamo di come il contenuto dei pensieri si moduli su quali emozioni stiamo sperimentando, a prova di quanto siamo suscettibili e perturbabili da ciò che “sentiamo”.

GERARCHIA

Il cervello funziona in modo gerarchico, secondo un principio attribuito agli studi del neurologo J. Hughlings Jackson, che teorizzò come le “funzioni mentali superiori” fossero gerarchicamente dominanti su quelle più istintive, e in grado di modularle “quando tutta va bene” (Jackson chiama Dissoluzione lo stato di mancato funzionamento delle funzioni mentali superiori -che coordinano-, con una dominanza di quelle inferiori).

Come prima si diceva, tuttavia, in situazioni peculiari è auspicabile e necessario che la neo-corteccia lasci il posto a livelli più istintivi di funzionamento, disattivandosi. Quando le funzioni sono integre e tutte accessibili, siamo nell’ambito del buon funzionamento psichico; dove c’è squilibrio e impossibilità a usare certe parti o difficoltà nel farlo (per esempio con una dominanza di razionalità -un uso prevalente della neo-corteccia-, o una forte impulsività fuori controllo -un utilizzo prevalente del cervello rettiliano), emergono difficoltà che si ascrivono all’ambito della psicopatologia.

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1 dicembre 2017

OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE

di Matteo Respino

Otto Kernberg.

New York Presbyterian Hospital, White Plains (NY). Weill Cornell Medicine, Department of Psychiatry.

Il Professor Otto Kernberg è uno dei più importanti psichiatri e psicoanalisti della nostra epoca, forse anche di quelle precedenti. È riuscito ad apportare contributi insuperati alla comprensione delle “organizzazioni patologiche di personalità”, alla teorizzazione delle relazioni oggettuali e in generale alla sistematizzazione della psicoanalisi contemporanea. Tutto ciò senza mai allontanarsi dal mondo reale dei pazienti, mantenendo un approccio alla teorizzazione sufficientemente pragmatico da poter essere effettivamente applicato in contesti reali, e senza mai provocare fratture con la psichiatria biologica o il mondo accademico. Nel corso della sua carriera è stato Presidente dell’Associazione Internazionale di Psicoanalisi e ancora oggi, all’età di 89 anni, pratica la psicoanalisi privatamente ed insegna psichiatria all’università Weill Cornell Medicine di New York, supervisionando la formazione dei giovani specializzandi.

Per questo insieme di ragioni indiscutibili, oltre ad elementi personali che mi rendono particolarmente interessato al suo lavoro, ho deciso di scrivere una serie di brevi pezzi che ne riassumano il pensiero, o quantomeno alcune sue parti, procedendo con una logica “dal generale al particolare”. Rigorosamente seguendo in nostro stile, questi pezzi saranno il riassunto, semplificato ed accessibile, di articoli scientifici o d’opinione pubblicati dallo stesso Kernberg su riviste scientifiche di alta qualità.

Se siete all’inizio della vostra formazione o semplicemente curiosi, questi pezzi faranno per voi. Per coloro invece già formati, un adeguato approfondimento sarà disponibile accedendo alla fonte diretta presente ai relativi link.

Cominciamo con il primo, tratto da qui.

Le componenti fondamentali del trattamento psicoanalitico secondo Otto Kernberg.

Nell’articolo “The four basic components of psychoanalytic technique and derived psychoanalytic psychotherapies”, pubblicato nel 2016 sulla rivista World Psychiatry, Kernberg sintetizza efficacemente gli elementi centrali che caratterizzano il trattamento psicoanalitico e le cosiddette psicoterapie “ad orientamento psicoanalitico”, distinguendole da altre forme di trattamento della sofferenza mentale. Quando qualcuno, ad un esame o in una discussione davanti a un bicchiere di vino, vi chiederà che differenza c’è tra la psicoanalisi e la psicoterapia in generale (domanda classica, prima o poi arriva sempre se studiate o lavorate nel contesto “psi”), potrete rispondere come segue, citando il maestro e il suo articolo del 2016. Seguendo una logica “dal generale al particolare”, pare sensato partire da qui.

In sostanza ciò che caratterizza il trattamento psicoanalitico si riassume in quattro elementi: interpretazione, analisi del transfert, neutralità tecnica e analisi del controtransfert.

