• Home
  • RAFFAELE AVICO
  • PODCAST!
  • #TRAUMA
  • FONDATORI E COLLABORATORI
  • PSICOTERAPIA ONLINE
  • DIVENTA PATREON
  • IN VENDITA

Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

2 marzo 2021

PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD

di Raffaele Avico

A riguardo dell’intervento peri-traumatico, troviamo più letteratura e materiali in rete che ci descrivono come muoverci in senso farmacologico (per gli psichiatri e i medici soccorritori), che argomenti in ambito psicoterapico.

Un autore che si è lanciato nella proposta di una procedura semplice, da attuare con un paziente che abbia appena subito un evento traumatico (per esempio una donna violentata), è Peter Levine. Peter Levine porta avanti da anni un lavoro esemplare sul trauma, improntato su di una lettura delle stesso evento traumatico molto “naturale”, mediata da un’attenta osservazione del mondo animale. Il corpo, secondo Levine, dissipa il trauma.

Nel suo Waking the Tiger, nella parte finale del libro, propone una procedura per un intervento peritraumatico con un soggetto che abbia vissuto un evento di questo tipo.

Vediamo cosa propone. Teniamo conto che l’approccio è americano, quindi molto pragmatico e applicato. Cosa dovrebbe fare un soccorritore?

FASE 1: LA SCENA DELL’INCIDENTE

Come sappiamo, Peter Levine osserva come, sia nell’uomo che nell’animale, il trauma si produca quando siano presenti -insieme- immobilità e paura.

Senza immobilità, c’è paura “rilasciata” per via corporea (lo stato di attacco e fuga, si risolve appunto con un movimento di fuga).

Senza paura, invece, avremo semplicemente “immobilità senza paura”, che è lo stato ideale di benessere psichico.

Quindi, per Levine, trauma=immobilità+paura.

Inoltre, Levine intende mettere al centro l’esperienza interpersonale, altamente protettiva per soggetti che abbiano appena subito un evento traumatico, insieme a quello che chiama felt sense (il sentire ciò che succede nel proprio corpo).

Al fine di prestare un miglior intervento peri-traumatico, quindi, propone di :

  • dare precedenza ai soccorsi medici
  • far distendere l’individuo e tenerlo/a calmo/a e al caldo
  • occorre evitare che l’individuo si alzi per “fare qualcosa”: è più importante che si conceda il tempo di “rilasciare energia”
  • comunicare a lui/lei che si starà in loro compagnia fino all’arrivo dei soccorsi
  • se l’incidente non è troppo grave, occorre chiedere alla persona come si senta in senso fisico (felt sense), così da nominare eventuali stati di “rush adrenalinico”, senso di essere intorpidito (numbness), bisogno di tremare, vampate di calore incoraggiare l’individuo a tremare e scuotersi, se lo vorrà
  • Questa fase, Levine osserva, potrebbe durare 15/20 minuti

FASE 2: QUANDO LA PERSONA SIA PORTATA ALL’OSPEDALE O A CASA


  • la persona, a seguito di un incidente, dovrebbe poter passare uno o due giorni a casa, a riposo
  • in questa fase di convalescenza, ci saranno reazioni emotive forti (rabbia, terrore, colpa)
  • andranno assecondate le “tendenze all’azione fisiche”

FASE 3: ACCEDERE AL TRAUMA E RINEGOZIARLO


  • quando la persona sarà disposta a farlo, occorrerà chiederle/gli i dettagli del racconto del trauma, in particolare le immagini e -in un secondo momento- le sensazioni periferiche, non strettamente connesse al momento del trauma
  • a questo punto, le reazioni fisiche del paziente potrebbero cambiare: potremo osservare un’accelerazione del respiro e una reazione “simpatica” (generata da un’accensione del sistema nervoso simpatico) durante il racconto, o reazioni di allarme più acute, procedendo sempre di più verso il “kernel patogeno”: lasciamo che il corpo lo “esprima”
  • avviciniamoci al centro dell’esperienza traumatica in modo graduale

FASE 4: IL TRAUMA – IL KERNEL PATOGENO


  • arriviamo all’evento traumatico attraverso il felt sense
  • osserviamo le reazioni del corpo del soggetto, assecondandone le tendenze
  • lasciamo che il paziente esprima ciò che sente per via corporea
  • è importante che il paziente non salti nessuna parte dell’esperienza: TUTTO dev’essere ri-narrato attraverso la lente del felt sense (come l’ho sentito nel corpo)
  • eventualmente, dividiamo questo lavoro in 2 o 3 sedute o momenti
  • chiediamo al paziente di ri-narrare completamente l’accaduto, dall’inizio, osservando se e in che frangente si ripresenti la reazione fisica

Per quanto riguarda il primo soccorso psicologico, troviamo qui un manuale in italiano ben costruito e chiaro, per lo più pensato per chi lavori in contesti di forte crisi umanitaria o si occupi di psicologia delle emergenze.

Vengono sottolineati alcuni aspetti chiave che potremmo sintetizzare in:

  • attenzione a ri-creare insieme al soggetto colpito un micro-luogo sicuro, cercando di ritagliare un luogo che venga percepito dal soggetto stesso come calmo e appunto sicuro
  • mantenere una forte connessione comunicativa con il soggetto, anche solo per via oculare dove non fosse possibile usare il dialogo, e mantenendo allo stesso tempo il rispetto dei confini corporei di lui/lei
  • se dovessimo osservare una reazione dissociativa, dovremo usare le tecniche di grounding o stimolazione sensoriale. Cos’è il grounding? Il grounding è semplicemente un insieme di tecniche con cui possiamo “riportare la persona a terra” durante un episodio dissociativo.
    Ricordiamone alcune estrapolate dal libro PTSD:che fare?
    Esempio di esercizio N. 1 

    Sperimentare con il paziente, da posizione seduta, la sensazione procurata dal tenere i piedi ben appoggiati a terra, aderenti al terreno. Si può suggerire al paziente di spingere con un po’ di forza prima un piede, poi l’altro e in seguito insieme i piedi verso terra, coinvolgendo cosce e glutei. Si chiede al paziente di notare che sensazioni provi nei piedi, nelle gambe, lungo la colonna vertebrale e il resto del corpo. L’esercizio va eseguito fino a percepire sensazioni nelle gambe e senso di radicamento.

    Esempio di esercizio N. 2

    Un altro esercizio che può aiutare a regolare l’arousal e dare senso diradicamento consiste nel massaggiare gambe e piedi. Da seduti (meglio se a terra) si stringono e si massaggiano gambe e piedi: è importante avere un po’ di tempo a disposizione e mantenere un atteggiamento curioso verso l’esperienza, per raccogliere più informazioni possibile: vanno eseguite pressioni più intense e più leggere massaggiando tutte le dita del piede, lo spazio tra le dita, il dorso e il tallone, le caviglie, i polpacci, le ginocchia e le cosce, per poi fare il percorso inverso e riscendere fino a terminare nuovamente con i piedi. Se dovessero comparire dei pensieri giudicanti, è opportuno lasciarli andare ritornando a concentrarsi sulle sensazioni del corpo.

Sostanzialmente, come osserviamo, gli interventi di primo soccorso si muovono usando logiche di buon senso: un punto fondamentale da ricordare, in ogni caso, è quello di prestare attenzione alle tendenze all’azione del corpo, favorendo i micro-movimenti del corpo, “senza aggiungere immobilità” (Levine, come sappiamo, sottolinea in particolare la questione del tremore neurogeno da far evacuare al paziente).

Per quanto riguarda l’intervento farmacologico, riportiamo qui di seguito ciò che abbiamo già scritto altrove.


L’INTERVENTO FARMACOLOGICO PERITRAUMATICO E IL LAVORO DI ALAIN BRUNET

Per quanto riguarda l’approccio farmacologico, alcune evidenze portano a considerare l’utilizzo di un principio attivo in modo peri-traumatico (ovvero, a ridosso temporale del trauma stesso, per esempio subito dopo aver assistito a un evento traumatico, o l’averlo subìto); in questo articolo scritto da Rachel Yahuda, uno dei riferimenti mondiali sullo studio del PTSD, viene approfondito l’uso dell’idrocortisone come possibile prevenzione dal formarsi di un PTSD.

A proposito di intervento peritraumatico, recentemente questo articolo uscito su Repubblica ha riproposto il lavoro fatto da Alain Brunet, docente di psichiatria e ricercatore al McGill’s Douglas Research Center di Montreal, e pubblicato su American Journal of Psychiatry a proposito dell’utilizzo di propranololo come “coadiuvante” nel lavoro con il PTSD.

Così come per l’utilizzo di MDMA, si tratterebbe in questo caso di “facilitare” il lavoro della psicoterapia somministrando al paziente questo betabloccante circa un’ora prima della seduta. In questo caso quindi, così come appunto si fa con l’MDMA, l’obiettivo sembra essere facilitare l’elaborazione del ricordo traumatico attenuando le reazioni somatiche conseguenti al suo presentarsi alla coscienza dell’individuo. Non è quindi un farmaco pensato per un intervento “mirato” alla rielaborazione del ricordo (di fatto inesistente), ma qualcosa che, come l’MDMA, potrebbe facilitare il suo “presentificarsi” alla coscienza poichè in grado di attenuarne le ripercussioni neurofisiologiche.

Anche qui osserviamo come il problema del PTSD non sia tanto la natura del ricordo traumatico in sé ma, a quanto sembra, lo scatenarsi di reazioni difensive potenti e autonome in senso corporeo quando il paziente tenti di “pensarlo” e, in teoria, elaborarlo.

Alcuni articoli di approfondimento sul lavoro di Alain Brunet, sono:

  1. articolo 1 (pubblicato nel 2018 sull’American Journal of Psychiatry, uno studio RCT su un campione di 60 adulti con PTSD; l’accento viene posto sul razionale clinico definito “pre-riattivazione”, ovvero, avrebbe senso che il farmaco venga somministrato prima della seduta terapeutica, e non dopo, proprio per evitare gli effetti neurofisiologici dell’accesso al ricordo traumatico).
  2. articolo 2 (gli autori valutano la differenza esistente tra somministrare propranololo prima o dopo la seduta terapeutica, osservando come i risultati in termini di consolidamento delle memorie traumatiche siano evidenti solo nel caso “prima”)
  3. articolo 3 (un editoriale di Brunet che riassume lo stato dell’arte della sua ricerca a proposito dell’utilizzo del farmaco)
  4. articolo 4 (sul gruppo di ricerca di Brunet)

Il lavoro di Brunet si è concentrato sul processo di riconsolidamento delle memorie traumatiche, qui approfondito.

In modo estremamente sintetico, possiamo definire il processo di riconsolidamento delle memorie come un processo di “riattivazione e ri- consolidamento” di memorie/ricordi già in precedenza immagazzinati. La terapia espositiva tenta di “smuovere” tracce mnestiche già consolidate, così da provocarne un ri-consolidamento migliore (qui un approfondimento)

Sappiamo genericamente che il PTSD può essere considerato un problema inerente la memoria.

Come qui approfondito, tutto ciò che nella terapia del PTSD possa produrre o condurre il paziente a smuovere le memorie traumatiche (EMDR, terapia espositiva), senza che queste vengano poi riconsolidate, andrà nella direzione di un miglioramento clinico.

Considerato l’approccio trifasico al PTSD (prima fase: stabilizzazione dei sintomi, seconda fase: approccio alle memorie traumatiche, terza fase: integrazione), stiamo qui ragionando (così come Brunet e il lavoro con il propranololo) su come accedere in modo diretto al ricordo (quindi, la fase 2), per finalmente “lasciare il passato nel passato”.


IL LAVORO DI ESSAM DAOD NEI CONTESTI TRAUMATICI

Chi è Essam Doad?

