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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

2 marzo 2021

PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD

di Raffaele Avico

A riguardo dell’intervento peri-traumatico, troviamo più letteratura e materiali in rete che ci descrivono come muoverci in senso farmacologico (per gli psichiatri e i medici soccorritori), che argomenti in ambito psicoterapico.

Un autore che si è lanciato nella proposta di una procedura semplice, da attuare con un paziente che abbia appena subito un evento traumatico (per esempio una donna violentata), è Peter Levine. Peter Levine porta avanti da anni un lavoro esemplare sul trauma, improntato su di una lettura delle stesso evento traumatico molto “naturale”, mediata da un’attenta osservazione del mondo animale. Il corpo, secondo Levine, dissipa il trauma.

Nel suo Waking the Tiger, nella parte finale del libro, propone una procedura per un intervento peritraumatico con un soggetto che abbia vissuto un evento di questo tipo.

Vediamo cosa propone. Teniamo conto che l’approccio è americano, quindi molto pragmatico e applicato. Cosa dovrebbe fare un soccorritore?

FASE 1: LA SCENA DELL’INCIDENTE

Come sappiamo, Peter Levine osserva come, sia nell’uomo che nell’animale, il trauma si produca quando siano presenti -insieme- immobilità e paura.

Senza immobilità, c’è paura “rilasciata” per via corporea (lo stato di attacco e fuga, si risolve appunto con un movimento di fuga).

Senza paura, invece, avremo semplicemente “immobilità senza paura”, che è lo stato ideale di benessere psichico.

Quindi, per Levine, trauma=immobilità+paura.

Inoltre, Levine intende mettere al centro l’esperienza interpersonale, altamente protettiva per soggetti che abbiano appena subito un evento traumatico, insieme a quello che chiama felt sense (il sentire ciò che succede nel proprio corpo).

Al fine di prestare un miglior intervento peri-traumatico, quindi, propone di :

  • dare precedenza ai soccorsi medici
  • far distendere l’individuo e tenerlo/a calmo/a e al caldo
  • occorre evitare che l’individuo si alzi per “fare qualcosa”: è più importante che si conceda il tempo di “rilasciare energia”
  • comunicare a lui/lei che si starà in loro compagnia fino all’arrivo dei soccorsi
  • se l’incidente non è troppo grave, occorre chiedere alla persona come si senta in senso fisico (felt sense), così da nominare eventuali stati di “rush adrenalinico”, senso di essere intorpidito (numbness), bisogno di tremare, vampate di calore incoraggiare l’individuo a tremare e scuotersi, se lo vorrà
  • Questa fase, Levine osserva, potrebbe durare 15/20 minuti

FASE 2: QUANDO LA PERSONA SIA PORTATA ALL’OSPEDALE O A CASA


  • la persona, a seguito di un incidente, dovrebbe poter passare uno o due giorni a casa, a riposo
  • in questa fase di convalescenza, ci saranno reazioni emotive forti (rabbia, terrore, colpa)
  • andranno assecondate le “tendenze all’azione fisiche”

FASE 3: ACCEDERE AL TRAUMA E RINEGOZIARLO


  • quando la persona sarà disposta a farlo, occorrerà chiederle/gli i dettagli del racconto del trauma, in particolare le immagini e -in un secondo momento- le sensazioni periferiche, non strettamente connesse al momento del trauma
  • a questo punto, le reazioni fisiche del paziente potrebbero cambiare: potremo osservare un’accelerazione del respiro e una reazione “simpatica” (generata da un’accensione del sistema nervoso simpatico) durante il racconto, o reazioni di allarme più acute, procedendo sempre di più verso il “kernel patogeno”: lasciamo che il corpo lo “esprima”
  • avviciniamoci al centro dell’esperienza traumatica in modo graduale

FASE 4: IL TRAUMA – IL KERNEL PATOGENO


  • arriviamo all’evento traumatico attraverso il felt sense
  • osserviamo le reazioni del corpo del soggetto, assecondandone le tendenze
  • lasciamo che il paziente esprima ciò che sente per via corporea
  • è importante che il paziente non salti nessuna parte dell’esperienza: TUTTO dev’essere ri-narrato attraverso la lente del felt sense (come l’ho sentito nel corpo)
  • eventualmente, dividiamo questo lavoro in 2 o 3 sedute o momenti
  • chiediamo al paziente di ri-narrare completamente l’accaduto, dall’inizio, osservando se e in che frangente si ripresenti la reazione fisica

Per quanto riguarda il primo soccorso psicologico, troviamo qui un manuale in italiano ben costruito e chiaro, per lo più pensato per chi lavori in contesti di forte crisi umanitaria o si occupi di psicologia delle emergenze.

Vengono sottolineati alcuni aspetti chiave che potremmo sintetizzare in:

  • attenzione a ri-creare insieme al soggetto colpito un micro-luogo sicuro, cercando di ritagliare un luogo che venga percepito dal soggetto stesso come calmo e appunto sicuro
  • mantenere una forte connessione comunicativa con il soggetto, anche solo per via oculare dove non fosse possibile usare il dialogo, e mantenendo allo stesso tempo il rispetto dei confini corporei di lui/lei
  • se dovessimo osservare una reazione dissociativa, dovremo usare le tecniche di grounding o stimolazione sensoriale. Cos’è il grounding? Il grounding è semplicemente un insieme di tecniche con cui possiamo “riportare la persona a terra” durante un episodio dissociativo.
    Ricordiamone alcune estrapolate dal libro PTSD:che fare?
    Esempio di esercizio N. 1 

    Sperimentare con il paziente, da posizione seduta, la sensazione procurata dal tenere i piedi ben appoggiati a terra, aderenti al terreno. Si può suggerire al paziente di spingere con un po’ di forza prima un piede, poi l’altro e in seguito insieme i piedi verso terra, coinvolgendo cosce e glutei. Si chiede al paziente di notare che sensazioni provi nei piedi, nelle gambe, lungo la colonna vertebrale e il resto del corpo. L’esercizio va eseguito fino a percepire sensazioni nelle gambe e senso di radicamento.

    Esempio di esercizio N. 2

    Un altro esercizio che può aiutare a regolare l’arousal e dare senso diradicamento consiste nel massaggiare gambe e piedi. Da seduti (meglio se a terra) si stringono e si massaggiano gambe e piedi: è importante avere un po’ di tempo a disposizione e mantenere un atteggiamento curioso verso l’esperienza, per raccogliere più informazioni possibile: vanno eseguite pressioni più intense e più leggere massaggiando tutte le dita del piede, lo spazio tra le dita, il dorso e il tallone, le caviglie, i polpacci, le ginocchia e le cosce, per poi fare il percorso inverso e riscendere fino a terminare nuovamente con i piedi. Se dovessero comparire dei pensieri giudicanti, è opportuno lasciarli andare ritornando a concentrarsi sulle sensazioni del corpo.

Sostanzialmente, come osserviamo, gli interventi di primo soccorso si muovono usando logiche di buon senso: un punto fondamentale da ricordare, in ogni caso, è quello di prestare attenzione alle tendenze all’azione del corpo, favorendo i micro-movimenti del corpo, “senza aggiungere immobilità” (Levine, come sappiamo, sottolinea in particolare la questione del tremore neurogeno da far evacuare al paziente).

Per quanto riguarda l’intervento farmacologico, riportiamo qui di seguito ciò che abbiamo già scritto altrove.


L’INTERVENTO FARMACOLOGICO PERITRAUMATICO E IL LAVORO DI ALAIN BRUNET

Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, alcune evidenze portano a considerare l’utilizzo di un principio attivo in modo peri-traumatico (ovvero, a ridosso temporale del trauma stesso, per esempio subito dopo aver assistito a un evento traumatico, o l’averlo subìto); in questo articolo scritto da Rachel Yahuda, uno dei riferimenti mondiali sullo studio del PTSD, viene approfondito l’uso dell’idrocortisone come possibile prevenzione dal formarsi di un PTSD.

A proposito di intervento peritraumatico, recentemente questo articolo uscito su Repubblica ha riproposto il lavoro fatto da Alain Brunet, docente di psichiatria e ricercatore al McGill’s Douglas Research Center di Montreal, e pubblicato su American Journal of Psychiatry a proposito dell’utilizzo di propranololo come “coadiuvante” nel lavoro con il PTSD.

Così come per l’utilizzo di MDMA, si tratterebbe in questo caso di “facilitare” il lavoro della psicoterapia somministrando al paziente questo betabloccante circa un’ora prima della seduta. In questo caso quindi, così come appunto si fa con l’MDMA, l’obiettivo sembra essere facilitare l’elaborazione del ricordo traumatico attenuando le reazioni somatiche conseguenti al suo presentarsi alla coscienza dell’individuo. Non è quindi un farmaco pensato per un intervento “mirato” alla rielaborazione del ricordo (di fatto inesistente), ma qualcosa che, come l’MDMA, potrebbe facilitare il suo “presentificarsi” alla coscienza poichè in grado di attenuarne le ripercussioni neurofisiologiche.

Anche qui osserviamo come il problema del PTSD non sia tanto la natura del ricordo traumatico in sé ma, a quanto sembra, lo scatenarsi di reazioni difensive potenti e autonome in senso corporeo quando il paziente tenti di “pensarlo” e, in teoria, elaborarlo.

Alcuni articoli di approfondimento sul lavoro di Alain Brunet, sono:

  1. articolo 1 (pubblicato nel 2018 sull’American Journal of Psychiatry, uno studio RCT su un campione di 60 adulti con PTSD; l’accento viene posto sul razionale clinico definito “pre-riattivazione”, ovvero, avrebbe senso che il farmaco venga somministrato prima della seduta terapeutica, e non dopo, proprio per evitare gli effetti neurofisiologici dell’accesso al ricordo traumatico).
  2. articolo 2 (gli autori valutano la differenza esistente tra somministrare propranololo prima o dopo la seduta terapeutica, osservando come i risultati in termini di consolidamento delle memorie traumatiche siano evidenti solo nel caso “prima”)
  3. articolo 3 (un editoriale di Brunet che riassume lo stato dell’arte della sua ricerca a proposito dell’utilizzo del farmaco)
  4. articolo 4 (sul gruppo di ricerca di Brunet)

Il lavoro di Brunet si è concentrato sul processo di riconsolidamento delle memorie traumatiche, qui approfondito.

In modo estremamente sintetico, possiamo definire il processo di riconsolidamento delle memorie come un processo di “riattivazione e ri- consolidamento” di memorie/ricordi già in precedenza immagazzinati. La terapia espositiva tenta di “smuovere” tracce mnestiche già consolidate, così da provocarne un ri-consolidamento migliore (qui un approfondimento)

Sappiamo genericamente che il PTSD può essere considerato un problema inerente la memoria.