  • L’interpretazione è la comunicazione verbale, da parte dell’analista, di ciò che l’analista ipotizza sia il conflitto inconscio che domina il funzionamento del paziente. Kernberg sottolinea come questa definizione, piuttosto generica, includa di fatto diversi tipi di intervento verbale/comunicativo. Ad esempio, forme di intervento ascrivibili al contesto “interpretativo” sono la clarification (in cui l’analista cerca di far luce, di mettere ordine, su quello che sta avvenendo nella mente del paziente a livello conscio) e la confrontation (il portare cautamente alla luce aspetti non-verbali del comportamento del paziente). Vi è poi ovviamente l’interpretazione vera e propria, ovvero la comunicazione di ciò che l’analista ritiene sia il significato inconscio ed unitario dell’insieme di esperienze, comportamenti e comunicazioni che paziente mette in atto.
  • Il transfert è la ripetizione inconscia, nel presente, di un conflitto passato. Kernberg sostiene che la sua analisi sia la fonte principale del “cambiamento” indotto dal trattamento psicoanalitico. Inoltre, l’Autore sottolinea come il transfert operi come una “resistenza” (ovviamente al cambiamento) nella forma di patterns stabili di difesa caratterologica. In tal senso, l’analisi del transfert e la sua interpretazione sono una via possibile alla modificazione del carattere.
  • Cosa si intende per neutralità tecnica? Trattasi della disposizione dell’analista ad approcciarsi al paziente, citando l’Autore, “con naturalezza e sincerità […] nel contesto di comportamenti socialmente appropriati, parte dei quali include che l’analista eviti di riferirsi o focalizzarsi sui propri interessi o problemi”. Kernberg, trattando questo punto, prende le distanze da un approccio “anonimo” sottolineando come sia inevitabile che alcuni elementi personali propri dell’analista emergano nel corso del trattamento, e come questi non siano un male tout-court, ma anzi possano essere a loro volta elementi di analisi del transfert nel contesto della diade paziente-terapeuta. Attenzione però! L’Autore sottolinea anche come le reazioni del paziente ai comportamenti dell’analista non vadano lette costantemente come “reazioni di transfert”!! Esistono infatti anche reazioni “fisiologiche” (realistic reactions) che vanno distinte dal transfert, ovvero reazioni emotive a fatti/contesti/situazioni reali in cui il paziente e/o l’analista si possono trovare.
  • Il controtransfert è oggi definito come un concetto piuttosto allargato: si tratta “semplicemente” dell’insieme delle reazioni emotive dell’analista “momento per momento”. Queste reazioni includono a) reazioni al transfert del paziente; b) reazioni alla realtà della vita del paziente (ad esempio, la compassione per una perdita reale che il paziente può subire); c) reazioni alla realtà della vita dell’analista stesso; d) infine (definizione più ristretta e classica) le reazioni transferali attivate nell’analista dai contenuti espressi dal paziente. In questo sensoi, Kernberg puntualizza come serie difficoltà caratterologiche dell’analista possano portare a “distorsioni croniche” del controtransfert, implicitamente sottolineando il noto fatto che un analista dovrebbe essere “sufficientemente sano”.

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30 novembre 2017

TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)

di Luca Proietti

LA NASCITA DELLE MNEMOTECNICHE

“Si racconta che una volta Simonide stesse cenando a Crannone, in Tessaglia, a casa di Scopa, uomo ricco e nobile. (…) Poco dopo, Simonid  fu chiamato fuori: due giovani erano alla porta e lo chiamavano con grande insistenza. Egli si alzò, uscì, ma non vide nessuno. Nel frattempo, la sala in cui Scopa banchettava crollò, ed egli stesso morì con i suoi parenti sotto le macerie. Quando i congiunti vollero seppellirli, non li poterono riconoscere in alcun modo, così maciullati; Simonide allora li identificò uno per uno per la sepoltura perché ricordava la posizione che ognuno di loro occupava durante il banchetto. Stimolato da questo episodio, egli capì che l’ordine era l’elemento fondamentale per illuminare la memoria. Pertanto coloro che esercitano questa capacità della mente devono fissare dei luoghi immaginari, raffigurarsi con il pensiero ciò che vogliono ricordare e collocarlo in questi luoghi: cosi l’ordine dei luoghi conserverà l’ordine delle cose e l’immagine delle cose indicherà le cose stesse; i luoghi saranno per noi come le tavolette di cera, e le immagini come le lettere.”

Cicerone, “De oratore”

COSA SONO E COME FUNZIONANO LE MNEMOTECNICHE?

Le mnemotecniche sono delle strategie che sfruttano la nostra capacità innata di apprendere. Innata? Si, proprio innata. Se questa capacità è davvero naturale allora perché per apprendere delle nozioni ricorriamo a metodi quali quello della ripetizione? Perché alcune informazioni, stimolando la memoria a sufficienza, rimangono impresse a lungo, e altre invece vengono dimenticate.

Simonide di Ceo capì quali caratteristiche deve possedere un’informazione per essere appresa in poco tempo ed in modo duraturo; nacque da lì lo studio di tecniche che si prefiggevano di rendere stimolanti la memoria le nozioni, normalmente dimenticate, grazie alla manipolazione delle loro proprietà.

Le caratteristiche capaci di creare rapidamente un ricordo a lungo termine sono il coinvolgimento emotivo, l’utilizzo della componente visiva della memoria e l’associazione delle informazioni. Quotidianamente sperimentiamo la durata e la nitidezza del ricordo di fatti o concetti emotivamente rilevanti.