Essam Daod è uno psichiatra esperto di disturbi traumatici, fondatore insieme alla compagna di un’associazione chiamata Humanity Crew. Insieme ad altri collaboratori, si stanno occupando di fornire un aiuto concreto ai migranti del Mar Mediterraneo meridionale (la base di lavoro, per loro, è la Grecia).

Daod è mediaticamente molto conosciuto, si veda per esempio questo Ted talk:

La missione principale del suo gruppo di lavoro è di portare cura psichiatrica immediata, ai bambini sopravvissuti a traumi legati al contesto dell’emigrazione. Nei video che lo riprendono, lo si vede per lo più con bambini appena sbarcati dopo pesanti viaggi in mare, spesso senza genitori.

La domanda che si fa Daod è semplice: come prevenire l’insorgere di un PTSD violento nella mente di questi bambini? Già solo il viaggio potrebbe costituirsi come evento traumatico, non tenendo conto di tutto ciò che questi bambini possano aver subito in precedenza.

Daod ragiona sugli aspetti dirompenti del trauma in termini narrativi. Un po’ come vediamo fare a Roberto Benigni ne La vita è bella -nel tentativo di spiegare al figlio gli eventi dell’Olocausto così da crearsene in tempo reale una narrazione coerente ed “edulcorata”- Doad tenta, con questi bambini, una ristrutturazione cognitiva peri-traumatica, una ri-narrazione di ciò che stanno vivendo.

Qui il suo sito.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

25 febbraio 2021

“SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA

di Raffaele Avico

The Guardian ha definito il progetto Shared Lives, presente su tutto il territorio del Regno Unito, come una delle 10 pratiche da adottare in futuro per cambiare il mondo in meglio.

Il progetto conta qualcosa come 12000 persone coinvolte, in altrettante famiglie. Consiste in una forma di accoglienza famigliare  -pagata- rivolta a persone con difficoltà di varia natura, dalla malattia mentale alla disabilità psichica, ed è usufruito anche da persone anziane.

L’idea è che all’interno di famiglie che si rendano disponibili in termini di tempo e spazio (per esempio offendo una camera vuota di casa propria), vengano inseriti ospiti che trascorreranno un tempo definito all’interno di un ambiente accogliente e differente dalle normali strutture di accoglienza presenti sul territorio.

Negli ultimi 20 anni progetti di questo tipo sono nati in molti paesi europei (partendo dalla cittadina di Geel in Belgio, poi in Francia e Germania) arrivando anche in Italia nella forma del piemontese IESA.

Shared Lives è una delle risposte offerte dalla sharing economy. Dove mancano le risorse, si organizzano forme di mutuo aiuto, a volte dando vita a servizi che rappresentano balzi in avanti in termini di pratiche sociali. Come succede anche per il nostrano IESA (attivo sul territorio piemontese da fine anni ’90), si tratta di produrre un’alternativa valida alla pratica del ricovero cronico e della lungodegenza in strutture protette. Le strutture, inoltre, sono genericamente estremamente dispendiose sia quando vi si acceda come privati (con rette che arrivano ai 6000€ al mese) che in termini di costi statali (la retta rimane uguale, ma viene pagata dall’Asl).

Progetti come Shared Lives riducono di molto i costi statali legati all’amministrazione clinica di pazienti con problematiche croniche, contemporaneamente facendo un atto di profonda intelligenza sociale. Immaginiamo per esempio il caso di un ragazzo con problematiche psichiche ospitato da una donna sola, come in questo breve video inglese. Come si osserva nel video, la “vita condivisa”, in questo caso, prosegue da 20 anni, con vantaggi reciproci per entrambi.

Nel video è posta anche la questione della “purezza” dell’intento della signora ospitante, che di fatto riceve settimanalmente dai 200£ ai 400£ per la gestione dell’ospite.

Su questo punto anche in Italia ci si imbatte in pareri contrari, che interpretano l’atto di ospitare come un gesto fatto esclusivamente a fini economici. L’esperienza dei nostri operatori IESA, di fatto, ha osservato il contrario, con convivenze armoniche che trascendono dalle mere questioni di denaro. Il fatto che il servizio venga pagato, è un normale incentivo ad attivare la presa in carico e a riconoscerne il valore, a vantaggio della famiglia, dell’ospitato e anche della struttura sanitaria in sé, enormemente sgravata dal punto di vista economico (un ospite IESA costa allo Stato qualcosa in più di 1000 euro, quando se lo stesso fosse residente in una struttura protetta, la sua permanenza potrebbe arrivare a costare anche 100/150€ al giorno).

I NUMERI NEL REGNO UNITO

The Guardian ha quindi eletto Shared Lives e il modello di inserimento “famigliare”, ottima pratica clinica che in futuro potrebbe allargarsi e diventare un modello ricorrente e diffuso.

Nel Regno Unito si conta, per il continente europeo, il maggior successo di questo modello, con 12.000 casi attivi e un incremento del 27% di casi negli ultimi due anni (secondo il report del 2016) e un taglio del 4% di casi inseriti in strutture protette. L’obiettivo, stando a questo report, è di raddoppiare la dimensione di Shared Lives nel giro di pochi anni, estendendo la pratica anche ai casi di persone anziane sole che preferiscano evitare l’inserimento all’interno di strutture chiuse.

Il servizio, sul territorio del Regno Unito, prevede l’inserimento di persone con problematiche diverse, compresa la macro-categoria dei disturbi dell’apprendimento (entro questa categoria il maggior numero di casi inseriti), la demenza e ovviamente la malattia mentale. Il progetto, alla cui guida c’è Alex Fox (qui il suo blog), nel caso -probabile- di un’espansione avente lo stesso tenore di crescita, permetterà di “salvare” una cifra equivalente a mezzo miliardo di sterline sul territorio del Regno Unito, nel giro di 4 anni.

NUOVE FORME DI INSERIMENTO

Tornando al territorio italiano e al citato progetto IESA, il mantenimento di un ospite all’interno di una famiglia ospitante costa allo Stato fino ai 1050€ al mese, con un risparmio di migliaia di euro al mese.

Queste nuove forme di politica sanitaria, quando possibili, rappresentano esperimenti di avanguardia in termini di de-isituzionalizzazione del paziente, non più costretto a forme nascoste di segregazione e lungodegenza, sia nel caso della malattia mentale che nei casi di disabilità psichica o legata all’età. Oltre a essere buona pratica clinica (si offre alla persona una reale possibilità di ricollocamento e un ambiente meno medicalizzato e freddo), presenta indiscussi vantaggi in termini economici, nell’ottica di creare migliori servizi usando le risorse del territorio, con costi minori.

Abbiamo altrove già scritto su questo tipo di reinserimento di pazienti psichiatrici.

Qui i link agli altri articoli:

  1. IESA su Psicologia Fenomenologica
  2. una mostra fotografica organizzata a Collegno sullo IESA
  3. Intervista scritta a Gianfranco Aluffi (responsabile IESA Collegno)
  4. Intervista video Gianfranco Aluffi

Article by admin / Generale / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicotraumatologia, raffaeleavico

21 febbraio 2021

IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1)

di Raffaele Avico


INTRODUZIONE

In un essere umano sano, un’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di creare un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. Nel resoconto che un individuo post-traumatizzato farà della sua esperienza, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà, nel ricordo, colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo ricordarlo, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato.

Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la non elaborabilità in termini mnestici.

La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria.

Sembrerebbe cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo ormai trascorso. Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, pur tuttavia attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamato Disturbo da Stress Post Traumatico, in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo.

Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè; centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, in realtà però meno intensa, ma in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo intenso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento, per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi, vissuti spesso nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo, verrà in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale, durato per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. Il trauma ha, in un certo senso, un impatto sempre identitario: con esso, la vita dell’individuo, cambia. Tuttavia, esisteranno differenti gradi di modellamento dell’identità dell’individuo a partire dalla differente tipologia di evento traumatico, come prima sottolineato.

All’interno di questo filone di articoli a tema “trauma negli animali”, ci occuperemo di traumi singoli e unici.

Non verranno cioè presi in considerazione traumi cumulativi, protratti, e in grado di alterare l’identità di un individuo nel contesto di un disturbo da attaccamento. Questo perché, come è chiaro dal titolo, questo vuole essere un approfondimento sulla natura più naturale dell’impatto del trauma sul corpo e sulla mente, questa volta in ambito animale.

La teoria psicotraumatologica riguardante l’essere umano, ci servirà come base per esplorare quali sono le conseguenze di una trauma nel mondo animale; l’obiettivo sarà tuttavia, a partire dalle constatazione che da queste osservazioni arriveranno, comprendere ancora una volta, e possibilmente meglio, come l’uomo fuoriesca e gestisca un evento traumatico.

Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto.

Per questo, il PTSD è stato definito come una patologia della memoria, ponendo appunto l’accento sulla sua difficile digestione in termini di memoria. I potenti strumenti di apprendimento messi a disposizione dell’uomo dall’evoluzione, sembrano ritorcersi contro di lui/lei contribuendo a far sì che per lungo tempo non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del ricordo traumatico.

Per questo, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.

Differenti autori hanno osservato come gli animali sembrino possedere strumenti differenti per far fronte a un PTSD, oppure al contrario riescano a gestire l’elaborazione di un ricordo traumatico per via dell’assenza di alcune strutture “ingombranti” invece possedute dall’uomo.

In questa serie di articoli verrà tentato un lavoro di comparazione tra le risposte post-traumatiche osservate sia nell’uomo che negli animali (in particolare cercando di fare una rilevazione della letteratura che, in ambito animale, si è occupata di trauma), al fine di arrivare a una lettura il più possibile “naturalistica”, per così dire, del PTSD nell’uomo.

Osservando più in profondità lo sviluppo della risposta post-traumatica in un animale, può essere più semplice per l’uomo rispecchiarsi in esso, tentando di rispondere alla domanda centrale di questo filone di articoli, riguardante in definitiva il perchè di una così diversa durata dello stress post-traumatico da animale, appunto, all’uomo.

Per comprendere come venga studiato il trauma negli animali, dobbiamo cercare di addentrarci nella letteratura specialistica, a cavallo tra studi di etologia animale, etologia trasposta all’essere umano, neurobiologia (come funziona nel dettaglio il sistema nervoso di un animale colpito da trauma, cosa che in teoria potrebbe illuminare ciò che succede nell’uomo), e in generale all’interno di quell’enorme contenitore colmo di lavori scientifici che cercano di creare un “modello animale” del PTSD, così da facilitarne, appunto, lo studio nell’uomo.

Troviamo a questo proposito molteplici studi, che tra l’altro potrebbero porre alcuni quesiti etici: maltrattare un animale a fini di ricerca (quello che viene fatto con gli animali, di fatto, sottoponendoli a shock termici, deprivazione sociale, violenza fisica), potrebbe da un lato aiutarci a capire meglio le nostre stesse reazioni, dall’altro metterci di fronte alla sostanziale brutalità dei metodi di ricerca. Non sembra però al momento esserci alternativa, vista la necessità sostanziale di osservare animali vivi sopravvissuti a un trauma, ed essendo necessario applicare a questi alcuni requisiti basali di ricerca quantitativa, per esempio la numerosità del campione, cosa che obbliga i ricercatori a “produrre” animali traumatizzati in modo artificioso/non naturale.

Diversi studi, dicevamo, hanno formulato un parallelismo tra il comportamento animale e quello umano: l’idea di fondo sembra essere connessa alla possibilità di meglio capire il comportamento umano a partire da quello animale. Il che è avvenuto, se pensiamo per esempio alla letteratura psicotraumatologica recente. Quando uno psicotraumatologo osserva un paziente in una condizione di alterazione neurofisiologica, di iper-arousal, la sua mente va a spiegare l’evento partendo da alcune griglie teoriche per lo più etologiche, del tutto simili a quelle che un etologo appunto userebbe per descrivere un cane pietrificato dalla paura improvvisamente illuminato da due fari di auto, nella notte. Osserverà cioè un comportamento umano leggendolo usando un filtro etologico, naturalistico, come farebbe appunto con un animale. Questo perchè esistono alcuni meccanismi, definiti “paleopsicologici”, che ci accomunano agli animali dotati di un sufficientemente evoluto sistema nervoso, tali da produrre in noi reazioni animalesche, pre-razionali, di fatto istintuali.