Come qui approfondito, tutto ciò che nella terapia del PTSD possa produrre o condurre il paziente a smuovere le memorie traumatiche (EMDR, terapia espositiva), senza che queste vengano poi riconsolidate, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.

Considerato l’approccio trifasico al PTSD (prima fase: stabilizzazione dei sintomi, seconda fase: approccio alle memorie traumatiche, terza fase: integrazione), stiamo qui ragionando (così come Brunet e il lavoro con il propranololo) su come accedere in modo diretto al ricordo (quindi, la fase 2), per finalmente “lasciare il passato nel passato”.


IL LAVORO DI ESSAM DAOD NEI CONTESTI TRAUMATICI

Chi è Essam Doad?

Essam Daod è uno psichiatra esperto di disturbi traumatici, fondatore insieme alla compagna di un’associazione chiamata Humanity Crew. Insieme ad altri collaboratori, si stanno occupando di fornire un aiuto concreto ai migranti del Mar Mediterraneo meridionale (la base di lavoro, per loro, è la Grecia).

Daod è mediaticamente molto conosciuto, si veda per esempio questo Ted talk:

La missione principale del suo gruppo di lavoro è di portare cura psichiatrica immediata, ai bambini sopravvissuti a traumi legati al contesto dell’emigrazione. Nei video che lo riprendono, lo si vede per lo più con bambini appena sbarcati dopo pesanti viaggi in mare, spesso senza genitori.

La domanda che si fa Daod è semplice: come prevenire l’insorgere di un PTSD violento nella mente di questi bambini? Già solo il viaggio potrebbe costituirsi come evento traumatico, non tenendo conto di tutto ciò che questi bambini possano aver subito in precedenza.

Daod ragiona sugli aspetti dirompenti del trauma in termini narrativi. Un po’ come vediamo fare a Roberto Benigni ne La vita è bella -nel tentativo di spiegare al figlio gli eventi dell’Olocausto così da crearsene in tempo reale una narrazione coerente ed “edulcorata”- Doad tenta, con questi bambini, una ristrutturazione cognitiva peri-traumatica, una ri-narrazione di ciò che stanno vivendo.

Qui il suo sito.


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Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

21 febbraio 2021

IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1)

di Raffaele Avico


INTRODUZIONE

In un essere umano sano, un’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di creare un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. Nel resoconto che un individuo post-traumatizzato farà della sua esperienza, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà, nel ricordo, colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo ricordarlo, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato.

Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la non elaborabilità in termini mnestici.

La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria.

Sembrerebbe cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo ormai trascorso. Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, pur tuttavia attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamato Disturbo da Stress Post Traumatico, in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo.

Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè; centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, in realtà però meno intensa, ma in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo intenso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento, per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi, vissuti spesso nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo, verrà in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale, durato per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. Il trauma ha, in un certo senso, un impatto sempre identitario: con esso, la vita dell’individuo, cambia. Tuttavia, esisteranno differenti gradi di modellamento dell’identità dell’individuo a partire dalla differente tipologia di evento traumatico, come prima sottolineato.

All’interno di questo filone di articoli a tema “trauma negli animali”, ci occuperemo di traumi singoli e unici.

Non verranno cioè presi in considerazione traumi cumulativi, protratti, e in grado di alterare l’identità di un individuo nel contesto di un disturbo da attaccamento. Questo perché, come è chiaro dal titolo, questo vuole essere un approfondimento sulla natura più naturale dell’impatto del trauma sul corpo e sulla mente, questa volta in ambito animale.

La teoria psicotraumatologica riguardante l’essere umano, ci servirà come base per esplorare quali sono le conseguenze di una trauma nel mondo animale; l’obiettivo sarà tuttavia, a partire dalle constatazione che da queste osservazioni arriveranno, comprendere ancora una volta, e possibilmente meglio, come l’uomo fuoriesca e gestisca un evento traumatico.

Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto.

Per questo, il PTSD è stato definito come una patologia della memoria, ponendo appunto l’accento sulla sua difficile digestione in termini di memoria. I potenti strumenti di apprendimento messi a disposizione dell’uomo dall’evoluzione, sembrano ritorcersi contro di lui/lei contribuendo a far sì che per lungo tempo non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del ricordo traumatico.

Per questo, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.

Differenti autori hanno osservato come gli animali sembrino possedere strumenti differenti per far fronte a un PTSD, oppure al contrario riescano a gestire l’elaborazione di un ricordo traumatico per via dell’assenza di alcune strutture “ingombranti” invece possedute dall’uomo.

In questa serie di articoli verrà tentato un lavoro di comparazione tra le risposte post-traumatiche osservate sia nell’uomo che negli animali (in particolare cercando di fare una rilevazione della letteratura che, in ambito animale, si è occupata di trauma), al fine di arrivare a una lettura il più possibile “naturalistica”, per così dire, del PTSD nell’uomo.

Osservando più in profondità lo sviluppo della risposta post-traumatica in un animale, può essere più semplice per l’uomo rispecchiarsi in esso, tentando di rispondere alla domanda centrale di questo filone di articoli, riguardante in definitiva il perchè di una così diversa durata dello stress post-traumatico da animale, appunto, all’uomo.

Per comprendere come venga studiato il trauma negli animali, dobbiamo cercare di addentrarci nella letteratura specialistica, a cavallo tra studi di etologia animale, etologia trasposta all’essere umano, neurobiologia (come funziona nel dettaglio il sistema nervoso di un animale colpito da trauma, cosa che in teoria potrebbe illuminare ciò che succede nell’uomo), e in generale all’interno di quell’enorme contenitore colmo di lavori scientifici che cercano di creare un “modello animale” del PTSD, così da facilitarne, appunto, lo studio nell’uomo.

Troviamo a questo proposito molteplici studi, che tra l’altro potrebbero porre alcuni quesiti etici: maltrattare un animale a fini di ricerca (quello che viene fatto con gli animali, di fatto, sottoponendoli a shock termici, deprivazione sociale, violenza fisica), potrebbe da un lato aiutarci a capire meglio le nostre stesse reazioni, dall’altro metterci di fronte alla sostanziale brutalità dei metodi di ricerca. Non sembra però al momento esserci alternativa, vista la necessità sostanziale di osservare animali vivi sopravvissuti a un trauma, ed essendo necessario applicare a questi alcuni requisiti basali di ricerca quantitativa, per esempio la numerosità del campione, cosa che obbliga i ricercatori a “produrre” animali traumatizzati in modo artificioso/non naturale.

Diversi studi, dicevamo, hanno formulato un parallelismo tra il comportamento animale e quello umano: l’idea di fondo sembra essere connessa alla possibilità di meglio capire il comportamento umano a partire da quello animale. Il che è avvenuto, se pensiamo per esempio alla letteratura psicotraumatologica recente. Quando uno psicotraumatologo osserva un paziente in una condizione di alterazione neurofisiologica, di iper-arousal, la sua mente va a spiegare l’evento partendo da alcune griglie teoriche per lo più etologiche, del tutto simili a quelle che un etologo appunto userebbe per descrivere un cane pietrificato dalla paura improvvisamente illuminato da due fari di auto, nella notte. Osserverà cioè un comportamento umano leggendolo usando un filtro etologico, naturalistico, come farebbe appunto con un animale. Questo perchè esistono alcuni meccanismi, definiti “paleopsicologici”, che ci accomunano agli animali dotati di un sufficientemente evoluto sistema nervoso, tali da produrre in noi reazioni animalesche, pre-razionali, di fatto istintuali.

Cosa ci distingue, però, dagli animali sopravvissuti a un trauma? Alcuni hanno sostenuto che quello che veramente rende unico il PTSD umano, sembrano essere le tempistiche del suo sviluppo e soprattutto del suo mantenersi. Il PTSD umano si mantiene per tempi lunghissimi, arrivando a modellare in modo durevole il comportamento e la vita in generale dell’individuo. Gli animali al contrario riuscirebbero prima degli uomini a fuoriuscire da uno stress post traumatico, per via di alcuni meccanismi naturali di dissipazione corporea del trauma.

A proposito di questo, dobbiamo fare riferimento al concetto di abreazione e a quello di dissipazione.

La parole abreazione è un neologismo coniato per esprimere il senso di “lasciare andare”, evacuare per via corporea, un malessere di origine psicologica. Veniva usata, e viene usata, soprattutto in ambito psicoanalitico, per descrivere appunto il senso di “sfogare per via corporea” dopo aver portato alla “soglia della coscienza” del materiale psicologico rimosso, fino a quel momento inaccessibile alla coscienza.  Una crisi di nervi violenta, un corpo che si tende allo spasmo arcuandosi -come succedeva nella pazienti isteriche “classiche”-, sono esempi di tentativi di abreazione. Abreagire non vuol dire somatizzare: prevede un intervento più totale del corpo, incarnando il corpo stesso, in un momento definito, il malessere psichico portato dall’individuo, rivolto però verso l’”esterno”, verso il fuori.

Possiamo parlare di abreazione anche negli animali?

Se originariamente il termine abreazione indicava un evento di natura per lo più corporea (il fenomeno del tarantismo, le grandi crisi di agitazione durante un rituale sostenuto da una collettività osservante, potrebbe essere un altro esempio di abreazione), questo pareva essere giustificato da quello che -sempre psicoanaliticamente- potremmo chiamare “ritorno del rimosso”. Gli stessi precursori nella studi sull’isteria classica, osservavano come le isteriche sembrassero soffrire a causa del riaffiorare di “reminiscenze” -ricordi rimossi di origine traumatica.

Se ci spostiamo in ambito animale, si pongono ovvi problemi di ordine metodologico, non potendo accedere ad alcun tipo di comunicazione diretta inerente la mente di alcun tipo di animale, essendo noi costretti a bypassare i contenuti mentali dell’animale da noi osservato, per ragionare in termini di output e input. Per questo, sembra naturale osservare l’impossibilità di usare lo stesso termine -abreazione- per descrivere il fenomeno dell’evacuazione del “vissuto traumatico” per via corporea: è più appropriato in questo caso usare il termine dissipazione.

Il fatto che un vissuto post traumatico venga dissipato per via corporea, è stato osservato su diversi animali, con modalità differenti.

Ma come viene studiato, negli animali, il trauma, e con quali metodi?

Cerchiamo di addentrarci all’interno della questione dei “modelli animali”.