La memoria visiva è la capacità di ricordare immagini create dalla mente ex novo o da manipolazione della realtà, diversamente da quella fotografica che trattiene immagini reali.

La capacità della nostra mente di ricordare immagini, particolarmente se accompagnate da elementi di percezione sensoriale, è molto più sviluppata rispetto a quella di ricordare concetti o ragionamenti.

L’associare tra loro queste immagini fa sì che il ricordo di una sia sufficiente a richiamare la successiva e così via, tenendo così a mente lunghe liste di immagini ricordando solo la prima.

Se teoricamente è richiesto solo di soddisfare questi tre principi per ottenere un ricordo duraturo delle nozioni, il problema si pone poi nella pratica; non tutte le informazioni da apprendere infatti colpiranno l’emotività, né saranno facilmente visualizzabili e associabili. Molti di noi ricorderanno come erano vestiti il giorno del loro diciottesimo compleanno: il vestito è l’elemento visivo, associato a noi, al luogo e all’occasione del festeggiamento; innegabile è la componente emotiva.

Ricordare un elenco di muscoli, arterie, presidenti della repubblica con relative date dell’incarico, articoli di codice o vocaboli di una lingua straniera risulta meno immediato. Le tecniche di memoria si propongono di rendere emotivamente attive, associabili e visive delle informazioni che altrimenti sarebbero astratte quanto le idee dell’Iperuranio; queste saranno così apprese con rapidità e verranno ricordate per lungo tempo.

QUAL È IL MECCANISMO FISIOLOGICO ALLA BASE DEL LORO FUNZIONAMENTO?

Il substrato anatomico dei processi mnemonici è identificabile soprattutto con il circuito di Papez, via nervosa che collega ippocampo, fornice, ipotalamo( corpi mammillari), talamo, corteccia limbica, ippocampo nuovamente, corteccia prefrontale, nuclei del setto e amigdala.

Quando pensiamo e studiamo andiamo ad attivare aree anatomicamente diverse se noi facciamo uso della logica e della razionalità, come di consueto o se, per mezzo di mnemotecniche ricorriamo alla fantasia, all’evocazione di sensazioni e alla visione mentale di immagini.

L’ippocampo, formazione disposta nel profondo del nostro encefalo, può essere paragonato a un anziano libraio che smista le informazioni con cui veniamo a contatto, per depositarle nei sistemi neurali e successivamente richiamarle a coscienza. Esso quindi è il protagonista principale dell’apprendimento delle nozioni e del successivo richiamo di queste. Ogni volta che noi ricordiamo un’informazione il processo è svolto dall’ippocampo, sia che sia stata appresa con il metodo tradizionale che con le tecniche di memoria.

Cambiano invece i luoghi anatomici nei quali queste informazioni vengono archiviate: con lo studio, che potremmo definire tradizionale e che utilizza soprattutto la logica, andiamo a stimolare l’emisfero sinistro e in particolare le cortecce temporale e frontale, quest’ultima sede del ragionamento analitico e astratto; non è un caso che nell’ essere umano questa regione sia molto più sviluppata che in tutte le altre forme viventi.

Utilizzando le mnemotecniche invece stimoliamo entrambi gli emisferi: il sinistro grazie ai processi di associazione delle immagini e al ragionamento logico e analitico, necessario alla comprensione del testo, che non deve essere mai tralasciato; il destro per mezzo delle sensazioni e emozioni correlate.

In particolare, le formazioni che si attivano sono soprattutto l’ippocampo, l’ipotalamo e l’amigdala.

La differente efficacia del ricordo è spiegabile tramite due fatti: il differente percorso neurale intrapreso per il richiamo di nozioni e l’attivazione bi-emisferica.

Con il metodo tradizionale, l’informazione richiamata dall’ippocampo, situato nelle profondità dell’encefalo, deve giungere dalla corteccia frontale, la formazione più superficiale dell’encefalo; è quindi elevata la distanza quantificabile in centimetri e sinapsi. Da un punto di vista filogenetico questo tragitto ripercorre le tappe evolutive dell’encefalo, da quello primitivo a quello più sofisticato. Stimolando la memoria con le mnemotecniche andiamo a sollecitare due formazioni contigue all’ippocampo: l’amigdala, che possiamo immaginare come un bambino che si emozioni facilmente, responsabile delle reazioni emotive, e l’ipotalamo, assimilabile a un ragazzaccio che bada solo ai fatti, responsabile delle reazioni alle sensazioni.

In sintesi queste tecniche permettono di attivare l’ipotalamo grazie alla creazione di immagini visive accompagnate da sensazioni, l’amigdala per mezzo del coinvolgimento emotivo, la parte razionale del cervello con l’associazione di immagini; inoltre l’ordine di queste agevola l’ippocampo nella sua funzione di richiamo.