Cosa ci distingue, però, dagli animali sopravvissuti a un trauma? Alcuni hanno sostenuto che quello che veramente rende unico il PTSD umano, sembrano essere le tempistiche del suo sviluppo e soprattutto del suo mantenersi. Il PTSD umano si mantiene per tempi lunghissimi, arrivando a modellare in modo durevole il comportamento e la vita in generale dell’individuo. Gli animali al contrario riuscirebbero prima degli uomini a fuoriuscire da uno stress post traumatico, per via di alcuni meccanismi naturali di dissipazione corporea del trauma.

A proposito di questo, dobbiamo fare riferimento al concetto di abreazione e a quello di dissipazione.

La parole abreazione è un neologismo coniato per esprimere il senso di “lasciare andare”, evacuare per via corporea, un malessere di origine psicologica. Veniva usata, e viene usata, soprattutto in ambito psicoanalitico, per descrivere appunto il senso di “sfogare per via corporea” dopo aver portato alla “soglia della coscienza” del materiale psicologico rimosso, fino a quel momento inaccessibile alla coscienza.  Una crisi di nervi violenta, un corpo che si tende allo spasmo arcuandosi -come succedeva nella pazienti isteriche “classiche”-, sono esempi di tentativi di abreazione. Abreagire non vuol dire somatizzare: prevede un intervento più totale del corpo, incarnando il corpo stesso, in un momento definito, il malessere psichico portato dall’individuo, rivolto però verso l’”esterno”, verso il fuori.

Possiamo parlare di abreazione anche negli animali?

Se originariamente il termine abreazione indicava un evento di natura per lo più corporea (il fenomeno del tarantismo, le grandi crisi di agitazione durante un rituale sostenuto da una collettività osservante, potrebbe essere un altro esempio di abreazione), questo pareva essere giustificato da quello che -sempre psicoanaliticamente- potremmo chiamare “ritorno del rimosso”. Gli stessi precursori nella studi sull’isteria classica, osservavano come le isteriche sembrassero soffrire a causa del riaffiorare di “reminiscenze” -ricordi rimossi di origine traumatica.

Se ci spostiamo in ambito animale, si pongono ovvi problemi di ordine metodologico, non potendo accedere ad alcun tipo di comunicazione diretta inerente la mente di alcun tipo di animale, essendo noi costretti a bypassare i contenuti mentali dell’animale da noi osservato, per ragionare in termini di output e input. Per questo, sembra naturale osservare l’impossibilità di usare lo stesso termine -abreazione- per descrivere il fenomeno dell’evacuazione del “vissuto traumatico” per via corporea: è più appropriato in questo caso usare il termine dissipazione.

Il fatto che un vissuto post traumatico venga dissipato per via corporea, è stato osservato su diversi animali, con modalità differenti.

Ma come viene studiato, negli animali, il trauma, e con quali metodi?

Cerchiamo di addentrarci all’interno della questione dei “modelli animali”.

Può sembrare naturale che gli animali vengano studiati per comprendere alcuni meccanismi umani, ma questo approccio di base reca con sè una serie di assunti di fondamentale importanza scientifica, che potremmo riassumere in alcuni punti:

  • se studiamo gli animali, è perché assumiamo che alcuni meccanismi neurobiologici siano sostanzialmente sovrapponibili ai meccanismi neurobiologici umani (per esempio, riteniamo sostanzialmente sovrapponibili i meccanismi neurobiologici dei topi ai meccanismi paleopsicologici umani -pensiamo per esempio l’enorme mole di studi che sono stati condotti e vengono tuttora condotti sul tema addiction/gratificazione). Naturalmente questo lo riteniamo vero con alcuni tipi di animali: vedremo successivamente come esistano delle differenze neuroanatomiche specifiche, che ci porteranno a ulteriori riflessioni in merito.
  • se studiamo gli animali, è perchè siamo in grado di rappresentare la nostra specie come composta da “animali”, con le stesse proprietà di altri animali dotati di sistema nervoso; implicitamente, inoltre, in questo modo sottolineiamo come alcuni dei comportamenti umani siano figli di meccanismi neurobiologici non mediati da libero arbitrio, e non velleitari; questo punto ci fa inoltre riflettere su quando una parte della ricerca in ambito psichiatrico/psicologico porti con sè una visione del comportamento umano per lo più “biologista”. Questa visione implica che l’uomo sia figlio dei suoi stessi meccanismi biologici, almeno per alcuni tipi di comportamento (quelli per esempio che più ci rendono simili agli animali, mediati da zone profonde e antiche del cervello)

UN ARTICOLO INTRODUTTIVO (da Nature)

In questo articolo pubblicato su Nature, troviamo alcune considerazioni importanti a riguardo dello studio del PTSD negli animali.

Viene fatta una rassegna di quelli che sono i principali sintomi del PTSD, divisi per cluster, nell’uomo, interrogando il lettore con una semplice domanda: quali sono i sintomi misurabili in senso empirico, del PTSD, nel topo?

Ne risulta una breve rassegna su cosa sia indagabile e cosa no, arrivando a concludere che l’unico sintomo realmente non misurabile, per ovvie ragioni, è la presenza di pensieri intrusivi.

É forse utile fare un brevissimo riassunto di come il DSM 5 raggruppi i sintomi da PTSD. Sappiamo che i sintomi del post trauma sono divisibili in 4 cluster:

  1. Riesperienza
  2. Evitamento
  3. Cognizioni negative
  4. Iper-arousal e iperestesia

Sappiamo cioè che un evento traumatico tende a essere rivissuto in modo acceso per via di coinvolgenti flashback vissuti dal “sopravvissuto”, a causa dei quali lo stesso tenderà a evitare alcuni luoghi/situazioni. Inoltre, sappiamo che lo stress post traumatico tende a generare nell’individuo un senso di negatività auto-diretta, relativa a sè, attraverso quelle che vengono chiamate “cognizioni negative”. Infine, come a contorno di tutto questo, osserviamo come nel PTSD il livello di attivazione generale del sistema nervoso autonomo (l’arousal), sia costantemente sbilanciato verso l’alto, con tutto ciò che ne deriva: in particolare, un livello costante di iper-arousal conduce all’iper-estesia, cioè a una percezione anomala e amplificata di alcuni aspetti dell’esperienza sensoriale (come sentire i rumori, o alcuni rumori, in modo troppo acceso, o interpretare alcuni aspetti dell’esperienza in modo minaccioso/distorto).

Per quanto riguarda la ricerca nel topo, come si diceva, i pensieri intrusivi, la riesperienza e i flashback non sono indagabili, per l’impossibilità di accedere all’esperienza rappresentata -mentale- del topo stesso; l’evitamento è tuttavia facilmente osservabile, di fronte a possibili trigger che rievochino nella mente del topo l’evento traumatico; per quanto riguarda le cognizioni negative, i ricercatori sostengono di riuscire a inferire la presenza di cognizioni negative attraverso test inerenti la motivazione, la preferenza sociale e il test della “preferenza edonica”; per quanto riguarda invece lo stato di attivazione neurofisiologica del topo (arousal), viene osservato come esistano molteplici strumenti di rilevazione del livello di arousal; infine, osservano che, così come accade per l’uomo, per poter attribuire al topo il vivere una condizione di post trauma, debba essere passato un certo lasso di tempo (non necessariamente un mese), così da escludere l’ipotesi che il topo studiato non stia vivendo semplicemente una condizione di post trauma acuta e strettamente contestuale.

Torniamo all’articolo su Nature. Gli autori si pongono alcuni domande:

  1. Come costruire un buon modello animale (per meglio capire il PTSD nell’uomo)?
  2. Come poter asserire che il PTSD in un uomo si comporta allo stesso modo, in un topo?

Gli autori elencano alcuni aspetti inerenti la neurobiologia del PTSD, compresi gli aspetti più profondi, genetici, cercando parallelismi nel topo. Si domandano infatti se il trovare distorsioni in alcuni meccanismi neurobiologici conseguenti al PTSD, sia negli animali che nell’uomo, non sia segno di una prova provata dell’intervento di quello stesso meccanismo nell’insorgere di un PTSD.

Qui, riassunti, tutti i parallelismi.

Sempre su questa linea, osservano anche come per costruire un buon modello animale del PTSD, si possa passare per via farmacologica: se uno stesso farmaco ottiene stessi risultati, benefici, sul PTSD di un animale e di un uomo, potremo trarne che i meccanismi sui cui il farmaco agisce, sono perlomeno simili. Il problema, osservano gli autori, è che non esiste un approccio farmacologico gold-standard, come altrove abbiamo osservato.

Che fare, dunque? Gli autori intendono proporre una nuova linea di ricerca. Come premessa, osservano che:

  • generalmente, il PTSD negli animali è studiato a partire dal tipo di trauma, sottoponendo gli animali (in questo caso, il topo) a differenti tipi di stress. Qui una rassegna completa delle tipologie di traumi costruiti artificialmente per il topo.
  • Uno dei paradigmi più studiati, è il paradigma della risposta condizionata alla paura. Seguendo questo tipo di ragionamento, il PTSD sarebbe da considerarsi una forma distorta e grave di condizionamento primario, un apprendimento pavloviano in piena regola. Ne abbiamo scritto altrove quando abbiamo parlato del PTSD come di un “apprendimento a prova singola”, teoria proposta anche da Stephen Porges

Continuando nella lettura dell’articolo, notiamo come uno degli aspetti più difficili nella costruzione di un modello animale per il trauma, sia il replicare gli eventi traumatici all’interno della vita dell’animale.

Come si è visto e qui troviamo riassunto, esistono molteplici vie che ci consentono di ricreare un trauma in un animale.

Il punto, al di là del tipo di trauma ricreato in laboratorio, è ragionare sul perché applicare un certo tipo di stimolo a quel particolare animale, e in che modo.

L’aspetto più importante su cui riflettono gli autori, è senza dubbio il tema della risposta condizionata alla paura.

Anche qui, vediamo come lo stress post traumatico venga interpretato come una forma estrema e prolungata di condizionamento, tanto forte e duraturo da modellare la vita dell’individuo in più modi.

Ovviamente, ragionano gli autori, questa visione assume che il meccanismo di fondo per lo sviluppo del PTSD sia un meccanismo di condizionamento, cioè di apprendimento: questa cosa non è scontata e andrebbe tenuta in “forse”.

COME DIAGNOSTICARE CORRETTAMENTE PTSD NEGLI ANIMALI DA LABORATORIO?

Procedendo nella disamina su “come stressare” in modo eticamente corretto e alla stesso tempo utile a generare nell’animale una riposta post traumatica, gli autori si pongono alcune questioni importanti; in sequenza:

  1. sulla popolazione umana colpita da trauma, solo il 10% sviluppa PTSD
  2. in questo senso, “procurare” una trauma a un animale, potrebbe non essere sufficiente affinché questo sviluppi uno stress post traumatico
  3. come risolvere questo problema? in due modi: A e B
  4. A) valutando fattori di rischio pregressi nel corso della vita dell’animale
  5. B) effettuando analisi dettagliate del comportamento dell’animale a seguito della traumatizzazione, per comprendere se abbia sviluppato -effettivamente – un PTSD

Per quanto riguarda i fattori di rischio, diverse evidenze sono state trovate in termini di fattori di rischio (nei ratti).

I fattori di rischio predisporrebbero a uno sviluppo di PTSD da parte dell’animale.