Può sembrare naturale che gli animali vengano studiati per comprendere alcuni meccanismi umani, ma questo approccio di base reca con sè una serie di assunti di fondamentale importanza scientifica, che potremmo riassumere in alcuni punti:

  • se studiamo gli animali, è perché assumiamo che alcuni meccanismi neurobiologici siano sostanzialmente sovrapponibili ai meccanismi neurobiologici umani (per esempio, riteniamo sostanzialmente sovrapponibili i meccanismi neurobiologici dei topi ai meccanismi paleopsicologici umani -pensiamo per esempio l’enorme mole di studi che sono stati condotti e vengono tuttora condotti sul tema addiction/gratificazione). Naturalmente questo lo riteniamo vero con alcuni tipi di animali: vedremo successivamente come esistano delle differenze neuroanatomiche specifiche, che ci porteranno a ulteriori riflessioni in merito.
  • se studiamo gli animali, è perchè siamo in grado di rappresentare la nostra specie come composta da “animali”, con le stesse proprietà di altri animali dotati di sistema nervoso; implicitamente, inoltre, in questo modo sottolineiamo come alcuni dei comportamenti umani siano figli di meccanismi neurobiologici non mediati da libero arbitrio, e non velleitari; questo punto ci fa inoltre riflettere su quando una parte della ricerca in ambito psichiatrico/psicologico porti con sè una visione del comportamento umano per lo più “biologista”. Questa visione implica che l’uomo sia figlio dei suoi stessi meccanismi biologici, almeno per alcuni tipi di comportamento (quelli per esempio che più ci rendono simili agli animali, mediati da zone profonde e antiche del cervello)

UN ARTICOLO INTRODUTTIVO (da Nature)

In questo articolo pubblicato su Nature, troviamo alcune considerazioni importanti a riguardo dello studio del PTSD negli animali.

Viene fatta una rassegna di quelli che sono i principali sintomi del PTSD, divisi per cluster, nell’uomo, interrogando il lettore con una semplice domanda: quali sono i sintomi misurabili in senso empirico, del PTSD, nel topo?

Ne risulta una breve rassegna su cosa sia indagabile e cosa no, arrivando a concludere che l’unico sintomo realmente non misurabile, per ovvie ragioni, è la presenza di pensieri intrusivi.

É forse utile fare un brevissimo riassunto di come il DSM 5 raggruppi i sintomi da PTSD. Sappiamo che i sintomi del post trauma sono divisibili in 4 cluster:

  1. Riesperienza
  2. Evitamento
  3. Cognizioni negative
  4. Iper-arousal e iperestesia

Sappiamo cioè che un evento traumatico tende a essere rivissuto in modo acceso per via di coinvolgenti flashback vissuti dal “sopravvissuto”, a causa dei quali lo stesso tenderà a evitare alcuni luoghi/situazioni. Inoltre, sappiamo che lo stress post traumatico tende a generare nell’individuo un senso di negatività auto-diretta, relativa a sè, attraverso quelle che vengono chiamate “cognizioni negative”. Infine, come a contorno di tutto questo, osserviamo come nel PTSD il livello di attivazione generale del sistema nervoso autonomo (l’arousal), sia costantemente sbilanciato verso l’alto, con tutto ciò che ne deriva: in particolare, un livello costante di iper-arousal conduce all’iper-estesia, cioè a una percezione anomala e amplificata di alcuni aspetti dell’esperienza sensoriale (come sentire i rumori, o alcuni rumori, in modo troppo acceso, o interpretare alcuni aspetti dell’esperienza in modo minaccioso/distorto).

Per quanto riguarda la ricerca nel topo, come si diceva, i pensieri intrusivi, la riesperienza e i flashback non sono indagabili, per l’impossibilità di accedere all’esperienza rappresentata -mentale- del topo stesso; l’evitamento è tuttavia facilmente osservabile, di fronte a possibili trigger che rievochino nella mente del topo l’evento traumatico; per quanto riguarda le cognizioni negative, i ricercatori sostengono di riuscire a inferire la presenza di cognizioni negative attraverso test inerenti la motivazione, la preferenza sociale e il test della “preferenza edonica”; per quanto riguarda invece lo stato di attivazione neurofisiologica del topo (arousal), viene osservato come esistano molteplici strumenti di rilevazione del livello di arousal; infine, osservano che, così come accade per l’uomo, per poter attribuire al topo il vivere una condizione di post trauma, debba essere passato un certo lasso di tempo (non necessariamente un mese), così da escludere l’ipotesi che il topo studiato non stia vivendo semplicemente una condizione di post trauma acuta e strettamente contestuale.

Torniamo all’articolo su Nature. Gli autori si pongono alcuni domande:

  1. Come costruire un buon modello animale (per meglio capire il PTSD nell’uomo)?
  2. Come poter asserire che il PTSD in un uomo si comporta allo stesso modo, in un topo?

Gli autori elencano alcuni aspetti inerenti la neurobiologia del PTSD, compresi gli aspetti più profondi, genetici, cercando parallelismi nel topo. Si domandano infatti se il trovare distorsioni in alcuni meccanismi neurobiologici conseguenti al PTSD, sia negli animali che nell’uomo, non sia segno di una prova provata dell’intervento di quello stesso meccanismo nell’insorgere di un PTSD.

Qui, riassunti, tutti i parallelismi.

Sempre su questa linea, osservano anche come per costruire un buon modello animale del PTSD, si possa passare per via farmacologica: se uno stesso farmaco ottiene stessi risultati, benefici, sul PTSD di un animale e di un uomo, potremo trarne che i meccanismi sui cui il farmaco agisce, sono perlomeno simili. Il problema, osservano gli autori, è che non esiste un approccio farmacologico gold-standard, come altrove abbiamo osservato.

Che fare, dunque? Gli autori intendono proporre una nuova linea di ricerca. Come premessa, osservano che:

  • generalmente, il PTSD negli animali è studiato a partire dal tipo di trauma, sottoponendo gli animali (in questo caso, il topo) a differenti tipi di stress. Qui una rassegna completa delle tipologie di traumi costruiti artificialmente per il topo.
  • Uno dei paradigmi più studiati, è il paradigma della risposta condizionata alla paura. Seguendo questo tipo di ragionamento, il PTSD sarebbe da considerarsi una forma distorta e grave di condizionamento primario, un apprendimento pavloviano in piena regola. Ne abbiamo scritto altrove quando abbiamo parlato del PTSD come di un “apprendimento a prova singola”, teoria proposta anche da Stephen Porges

Continuando nella lettura dell’articolo, notiamo come uno degli aspetti più difficili nella costruzione di un modello animale per il trauma, sia il replicare gli eventi traumatici all’interno della vita dell’animale.

Come si è visto e qui troviamo riassunto, esistono molteplici vie che ci consentono di ricreare un trauma in un animale.

Il punto, al di là del tipo di trauma ricreato in laboratorio, è ragionare sul perché applicare un certo tipo di stimolo a quel particolare animale, e in che modo.

L’aspetto più importante su cui riflettono gli autori, è senza dubbio il tema della risposta condizionata alla paura.

Anche qui, vediamo come lo stress post traumatico venga interpretato come una forma estrema e prolungata di condizionamento, tanto forte e duraturo da modellare la vita dell’individuo in più modi.

Ovviamente, ragionano gli autori, questa visione assume che il meccanismo di fondo per lo sviluppo del PTSD sia un meccanismo di condizionamento, cioè di apprendimento: questa cosa non è scontata e andrebbe tenuta in “forse”.

COME DIAGNOSTICARE CORRETTAMENTE PTSD NEGLI ANIMALI DA LABORATORIO?

Procedendo nella disamina su “come stressare” in modo eticamente corretto e alla stesso tempo utile a generare nell’animale una riposta post traumatica, gli autori si pongono alcune questioni importanti; in sequenza:

  1. sulla popolazione umana colpita da trauma, solo il 10% sviluppa PTSD
  2. in questo senso, “procurare” una trauma a un animale, potrebbe non essere sufficiente affinché questo sviluppi uno stress post traumatico
  3. come risolvere questo problema? in due modi: A e B
  4. A) valutando fattori di rischio pregressi nel corso della vita dell’animale
  5. B) effettuando analisi dettagliate del comportamento dell’animale a seguito della traumatizzazione, per comprendere se abbia sviluppato -effettivamente – un PTSD

Per quanto riguarda i fattori di rischio, diverse evidenze sono state trovate in termini di fattori di rischio (nei ratti).

I fattori di rischio predisporrebbero a uno sviluppo di PTSD da parte dell’animale.

Nello specifico:

  1. una tendenza ansiosa precendente all’evento traumatico, misurata in vari modi

Per quanto riguarda l’uomo:

  1. eventi distali avversi (infanzia traumatica, eventi avversi generici antecedenti al trauma) in grado di procurare alterazioni in senso epigenetico sullo sviluppo del soggetto stesso
  2. eventi prossimali avversi (deprivazione del sonno, uso di alcol, droghe, etc.)

Per quanto riguarda invece il problema della resilienza individuale animale, cosa che renderebbe difficile capire quale degli animali abbia realmente sviluppato un PTSD, gli autori raccontano di un procedimento altamente specifico di diagnosi del PTSD negli animali partendo ovviamente da un criterio temporale (+ di 30 giorni di sintomi continuativi, criterio tra l’altro valido anche nell’uomo), per arrivare a una serie di test e procedure molto selettive qui descritte.

Gli autori concludono con alcune considerazioni:

  1. un modello animale ci vuole, con tutti i limiti del caso: solo così sarà possibile dettagliare meglio le ragioni di forme di resilienza presenti in alcuni individui piuttosto che altri, a partire da aspetti neurobiologici finora controversi o non ancora pienamente compresi
  2. esistono fattori predisponenti al PTSD. Allo stato attuale, le donne sono maggiormente predisposte (nell’essere umano più che nei ratti, anche per ragioni sociali), così come altri fattori (eventi distali, prossimali, etc.). Qui il riassunto di questi aspetti
  3. la possibilità in futuro di creare animali mutati geneticamente allo scopo di studiare la correlazione tra differenze genetiche, e sviluppo di stress post traumatico, è un elemento da tenere in considerazione nella creazione di modelli animali sempre più raffinati (si veda qui)
  4. la localizzazione più dettagliata dei circuiti neurali implicati nel PTSD, si potrà giovare, in futuro, di tecniche di avanguardia, come la deep brain stimulation -si veda per un approfondimento, sempre su Nature, qui)

Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

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8 febbraio 2021

NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD)

di Marco Colamartino

La neurobiologia del PTSD è un argomento tutt’oggi in fase di studio e di approfondimento in quanto non sono stati ancora compresi chiaramente i meccanismi che collegano l’esposizione ad un evento traumatico e le conseguenze neurobiologiche sottostanti.

La ricerca oggi ci suggerisce però che la neurobiologia del PTSD è sicuramente multifattoriale e legata a fattori evoluzionistici; e, seppur ancora in fase di studio, si può andare a delineare uno schema generale di quelli che sono i principali meccanismi neurobiologici alterati dall’esposizione all’evento traumatico. I principali meccanismi sono legati a:

  • Fattori endocrini
  • Catecolamine
  • Serotonina
  • GABA
  • Neuropeptide Y

Per “fattori endocrini” intendiamo il coinvolgimento dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA – Hypothalamic Pituitary-Adrenal axis) che solitamente risponde a diversi fattori stressanti.