L’utilizzo di due emisferi invece di uno solo facilita la concentrazione: l’emisfero destro è infatti il principale responsabile dei così detti “sogni ad occhi aperti”, il suo impegno riduce notevolmente la possibilità che i nostri pensieri si disperdano in voli pindarici.

PERCHÉ LA RIPETIZIONE DELLE INFORMAZIONI È UNO DEI METODI MENO EFFICACI?

Ogni volta che ripensiamo o ripetiamo a voce un’informazione, a livello neurale vengono riutilizzate delle sinapsi: si verifica il così detto potenziamento sinaptico a lungo termine, fenomeno per il quale a stimoli presinaptici ad alta frequenza, ripetuti per alcuni secondi, fa seguito un miglioramento dell’efficienza della trasmissione sinaptica stessa. Tale miglioramento trova fondamento nella maggior quantità di neurotrasmettitore rilasciato e nella sintesi di più recettori postsinaptici. Il nome di questo fenomeno non deve ingannarci, infatti esso è in grado di spiegare l’apprendimento di nozioni esclusivamente a breve termine. La ripetizione inoltre comporta svantaggi a livello neurofisiologico e psicologico. Ogni volta che ripetiamo un’informazione rafforziamo sì temporaneamente la memoria, ma paradossalmente aumentiamo anche la probabilità di perdere quell’informazione, infatti ripetere un dato inibisce la memorizzazione di altri poiché le sinapsi saranno sature dal sovraccarico di lavoro.

Dal punto di vista psicologico i fattori da tenere presenti sono principalmente il tempo speso e la noia: un basso rapporto in termini di efficacia/tempo aumenta la sensazione di noia, che diminuendo l’interesse, inficia la capacità di concentrazione e inibisce il ricordo.

SONO APPLICABILI IN QUALSIASI DISCIPLINA? IL LORO UTILIZZO SI SOSTITUISCE AL RAGIONAMENTO E ALLA COMPRENSIONE?

L’applicazione pedissequa di mnemotecniche ad ogni tipo di informazione non vi fornirà alcun vantaggio, il loro impiego deve essere calibrato e ragionevole.  Non ha senso, ad esempio, imparare a memoria informazioni che una volta analizzate razionalmente e comprese si ricordano già. Il ricorso alle mnemotecniche ci permette di migliorare il ricordo e rendere più rapida la nostra facoltà di apprendere, ma esse non devono essere applicate sempre e ovunque, il loro abuso risulta infatti controproducente.

Con un po’di immaginazione potremmo paragonare il loro utilizzo all’impiego della marcia più alta di una macchina da corsa: la tecnica è la marcia che permette di raggiungere le velocità maggiori, ma per impiegare il minor tempo possibile a completare un percorso, sarà importante ricorrere a quella che più si adatta al tratto corrente.

Un metodo di studio corretto, a mio modesto parere, si fonda sul ragionamento e la comprensione, che sono le basi per qualsiasi memorizzazione, prima spontanea e poi adiuvata dalle mnemotecniche.

L’UTILIZZO DI QUESTE TECNICHE È ALLA PORTATA DI TUTTI? QUALI SONO I VANTAGGI OTTENIBILI?

Solo chi è sufficientemente curioso e costante nell’esercizio di queste tecniche potrà raggiungere un’abilità soddisfacente; come per ogni altra tecnica, questa è frutto dell’esercizio e dell’abitudine.

I vantaggi sono definibili in risparmio di tempo, riduzione dello stato d’ansia, ordine mentale, e acquisizione di un ricordo a lungo termine. Si ha un guadagno di tempo poiché la persona che si avvale di queste tecniche non avrà alcuna necessità di ripetere le informazioni per apprenderle.

Il ricordo visivo che si viene a creare rende consapevoli di aver appreso in maniera consolidata le nozioni: la sensazione è quella di aver a disposizione un taccuino per appunti, sfogliabile mentalmente; ciò rende molto più sicuri, diminuendo il livello di ansia.

Sotto stress è facilitato il richiamo delle immagini della memoria, amigdala e ipotalamo sono infatti stimolati nello stato di allerta, che invece tende a diminuire l’attività della corteccia frontale, sede dell’analisi e della memoria logica.

In sede di esame ad alcuni studenti capita di agitarsi e non riuscire a richiamare le informazioni apprese; per i motivi descritti prima, con le mnemotecniche questo rischio viene meno.

Ricordare una consecuzione di immagini permette di manipolarle, avendo a mente un susseguirsi visuale, e nel frattempo di proseguire con il proprio discorso.  Il Sistema Nervoso permette di gestire contemporaneamente due canali differenti di informazioni, uno linguistico e uno visivo; senza immagini ciò è non è possibile.

L’ordine delle informazioni viene dato dalle stesse tecniche utilizzate, per questo anche l’esposizione ne avrà dei vantaggi: “cosi l’ordine dei luoghi conserverà l’ordine delle cose e l’immagine delle cose indicherà le cose stesse” Cicerone, “De oratore”.