Nello specifico:

  1. una tendenza ansiosa precendente all’evento traumatico, misurata in vari modi

Per quanto riguarda l’uomo:

  1. eventi distali avversi (infanzia traumatica, eventi avversi generici antecedenti al trauma) in grado di procurare alterazioni in senso epigenetico sullo sviluppo del soggetto stesso
  2. eventi prossimali avversi (deprivazione del sonno, uso di alcol, droghe, etc.)

Per quanto riguarda invece il problema della resilienza individuale animale, cosa che renderebbe difficile capire quale degli animali abbia realmente sviluppato un PTSD, gli autori raccontano di un procedimento altamente specifico di diagnosi del PTSD negli animali partendo ovviamente da un criterio temporale (+ di 30 giorni di sintomi continuativi, criterio tra l’altro valido anche nell’uomo), per arrivare a una serie di test e procedure molto selettive qui descritte.

Gli autori concludono con alcune considerazioni:

  1. un modello animale ci vuole, con tutti i limiti del caso: solo così sarà possibile dettagliare meglio le ragioni di forme di resilienza presenti in alcuni individui piuttosto che altri, a partire da aspetti neurobiologici finora controversi o non ancora pienamente compresi
  2. esistono fattori predisponenti al PTSD. Allo stato attuale, le donne sono maggiormente predisposte (nell’essere umano più che nei ratti, anche per ragioni sociali), così come altri fattori (eventi distali, prossimali, etc.). Qui il riassunto di questi aspetti
  3. la possibilità in futuro di creare animali mutati geneticamente allo scopo di studiare la correlazione tra differenze genetiche, e sviluppo di stress post traumatico, è un elemento da tenere in considerazione nella creazione di modelli animali sempre più raffinati (si veda qui)
  4. la localizzazione più dettagliata dei circuiti neurali implicati nel PTSD, si potrà giovare, in futuro, di tecniche di avanguardia, come la deep brain stimulation -si veda per un approfondimento, sempre su Nature, qui)

Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

1 febbraio 2021

INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA

di Raffaele Avico

Con questa intervista a Costanzo Frau apriamo una serie di video brevi a tema trauma e dissociazione, che faranno parte dei contenuti extra in area Patreon.

Le domande che verranno fatte agli intervistati nell’ambito di questa serie sono 3:

  1. qual è la tua definizione di trauma e la tua idea di dissociazione?
  2. come lavori con il trauma e quali sono le tue migliori prassi cliniche?
  3. qual è il riferimento per te centrale nel lavoro clinico, o la teoria a cui più ti ispiri?

L’obiettivo è approfondire la natura teorica del concetto “trauma”, e osservare da vicino il lavoro di una persona esperta sul tema.

Costanzo in questa video cita il lavoro di Colin Ross  e di Remy Acquarone (intervistato in questo video), avendo avuto la possibilità di lavorare in presenza con entrambi questi clinici del trauma.

Costanzo si occupa in particolare di diagnosi differenziale tra disturbi dissociativi e psicosi; sappiamo infatti che alcuni sintomi dissociativi possono venire interpretati come sintomi di un disturbo psicotico, per esempio le “voci” (qui ne abbiamo scritto un approfondimento); ha scritto questo libriccino di cui consigliamo la lettura per chi fosse interessato al tema “disturbi dissociativi”; è inoltre curatore dell’edizione italiana di un volume di recente pubblicazione, questo:

Alcuni altri spunti bibliografici sul tema, in particolare a proposito di diagnosi differenziale tra sintomi dissociativi e sintomi psicotici:

  • riferimento bibliografico 1
  • riferimento bibliografico 2
  • Ross & Mosquera 2016 Treating voices (a psychotherapy approach to treating hostile voices, di Dolores Mosquera e Colin Ross, scaricabile in PDF)
  • Moskowitz et al. 2017 (Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives, di Andrew Moskowitz, Dolores Mosquera, Eleanor Longden, scaricabile in PDF)

NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Formazione / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

20 gennaio 2021

PSICOFARMACOLOGIA STRATEGICA: L’UTILIZZO DEGLI PSICOFARMACI IN PSICOTERAPIA (FORMAZIONE ONLINE)

di Luca Proietti, Raffaele Avico

Integrare la psicoterapia alla psicofarmacoterapia non è cosa semplice, spesso infatti manca  una buona comunicazione tra psicoterapeuta e psichiatra.

Inoltre entrambi gli attori di cura (psicoterapeuta e psichiatra) sono naturalmente portati a vedere il paziente e il quadro clinico secondo il proprio punto di vista.

Il rischio è che lo psichiatra faccia troppo affidamento sui farmaci e sulla componente biologica, mentre che lo psicoterapeuta non abbia mezzi per capire e interpretare le decisioni dello psichiatra e la comparsa degli effetti collaterali dei farmaci prescritti.

Sappiamo che per molti disturbi, la presa in carico integrata è fondamentale, tanto più quando il problema è complesso o di difficile gestione.

Pensiamo per esempio ai disturbi di dipendenza, alla doppia diagnosi, alla depressione maggiore, alle psicosi o ai disturbi di personalità gravi.

In questo caso la presa in carico integrata, se vissuta in accordo, permette non solo di potenziare l’efficacia dei rispettivi trattamenti (quello farmacologico e quello psicoterapeutico), ma anche di gestire al meglio la responsabilità, le difficoltà e le richieste della relazione terapeutica

Ci sono inoltre diversi problemi che intervengono nel rendere più complessa l’integrazione tra una buona presa in carico psicoterapica e l’uso di farmaci:

  1. gli effetti collaterali dei farmaci, che interferiscono con le funzioni cognitive normali di chi li assume; è possibile infatti che un farmaco influenzi il modo di pensare di un individuo, cosa che ricade inevitabilmente sul lavoro di psicoterapia. Oppure, alcuni farmaci antidepressivi -ottundendo l’affettività- potrebbero limitare l’efficacia dell’intervento psicoterapeutico, o ancora alcuni antipsicotici potrebbero causare la comparsa di disturbi ossessivo-compulsivi.
  2. è molto difficile, quando si assumano farmaci psichiatrici, capire quanto il beneficio sia da imputare al farmaco stesso, al lavoro di psicoterapia, o all’effetto placebo che ruota intorno al farmaco stesso. Cosa capiterà quando il paziente scalerà i farmaci, rimanendo coperto solo in senso psicoterapico? La letteratura ha denominato tale effetto context shift: in alcuni disturbi l’efficacia della psicoterapia sembra ridotta nella fase di scalaggio (ad es. Disturbi d’ansia); in altri invece questo sembra non avvenire (ad es. Disturbo Ossessivo Compulsivo).
  3. Si rischia, con i farmaci, di creare dipendenza psicologica nell’individuo? Studi in letteratura stanno dimostrando come in realtà molti psicofarmaci rischiano di modificare in maniera plastica il Sistema Nervoso inducendo fenomeni di tolleranza e dipendenza.
  4. Spesso la prescrizione dei farmaci, il loro utilizzo e la durata della terapia non seguono quelle che sono le indicazioni delle linee guida e della letteratura: l’associazione di più farmaci è a volte sconsigliata, così come lo sono le terapie farmacologiche “senza termine”.

Per rispondere a queste domande occorre una buona conoscenza del funzionamento dei farmaci (i principi biologici su cui si basa il loro funzionamento, il razionale con cui vengono somministrati, i tempi di efficacia).

Sappiamo che, in generale, i farmaci regolano il rilascio di diverse categorie di neurotrasmettitori: a ogni neurotrasmettitore corrisponde un particolare “affetto” o “effetto” psichico: la dopamina rende più volitivi, la serotonina più caldi in senso affettivo e meno ansiosi.

Luca Proietti, psichiatra e psicoterapeuta di Genova, ha organizzato un corso di farmacologia approfondita per psicologi, che cercherà di rispondere alla domande prima riposte.

Il corso avrà due forme, entrambe online:

  • unico (due mattine, per un totale di 8 ore): Psicofarmacologia Strategica™ (Link con info e programma del corso).
  • seminariale (una volta al mese, in modo continuativo, con approfondimenti specifici su singoli farmaci o concetti); in questo caso lo scopo è quello di creare un gruppo di lavoro continuato sul tema

Il corso è rivolto a psicoterapeuti, o specializzandi in psicoterapia che lavorino quotidianamento con pazienti seguiti anche in senso psichiatrico, o in generale che vogliano meglio comprendere i “retroscena” dell’approccio farmacologico e capire come integrare adeguatamente il proprio intervento a quello farmacologico

Ecco il programma e i costi.


CORSO UNICO

Psicofarmacologia Strategica™: L’utilizzo strategico degli psicofarmaci in psicoterapia

PROGRAMMA:

  • Dal neurotrasmettitore al sintomo: correlati psicologici e comportamentali dei principali neurotrasmettitori.
  • Il razionale dell’utilizzo degli psicofarmaci nella pratica clinica, al di là delle linee guida e delle indicazioni da scheda tecnica.
  • Sorelle o Suocere? Integrare la psicoterapia e la farmacoterapia per ottenere la remissione.
  • Psicoterapia, Farmacoterapia o entrambi? decidere secondo le indicazioni della letteratura e la comune pratica clinica.
  • Corpo e psiche: ormoni, organi e farmaci non psicotropi che influenzano la nostra psiche.
  • Psicofarmacologia Strategica™  Pratica: saper risalire alle indicazioni, alle prerogative e agli effetti di ciascun farmaco.
  • Conoscerli nella pratica per riconoscerli: Antipsicotici, Antidepressivi, Benzodiazepine, Stabilizzatori dell’Umore.
  • Utilizzo dei farmaci secondo la pratica clinica nei principali disturbi (Depressione, Disturbi d’Ansia, DOC, DCA, Disturbi del Sonno, Disturbi di Personalità, Disturbo Bipolare, Psicosi).
  • Le Due D: Demenza e Depressione, riconoscerle con la diagnosi differenziale, terapia nella pratica clinica.
  • What’s next? Esketamina e le nuove frontiere della farmacologia.
  • Pratica: Esercitazioni pratiche con discussione delle risposte.

INFO:

  • Dove: On-line.
  • Quando: Sabato 27 e Domenica 28 Marzo 2021 dalle 9:00 alle 13:00 (vedi il form di iscrizione).
  • Quota di iscrizione: 120 euro.
  • Numero Massimo di iscritti: 12.
  • Modalità di iscrizione: Per iscriverti all’evento formativo compila il form cliccando su questo link ed effettua contestualmente il pagamento dell’importo di iscrizione seguendo le indicazioni che troverai nel form stesso. Una volta pervenuto il pagamento, riceverai una e-mail di conferma di avvenuta iscrizione.
  • Formazione Riservata: L’evento è aperto esclusivamente a psicoterapeuti, psicologi, studenti di psicologia e specializzandi in psichiatria o psicoterapia.
  • Attestato di Frequenza: Al termine dell’evento sarà consegnato un attestato di frequenza.
  • Il docente: Luca Proietti (clicca qui).

EDIZIONE SEMINARIALE

Gli incontri di Psicofarmacologia Strategica™: Masterclass annuale sull’utilizzo degli psicofarmaci in Psicoterapia  

12 incontri mensili: il programma copre tutti gli argomenti del corso.

Ciascun incontro si compone di una parte teorica e una parte interattiva dedicata a discussioni, esercitazioni e supervisioni per ciascun argomento.