Durante una condizione di stress, l’ipotalamo (in particolar modo il nucleo ipotalamico ventricolare, PVN) produce un ormone, la corticotropina (CRH); questa stimola l’azione dell’ipofisi anteriore che risponderà producendo l’adrenocorticotropina (ACTH). L’adrenocorticotropina infine stimolerà il rilascio di cortisolo (ormone glucocorticoide) legandosi a recettori ad hoc posti sulle ghiandole surrenali. In seguito, il cortisolo prodotto si legherà a recettori specifici in grado di generare una cascata di modificazioni biochimiche nell’organismo. I recettori per i glucocorticoidi sono posti praticamente in ogni parte del cervello e hanno l’importantissimo ruolo di stimolare o sopprimere la risposta di un soggetto ad un evento, o prepararlo a rispondere a stimoli successivi.

Durante l’esposizione ad uno stress (soprattutto cronico) l’asse HPA risponde con una produzione alterata e continua di glucocorticoidi. Diversi studi dimostrano che alti livelli di glucocorticoidi riducono il funzionamento dei neuroni ippocampali e corticali, producendo effetti negativi anche sul sistema immunitario; oltre questo, iperattivano i neuroni dell’amigdala e del tronco encefalico (Arborelius L. et al, 1999; Nestler EJ. et al, 2002).

Il processo appena descritto viene alterato esponendo il soggetto a traumi particolarmente importanti e nel PSTD. Infatti, studi effettuati su pazienti abusati (Yehuda R., 2006) hanno osservato una diminuzione della concentrazione, nel sangue e nelle urine, del cortisolo rispetto a soggetti sani. L’abbassamento della concentrazione di cortisolo in questi soggetti può essere dovuto al fatto che l’HPA diventi più sensibile ad un feedback negativo; tale spiegazione è supportata dal fatto che, in questi pazienti, è stata trovato un aumento consistente dei recettori per i glucocorticoidi (Yehuda R., 2006). La diminuita produzione basale di cortisolo porterebbe, inoltre, questi soggetti ad avere delle risposte maladattative a stimoli stressanti sia cronici che acuti.

Il fatto che l’HPA sia uno dei meccanismi neuroendocrini colpiti dall’esposizione ad un evento traumatico ci porta a considerare che un soggetto che presenta di per sé bassi livelli di cortisolo, potrebbe essere più suscettibile ad un evento traumatico e quindi allo sviluppo del PTSD (Resnick HS. et al, 1995).

L’importanza del coinvolgimento dell’HPA è supportata dal fatto che l’utilizzo di idrocortisone è efficace nel trattamento sintomatologico di pazienti con PSTD (l’idrocortisone stimola il normale cortisolo circadiano).

Le catecolamine sono una famiglia di neurotrasmettitori che includono la dopamina (DA) e la noradrenalina (NE).

Misurazioni dei livelli di metaboliti dopaminergici nelle urine in soggetti con PSTD hanno dimostrato un aumento dei livelli di dopamina in questi pazienti. I meccanismi sono ancora oggi in fase di approfondimento, ma è probabile che la disregolazione dell’asse HPA come sopra descritto possa esserne una delle cause; infatti, in situazioni stressanti, il rilascio dopaminergico viene molto influenzato dall’attività dell’asse HPA.

La noradrenalina è uno dei neurotrasmettitori più coinvolti nelle risposte allo stress. La maggior parte dei neuroni noradrenergici è presente nel Locus Ceruleus e da qui proiettano praticamente a quasi tutto il cervello (principalmente corteccia prefrontale, amigdala, ippocampo, ipotalamo). Inoltre, è nota l’esistenza di un circuito che connette amigdala-ipotalamo e Locus Ceruleus nel quale il CRH e la NE sono coinvolte nell’aumentare il condizionamento alla paura, la codifica dei ricordi emotivi, l’arousal e la vigilanza. Questo circuito viene solitamente influenzato dai glucocorticoidi. E’ noto anche che la NE insieme all’adrenalina sia uno dei principali neurotrasmettitori responsabili dell’attivazione del sistema nervoso simpatico, che è proprio uno dei principali sistemi coinvolti nei pazienti con PSTD. Infatti, soggetti traumatizzati manifestano una sostenuta iperattività del sistema nervoso simpatico autonomo, mostrando elevata frequenza cardiaca, pressione sanguigna e conduttanza cutanea; inoltre, questi soggetti hanno un’elevata presenza di metaboliti noradrenergici presenti nelle urine.

Soffermandoci per un attimo sulla farmacologia, possiamo aggiungere che somministrando yohimbina (agonista di uno dei recettori noradrenergici, α2) i soggetti con PSTD mostrano un’esasperazione della sintomatologia, soprattutto delle risposte autonome e dei flashback (Southwick SM. et al, 1999); viceversa, somministrando antagonisti noradrenergici, la gravità dei sintomi e la reattività al trauma diminuisce drasticamente (Pitman RK. et al, 2002).

La serotonina (5HT) è un neurotrasmettitore monoaminergico. I neuroni serotoninergici hanno origine nei nuclei del Raphe e proiettano in diverse regioni cerebrali, quali l’amigdala, lo striato, l’ippocampo, l’ipotalamo e la corteccia prefrontale. La serotonina regola solitamente funzioni importanti come il sonno, l’appetito, il comportamento sessuale, l’aggressione/impulsività, le funzioni motorie. Studi effettuati su modelli murini hanno dimostrato che l’esposizione cronica ad uno stimolo stressante aumenta la produzione di specifici recettori serotoninergici (chiamati 5HT1A) che amplificano gli effetti ansiogeni a lungo termine.

La serotonina interagisce anche con il CRH e la NE nel coordinare le risposte affettive e quelle di stress (Vermetten E. et al, 2002; Ressler K. et al, 2000).

Anche se attualmente il legame tra il sistema serotoninergico e il PSTD non è ancora del tutto chiaro, è la farmacologia a darci prove più concrete. Non solo gli SSRI (antidepressivi che agiscono inibendo il reuptake serotoninergico) hanno buoni effetti terapeutici sui pazienti con PSTD, ma soggetti che hanno assunto droghe agenti sul sistema serotoninergico come l’MDMA (chiama più comunemente “Ecstasy”) hanno avuto miglioramenti terapeutici sostanziali nella sintomatologia del PSTD (Bonne O. et al, 2005)

Il GABA è il principale neurotrasmettitore inibitorio cerebrale ed ha effetti inibitori diretti anche sul circuito CRH/NE di cui abbiamo parlato sopra. Un particolare recettore del neurotrasmettitore GABA, il GABAA, si accoppia ai recettori benzodiazepinici che hanno la funzione di potenziare l’effetto inibitorio del GABA. Stress molto elevati o traumi possono alterare il complesso recettoriale GABAA – benzodiazepine. Studi di neuroimmagine (PET) hanno osservato che i pazienti con PSTD mostrano effettivamente questa alterazione e una diminuzione sostanziale dei recettori benzodiazepinici accoppiati al GABAA nella corteccia prefrontale, talamo e ippocampo (Bremner JD. et al, 2000; Geuze E. et al, 2008).

Passiamo ora a discutere sull’ultimo aspetto neurobiologico collegato allo sviluppo del PSTD: il neuropeptide Y. Il neuropeptide Y (NPY) è un polipeptide abbastanza diffuso nel sistema nervoso centrale e modula diverse azioni (come l’appetito, la vasocostrizione) interagendo spesso con i neuroni noradrenergici. Infatti, il NPY inibisce il circuito CRH/NE coinvolto nello stress e nella paura condizionata e riduce il rilascio noradrenergico dal sistema nervoso simpatico. E’ stato osservato che pazienti con PSTD hanno un bassissimo livello plasmatico di NPY (Rasmusson AM. et al, 2000) e che soggetti che presentano elevati livelli basali di NPY sembrano avere una maggiore resilienza al PSTD rispetto agli altri (Yehuda R., 2006).

CONCLUSIONI

Concludendo, possiamo dire che le alterazioni biologiche che colpiscono i pazienti con PSTD sono molte e probabilmente tutte connesse l’una con l’altra.

La disregolazione complessiva di molti sistemi biologici è probabilmente dovuta a una serie di risposte messe in atto con lo scopo di adattarsi allo stimolo traumatico ma che alterano definitivamente un equilibrio biologico.

Nella costellazione di alterazioni biologiche, emerge sicuramente quella del cortisolo, che sembra essere uno dei meccanismi chiave coinvolti nella comparsa della sintomatologia del PSTD. Questa alterazione, insieme a tutte le altre, (come abbiamo visto) porta a modifiche strutturali di varie aree cerebrali (come l’ippocampo o l’amigdala) che provocano a loro volta la cascata di sintomi tipici del PSTD (ipervigilanza, iperattivazione, associazioni di paura, flashback).

Gli studi futuri dovranno concentrarsi sul chiarificare e approfondire tutti i meccanismi biologici coinvolti in questo disturbo, con l’obiettivo di trovare una cura definitiva che possa diminuire (o risolvere) la sintomatologia dei pazienti con PSTD e che abbia effetti positivi sulla qualità della loro vita.

BIBLIOGRAFIA

  1. Arborelius L, Owens MJ, Plotsky PM, Nemeroff CB. The role of corticotropin-releasing factor in depression and anxiety disorders. J Endocrinol. 1999;160:1-12.
  2. Bonne O, Bain E, Neumeister A, et al. No change in serotonin type 1A receptor binding in patients with posttraumatic stress disorder. Am J Psychiatry. 2005;162:383-385.
  3. Bremner JD, Innis RB, Southwick SM, Staib L, Zoghbi S, Charney DS. Decreased benzodiazepine receptor binding in prefrontal cortex in combatrelated posttraumatic stress disorder. Am J Psychiatry. 2000;157:1120-1126.
  4. Geuze E, van Berckel BN, Lammertsma AA, et al. Reduced GABAA benzodiazepine receptor binding in veterans with post-traumatic stress disorder. Mol Psychiatry. 2008;13:74-83.
  5. Nestler EJ, Barrot M, DiLeone RJ, Eisch AJ, Gold SJ, Monteggia LM. Neurobiology of depression. Neuron. 2002;34:13-25.
  6. Pitman RK, Sanders KM, Zusman RM, et al. Pilot study of secondary prevention of posttraumatic stress disorder with propranolol. Biol Psychiatry. 2002;51:189-192.
  7. Rasmusson AM, Hauger RL, Morgan CA, Bremner JD, Charney DS, Southwick SM. Low baseline and yohimbine-stimulated plasma neuropeptide Y (NPY) levels in combat-related PTSD. Biol Psychiatry. 2000;47:526-539.
  8. Resnick HS, Yehuda R, Pitman RK, Foy DW. Effect of previous trauma on acute plasma cortisol level following rape. Am J Psychiatry. 1995;152:1675-1677.
  9. Ressler K, Nemeroff CB. Role of serotonergic and noradrenergic systems in the pathophysiology of depression and anxiety disorders. Depress Anxiety. 2000;12:2-19.
  10. Southwick SM, Bremner JD, Rasmusson A, Morgan CA 3rd, Arnsten A, Charney DS. Role of norepinephrine in the pathophysiology and treatment of posttraumatic stress disorder. Biol Psychiatry. 1999;46:1192-1204.
  11. Vermetten E, Bremner JD. Circuits and systems in stress. II. Applications to neurobiology and treatment in posttraumatic stress disorder. Depress Anxiety. 2002;16:14-38.
  12. Yehuda R. Advances in understanding neuroendocrine alterations in PTSD and their therapeutic implications. Ann N Y Acad Sci. 2006;1071:137-166.