Infine le tecniche di memoria, se padroneggiate con esperienza e accortezza, permettono di creare nella maggior parte dei casi un ricordo a lungo termine; grazie a un sistema di ripassi programmati ideato da Tony Buzan, psicologo esperto di apprendimento, qualsiasi informazione memorizzata per mezzo delle mnemotecniche può essere ricordata a lungo termine.

BIBLIOGRAFIA

Cicerone, De Oratore, Libro II Biblioteca Universale Rizzoli,2006

Tony Buzan, Usiamo la Testa, Sperling & Kupfer Editori,2011

Tony Buzan, Usiamo la Memoria, Sperling & Kupfer Editori,2012

Giuseppe Anastasi, Trattato di Anatomia Umana, Volume III  Edi-Ermes, 2010

Tony Buzan, Lettura Veloce, Alessio Roberti Editore – Nlp Italy,2009

Tony Buzan, Mappe Mentali, Alessio Roberti Editore- Nlp Italy,2012

Gianni Golfera, Migliora la tua memoria, Sperling & Kupfer,2006

SITOGRAFIA

www.wikipedia.it

www.unibg.it

www.mnemotecniche.com

Grazie a Woody Allen, dal quale ho preso spunto per il titolo dell’articolo.

Article by admin / Formazione / lucaproietti, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

29 novembre 2017

LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017

di Raffaele Avico

Avere a che fare con disturbi post-traumatici significa fare in conti con la problematica dissociativa.

L’idea generale è che ciò che non riesce a essere elaborato e mentalizzato inerente un trauma o più traumi, venga dissociato dalla coscienza e sospinto in un luogo protetto non facilmente raggiungibile in modo conscio, ma fortemente influente sulla vita della persona e in grado di procurargli grandi problematiche a livello di sintomi psicopatologici. Il DSM elenca molteplici sintomi di natura dissociativa, dalla fuga dissociativa all’amnesia dissociativa, fino ai disturbi di depersonalizzazione e derealizzazione. Esiste inoltre il Disturbo Dissociativo dell’Identità, la ri-formulazione attuale del passato Disturbo da Personalità Multipla, di cui mantiene -rivisti- i criteri diagnostici.

Parlare di dissociazione vuol dire considerare scisse e non integrate alcune “parti costituenti” normali della psicologia dell’individuo: per esempio è tipico osservare una dissociazione tra razionalità ed emotività in pazienti fortemente traumatizzati. Capiterà cioè di osservare alcuni pazienti che raccontano episodi potentemente drammatici senza mostrare dolore psichico, e senza averlo mai sperimentato a livello somatico.

Un meccanismo di difesa simile, “verticale”, aiuta la mente a mantenersi adattata all’ambiente circostante, al prezzo però della sensazione di un senso di incoerenza del Sé e della compromissione di quelle funzioni mentali superiori che consentono di percepirsi integrati e “realizzati” in senso psichico. Per portare la questione su un esempio concreto, immaginiamo un paziente che abbia da poco superato un grosso incidente d’auto in cui ha visto morire alcuni cari amici: le immagini immagazzinate relative all’incidente, i percetti più “indigesti” dal punto di vista psichico, potranno venire dissociati e riposti in una zona nascosta della coscienza. Come succede spesso nel disturbo da stress post-traumatico, gli stessi percetti torneranno a farsi “vedere” dall’individuo sotto forma di flashback intrusivi, molto disturbanti e ossessionanti, ponendo la persona di fronte alla necessità di attivare strategie di controllo e risoluzione del sintomo.

Genericamente possiamo considerare i sintomi dissociativi dei fallimenti nel tentativo fatto dalla mente di tenere separati -scissi, appunto- contenuti e aree psichiche che per ragioni di funzionamento dell’intero sistema è meglio non si tocchino. Usando una metafora grossolana, è come se nel momento del rischio di allagamento e di affondare, la stiva di una grande nave fosse suddivisa in compartimenti stagni per impedire all’acqua di penetrare ovunque. La mente dissocia contenuti troppo potenti e attivanti in senso emotivo, per poter continuare ad adattarsi al mondo circostante. Come spiega magistralmente il lavoro teorico di Van Der Hart, si produce a seguito di dinamiche di questo tipo una rottura della coerenza del Sé e una suddivisione della personalità in due o più parti, attive in parallelo e osservanti modalità e regole di funzionamento diverse. Persone con questo tipo di problematiche e la cui psicologia utilizzi meccanismi di difesa verticali, possono andare incontro a sintomi dissociativi di varia natura. Esistono due linee di pensiero a riguardo della natura dei sintomi dissociativi:

  1. I teorici del continuum sostengono esista un gradiente di gravità dei sintomi stessi, partendo da un senso di straniamento nei confronti della realtà, fino al vissuto di depersonalizzazione (visione di sé dall’esterno) e derealizzazione (incredulità sulla realtà) e alla creazione di un disturbo dissociativo dell’identità. I sintomi dissociativi sono quindi gli stessi, sempre, ma posseggono livelli di gravità diversi.