PROGRAMMA:

  • Lezione 1: Neurotrasmettitori e neurobiologia. Dal neurotrasmettitore al sintomo: correlati psicologici e comportamentali dei principali neurotrasmettitori.  Consigliata a chiunque voglia seguire delle lezioni singole sui farmaci.
  • Lezione 2: Farmaci Antidepressivi. IMAO, Triciclici, Inibitori della ricaptazione della serotonina e Noradrenalina (SSRI, SNRI, NARI), Atipici, multifunzionali, l’ Esketamina e le nuove frontiere (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 3: Farmaci Antipsicotici. Tipici, Atipici e di 3a generazione. (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 4: Stabilizzatori dell’umore. Litio ed Antiepilettici (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 5: Benzodiazepine e farmaci ipnoinducenti, Z-drug, le varie preparazioni di melatonina (razionale di utilizzo nella pratica clinica al di là delle linee guida, utilizzi off-label, la scelta di un principio attivo rispetto ad un altro).
  • Lezione 6:Panoramica generale di ripasso sui differenti neurotrasmettitori e gli effetti dei farmaci. L’effetto placebo, l’effetto nocebo, integrare la psicoterapia con la farmacoterapia, quale dei due trattamenti è il più efficace in senso generale e nei singoli disturbi.
  • Lezione 7: Disturbo Ossessivo Compulsivo: Terapia psicofarmacologica, psicoterapia o entrambe ? Tassi di risposta e di ricaduta. Il trattamento integrato è più efficace del singolo trattamento? Indicazioni della letteratura in base al tipo di paziente.
  • Lezione 8: Disturbi d’ansia, disturbi dissociativi e disturbo Post Traumatico. Farmacoterapia, psicoterapia o entrambe? Le evidenze della letteratura, delle linee guida e delle più importanti metanalisi.
  • Lezione 9: Depressione e Disturbo Bipolare. Depressione anaclitica e Depressione melanconica. Quando dare i farmaci e quando toglierli. Il paziente depresso non piange. Indicazioni di trattamento, la scelta di ciascun principio attivo. Cosa è il Disturbo Bipolare 2? Il primato della mania. Predittori di risposta a ciascun stabilizzatore dell’umore. Terapia in acuto e di mantenimento.
  • Lezione 10: Depressione, Pseudodemenza depressiva e Demenza. La depressione causa demenza? Diagnosi differenziale e trattamento delle differenti forme di demenza. Psicosi non affettive e dello spettro schizofrenico. Scelta dei farmaci antipsicotici, quando utilizzare i farmaci per la Schizofrenia resistente. Per quanto tempo continuare la terapia Antipsicotica.
  • Lezione 11: I disturbi di personalità e la farmacoterapia. Quali sono i farmaci indicati, quali invece da evitare. Cosa dicono le linee guida, per quanto tempo trattare farmacologicamente un paziente con disturbo di personalità. Panoramica delle indicazioni per i differenti Disturbi di personalità con focus particolare sul D. Borderline.
  • Lezione 12: Disturbi Somatici, disturbi conversivi, dolore neuropatico. Disturbi del sonno. ADHD. Disturbi del comportamento alimentare. La prevenzione farmacologica del suicidio. Sesso e farmaci.

INFO:

  • Dove: On-line.
  • Quando: 12 incontri mensili da 2 ore (vedi il form di iscrizione).
  • Quota di iscrizione: singola lezione 35 euro, seminario completo 350 euro.
  • Numero Massimo di iscritti: 20.
  • Modalità di iscrizione: Per iscriverti all’evento formativo compila il form cliccando su questo link ed effettua contestualmente il pagamento dell’importo di iscrizione seguendo le indicazioni che troverai nel form stesso. Una volta pervenuto il pagamento, riceverai una e-mail di conferma di avvenuta iscrizione.
  • Formazione Riservata: L’evento è aperto esclusivamente a psicoterapeuti, psicologi, studenti di psicologia e specializzandi in psichiatria o psicoterapia.
  • Attestato di Frequenza: Al termine dell’evento sarà consegnato un attestato di frequenza.
  • Il docente: Luca Proietti (clicca qui).

Qui alcune testimonianze di alcuni partecipanti alla scorsa edizione:

Article by admin / Formazione / lucaproietti, psichiatria, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, raffaeleavico

15 gennaio 2021

ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA)

di Raffaele Avico

Il disturbo ossessivo compulsivo, storicamente preso in carico esclusivamente dagli psicoanalisti, oggi è trattato usando modalità più complessificate e attraverso il ricorso a farmaci deossessivizzanti.

La psichiatria, lungo il suo corso, ha assorbito e metabolizzato molteplici apporti teorici provenienti da scuole di pensiero diverse a riguardo di questo pesante disturbo, arrivando, come succede anche per altri tipi di problematiche mediche, a un approccio multidisciplinare e integrato (psichiatra insieme a psicoterapeuta).

La gravità dell’OCD varia dai casi limite a base maggiormente organica (squilibri neurobiologici che vengono trattati quasi esclusivamente attraverso la farmacoterapia), fino ad arrivare alle forme “sfumate” del disturbo, che colpiscono moltissime persone (pensiamo per esempio al timore di non aver chiuso la porta di casa, o la macchina, o al senso di “non aver finito” una determinata cosa -“not just right experience”) e che rispondono anche a un trattamento esclusivamente psicoterapico.

La struttura centrale del disturbo è la stessa, ma l’entità della sua gravità varia, e soprattutto varia la sua forma, in termini di tipologia di compulsione, e in particolare:

  •     i “checkers” sentono l’impulso irrefrenabile di controllare (to check) che “qualcosa” sia chiuso/bloccato: eseguire quella chiusura o quel gesto rituale, spazza via mentalmente la sensazione che qualcosa non sia finito o non chiuso (la prima citata “not just right experience”)
  •     i “washers” compulsivamente (si) lavano o puliscono, raggiungendo una certa soglia di senso di pulizia e igiene, fugando il timore di essere contaminati o non perfettamente puliti
  •     gli “orders”, per ripulire la mente dai pensieri ossessivi, creano intorno a sé un ambiente perfetto, usando simmetria e rigore
  •     i “repeaters” o i “thinking ritualizers” scacciano via i pensieri ossessivi ripetendo un gesto o un’azione, anche mentale (contare fino a 10, ripetere delle parole o dei mantra), fino al punto in cui sia raggiunto uno stato di tranquillità percepita
  •     gli “hoarders”, o “accumulatori”, rappresentano una categoria laterale dei pazienti con disturbo DOC (qui un articolo che approfondisce la questione:)

Le cause non sono totalmente note, la psichiatria biologica presume ci possa essere uno scompenso nel milieu neurotrasmettitoriale (in particolare in riferimento al livello di serotonina), e un comportamento difettoso entro alcuni circuiti che collegano zone antiche del cervello a zone più recenti (qui l’approfondimento); la teoria psicoanalitica dà altre spiegazioni, la psicoterapia a matrice cognitivista ancora altre.

Quello che si osserva in occasione di una “crisi” di DOC (rush ossessivo) è l’innalzarsi, a seguito della comparsa di un pensiero ossessivo, del livello di ansia e di timore esperito soggettivamente, che viene “placato” con il ricorso alla compulsione, che riporta la mente a un livello di funzionamento normale.

Per fare un esempio: un pensiero ossessivo relativamente comune (e che quindi  non corrisponde a un desiderio reale) è quello di agire violenza (anche sessuale) su persone care (bambini, famigliari): il pensiero emerge come improvviso e procura un senso di timore e allarme (in seguito a una valutazione che il soggetto fa nei confronti del suo stesso pensiero): la curva dell’arousal (il livello di attivazione neurofisiologica dell’organismo) sale fino a raggiungere picchi insostenibili per il soggetto, che deve tentare, in tutti i modi, di placare il suo malessere: da qui le compulsioni.

É da notare che questo stato mentale di confusione e paura proviene da un timore che il pensiero possa essere foriero di passaggio all’atto, ovvero, che ci possa essere una sorta di sovrapposizione e identificazione tra il pensiero e l’azione descritta dal pensiero stesso (per esempio la paura di essere ladro solo perchè si pensa di rubare, il timore di coltivare desideri violenti se si pensa anche solo per un attimo di picchiare o uccidere qualcuno: qui un breve approfondimento sulla “fusione pensiero-azione”)

Si osserva poi un fenomeno successivo per cui le compulsioni assumono forma di oggetto di dipendenza, e quand’anche il soggetto sperimentasse uno stato di relativa tranquillità con la mente vuota, “qualcosa”, in assenza del pensiero ossessivo, sembrerebbe mancare: da qui il ritorno al pensiero fisso, che viene come ricercato, a metà tra il desiderio e la coazione.

Le cause, come si diceva, non sono completamente note; alcune teorie tuttavia sono più accreditate di altre: si tende a credere esista una forte componente biologica: per questo in prima linea l’approccio è farmacologico; se in presenza di sintomi troppo invalidanti vengono usati farmaci serotoninergici ad azione deossessivizzante, prescritti da uno psichiatra che conosca nel dettaglio la storia clinica del paziente.

A riguardo della terapia farmacologica del DOC, si veda questo articolo di Luca Proietti.

In ambito psicodinamico/psicoanalitico, il lavoro è mirato a una comprensione del significato che l’ossessione riveste per il soggetto. Non dunque l’origine, ma il significato dell’ossessione stessa.

Nel bellissimo romanzo di Yalom “Le lacrime di Nietzsche”, viene descritta in modo romanzato la vicenda di un rapporto di cura tra Breuer (mentore di Freud) e il celebre filosofo. Uno dei temi affrontati è l’ossessione di Breuer per una giovane paziente, presente a tal punto da divenire invalidante e pericolosa per la vita del celebre medico, che verrà nel proseguire della storia smontata, contestualizzata e ri-significata da Nietzsche, in un interessante dialogo clinico, realistico seppur d’invenzione.

É interessante notare come per Breuer la giovane paziente fosse diventata nel tempo il simbolo di una speranza di vita e di appagamento di potenti bisogni, inespressi altrove, che aveva fatto di Bertha (la giovane paziente) una sorta di pretesto per l’immobilismo del celebre medico, bloccato nel suo percorso di evoluzione umana. Inoltre, il rapporto con la paziente sembrava compromesso e pervertito da emozioni di rabbia, possessione, e mistificato da un’idealizzazione della paziente stessa tale, da impedire a Breuer di compiere il necessario esame di realtà che avrebbe spogliato Bertha della sua allure “magica”, facendo decadere l’ossessione.

In ambito di psicoterapia cognitivo-comportamentale (valutata la più efficace per contrastare i disturbo) si lavora molto, ma non solo, sul tema della responsabilità e del senso morale.

Un senso di responsabilità ipertrofico, e un rigido assetto morale, producono pensieri ossessivi (alcuni studi indagarono le conseguenze di uno stile di leadership autoritario e puntiglioso sugli impiegati, che vennero osservati sviluppare comportamenti simil-ossessivi): il lavoro è quindi finalizzato ad “ammorbidire” il proprio approccio alla realtà e il proprio senso morale.

Vengono inoltri usati qui dei protocolli che de-strutturano il pensiero del paziente, osservando lo svolgimento della dinamica ossessiva nel suo nascere (a partire dall’evento scatenante, fino alla messa in atto della compulsione), per imparare a “disimpararla”.