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1 febbraio 2021

INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA

di Raffaele Avico

Con questa intervista a Costanzo Frau apriamo una serie di video brevi a tema trauma e dissociazione, che faranno parte dei contenuti extra in area Patreon.

Le domande che verranno fatte agli intervistati nell’ambito di questa serie sono 3:

  1. qual è la tua definizione di trauma e la tua idea di dissociazione?
  2. come lavori con il trauma e quali sono le tue migliori prassi cliniche?
  3. qual è il riferimento per te centrale nel lavoro clinico, o la teoria a cui più ti ispiri?

L’obiettivo è approfondire la natura teorica del concetto “trauma”, e osservare da vicino il lavoro di una persona esperta sul tema.

Costanzo in questa video cita il lavoro di Colin Ross  e di Remy Acquarone (intervistato in questo video), avendo avuto la possibilità di lavorare in presenza con entrambi questi clinici del trauma.

Costanzo si occupa in particolare di diagnosi differenziale tra disturbi dissociativi e psicosi; sappiamo infatti che alcuni sintomi dissociativi possono venire interpretati come sintomi di un disturbo psicotico, per esempio le “voci” (qui ne abbiamo scritto un approfondimento); ha scritto questo libriccino di cui consigliamo la lettura per chi fosse interessato al tema “disturbi dissociativi”; è inoltre curatore dell’edizione italiana di un volume di recente pubblicazione, questo:

Alcuni altri spunti bibliografici sul tema, in particolare a proposito di diagnosi differenziale tra sintomi dissociativi e sintomi psicotici:

  • riferimento bibliografico 1
  • riferimento bibliografico 2
  • Ross & Mosquera 2016 Treating voices (a psychotherapy approach to treating hostile voices, di Dolores Mosquera e Colin Ross, scaricabile in PDF)
  • Moskowitz et al. 2017 (Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives, di Andrew Moskowitz, Dolores Mosquera, Eleanor Longden, scaricabile in PDF)

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11 gennaio 2021

LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO

di Raffaele Avico

La Teoria dell’attaccamento deriva dagli studi di John Bowlby, con il suo famoso libro “Una Base sicura”, e dal lavoro clinico della sua allieva Mary Ainsworth, con le sue ricerche sulla diade madre-bambino all’interno del contesto della “strange situation”.

In che cosa consistevano questi esperimenti?

Mary Ainsworth ebbe la geniale idea di osservare l’interazione madre-bambino in quattro momenti distinti e seguenti:

  • gioco
  • distacco
  • ricongiungimento
  • gioco (dopo il ricongiungimento)

L’idea era quella di osservare le reazioni di un certo numero di bambini sottoposti a una situazione artificiale di gioco con la madre naturale (considerata come la figura di attaccamento primaria, quella a cui si presumeva il bambino si riferisse per ottenere protezione e nutrimento), seguita da un distacco forzato e da un ricongiungimento.

L’esperimento avveniva in questo modo: dietro uno specchio unidirezionale viene posizionata una videocamera, oppure sono presenti alcuni soggetti che hanno il compito di osservare le reazioni dei bambini coinvolti nell’esperimento:

  1. in una fase iniziale, madre e bambino sono impegnati a giocare insieme
  2. in seguito, dopo un certo lasso di tempo, la madre, con un pretesto, esce dalla stanza (questo è un espediente per procurare stress al bambino ed elicitare l’attivazione del sistema di accudimento): si osserva, in questo caso, la razione del bambino alla separazione (piange? Non reagisce? Protesta?)
  3. la madre rientra quindi nella stanza e si riavvicina al bambino: questo momento, chiamato ricongiungimento, viene osservato in relazione al tipo di risposta data dal bambino
  4. madre e bambino tornano infine al loro gioco

È importante osservare che la strange situation creava un forte stress nel bambino per una ragione precisa: l’obiettivo era valutare la tenuta inerente il “ricordo” della madre nella mente del bambino (ovvero quanto l’oggetto psichico “mamma”, per usare dei concetti psicoanalitici, fosse saldamente radicato nella mente del bambino, o quanto invece questa certezza interiore, una sorta di aspettativa, fosse labile, o addirittura assente, etc).

Si osservava dunque la reazione del bambino all’uscita della madre dalla stanza, la reazione al suo ritorno e, in tutto questo, la “qualità” del suo giocare (perchè questo? Alla base di questo vi è l’assunto che un bambino che non sente di avere una base sicura, non gioca, o gioca in modo “diverso”: è solo in presenza di una base sicura rappresentata nella mente, che è possibile per lui “dedicarsi” alla realtà intorno a sé; senza una base sicura, secondo Bowlby e in generale chiunque lavori in ambito di attaccamento, non può esservi una normale esplorazione).

Come reagivano questi bambini?

La maggior parte di loro, circa l’80%, reagivano protestando all’uscita della madre, tuttavia poi dedicandosi nuovamente al gioco, e gioendo al ritorno di questa: questo faceva supporre uno stile di attaccamento “sicuro” (stile di attaccamento di tipo B)nella mente del bambino, come un’aspettativa “preconscia” (quello che chiameremmo Modello Operativo Interno) che la madre, prima o poi, sarebbe tornata senza abbandonarlo: sarebbe stato “solo questione di tempo”.

Una percentuale di essi, tuttavia, rispondeva usando pattern definiti insicuri, con uno schema diverso, in questo modo:

  1. i bambini classificati come EVITANTI (stile di attaccamento di tipo A), sembravano giocare senza coinvolgere la madre inizialmente, non protestare alla separazione dalla madre, né gioire al suo ritorno, come si osserva nel video sotto riportato. Questo fece ragionare i ricercatori a proposito di ciò che accadeva nella mente del bimbo in risposta a questo cambio di situazione e questo stress potenzialmente alto (teniamo conto che nei video i bambini hanno poco più di un anno di età, quindi sono totalmente dipendenti dalla figura di attaccamento): sembrava che ci fosse una sorta di assenza di aspettative positive nella mente del bimbo a proposito di un rapporto che fosse durevole e centrato su una vicinanza fisica con la madre: in risposta a questo, sembrava esserci stato un disinvestimento relazionale iniziale messo in atto in modo difensivo, anticipatorio. In questi casi si osservava inoltre la presenza di un certo stile di accudimento della madre, definito “dismissing” (respingente), con atteggiamenti distanzianti e una certa freddezza emotiva: il bambino avrebbe messo in atto questa risposta evitante proprio per non dover più investire in questo rapporto “monco”, che non gli avrebbe consentito di ottenere risposte adeguate in senso relazionale, con la figura di attaccamento primaria.
    Vediamo in questo caso che il bambino ha come impegno centrale qualcosa che ha che fare col gioco e con attività pratiche, la sua attenzione non sembra essere rivolta al mantenimento del rapporto con la madre, che è disinvestito e non cercato (e questo lo si osserva molto bene nel video)
  2. i bambini invece considerati come AMBIVALENTI (stile di attaccamento di tipo c), giocavano con la madre nel periodo iniziale, quindi, al distacco, prorompevano in un pianto inconsolabile, e anche al ricongiungimento con la madre sembravano continuare a soffrire. Perchè questo? Consideriamo come ognuno di noi si faccia, nel tempo, una rappresentazione mentale delle relazioni più importanti in senso affettivo, e costruisca delle aspettative a riguardo di come queste si sviluppino e siano più o meno, solide, più o meno durevoli: in questo specifico caso, osservato in questo gruppo di bambini, il rapporto con la madre sembrava essere caratterizzato da una sorta di ansia continua relativa al fatto di dover riconfermare, riaccendere sempre, il rapporto con una madre sperimentata e sentita come un oggetto “intermittente”, poco presente in maniera stabile, sempre da ricercare. Questo stile di attaccamento richiede una riconferma continua delle figura di attaccamento: per questo è vissuto con ansia e viene appunto chiamato ansioso/ambivalente; la figura di riferimento non è sentita come presente in modo continuativo: la realtà esterna viene disinvestita e tutta l’energia psichica viene impiegata per ricercare attivamente il contatto con la figura di riferimento. Si osservi questo video:
  3. una terza modalità è quella definita (ma anni dopo, a partire da studi successivi) DISORGANIZZATA (stile di attaccamento di tipo D): in questo caso si osservavano modalità comportamentali del bambino aventi caratteristiche specifiche: il bambino sembrava rifuggire e insieme ricercare la figura d’attaccamento (cosa che avviene quando il bambino cresce in una ambiente traumatico in senso relazionale, temendo e contemporaneamente dipendendo dalla figura di attaccamento); in questo caso, nel bambino esistono due spinte opposte: mi avvicino alla mia figura di attaccamento, e insieme la rifuggo, perché la temo (quindi PAURA vs BISOGNO)

Queste tipologie di attaccamento, definiti appunto “stili”, sono state osservavate su campioni molto grandi di bambini, e hanno contributo a creare il filone teorico inerente appunto l’attaccamento, chiamato “teoria dell’attaccamento”.

Come colleghiamo la teoria sul trauma alla teoria dell’attaccamento? La genesi di un trauma complesso avverrebbe proprio all’interno di un attaccamento disorganizzato. Un trauma complesso è infatti un trauma protratto, che affonda le sue radici nei tempi lontani dell’infanzia. Come ben espresso in un libro che spesso qui citiamo, Sviluppi Traumatici, la presenza di una doppia spinta nel bambino (che si difende dalla persona che dovrebbe proteggerlo), creerebbe il terreno entro il quale il trauma si esprimerebbe durante la crescita. Il risultato? Un PTSD complex, appunto, che abbiamo qui definito e sintetizzato.

La conseguenza diretta del formarsi di questi stili relazionali, è il formarsi di “aspettative” verso le relazioni future, che ricalcheranno le modalità relazionali sperimentate nei primi 3 anni, che come sappiamo, contribuiscono grandemente alla formazione della personalità degli individui, come un “imprinting” relazionale che ci portiamo dietro dall’infanzia ma del quale possiamo divenire consapevoli, per promuovere cambiamenti o sperimentarci in relazioni “correttive”.