  2. I teorici invece della dissociazione strutturale (e Van Der Hart fa parte di quest’ultimo gruppo), sostengono esistano diverse forme di disturbo dissociativo con impatti diversi sulla psiche della persona (i sintomi dissociativi cambiano e hanno impatti diversi perché hanno natura diversa).

Al di là della diversa posizione tenuta dai due gruppi, è ormai chiaro che i sintomi dissociativi rappresentano un fallimento della funzione meta-cognitiva dell’integrazione: esistono elementi diversi dell’esperienza i cui effetti sulla psiche non riescono a essere integrati.

Nel recente lavoro di Lanius e Frewen “La cura del sé traumatizzato” sono descritte diverse tipologie di sintomo dissociativo, a partire da un modello quadruplo che contempla 4 dimensioni:

  • tempo

  • pensieri

  • corpo

  • emozioni

Prendendo ognuno di questi domini della psicologia e della soggettività dell’uomo, gli autori, ponendosi come prima si diceva entro una posizione che prevede un continuum dei sintomi dissociativi, spiegano come per ognuno appunto di questi domini possano manifestarsi sintomi di natura post traumatica con un diverso gradiente e livello di dissociazione, come si osserva nella seguente figura:

A seconda di come sia stato affrontato e rappresentato il trauma, o in che età questo sia stato vissuto o con quale frequenza o intensità, gli autori procedono ad analizzare come la percezione del tempo, il pensiero, il corpo e l’emotività possano subire distorsioni a seconda del livello di gravità del disturbo post traumatico. Per fare esempi concreti, prendono in analisi molteplici casi clinici in cui osservano come per esempio il tempo subisca profonde trasformazioni quando si è immersi in un flashback post traumatico.

L’assunto generale che sta alla base del lavoro di Lanius e Frewen è che, al massimo grado della loro potenza, i sintomi post-traumatici riescano a produrre un’alterazione della coscienza che conduce a una sorta di aggravamento del sintomo stesso, che si tramuta in qualcosa di più complesso, con una fenomenologia diversa.

All’interno del dominio per esempio del tempo, si osservano casi di distorsione e rallentamento del tempo soggettivo: si può rimanere immersi dentro un flashback vivido per mezz’ora, immaginando che siano passati cinque minuti. Oppure, entro il dominio dei pensieri, gli autori descrivono come a partire da una gravità più o meno alta dei sintomi post-traumatici, si possano osservare sintomi diversificati, dai semplici pensieri negativi rivolti a sé, per finire a sentire voci che provengono da dentro la mente (differenti da quelle attribuite a disturbi di natura psicotica, a provenienza esterna a sé). Procedendo con la disamina della fenomenologia del post-trauma, gli autori osservano quindi come nel dominio del corpo possano osservarsi gradienti diversi di sintomi, anche qui dal semplice stato di iper-arousal fino al senso di “derealizzazione”, cioè di distacco dal proprio corpo, oppure arrivando e a quelli che venivano in passato chiamati sintomi conversivi (parti del corpo anestetizzate senza apparenti motivi medici, etc.). Infine, per quanto riguarda il dominio emotivo, nel libro viene spiegato come sopravvivere a un trauma possa rendere estremamente difficoltoso accedere alla dimensione dell’emotività, specialmente quando si tratti di maneggiare emozioni di segno positivo come la gioia o la serenità, vissute come aliene o estranee.

Nell’appendice del volume vengono riportate le trascrizioni di molti casi clinici in cui ognuno di questi aspetti viene presentato e approfondito in base a esperienze reali di pazienti sopravvissuti a traumi gravi in età infantile (la durata e l’epoca del trauma è prognosticamente rilevante e da tenere in grande considerazione). Consigliamo il volume a chi voglia approfondire in senso teorico la letteratura relativa al trauma e alle strategie di cura, vista la profondità con cui è analizzata la questione e i numerosissimi riferimenti scientifici usati a supporto della trattazione stessa.

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28 novembre 2017

PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

di Matteo Respino

A partire dal “progetto di una psicologia” elaborato da Freud sino allo sviluppo di molti altri sistemi teorico-tecnici e clinici, gli ultimi 100 anni hanno visto lo sviluppo di una grandissima quantità di modelli su cui fondare diversi tipi di psicoterapie, ovvero diverse prassi volte alla cura della sofferenza mentale. La domanda che ci poniamo oggi è quanto queste pratiche siano diverse l’una dall’altra e se queste differenze, in un certo senso, “facciano la differenza”.