Alcune osservazioni sul disturbo (nella sua variante più sfumata):

  • il sintomo ossessivo si presenta contro la volontà del soggetto, alla sua coscienza, producendo sofferenza e disorientamento; esistono alcuni bias cognitivi, errori di pensiero che rendono la sua gestione più difficile. Come visto in precedenza, per esempio, l’idea che pensare una cosa equivalga a desiderarla (anche a causa, per alcuni soggetti, di interpretazioni sbagliate di concetti psicoanalitici ambigui e mai veramente divulgati, per cui pensare o sognare una cosa equivarrebbe a desiderarla -nel senso più letterale del termine); oppure l’idea che pensare una cosa la farà accadere
  • il sintomo ossessivo, sembra in un certo senso creare dipendenza. É cioè in grado di essere richiamato alla coscienza quando assente, ed è in grado di dare senso di reward -come in una dipendenza. Questo fenomeno è di lettura molto complicata (perchè il soggetto dovrebbe “attirarsi” il pensiero intrusivo anche quando stesse vivendo un momento di libertà?) e chiama in causa aspetti appunto di dipendenza, masochistici o paradossali (ne abbiamo scritto in questa intervista a Rossella Valdrè sul concetto di masochismo).
  • gli aspetti paradossali riguardano il tema del controllo; un po’ come succede per il disturbo di attacco di panico, tentare di tenere lontano dalla mente un certo pensiero, conduce al suo ripresentarsi. Parliamo dunque di un controllo che fa perdere il controllo.
  • in generale la risoluzione di un DOC, o un suo alleviarsi, dovrebbe corrispondere al passaggio da una logica di conflitto, a una logica di scelta. Ovvero, occorre che il paziente acquisisca maggiori quote di controllo sul pensiero. In che modo? Una modalità può essere agire in modo contro-paradossale, scegliendo il/la paziente stesso/a di pensare a quello stesso pensiero, o di eseguire quel particolare rituale. Oppure, il senso di maggiore controllo potrebbe derivare da un lavoro sulla meta-cognizione sugli schemi di pensiero che di solito si fa in psicoterapia cognitivo-comportamentale (qua un approfondimento)
  • spesso i contenuti di pensiero vengono giudicati come immorali: questo accade quando non si sia abituati a considerare il pensiero stesso come naturale, o quando appunto lo si interpreti come desiderio (se lo penso, lo desidero/lo sono); pensieri di questo tipo possono riguardare qualsiasi cosa, dall’essere pedofili a desiderare la morte per una persona cara, tanto più giudicati scandalosi quanto rigida fu -a monte- l’educazione ricevuta in senso morale. Un’educazione rigidamente cattolica è un buon terreno su cui si possono innestare disturbi di questo tipo. In questo senso il lavoro di psicoterapia sarà finalizzato a “liberalizzare” il pensiero stesso
  • accettare il rischio di poter essere qualcosa, o di poter fare una certa fine, spesso allevia il conflitto interno, arrivando la persona a fare un salto logico su di un livello superiore (se anche lo fossi/lo desiderassi, non sarebbe un problema poi così grave), operando quindi quella che viene chiamata “esposizione con accettazione del rischio”
  • lavarsi fisicamente, vuole essere anche un lavaggio in termini morali. Sappiamo che nel DOC il tema della reponsabilità e della colpa -e dell’indegnità- sono centrali; si veda questo articolo su Science a proposito di quello che è stato definito Effetto Lady Macbeth)

Su questo blog abbiamo svolto diversi approfondimenti sul DOC, che riportiamo qui di seguito:

  1. recensione di “La mente ossessiva” di Francesco Mancini
  2. intervista a Andrea Vallarino e Luca Proietti sulla terapia strategica del DOC
  3. il già citato articolo sulla farmacoterapia del DOC
  4. un approfondimento sul DOC in ottica strategica, visto in questo caso come un’esasperazione della razionalità
  5. DOC ed effetto placebo

Qui per approfondimenti (articoli di ricerca)


NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, raffaeleavico

11 gennaio 2021

LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO

di Raffaele Avico

La Teoria dell’attaccamento deriva dagli studi di John Bowlby, con il suo famoso libro “Una Base sicura”, e dal lavoro clinico della sua allieva Mary Ainsworth, con le sue ricerche sulla diade madre-bambino all’interno del contesto della “strange situation”.

In che cosa consistevano questi esperimenti?

Mary Ainsworth ebbe la geniale idea di osservare l’interazione madre-bambino in quattro momenti distinti e seguenti:

  • gioco
  • distacco
  • ricongiungimento
  • gioco (dopo il ricongiungimento)

L’idea era quella di osservare le reazioni di un certo numero di bambini sottoposti a una situazione artificiale di gioco con la madre naturale (considerata come la figura di attaccamento primaria, quella a cui si presumeva il bambino si riferisse per ottenere protezione e nutrimento), seguita da un distacco forzato e da un ricongiungimento.

L’esperimento avveniva in questo modo: dietro uno specchio unidirezionale viene posizionata una videocamera, oppure sono presenti alcuni soggetti che hanno il compito di osservare le reazioni dei bambini coinvolti nell’esperimento:

  1. in una fase iniziale, madre e bambino sono impegnati a giocare insieme
  2. in seguito, dopo un certo lasso di tempo, la madre, con un pretesto, esce dalla stanza (questo è un espediente per procurare stress al bambino ed elicitare l’attivazione del sistema di accudimento): si osserva, in questo caso, la razione del bambino alla separazione (piange? Non reagisce? Protesta?)
  3. la madre rientra quindi nella stanza e si riavvicina al bambino: questo momento, chiamato ricongiungimento, viene osservato in relazione al tipo di risposta data dal bambino
  4. madre e bambino tornano infine al loro gioco

È importante osservare che la strange situation creava un forte stress nel bambino per una ragione precisa: l’obiettivo era valutare la tenuta inerente il “ricordo” della madre nella mente del bambino (ovvero quanto l’oggetto psichico “mamma”, per usare dei concetti psicoanalitici, fosse saldamente radicato nella mente del bambino, o quanto invece questa certezza interiore, una sorta di aspettativa, fosse labile, o addirittura assente, etc).

Si osservava dunque la reazione del bambino all’uscita della madre dalla stanza, la reazione al suo ritorno e, in tutto questo, la “qualità” del suo giocare (perchè questo? Alla base di questo vi è l’assunto che un bambino che non sente di avere una base sicura, non gioca, o gioca in modo “diverso”: è solo in presenza di una base sicura rappresentata nella mente, che è possibile per lui “dedicarsi” alla realtà intorno a sé; senza una base sicura, secondo Bowlby e in generale chiunque lavori in ambito di attaccamento, non può esservi una normale esplorazione).

Come reagivano questi bambini?

La maggior parte di loro, circa l’80%, reagivano protestando all’uscita della madre, tuttavia poi dedicandosi nuovamente al gioco, e gioendo al ritorno di questa: questo faceva supporre uno stile di attaccamento “sicuro” (stile di attaccamento di tipo B)nella mente del bambino, come un’aspettativa “preconscia” (quello che chiameremmo Modello Operativo Interno) che la madre, prima o poi, sarebbe tornata senza abbandonarlo: sarebbe stato “solo questione di tempo”.

Una percentuale di essi, tuttavia, rispondeva usando pattern definiti insicuri, con uno schema diverso, in questo modo:

  1. i bambini classificati come EVITANTI (stile di attaccamento di tipo A), sembravano giocare senza coinvolgere la madre inizialmente, non protestare alla separazione dalla madre, né gioire al suo ritorno, come si osserva nel video sotto riportato. Questo fece ragionare i ricercatori a proposito di ciò che accadeva nella mente del bimbo in risposta a questo cambio di situazione e questo stress potenzialmente alto (teniamo conto che nei video i bambini hanno poco più di un anno di età, quindi sono totalmente dipendenti dalla figura di attaccamento): sembrava che ci fosse una sorta di assenza di aspettative positive nella mente del bimbo a proposito di un rapporto che fosse durevole e centrato su una vicinanza fisica con la madre: in risposta a questo, sembrava esserci stato un disinvestimento relazionale iniziale messo in atto in modo difensivo, anticipatorio. In questi casi si osservava inoltre la presenza di un certo stile di accudimento della madre, definito “dismissing” (respingente), con atteggiamenti distanzianti e una certa freddezza emotiva: il bambino avrebbe messo in atto questa risposta evitante proprio per non dover più investire in questo rapporto “monco”, che non gli avrebbe consentito di ottenere risposte adeguate in senso relazionale, con la figura di attaccamento primaria.
    Vediamo in questo caso che il bambino ha come impegno centrale qualcosa che ha che fare col gioco e con attività pratiche, la sua attenzione non sembra essere rivolta al mantenimento del rapporto con la madre, che è disinvestito e non cercato (e questo lo si osserva molto bene nel video)
  2. i bambini invece considerati come AMBIVALENTI (stile di attaccamento di tipo c), giocavano con la madre nel periodo iniziale, quindi, al distacco, prorompevano in un pianto inconsolabile, e anche al ricongiungimento con la madre sembravano continuare a soffrire. Perchè questo? Consideriamo come ognuno di noi si faccia, nel tempo, una rappresentazione mentale delle relazioni più importanti in senso affettivo, e costruisca delle aspettative a riguardo di come queste si sviluppino e siano più o meno, solide, più o meno durevoli: in questo specifico caso, osservato in questo gruppo di bambini, il rapporto con la madre sembrava essere caratterizzato da una sorta di ansia continua relativa al fatto di dover riconfermare, riaccendere sempre, il rapporto con una madre sperimentata e sentita come un oggetto “intermittente”, poco presente in maniera stabile, sempre da ricercare. Questo stile di attaccamento richiede una riconferma continua delle figura di attaccamento: per questo è vissuto con ansia e viene appunto chiamato ansioso/ambivalente; la figura di riferimento non è sentita come presente in modo continuativo: la realtà esterna viene disinvestita e tutta l’energia psichica viene impiegata per ricercare attivamente il contatto con la figura di riferimento. Si osservi questo video:
  3. una terza modalità è quella definita (ma anni dopo, a partire da studi successivi) DISORGANIZZATA (stile di attaccamento di tipo D): in questo caso si osservavano modalità comportamentali del bambino aventi caratteristiche specifiche: il bambino sembrava rifuggire e insieme ricercare la figura d’attaccamento (cosa che avviene quando il bambino cresce in una ambiente traumatico in senso relazionale, temendo e contemporaneamente dipendendo dalla figura di attaccamento); in questo caso, nel bambino esistono due spinte opposte: mi avvicino alla mia figura di attaccamento, e insieme la rifuggo, perché la temo (quindi PAURA vs BISOGNO)

Queste tipologie di attaccamento, definiti appunto “stili”, sono state osservavate su campioni molto grandi di bambini, e hanno contributo a creare il filone teorico inerente appunto l’attaccamento, chiamato “teoria dell’attaccamento”.

Come colleghiamo la teoria sul trauma alla teoria dell’attaccamento? La genesi di un trauma complesso avverrebbe proprio all’interno di un attaccamento disorganizzato. Un trauma complesso è infatti un trauma protratto, che affonda le sue radici nei tempi lontani dell’infanzia. Come ben espresso in un libro che spesso qui citiamo, Sviluppi Traumatici, la presenza di una doppia spinta nel bambino (che si difende dalla persona che dovrebbe proteggerlo), creerebbe il terreno entro il quale il trauma si esprimerebbe durante la crescita. Il risultato? Un PTSD complex, appunto, che abbiamo qui definito e sintetizzato.

La conseguenza diretta del formarsi di questi stili relazionali, è il formarsi di “aspettative” verso le relazioni future, che ricalcheranno le modalità relazionali sperimentate nei primi 3 anni, che come sappiamo, contribuiscono grandemente alla formazione della personalità degli individui, come un “imprinting” relazionale che ci portiamo dietro dall’infanzia ma del quale possiamo divenire consapevoli, per promuovere cambiamenti o sperimentarci in relazioni “correttive”.

Per un approfondimento, consigliamo anche la lettura di questo articolo su Psychiatry On Line.


NOTA BENE: QUESTO CONTENUTO È UN ESTRATTO DAGLI INVII PATREON. Se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Formazione / psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

28 dicembre 2020

PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum)

 

di Raffaele Avico

Qualche tempo fa, ho avuto la possibilità di visitare la città/struttura psichiatrica di Geel, a pochi chilometri da Bruxelles, in Belgio. Geel è conosciuta in ambito psichiatrico perché ospita un progetto antico (che va avanti da centinaia di anni) di inserimento di malati psichiatrici all’interno di famiglie cosiddette normali, chiamate “foster families”.