Per un approfondimento, consigliamo anche la lettura di questo articolo su Psychiatry On Line.


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2 gennaio 2021

SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO

di Raffaele Avico, Ilaria Carolina Bruschi

“Gli atti che rimangono atti inferiori possono essere chiamati atti subconsci… Vi sono nel mondo attuale dei fatti che sono scritti nei libri, e possiamo dire che tutta l’evoluzione attuale consiste nel trasformare in libri i fenomeni che esistono nel mondo. Esistono evidentemente dei fenomeni che ancora non sono scritti nei libri, ad ogni grado esistono fenomeni che non si trasformano, il che fa sì che gli atti inferiori sussistano in quelli superiori” (Pierre Janet)

INTRODUZIONE

In un essere umano sano, l’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di differenziare tra un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. 

Nel resoconto che un individuo farà del suo passato, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo riportarlo alla luce, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato. Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la sua non elaborabilità in termini mnestici. La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria. Sembra cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo finalmente trascorso. 

Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamata Disturbo da Stress Post Traumatico (e non, come a volte si legge, Disturbo Post traumatico da Stress), in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. 

Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo. Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè: centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, però meno intensa, in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo acceso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. 

Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi vissuti nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. 

Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e  traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo possa essere in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale perdurato, per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. 

Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto. I potenti strumenti di apprendimento messi a sua disposizione dall’evoluzione, sembrano ritorcerglisi contro contribuendo a far sì che per lungo tempo questi non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del suo ricordo. 

In questo senso, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale. 

L’uso dell’arte per rispondere allo stress post traumatico, è cosa nota e ben sperimentata; arte terapia, musicoterapia, uso di forme espressive di varia natura (come per esempio la sabbia terapia, strumento notoriamente in mano a psicoanalisti junghiani, ma non solo), ci raccontano di modalità alternative, non necessariamente verbali, per tentare di “ricomporre” una trama narrativa nella vita di un individuo, devastata, per esempio, da un evento traumatico. La parola chiave in questo caso è simbolizzazione.

IL RUOLO DELL’ARTE NELLA CLINICA 

In arte-terapia, quando si propone un lavoro clinico sul trauma, si cerca l’attivazione di un processo creativo tramite i medium artistici. 

L’arte ha, da sempre, rivestito un ruolo centrale nell’elaborazione dei traumi. 

Se il trauma è infatti un evento che spiazza il soggetto essendo inimmaginabile, scandaloso nella sua portata dirompente, l’arte ha nel tempo assunto un ruolo terapeutico tanto più importante quanto più profonda è la ferita inferta dal trauma stesso. Spesso, l’arte che potremmo definire post-traumatica, è altrettanto scandalosa e dirompente, inimmaginabile allo stesso modo del trauma, ma in senso positivo. 

L’artista, come spesso ripete Massimo Recalcati, lavora con i “resti”, con la ferita, esponendola, simbolizzandola. Dove il linguaggio verbale non sembra arrivare, può arrivare il pensiero artistico (un pensiero “de-burocratizzato”), espresso nel gesto artistico. Pensiamo per esempio a Guernica di Picasso, alle opere di Munch, all’espressionismo tedesco del dopo-guerra.  È più che probabile che il periodo post pandemico che si apre a noi davanti, porti molta nuova arte, necessaria ad aiutarci alla mentalizzazione di ciò che nel 2020 abbiamo trascorso. Non c’è protocollo CBT o strumento psicoterapeutico che tenga: l’arte avrà un ruolo centrale nel fornirci di una cornice simbolica che ci consenta di comprendere e, di nuovo, simbolizzare il trauma.

Il processo artistico, in grado di “forzare” l’artista a una simbolizzazione del trauma, prevede non solo gli aspetti concreti del “fare arte con le mani”: coinvolge anche specifiche funzioni cerebrali della memoria, dell’immagine e della generazioni di simboli.

L’attivazione del processo creativo è il motore dell’elaborazione emotiva. 

Il processo creativo svolge una funzione auto-regolatoria fondamentale. Sappiamo che l’emisfero destro -se confrontato con il sinistro- ha un ruolo determinante nell’elaborazione dell’esperienza emotiva e nell’autoregolazione. L’emisfero destro è il vero emisfero “dominante”, come sostiene Iain McGilchrist.

Nelle esperienze traumatiche la dissociazione si esprime con una mancata integrazione delle aree corticali – e le memorie traumatiche rimangono contenute nel CervelloMente in forma procedurale e implicita.

Ci sono varie tecniche in arte-terapia per collegarsi con queste esperienze profonde: una semplice modalità, e poco conosciuta, è imparare a disegnare con la mano non dominante, come spiega Lucia Capacchione in “The power of the other hand”. Disegnare, scrivere o dipingere con la mano che non è dominante aiuta a collegarsi con le parti più inespresse dell’esperienza emotiva, latenti e localizzate nelle aree limbiche dell’emisfero destro. Katherine Killick, in “Art, Psychotherapy ad psychosis”, scrive alcune riflessioni interessanti sul materiale artistico prodotto dai suoi pazienti relative alla capacità di simbolizzazione e agli effetti terapeutici: creando un’immagine essa “contiene” e “delimita” l’intensità energetica del processi emotivi e in accordo con le teorie freudiane delle sublimazione anche il “gesto pittorico” -ossia la manualità artistica-, delimita e incanala la personalità del materiale inconscio, producendo la spinta creativa.

Senza dimenticare che una volta creata l’immagine o l’opera, qualsiasi sentimento/affetto verrà da essa custodito, protetto e celato a seconda della volontà dell’artista, divenendo ancora una volta interscambio autoregolatore tra il mondo interno e il mondo esterno. Su questo tema, per approfondire, Massimo Recalcati ha scritto molteplici lavori. Si veda: Massimo Recalcati. Arte e psicanalisi: il mistero dell`opera – Rai Scuola. Sempre sul lavoro di Recalcati (relativamente anche al rapporto tra elaborazione del trauma e gesto artistico), questo libro di Nicolò Terminio: Introduzione a Massimo Recalcati. 


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18 dicembre 2020

STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI

di Raffaele Avico

Con questo articolo ci proponiamo di approfondire un tema centrale in psicotraumatologia: la stabilizzazione. 

La stabilizzazione è il primo e centrale passo da farsi con un soggetto che sia colpito da sindrome post traumatica: gli o le consentirà di accedere al cuore della terapia (l’elaborazione delle memorie); in assenza di stabilizzazione dei sintomi più invalidanti, non sarà possibile accedere ai contenuti più pesanti, soprattutto per via delle ripercussioni somatiche dell’accesso alle memorie traumatiche stesse. 

Il lavoro di Maria Puliatti, in questo senso è -in Italia- fondamentale. Useremo in questo articolo, come fonti, il libro La psicotraumatologia nella pratica clinica e un corso della stessa Puliatti sulla stabilizzazione. Su questo corso abbiamo fatto un podcast in area Patreon, che di fatto lo riassume, aggiungendo alcuni aspetti sempre inerenti la stabilizzazione.

La stabilizzazione dei sintomi post traumatici può essere svolta usando 3 modalità principali:

  1. TIPO A: approccio farmacologico
  2. TIPO B: approccio relazionale/interpersonale
  3. TIPO C: approccio autonomo/regolativo

L’approccio farmacologico è di primaria importanza nei casi più complessi (approfondito qui in area Patreon).

Per approccio relazionale, intendiamo il ricorso a espedienti totalmente interpersonali per regolare stati profondamente disturbanti: per esempio ricercare contatto fisico, cercare compagnia quando in presenza di sintomi invalidanti, e in generale qualunque cosa che contempli la presenza dell’altro. Inoltre, l’approccio relazionale va inteso anche in un secondo senso. La capacità di stabilizzarsi passa anche, per il soggetto, dalla capacità di ri-stabilire confini interpersonali appropriati. Saper mettere dei limiti alle richieste da parte di altri, sapere usare il “NO” in senso interpersonale, consente all’individuo di meglio rispettare le esigenze personali più intime in termini psicologici, aiutandosi nella regolazione dei propri sintomi. La stabilizzazione passa anche da questi aspetti: quando infatti non sia in grado di proteggere i confini interpersonali, la presenza veemente dell’altro e il rischio di calpestare i propri bisogni porterà il soggetto a sentirsi sovraccarico e affaticato, in preda a rabbia espulsiva, cosa che rende la stabilizzazione più complicata e difficoltosa.

Qui approfondiremo tuttavia l’approccio autonomo/regolativo, da “passare” al paziente in modo che possa auto-regolarsi, gestendo così la meglio i suoi sintomi.

Gli strumenti centrali di stabilizzazione di tipo C (approccio autonomo/regolativo), sono 5:

  1. psicoeducazione
  2. mindfulness
  3. esercizio di riorientamento
  4. centratura e grounding
  5. respiro

La psicoeducazione, in questo senso, è il primo punto. Alcuni concetti da trasmettere hanno a che fare con rudimenti di neuroanatomia: è importante che il soggetto sappia a grandi linee come funziona il suo sistema nervoso autonomo, quali siano le reazioni fisiche ad esso collegate; è inoltre importante conoscere la finestra di tolleranza. La regolazione del tono neurofisiologico è uno degli aspetti centrali del lavoro sul trauma.

L’obiettivo degli esercizi di riorientamento e grounding, è riportare il soggetto al qui ed ora, laddove sia presente una tendenza al detachment. Per detachment intendiamo uno scollamento dal momento presente, un’alterazione della coscienza a scopo difensivo: è una delle forme della dissociazione. Giovanni Liotti sostenne che il detachment corrispondesse a una fase transitoria della coscienza, uno stato alterato in grado di segnalare lo shifting tra parti dissociate di sè. Trovarsi dunque in uno stato di detachment, secondo Liotti corrisponde al sopraggiungere di una parte di sè rimasta fino a quel momento silente, ora ri-evocata, in grado con il suo accesso di modificare lo stato di coscienza di un individuo poichè entrata in conflitto con la parte fino a quel momento “presente”.

Per tornare al momento presente, dunque, esistono alcune risorse di grounding e di centratura. Vediamone alcune da un estratto -a cura di Davide Boraso- dal volume PTSD:che fare? 