Nel tempo molte psicoterapie (curiosamente non tutte) hanno mantenuto l’interesse, o l’ambizione, di dimostrare la loro utilità al di là delle impressioni o credenze soggettive, ossia di validarsi scientificamente, come ogni altra terapia medica. In fondo, questo è ciò quello che solitamente si propone chi lavora nell’ambito della cura: offrire terapie che funzionino. Senza aprire parentesi sulla natura della “domanda” posta dal paziente, che talora è esplicita (“vorrei non avere tale sintomo”) talora meno (pazienti che attraverso il sintomo esprimono una domanda più profonda, di cambiamento più radicale), penso che la spinta a voler dimostrare l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici sia un sano movimento scientifico di verità, sebbene talora difficile da perseguire.

Perché difficile? Per diverse ragioni, soprattutto metodologiche, ad esempio

  • la durata degli interventi e la distanza temporale che si interpone tra la “somministrazione” delle sedute ed il “miglioramento” (cosa ci garantisce che nel frattempo non siano accaduti altri eventi, nella vita della persona, che ne hanno migliorato la condizione indipendentemente dal nostro intervento?).
  • La complessità dell’intervento psicoterapeutico, che per quanto “semplificabile” rimane pur sempre una complessa interazione linguistica tra due esseri umani, certo non come somministrare un farmaco.
  • L’impossibilità strutturale di effettuare studi “randomizzati in doppio cieco” (in cui sia paziente che terapeuta non sanno se il paziente sta assumendo un farmaco o un semplice placebo), il che riduce la “qualità” delle evidenze di efficacia in psicoterapia.

Pur considerando tutti questi limiti, molte psicoterapie possiedono buone evidenze di efficacia. Al di là della ricerca sull’efficacia, oggi sembra essere necessario approfondire la ricerca sul “processo”, ovvero su quali eventi specifici, o meccanismi, conducano al miglioramento del paziente. Altro modo di porre la domanda è, semplicemente, “come funziona la psicoterapia”?

Più specificamente, a funzionare sono i “fattori comuni” a tutte le psicoterapie (ad esempio avere un buon rapporto con il terapeuta) o sono piuttosto “le tecniche specifiche” di questa o quell’altra psicoterapia? Recentemente la rivista Lancet Psychiatry ha proposto una review di Mulder e colleghi, dal titolo “Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box”, che cerca di fare il punto su questo tema. A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28689019).

REPORT

Gli Autori esordiscono sottolineando un dato apparentemente contradditorio: esistono sia evidenze a supporto del fatto che le diverse psicoterapie funzionano “allo stesso modo” (qui gli Autori citano la famosa review di Luborski et al.), ovvero producono effetti di dimensioni del tutto paragonabili, sia evidenze di superiorità di certe psicoterapie specifiche su altre, quantomeno per certi disturbi (gli Autori citano Hoffman et al.). In sostanza, esistono dati a sufficienza per sostenere sia che le psicoterapie funzionano sulla base di “fattori comuni”, da cui ne deriverebbe grossomodo la medesima efficacia, sia che esistono differenze specifiche legate a fattori altrettanto specifici di trattamento. Non solo entrambe queste posizioni sembrano plausibili sul piano teorico, ma vi sono dati sufficienti a confermarle entrambe. Come sottolineato nell’articolo, questa dicotomia di posizioni non è affatto nuova, anzi, si potrebbe citare un famoso dibattito tra Skinner e Rogers (padri, rispettivamente, del comportamentismo e della “terapia fondata sul cliente”) nel quale il primo sosteneva che specifiche componenti di apprendimento indicevano certi cambiamenti, mentre il secondo sosteneva che una relazione terapeutica genuina, sana, fosse “necessaria e sufficiente”. Tale dicotomia, alla luce delle evidenze a sostegno di entrambe le posizioni, ha ancora senso? Oppure, a beneficio dell’avanzamento di questo affascinante campo, è possibile (quanto necessario) superarla? Forse, in linea con le evidenze di cui sopra, le differenze tra queste posizioni sono meno rilevanti in concreto di quanto appaiano in teoria.

Gli Autori sottolineano come sembri esserci un riconoscimento reciproco, da parte dei teorici dei due poli, della rilevanza “dell’altra parte”. Sostenitori dei “fattori specifici” riconoscono l’importanza di fattori aspecifici quali il coinvolgimento del paziente, l’ottimismo e la collaborazione attiva ed esplicita al raggiungimento di obiettivi chiari e condivisi. Viceversa, teorici dei “fattori comuni” riconoscono come in alcuni contesti clinici molto specifici, come i disturbi d’ansia di stampo fobico, interventi per nulla “comuni”, ma piuttosto molto limitati/specifici, come l’esposizione del paziente allo stimolo fobico, siano necessari. Inoltre, punto fondamentale, gli Autori sottolineano come i “fattori comuni” non siano più considerati come un contenitore generico: quando si parla di fattori comuni non si parla di un “va bene tutto”, ma piuttosto di interventi che per quanto “comuni” a diverse psicoterapie sono del tutto specifici nella loro funzione, e che potrebbero possedere un loro distinto potere curativo. In sostanza, il dibattito sulla dicotomia fattori comuni versus fattori specifici sembra essere oggi più che altro una distrazione rispetto alla “semplice” ed unica domanda che bisognerebbe porsi: “quali sono i meccanismi che producono un effetto in psicoterapia”?