Sceso dal treno a Geel, chiedo consiglio a un passante a riguardo del Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum, dato che su Internet è pubblicizzato poco e si trova altrettanto poco materiale foto/video a riguardo. Vengo indirizzato verso una struttura poco distante dal centro (cosa di per sè inusuale, dato che soprattutto in passato agli ospedali psichiatrici veniva destinata una collocazione al di fuori del centro abitato per ragioni di sicurezza/igiene sociale), chiamata dal passante “Sano Clinic”.

La raggiungo e mi trovo immerso in un vero e proprio villaggio collegato da sentieri interni e caratterizzato dalla presenza di case indipendenti, strutture cubiche di legno con grandi finestre da cui si vedono gli interni ed edifici più simili ai moderni ospedali. Faccio una prima ricognizione e noto che, visti dall’esterno, gli ambienti interni sono puliti e arredati in modo semplice; osservo inoltre la presenza di pazienti di varie età in locali diversi.

In prossimità di una delle strutture noto la presenza di camere singole in cui vedo alcuni degenti intenti a compiere attività quotidiane: fin qui niente di particolarmente nuovo, eccezion fatta per il grado di pulizia e ordine dei locali, che non sono abituato a vedere in Italia.

Noto infine pazienti che lavorano nelle aree verdi circostanti le case; ci sono anche laboratori di falegnameria molto organizzati (con macchinari funzionanti, etc.) in cui presumo vengano fatte attività di preparazione al lavoro, o in cui vengano insegnate attività artigianali.

Cerco qualcuno a cui chiedere maggiori informazioni e vengo indirizzato ad una persona che si trova in un altro edificio: qui entro e trovo un help-desk con una ragazza a cui chiedo, se possibile, di poter avere alcune informazioni in più a riguardo del progetto. Dopo avermi fatto attendere alcuni minuti, la receptionist mi indirizza a una terza persona che a sua detta mi concederà mezz’ora per illustrarmi le caratteristiche principali del progetto.

Qui mi accoglie il Dott. Wilfried Bogaerts, psicoterapeuta della clinica, che mi conduce nel suo studio e con cui avrò al fortuna di poter intrattenere un colloquio vero e proprio a riguardo del progetto di Geel. Al mio presentarmi e raccontando della situazione attuale della psichiatria italiana, di ciò che faccio e della città da cui provengo (Torino), mi stupisco nel constatare che il terapeuta sia a conoscenza del progetto I.E.S.A., di fatto una copia del progetto belga che mi trovo a visitare, attivato sul territorio dell’ASLTO3, e che conosca addirittura il nome dello psicologo che per primo lo importò nel nostro Paese (Dott. Aluffi).

Gli porgo delle domande specifiche a riguardo del progetto e si dimostra molto disponibile a spiegarmi in che modo il progetto si è evoluto nel tempo.

Le risposte da lui datemi potrebbero essere sintetizzate come segue:

  • il progetto di Geel è antichissimo: la leggenda narra che già dal 1300 a Geel fosse sorta una comunità di accoglienza per malati mentali (in seguito a un evento scatenante), e che nel tempo il tutto avesse assunto proporzioni sempre più importanti fino ad arrivare, alla fine dell’800, a contare un totale di 3000 malati psichici ospiti delle famiglie del paese, che contava in tutto 20000 persone. 3000 pazienti psichiatrici per 20000 persone: un numero elevatissimo. Il Dott. Bogaerts mi racconta di come all’inizio il progetto fosse stato spinto e promosso dai preti e dagli organi clericali del luogo (Wikipedia cita il caso del padre di Vincent Van Gogh, che in una lettera al fratello di Vincent Theo, esprime il suo desiderio di mandare Vincent a Geel affinché venga preso in carico dalla comunità di accoglienza)
  • con il progressivo affermarsi della scienza psichiatrica la gestione della malattia mentale migra entro il dominio della scienza medica, ma la modalità rimane sempre la stessa: le famiglie del paese accolgono i malati mentali introducendoli a uno stile di vita più “normalizzato” e famigliare
  • nel tempo il numero dei pazienti si abbassa e il servizio viene organizzato in modo più strutturato: al momento attuale a Geel si contano 300 pazienti ospitati dentro 300 famiglie, con gradi diversi di autonomia e con diagnosi diverse

Mi spiega quindi le tappe principali della presa in carico di un paziente all’interno del progetto:

  • i pazienti vengono in un primo momento presi in carico dalla struttura centrale (l’ospedale/villaggio in cui mi trovo) e in un secondo momento, se e quando ritenuti idonei, vengono indirizzati alla “foster family” che si è resa disponile all’accoglienza. Qui la persona viene inserita/o e si struttura per lei/lui un percorso di inserimento con grandi diversi di autonomia. Il dott. Bogaerts mi spiega come il grado di autonomia e la quantità di tempo di permanenza settimanale all’interno della famiglia, varino da caso a caso: molto dipende dalla gravità dei sintomi del paziente e da quanto a questo/a giovi il permanere all’interno di un contesto strettamente famigliare. Non per tutti, mi spiega infatti, sembra essere d’aiuto l’essere circondati da un ambiente ristretto come quello famigliare: alcuni tipi di pazienti lo patiscono, sembrano necessitare di più spazio e meno controllo
  • a proposito di questo, viene creato un profilo personalizzato per ogni paziente, a seconda anche di quali siano i mezzi della “foster family” ospitante: esistono infatti famiglie che ricevono in casa il paziente introducendolo/a negli spazi di vita comuni a tutti i membri (camere da letto, cucina, etc.), altre che invece hanno costruito una dependance in un cui ricevere l’ospite, concedendogli quindi maggiori autonomie nel muoversi “in famiglia”
  • è variabile inoltre il numero di giorni che il paziente dovrà passare con la famiglia: alcuni vi trascorrono solo una parte della settimana, dedicando gli altri giorni alla famiglia di origine (quando presente) o permanendo all’interno della struttura “madre”; altri potranno trascorrervi anche solo due giorni a settimana, in una sorta di affidamento (diurno e notturno insieme)
  • alla mia domanda sui quadri diagnostici presenti all’interno del progetto, il Dott. Bogaerts si dimostra totalmente indifferente alla necessità di categorizzare i disturbi del soggetto, facendomi osservare come a suo modo di vedere sia più una necessità del curante – quella di parlare di una specifica categoria diagnostica- che non del paziente. Parole come schizofrenia, disturbo dello spettro autistico, etc., perdono di senso di fronte a un progetto di reinserimento sociale che mantenga uno sguardo particolareggiato e ritagliato intorno alla personalità del paziente. Questo non esclude tuttavia che al paziente sia assegnato un piano di cura e di reinserimento che tenga conto della sue difficoltà e necessità
  • Infine, il Dott. Bogaerts mi spiega di come all’interno del progetto siano presenti anche alcuni bambini affidati a famiglie ospitanti (al momento attuale, circa una decina), e mi dà un’idea di quali possano essere i futuri sviluppi del progetto (la sua diffusione anche ai territori circostanti, e l’aumento del numero di pazienti presi in carico)

ALCUNE RIFLESSIONI

Quello che mi colpisce è innanzitutto l’apertura all’esterno del progetto: la facilità che ho trovato nell’ottenere un colloquio con un terapeuta in servizio all’interno della struttura, la distanza ravvicinata dei luoghi di cura con il centro cittadino e la visibilità in sé data ai pazienti, non nascosti/negletti ma esposti e osservabili.

É chiaro come il progetto sposi un’ideologia clinica fortemente orientata: si tratta cioè di cambiare la percezione che la società ha della malattia mentale, allargando la coscienza collettiva (in modo che essa possa abbracciare -contemplandola- l’esistenza e la natura della patologia psichiatrica) e di ridurre lo stigma nei confronti del malato mentale.

Inoltre si dà spazio e ci si concentra sulle risorse residue del paziente (sempre esistenti, come ci ricorda Vigotskij): questo avviene affidandogli responsabilità e autonomie reali perché calate nel contesto del territorio (e non create artificialmente nella bolla di una struttura chiusa e autarchica). Si fa cioè un lavoro di empowerment e di assegnazione di competenze civili a pazienti che di solito se ne vedono progressivamente, e quasi inesorabilmente, deprivati (chi lavora in ambito di salute mentale osserva questo fenomeno tutti i giorni).

Questo livello di intervento (territoriale/di reinserimento) viene ovviamente integrato a un approccio farmacologico e psicoterapeutico rendendo più “completo” e integrato, in un certo senso, l’approccio al sintomo e alle difficoltà del paziente, con risultati migliori in termini di qualità di vita e integrità psichica.

Colpisce poi la poca risonanza data a un fenomeno del genere in Italia (incluso il progetto IESA), segno di come avanguardie cliniche simili necessitino di essere spinte e copiate da modelli come quello di Geel, e maggiormente diffuse.

In Italia il modello di Geel è stato per primo adottato a Collegno (Torino) da parte del Dott. Aluffi e dagli operatori dell’ASLTO3 ; esiste inoltre una piccola realtà nel modenese chiamata “Rosa Bianca” e altre Asl che sul territorio italiano si sono mobilitate in questa direzione.

Il servizio IESA (acronimo con cui è stato chiamato il progetto, che sta per “Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”) permette di pagare le famiglie ospitanti: sul territorio di Torino alla “foster familiy” viene elargito un bonus di 1100 euro mensili -con variazioni-, che saranno in ogni caso meno rispetto a quanto costerebbe allo Stato collocare il paziente all’interno di una struttura riabilitativa.

Seguendo questo disegno di “politica clinica”, è facile osservare come possano essere avvicinati due bacini di utenza che necessitano -entrambi- di un supporto: la famiglia ospitante, che si avvantaggia di un apporto affettivo -ma anche economico- extra, e l’utente psichiatrico che in essa trova un nuovo contesto di crescita personale e di presenza affettiva; il tutto coordinato da operatori preposti e formati al progetto.

APPROFONDIMENTI

  • il sito del centro

 

Article by admin / Editoriali / psicologia, psicotraumatologia, raffaeleavico

18 dicembre 2020

STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI

di Raffaele Avico

Con questo articolo ci proponiamo di approfondire un tema centrale in psicotraumatologia: la stabilizzazione. 

La stabilizzazione è il primo e centrale passo da farsi con un soggetto che sia colpito da sindrome post traumatica: gli o le consentirà di accedere al cuore della terapia (l’elaborazione delle memorie); in assenza di stabilizzazione dei sintomi più invalidanti, non sarà possibile accedere ai contenuti più pesanti, soprattutto per via delle ripercussioni somatiche dell’accesso alle memorie traumatiche stesse. 

Il lavoro di Maria Puliatti, in questo senso è -in Italia- fondamentale. Useremo in questo articolo, come fonti, il libro La psicotraumatologia nella pratica clinica e un corso della stessa Puliatti sulla stabilizzazione. Su questo corso abbiamo fatto un podcast in area Patreon, che di fatto lo riassume, aggiungendo alcuni aspetti sempre inerenti la stabilizzazione.

La stabilizzazione dei sintomi post traumatici può essere svolta usando 3 modalità principali:

  1. TIPO A: approccio farmacologico
  2. TIPO B: approccio relazionale/interpersonale
  3. TIPO C: approccio autonomo/regolativo

L’approccio farmacologico è di primaria importanza nei casi più complessi (approfondito qui in area Patreon).

Per approccio relazionale, intendiamo il ricorso a espedienti totalmente interpersonali per regolare stati profondamente disturbanti: per esempio ricercare contatto fisico, cercare compagnia quando in presenza di sintomi invalidanti, e in generale qualunque cosa che contempli la presenza dell’altro. Inoltre, l’approccio relazionale va inteso anche in un secondo senso. La capacità di stabilizzarsi passa anche, per il soggetto, dalla capacità di ri-stabilire confini interpersonali appropriati. Saper mettere dei limiti alle richieste da parte di altri, sapere usare il “NO” in senso interpersonale, consente all’individuo di meglio rispettare le esigenze personali più intime in termini psicologici, aiutandosi nella regolazione dei propri sintomi. La stabilizzazione passa anche da questi aspetti: quando infatti non sia in grado di proteggere i confini interpersonali, la presenza veemente dell’altro e il rischio di calpestare i propri bisogni porterà il soggetto a sentirsi sovraccarico e affaticato, in preda a rabbia espulsiva, cosa che rende la stabilizzazione più complicata e difficoltosa.