Risorse di centratura (centering)

Questi esercizi ci aiutano a recuperare equilibrio e connessione con noi stessi quando siamo in difficoltà, ci sentiamo senza punti di appoggio o riferimenti “emotivi”. Essere centrati è un’abilità che si può sviluppare ed utilizzare efficacemente: le risorse somatiche di centratura implicano l’osservare e il percepire dentro di sé il centro di gravità del corpo, posto circa 10 cm al di sotto dell’ombelico. Contattare questa zona può aiutare a riconnettersi con il proprio baricentro somatico; ciò può essere fatto ad esempio ponendo le mani sul basso ventre e osservando consapevolmente le sensazioni che si generano dal contatto delle mani sulla pancia. Un’altra zona particolarmente sensibile ai fini della centratura è quella del petto: si possono porre entrambe le mani esercitando una leggera pressione sul petto vicino al cuore notando che effetto questo movimento produca, oppure porre una mano sul petto e una sulla pancia osservando le sensazioni sperimentate. A volte il tocco della mano, anche se è la propria, può essere vissuto con disagio: in questo caso si potranno utilizzare una pallina di gomma per esercitare una leggera pressione nei punti citati, un cuscino oppure un oggetto morbido e soffice vissuto positivamente. 

Un altro efficace esercizio di centratura consiste nel portare l’attenzione consapevole alla parte posteriore del proprio corpo. 

Ad esempio si può suggerire al paziente di toccare o massaggiare la schiena, appoggiarla e premere delicatamente contro una sedia o un muro, tentare un movimento ondulatorio della schiena in avanti e indietro, oppure lateralmente; gli si può consigliare di farsi una doccia sentendo l’effetto dell’acqua sulla schiena, usare una spazzola o uno strumento per grattarla dolcemente, oppure camminare all’indietro lentamente in un posto tranquillo. É fondamentale che il paziente possa provare più azioni possibili in modo che sia lui a individuare ciò che può farlo stare meglio: è altresì utile che memorizzi o si annoti gli effetti di questi tentativi in modo che tutto ciò che emerge possa essere motivo di riflessione con il terapeuta..

Esercizi di radicamento (grounding)

Questi esercizi permettono di sperimentare un maggiore senso di“presenza” e di permanenza nel momento presente. Per fare un esempio, è utile chiedere al paziente di concentrarsi sulle sensazioni di contatto dei propri piedi con il pavimento e di notare quale effetto questo “sentire” produca, oppure della schiena a contatto con la sedia, far toccare con le mani una parete o qualcosa di stabile e sentire il senso di stabilità e il radicamento conferito dal percepire il muro o il pavimento.

Esempio di esercizio N. 1

Sperimentare con il paziente, da posizione seduta, la sensazione provocata dal tenere i piedi ben appoggiati a terra,aderenti al terreno. Si può suggerire al paziente di spingere con un po’ di forza prima un piede, poi l’altro e in seguito insieme i piedi verso terra, coinvolgendo cosce e glutei. Si chiede al paziente di notare che sensazioni provi nei piedi, nelle gambe,lungo la colonna vertebrale e il resto del corpo. L’esercizio va eseguito fino a percepire sensazioni nelle gambe e senso di radicamento.

Esempio di esercizio N. 2

Un altro esercizio che può aiutare a regolare l’arousal e dare senso di radicamento consiste nel massaggiare gambe e piedi.Da seduti (meglio se a terra) si stringono e si massaggiano gambe e piedi: è importante avere un po’ di tempo a disposizione e mantenere un atteggiamento curioso verso l’esperienza, per raccogliere più informazioni possibile: vanno eseguite pressioni più intense e più leggere massaggiando tutte le dita del piede, lo spazio tra le dita, il dorso e il tallone,le caviglie, i polpacci, le ginocchia e le cosce, per poi fare il percorso inverso e riscendere fino a terminare nuovamente con i piedi. Se dovessero comparire dei pensieri giudicanti, è opportuno lasciarli andare tornando a concentrarsi sulle sensazioni del corpo

Come si osserva, questi semplici esercizi possono essere usati dal paziente, in autonomia, per “atterrare” sulla terra quando si accorgesse di essere in una condizione mentale di distacco. Va ricordato che questi esercizi rappresentano un tampone, uno strumento sintomatico necessario per aiutare il paziente nei momenti di difficoltà: non risolvono il problema alla radice nè riusciranno a estirparlo; sono da considerare un primo passaggio per il lavoro con il post-trauma.

Questi esercizi possono essere usati dal paziente in modo autonomo, anche al di fuori del contesto della psicoterapia: vengono per questo definiti “risorse”. 

La stabilizzazione è la prima delle tre fasi che compongono il modello trifasico. Una volta stabilizzati i sintomi, passeremo con il paziente alla fase dell’elaborazione delle memorie somatiche per poi procedere verso una migliore integrazione.

Sul respiro, abbiamo qui fatto un approfondimento. Le tecniche sul respiro, in generale, rappresentano un argomento noto e ben esplorato. Assolvono a una duplice funzione: ri-centrano il paziente portando la sua attenzione al momento presente, e inducono una modificazione dello stato di regolazione neurofisiologica (per esempio, eseguire cicli di respirazione alternata con inspirazioni corte ed espirazioni lunghe, produce un effetto calmante -si veda l’approfondimento prima citato).

Ulteriori risorse di stabilizzazione, ma in inglese, sono state messe a disposizione in modo gratuito dall’ESTD: è possibile recuperarle qui (12 video in inglese); per il generico controllo e gestione dello stress, si veda anche questa guida illustrata erogata dall’OMS (disponibile anche in italiano).


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28 novembre 2020

INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP

di Raffaele Avico


Jaak Panksepp fu un neuroscienziato e psicologo estone.

Introdursi al suo lavoro per punti rischia di essere riduzionistico; vale la pena però cercare di comprendere il portato del suo contributo teorico, che ha ripercussioni dirette sul lavoro psicoterapeutico, essendo di fatto molto concreto e immediato.

Abbiamo qui fatto una recensione del suo ultimo I fondamenti emotivi della personalità.

Un aspetto che troviamo nei suoi lavori e a proposito della sua idea di mente, riguarda i “sistemi d’azione”.

Cosa sono i sistemi d’azione?

I sistemi d’azione, secondo Panksepp, sono dei mandati evolutivi innati: ovvero, degli schemi di comportamento che ci accomunano agli animali, che possediamo dalla nascita e che ci orientano nel nostro quotidiano agire. Alcuni altri autori chiamano questi sistemi d’azione “sistemi motivazionali interpersonali” (come per esempio Giovanni Liotti, come qui approfondito): di fatto sono la stessa cosa, pur con sfumature differenti.

I sistemi d’azione sono mediati da emozioni primarie, che sono:

  1. RABBIA
  2. PAURA
  3. PANICO
  4. CURA
  5. GIOCO
  6. RICERCA
  7. RIPRODUZIONE SESSUALE

Come si osserva, tutto questo ci accomuna a qualsiasi altro animale, o almeno agli animali più simili a noi in senso evoluzionistico. Anche gli animali più semplici, tuttavia, sono in grado di mettere in campo sistemi d’azione ed apprendere da essi: anche un gambero, o un pesce, apprende dall’esperienza ed è in grado di ricercare, evitare stimoli minacciosi e combattere per le sue risorse. In animali lontani da noi in senso evoluzionistico, inoltre, troviamo anche il gioco (su questo, questo documentario è molto interessante, oltre a essere fatto molto bene).

Al di là dei tecnicismi inerenti la psicologia evoluzionistica e la paleopsicologia (che ci accomuna ai nostri progenitori così come agli animali da cui discendiamo), quali sono le nozioni spendibili in senso clinico, che mutuiamo dalla lettura di un autore come Panksepp?

Cerchiamo di vederlo per punti.

  • se il cervello è mosso da una logica gerarchica, con le parti più antiche a “energizzare” le parti superiori, e le parti superiori a frenare le parti sottostanti (Panksepp chiama questo modello gerarchia nidificata), in senso psicoterapeutico le direzioni da intraprendere per “intervenire”, concettualmente, sono due: dal basso verso l’alto, e dall’alto verso il basso. Ovvero: non sono sufficienti nè la parola nè il ragionamento logico/intellettuale (che pertengono a zone recenti, “alte” del cervello) per combattere, a volte, un disturbo: occorre approcciarlo da più punti di vista in contemporanea (sia dall’alto verso il basso, che dal basso verso l’alto). Ha sempre più senso, dunque, un approccio olistico, totale, al problema. Benvenga dunque tutto ciò che concerne il corpo, lo stile di vita, integrato al semplice lavoro di psicoterapia verbale.
  • Panksepp vede la personalità come una proprietà emergente, un sottoprodotto dell’espressione variegata dei sistemi d’azione e delle emozioni primarie ad essi collegate. Questo ci consente di cambiare sguardo su un particolare sintomo, andando a cercare le emozioni di sottofondo che, “dietro di esso”, si esprimano. Per esempio il panico, può essere letto come un’espressione parossistica di ansia da separazione, come un sentirsi troppo esposti a un mondo percepito come alieno (ne abbiamo parlato a fondo qui); oppure, alcuni sintomi di scarsa performance cognitiva potrebbero essere una conseguenza di un’attivazione anomala del sistema “paura” (che è in grado di bloccare tutti gli altri); una lettura di questo tipo, può inoltre farci immaginare una persona abulica, come una persona che si rappresenta sconfitta in una dinamica di rango sociale (come una sorta di animale dominante sconfitto/a). Questa lettura potrà sembrare forzata, ma ci permette di aprirci a nuove possibili letture di un particolare comportamento: la lettura di Panksepp ci aiuta in questo senso a immaginare l’animale uomo come mosso da spinte molto antiche che, quando ostacolate, deviate o non vissute, potrebbero portarlo/a ad un disturbo.
  • Gli autori dello stesso I fondamenti emotivi della personalità citano gli studi di William McDougall: questo psicologo inglese proponeva di teorizzare la psicopatologia a partire da una griglia costruita sulle emozioni primarie: nella sua lettura, i disturbi non sarebbero altro che espressioni eccessive di emozioni primarie sperimentate da tutti -ma in quantità minori.
  • Sulla linea di pensiero e ricerca di Panksepp, si inserisce anche il lavoro di Antonio Damasio (che ha ben chiarito come un uomo che non “ragioni” -per esempio a seguito di un trauma cranico- continuerà a sentire emozioni primarie, di fatto continuando a essere un individuo con sue caratteristiche primarie di personalità): questo ci dovrebbe far riflettere su come il pensiero stesso non sia altro che, di nuovo, un prodotto finale, un epifenomeno di processi che avvengono “prima”, o più in profondità -e che seguono logiche instintuali, animalesche.

Panksepp propone, di fatto, una metapsicologia costruita su assunti di tipo evoluzionistico. In qualche modo, una metapsicologia comparata sviluppata usando la teoria dell’evoluzione di Darwin come riferimento paradigmatico.

Nulla ci rende veramente diversi dagli animali che ci circondano. In questo senso potremo immaginare che gli animali sentano emozioni proprio come noi, pur mancando in essi un aspetto di auto-consapevolezza completa. Più ci allontaneremo da essi sulla linea dell’evoluzione, più il loro funzionamento sarà semplice: resterà comunque in essi un qualche tipo di funzionamento a noi sovrapponibile.