Per promuovere la ricerca sul processo in psicoterapia in questa direzione, gli Autori sostengono sia necessario focalizzarsi su diversi approcci, attraverso i quali si potrà a) rispondere alla domanda di cui sopra e b) superare l’obsoleta dicotomia fattori comuni versus fattori specifici. Eccone alcuni:

  • Trattamenti transdiagnostici
    Molte psicoterapie sono manualizzate allo scopo di trattare uno o più specifici disturbi mentali. I cosiddetti “fattori specifici” sarebbero procedure che si applicano nel contesto ristretto del trattamento di quel disturbo. In realtà, sia in ricerca che in clinica si assiste oggi ad una grande attenzione per le dimensioni “transdiagnostiche”. Ad esempio, l’incapacità di regolare le emozioni è un problema che si trova in alcune forme di depressione, ma anche in disturbi d’ansia ed in diversi disturbi di personalità. Lo sviluppo di trattamenti o fattori applicabili a diversi disturbi (poiché transdiagnostici) sembra essere una prima via per superare questa dicotomia
  • Studi su “componenti terapeutiche”
    In questa prospettiva lo scopo è chiaramente quello di studiare quanto le specifiche componenti di un trattamento psicoterapeutico contribuiscano, individualmente, all’effetto finale. Metaforicamente è come voler dividere un piatto nei suoi ingredienti originali e capire quanto un certo ingrediente contribuisca al risultato finale. Cosa fareste se voleste sperimentare qualcosa del genere su una vostra ricetta? Provereste a cucinare nuovamente quel piatto “togliendo” l’ingrediente che volete studiare! Similmente, questo ambito prevede dismantling designs, dove un trattamento psicoterapeutico è confrontato con lo stesso trattamento “meno una sua parte”, ed additive designs, dove un certo fattore viene aggiunto al trattamento “standard” per valutarne l’effetto individuale
  • E-therapies
    Si tratta di terapie somministrate online, senza l’interazione diretta con un curante. Pur potendo apparire come un’eresia inconcepibile, sembra che le e-therapies (per lo più training di tipo cognitivo-comportamentale) abbiano un effetto che è paragonabile a quello delle terapie standard, sebbene limitato ad alcuni disturbi (gli Autori citano la review di Hedman). Questo approccio è particolarmente prono ad un uso sperimentale volto a comprendere “quali meccanismi specifici producono quali cambiamenti”, potendo essere manipolato nel dettaglio “aggiungendo” o “togliendo” parti di training e riducendo l’influenza della relazione terapeutica (intesa, in tal contesto sperimentale, come fattore di confondimento).

Gli Autori sottolineano infine come vi sia necessità di aspirare ad una scienza clinica “accurata”. Questo significa non limitarsi a fare ricerca sull’efficacia di una certa psicoterapia, ma piuttosto cercare di integrare la ricerca sul processo (“cosa succede in psicoterapia?”; “quale aspetto specifico di questa terapia funziona? Quale no?”) con la ricerca di base (neurobiologica) sui determinanti del benessere e della malattia.

PROSPETTIVE

Le linee d’indirizzo oggi perseguibili per far avanzare questo il campo della ricerca in psicoterapia sembrano andare nella direzione di una comprensione più limpida dei “fattori” che producono un cambiamento, al di là del loro essere comuni a molte psicoterapie o meno. Aggiungo che questo approccio proposto dagli Autori sembra andare di pari passo con quello di altri lavori, pubblicati di recente sulle più illustri riviste di psichiatria al mondo, che propongono lo sviluppo di psicoterapie molto “semplificate”, allo scopo di diffondere trattamenti che siano “semplici da apprendere e somministrare” e che mirino a trattare “chiare dimensioni comportamentali validate neurobiologicamente” (Alexopoulos et al., 2013).

BIBLIOGRAFIA

Alexopoulos et al. A model for streamlining psychotherapy in the RDoC era: the example of Engage. Molecular Psychiatry 2013; 19,14-19.

Hedman et al. Cognitive behavior therapy via the internet: a systematic review of applications, clinical efficacy and cost-effectiveness. Expert Rev Pharmacoecon Outcomes Res 2012; 12:745-64.

Hoffman et al. The efficacy of cognitive behavioral therapy: a review of meta-analysis. Cognit Ther Res 2012; 36:427-40.

Luborsky et al., The Dodo bird verdict is alive and well-mostly. Clin Psycho Sci Pract 2002; 9:2-12.

Mulder et al., 2017. Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box. Lancet Psychiatry 2017.

Article by admin / Aggiornamento / matteorespino, neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

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