Questo ci autorizza a pensare che essi possano sviluppare psicopatologie e disturbi, di vario tipo. Ed è probabilmente ad essi (secondo la prospettiva di Panksepp) che dovremmo guardare per comprendere meglio alcuni nostri problemi (vd. la questione del PTSD negli animali).

Per approfondire: http://tomascipriani.it/panksepp/ e queste slide:

.4012.file from Iva Zigghyova Martini

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24 novembre 2020

AREA PATREON DEL BLOG: UNO SGUARDO AI CONTENUTI

L’area Patreon de Il Foglio Psichiatrico consente di accedere ad alcuni contenuti esclusivi a tema trauma, in forme diverse (PDF, podcast e video).

Accedere al formato Patreon, consente di avere accesso immediato a tutti i contenuti -che vengono di volta in volta inviati, mensilmente, agli abbonati all’area membri.

Il tema è sempre lo stesso: il trauma e la dissociazione. L’obiettivo di questo lavoro è approfondire in modo sempre più verticale la questione, costruendo un serpente editoriale e di contenuti che consenta al fruitore di averne una visione sempre più completa. Già molto materiale lo si trova su questo blog, raccolto qui.

Qui alcuni dei contenuti per ora inviati:

  1. NOVEMBRE 2020 PODCAST: I FONDAMENTI EMOTIVI DELLA PERSONALITÁ (di Jaak Panksepp), recensione per punti
  2. IL TRAUMA IN JAAK PANKSEPP
  3. PATREON LUGLIO 2020: cos’è la dissociazione? Proviamo a dare una definizione generale
  4. PODCAST: IL MODELLO LIOTTIANO, I PUNTI CENTRALI DEL LAVORO DI GIOVANNI LIOTTI
  5. RECENSIONE DI “GUARIRE DAL TRAUMA” DI JUDITH LEWIS HERMAN: SECONDA PARTE
  6. COME SI USA LA TAVOLA DISSOCIATIVA DI FRASER CON PAZIENTI TRAUMATIZZATI
  7. LUGLIO 2020 PODCAST RECENSIONE PER PUNTI DI “GUARIRE DAL TRAUMA ” DI JUDITH LEWIS HERMAN (PRIMA PARTE)
  8. RENDERE NON NECESSARIA LA DISSOCIAZIONE: DA UN ARTICOLO DI VAN DER HART, STEELE, NIJENHUIS
  9. VIDEOPATREON N.2 – GIUGNO 2020. APPROCCIO FISICO AL PTSD: spunti di approfondimento e riflessioni.
  10. GIUGNO 2020 PODCAST: RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”
  11. FARMACOLOGIA DEL PTSD e INTERVENTO PERI-TRAUMATICO
  12. VIDEOCORSO #1: INTRODUZIONE E DEFINIZIONE DI TRAUMA
  13. PODCAST #1 – LA TEORIA POLIVAGALE: INTRODUZIONE E SPUNTI
  14. 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD
  15. IL PDF di PTSD: CHE FARE?
  16. IL TRAUMA NEGLI ANIMALI

Qui il progetto Patreon (con il patrocinio di AISTED, Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione).

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20 novembre 2020

INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA

di Raffaele Avico


Daniela Rabellino lavora nel gruppo di ricerca di Ruth Lanius.

Il lavoro di questo gruppo di ricerca è incentrato sulla neurobiologia dello stress post traumatico (PTSD). Ne abbiamo scritto qui:

  • il modello a cascata (qui riassunto)
  • le due tipologie di PTSD, con e senza sintomi dissociativi (qui approfondite)
  • il libro La cura del Sè traumatizzato, (qui recensito)

In questa intervista, vengono toccati diversi argomenti centrali nella neurobiologia del trauma. In particolare, Daniela Rabellino descrive gli intenti di ricerca del gruppo di Ruth Lanius, e alcune implicazioni neurobiologiche interessanti; se infatti il modello “neuro” dominante sembrava essere il modello Amigdala VS. Corteccia Prefrontale (con la corteccia prefrontale a fare da freno all’attivazione dell’amigdala in condizioni di allarme protratto, cosa che nel PTSD risultava non funzionante o problematico), ci avviciniamo progressivamente ora a una lettura del PTSD che coinvolge anche strutture più profonde del cervello (per esempio, la sostanza grigia periacqueduttale, come qui approfondito). Capire come il PTSD sia da considerarsi un disturbo proveniente da zone antiche del nostro cervello, ci dà l’idea del perché sia così tanto difficile affrontarlo ed estirparlo. La parola, inoltre, non sembra sufficiente.. o almeno, non la parola solamente.

Si parla inoltre di schema corporeo alterato e di strategie di cura innovative.

Qui l’intervista:


Di seguito alcuni riferimenti in letteratura consigliati dalla Dott.ssa Rabellino per approfondire le questioni emerse dall’intervista.

Su Jaak Panksepp abbiamo fatto questo mese un approfondimento e una recensione per punti del volume I fondamenti emotivi della Personalità, reperibile qui in area Patreon.

Articoli dal team Lanius (molti degli articoli sono accessibili su researchgate):

  1. Lanius, R. A., Rabellino, D., Boyd, J. E., Harricharan, S., Frewen, P. A., and McKinnon, M. C. (2016). The Innate Alarm System in PTSD: Conscious and Subconscious Processing of Threat. Curr. Opin. Psychol. 14, 109–115. doi:10.1016/j.copsyc.2016.11.006.
  2. Harricharan, S., Rabellino, D., Frewen, P. A., Densmore, M., Théberge, J., McKinnon, M. C., et al. (2016). fMRI functional connectivity of the periaqueductal gray in PTSD and its dissociative subtype. Brain Behav. 6. doi:10.1002/brb3.579
  3. Harricharan, S., Nicholson, A. A., Densmore, M., Théberge, J., McKinnon, M. C., Neufeld, R. W. J., et al. (2017). Sensory overload and imbalance: Resting-state vestibular connectivity in PTSD and its dissociative subtype. Neuropsychologia 106, 169–178.
  4. Rabellino, D., Densmore, M., Frewen, P. A., Théberge, J., and Lanius, R. A. (2016). The innate alarm circuit in post-traumatic stress disorder: Conscious and subconscious processing of fear- and trauma-related cues. Psychiatry Res. – Neuroimaging 248.
  5. Rabellino, D., Densmore, M., Theberge, J., McKinnon, M. C., and Lanius, R. A. (2018). The cerebellum after trauma: Resting-state functional connectivity of the cerebellum in posttraumatic stress disorder and its dissociative subtype Short title: Cerebellar functional connectivity in PTSD. Human Brain Mapping 39(1-3)  DOI: 10.1002/hbm.24081
  6. Rabellino, D., Harricharan, S., Frewen, P. A., Burin, D., McKinnon, M. C., and Lanius, R. A. (2016). “I can’t tell whether it’s my hand”: a pilot study of the neurophenomenology of body representation during the rubber hand illusion in trauma-related disorders. Eur. J. Psychotraumatol. 7, 1–11. doi:10.3402/ejpt.v7.32918.
  7. Rabellino, D., Boyd, J. E., McKinnon, M. C., and Lanius, R. A. (2019). The innate alarm system: A translational approach. doi:10.1016/B978-0-12-813146-6.00017-5.
  8. Rabellino, D., Burin, D., Harricharan, S., Lloyd, C., Frewen, P. A., McKinnon, M. C., et al. (2018). Altered sense of body ownership and agency in posttraumatic stress disorder and its dissociative subtype: A rubber hand illusion study. Front. Hum. Neurosci. 12. doi:10.3389/fnhum.2018.00163.
  9. Rabellino, D., D’Andrea, W., Siegle, G., Frewen, P. A., Minshew, R., Densmore, M., et al. (2017). Neural correlates of heart rate variability in PTSD during sub- and supraliminal processing of trauma-related cues. Hum. Brain Mapp. 00. doi:10.1002/hbm.23702.
  10. Terpou, B., Harricharan, S., Frewen, P. A., McKinnon, M. C., Jetly, R., Lanius, R. A. (2019) The effects of trauma on brain and body: A unifying role for the midbrain periaqueductal gray. Journal of Neuroscience Research 97(6). DOI: 10.1002/jnr.24447 

Modello di difesa a cascata:

  1. Schauer, M., and Elbert, T. (2010). Dissociation Following Traumatic Stress. Zeitschrift für Psychol. / J. Psychol. 218, 109–127. doi:10.1027/0044-3409/a000018.
  2. Kozlowska, K., Walker, P., McLean, L., and Carrive, P. (2015). Fear and the Defense Cascade. Harv. Rev. Psychiatry 23, 263–287.

Libri suggeriti:

  1. Panksepp, J., and Biven, L. (2012). The Archaeology of Mind: Neuroevolutionary Origins of Human Emotions. W. W. Nort. New York.
  2. Porges, S. W. (2011). The Polyvagal Theory: Neurophysiologcal Foundations of Emotions, Attachment, Communication and self-regulation. New York, NY: WW Norton & Company 
  3. Putnam, F. W. (2016). The Way We Are: How States of Mind Influence Our Identities, Personality and Potential for Change. Ipbooks.
  4. Frewen, P.A. & Lanius, R.A. (2017) La cura del Sé traumatizzato. Coscienza, neuroscienze, trattamento. Giovanni Fioriti Editore, Roma.
  5. Van der Kolk, B. (2015) Il corpo accusa il colpo. Raffaello Cortina Editore.
  6. Ogden P, Minton, K., Pain C. (2006) Trauma and the Body: a Sensorimotor Approach to Psychotherapy. Norton Series.
  7. Levine P., Frederick A. (1997) Waking the Tiger: Healing Trauma : The Innate Capacity to Transform Overwhelming Experiences. North Atlantic Books

Avanguardie:

  1. Schwarz L, Corrigan F, Hull A., Raju R. (2017) The Comprehensive Resource Model: Effective therapeutic techniques for the healing of complex trauma. Routledge.
  2. Corrigan, F.M., Christie-Sands, J. (2020). An innate brainstem self-other system involving orienting, affective responding, and polyvalent relational seeking: Some clinical implications for a “Deep Brain Reorienting” trauma psychotherapy approach. Medical Hypotheses, 136, 109502.

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  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al.
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura”
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza
  • PROGETTO PATREON DEL FOGLIO PSICHIATRICO: I REWARD DI LUGLIO 2020 (ARTICOLI, VIDEO, PODCAST)
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF)
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VERSO LA FASE 3 DELLA SPERIMENTAZIONE
  • SONNO, STRESS E TRAUMA
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.”
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI
  • IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI!
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • NO CASI, NO SUPERVISIONE: GRUPPI A TORINO
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL DEFAULT MODE NETWORK
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • CORRERE PER VIVERE: I BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULLA DEPRESSIONE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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