Qui approfondiremo tuttavia l’approccio autonomo/regolativo, da “passare” al paziente in modo che possa auto-regolarsi, gestendo così la meglio i suoi sintomi.

Gli strumenti centrali di stabilizzazione di tipo C (approccio autonomo/regolativo), sono 5:

  1. psicoeducazione
  2. mindfulness
  3. esercizio di riorientamento
  4. centratura e grounding
  5. respiro

La psicoeducazione, in questo senso, è il primo punto. Alcuni concetti da trasmettere hanno a che fare con rudimenti di neuroanatomia: è importante che il soggetto sappia a grandi linee come funziona il suo sistema nervoso autonomo, quali siano le reazioni fisiche ad esso collegate; è inoltre importante conoscere la finestra di tolleranza. La regolazione del tono neurofisiologico è uno degli aspetti centrali del lavoro sul trauma.

L’obiettivo degli esercizi di riorientamento e grounding, è riportare il soggetto al qui ed ora, laddove sia presente una tendenza al detachment. Per detachment intendiamo uno scollamento dal momento presente, un’alterazione della coscienza a scopo difensivo: è una delle forme della dissociazione. Giovanni Liotti sostenne che il detachment corrispondesse a una fase transitoria della coscienza, uno stato alterato in grado di segnalare lo shifting tra parti dissociate di sè. Trovarsi dunque in uno stato di detachment, secondo Liotti corrisponde al sopraggiungere di una parte di sè rimasta fino a quel momento silente, ora ri-evocata, in grado con il suo accesso di modificare lo stato di coscienza di un individuo poichè entrata in conflitto con la parte fino a quel momento “presente”.

Per tornare al momento presente, dunque, esistono alcune risorse di grounding e di centratura. Vediamone alcune da un estratto -a cura di Davide Boraso- dal volume PTSD:che fare? 

Risorse di centratura (centering)

Questi esercizi ci aiutano a recuperare equilibrio e connessione con noi stessi quando siamo in difficoltà, ci sentiamo senza punti di appoggio o riferimenti “emotivi”. Essere centrati è un’abilità che si può sviluppare ed utilizzare efficacemente: le risorse somatiche di centratura implicano l’osservare e il percepire dentro di sé il centro di gravità del corpo, posto circa 10 cm al di sotto dell’ombelico. Contattare questa zona può aiutare a riconnettersi con il proprio baricentro somatico; ciò può essere fatto ad esempio ponendo le mani sul basso ventre e osservando consapevolmente le sensazioni che si generano dal contatto delle mani sulla pancia. Un’altra zona particolarmente sensibile ai fini della centratura è quella del petto: si possono porre entrambe le mani esercitando una leggera pressione sul petto vicino al cuore notando che effetto questo movimento produca, oppure porre una mano sul petto e una sulla pancia osservando le sensazioni sperimentate. A volte il tocco della mano, anche se è la propria, può essere vissuto con disagio: in questo caso si potranno utilizzare una pallina di gomma per esercitare una leggera pressione nei punti citati, un cuscino oppure un oggetto morbido e soffice vissuto positivamente. 

Un altro efficace esercizio di centratura consiste nel portare l’attenzione consapevole alla parte posteriore del proprio corpo. 

Ad esempio si può suggerire al paziente di toccare o massaggiare la schiena, appoggiarla e premere delicatamente contro una sedia o un muro, tentare un movimento ondulatorio della schiena in avanti e indietro, oppure lateralmente; gli si può consigliare di farsi una doccia sentendo l’effetto dell’acqua sulla schiena, usare una spazzola o uno strumento per grattarla dolcemente, oppure camminare all’indietro lentamente in un posto tranquillo. É fondamentale che il paziente possa provare più azioni possibili in modo che sia lui a individuare ciò che può farlo stare meglio: è altresì utile che memorizzi o si annoti gli effetti di questi tentativi in modo che tutto ciò che emerge possa essere motivo di riflessione con il terapeuta..

Esercizi di radicamento (grounding)

Questi esercizi permettono di sperimentare un maggiore senso di“presenza” e di permanenza nel momento presente. Per fare un esempio, è utile chiedere al paziente di concentrarsi sulle sensazioni di contatto dei propri piedi con il pavimento e di notare quale effetto questo “sentire” produca, oppure della schiena a contatto con la sedia, far toccare con le mani una parete o qualcosa di stabile e sentire il senso di stabilità e il radicamento conferito dal percepire il muro o il pavimento.

Esempio di esercizio N. 1

Sperimentare con il paziente, da posizione seduta, la sensazione provocata dal tenere i piedi ben appoggiati a terra,aderenti al terreno. Si può suggerire al paziente di spingere con un po’ di forza prima un piede, poi l’altro e in seguito insieme i piedi verso terra, coinvolgendo cosce e glutei. Si chiede al paziente di notare che sensazioni provi nei piedi, nelle gambe,lungo la colonna vertebrale e il resto del corpo. L’esercizio va eseguito fino a percepire sensazioni nelle gambe e senso di radicamento.

Esempio di esercizio N. 2

Un altro esercizio che può aiutare a regolare l’arousal e dare senso di radicamento consiste nel massaggiare gambe e piedi.Da seduti (meglio se a terra) si stringono e si massaggiano gambe e piedi: è importante avere un po’ di tempo a disposizione e mantenere un atteggiamento curioso verso l’esperienza, per raccogliere più informazioni possibile: vanno eseguite pressioni più intense e più leggere massaggiando tutte le dita del piede, lo spazio tra le dita, il dorso e il tallone,le caviglie, i polpacci, le ginocchia e le cosce, per poi fare il percorso inverso e riscendere fino a terminare nuovamente con i piedi. Se dovessero comparire dei pensieri giudicanti, è opportuno lasciarli andare tornando a concentrarsi sulle sensazioni del corpo

Come si osserva, questi semplici esercizi possono essere usati dal paziente, in autonomia, per “atterrare” sulla terra quando si accorgesse di essere in una condizione mentale di distacco. Va ricordato che questi esercizi rappresentano un tampone, uno strumento sintomatico necessario per aiutare il paziente nei momenti di difficoltà: non risolvono il problema alla radice nè riusciranno a estirparlo; sono da considerare un primo passaggio per il lavoro con il post-trauma.

Questi esercizi possono essere usati dal paziente in modo autonomo, anche al di fuori del contesto della psicoterapia: vengono per questo definiti “risorse”. 

La stabilizzazione è la prima delle tre fasi che compongono il modello trifasico. Una volta stabilizzati i sintomi, passeremo con il paziente alla fase dell’elaborazione delle memorie somatiche per poi procedere verso una migliore integrazione.

Sul respiro, abbiamo qui fatto un approfondimento. Le tecniche sul respiro, in generale, rappresentano un argomento noto e ben esplorato. Assolvono a una duplice funzione: ri-centrano il paziente portando la sua attenzione al momento presente, e inducono una modificazione dello stato di regolazione neurofisiologica (per esempio, eseguire cicli di respirazione alternata con inspirazioni corte ed espirazioni lunghe, produce un effetto calmante -si veda l’approfondimento prima citato).

Ulteriori risorse di stabilizzazione, ma in inglese, sono state messe a disposizione in modo gratuito dall’ESTD: è possibile recuperarle qui (12 video in inglese); per il generico controllo e gestione dello stress, si veda anche questa guida illustrata erogata dall’OMS (disponibile anche in italiano).


NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Formazione / psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

14 dicembre 2020

Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti


di Raffaele Avico

Questa intervista ha lo scopo di chiarire alcuni aspetti della terapia del disturbo ossessivo compulsivo. Soffrire di DOC vuol dire essere intrappolati in pensieri ricorrenti, accompagnati o meno da comportamenti percepiti come compulsivi (non dipendenti dalla volontà). Il DOC è uno dei disturbi che più frequentemente si accompagnano al senso di “fallimento della volontà”: chi ne soffre è spesso “manipolato” dal suo stesso disturbo.

Tra l’altro il disturbo può prendere forme differenti: lo abbiamo approfondito estesamente qui.

In questa intervista fatta ad Andrea Vallarino e Luca Proietti, abbiamo cercato di approfondire alcuni aspetti della psicoterapia del DOC, e in particolare della psicoterapia a orientamento breve-strategico.

Alcuni punti toccati nell’intervista riguardano:

  1. la logica di funzionamento del DOC (come si esprime, seguendo quali percorsi di pensiero)
  2. le credenze che “puntellano” il DOC (per esempio un aspetto ricorrente nel DOC è l’iper-responsabilità su molteplici aspetti del mondo; oppure, esistono quote di pensiero magico che portano il soggetto a ritenere che pensando una cosa quella cosa accadrà, oppure di desiderare una certa cosa solo perchè la si pensa)
  3. l’uso di stratagemmi funzionali a far acquisire maggiore controllo sul sintomo da parte del paziente (per esempio il decidere insieme quando e in che modo violare la “legge” del sintomo)
  4. la personalità del terapeuta; Vallarino qui cita l’idea che il terapeuta debba essere percepito dal paziente come qualcuno che riesca a mettere in atto un controllo “più evoluto” di lui/lei; uno dei temi centrali su cui si imposta il DOC, è infatti il controllo.
  5. DOC e farmaci

Tendenzialmente emerge l’idea che la battaglia contro il DOC si giochi su di un piano logico: il paziente riuscirà ad abbandonare il sintomo solo raggiungendo una forma differente di pensiero, pur mantenendo il senso di controllo.

I teorici di Palo Alto (come Watzlawick, autore di Change, qui recensito) hanno compreso e approfondito la strutturazione logica della psicologia umana, arrivando a creare un approccio terapeutico al confine tra il maieutico e il suggestivo, nell’idea che il problema (in questo caso del disturbo ossessivo compulsivo, ma anche di altri disturbi) spesso poggi su “premesse” logiche errate e che, una volta risolte quelle, il disturbo costruito su di esse possa migliorare o risolversi.

Qui l’intervista:



Su questo blog, alcuni approfondimenti:

  • Farmacoterapia del DOC dal presente al futuro (Luca Proietti)
  • Recensione di La mente ossessiva

Per approfondire (libri):

  1. La mente ossessiva
  2. Cogito Ergo Soffro
  3. Avrò chiuso la porta di casa? (più divulgativo e breve)

NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

Article by admin / Formazione / lucaproietti, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, raffaeleavico

  • 1
  • 2
  • 3
  • …
  • 14
  • Next Page »

Categorie

  • Aggiornamento (43)
  • Editoriali (28)
  • Formazione (113)
  • Generale (17)
  • podcast (4)
  • Recensioni (27)

I NOSTRI ARTICOLI!

  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1)
  • FLOW: una definizione
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD)
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION?
  • PSICOFARMACOLOGIA STRATEGICA: L’UTILIZZO DEGLI PSICOFARMACI IN PSICOTERAPIA (FORMAZIONE ONLINE)
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA)
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum)
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP
  • AREA PATREON DEL BLOG: UNO SGUARDO AI CONTENUTI
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO)
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm)
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING)
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al.
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura”
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza
  • PROGETTO PATREON DEL FOGLIO PSICHIATRICO: I REWARD DI LUGLIO 2020 (ARTICOLI, VIDEO, PODCAST)
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF)
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA
  • MDMA PER IL TRAUMA: VERSO LA FASE 3 DELLA SPERIMENTAZIONE
  • SONNO, STRESS E TRAUMA
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.”
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI
  • IL FOGLIO PSICHIATRICO SU PATREON: FORMAZIONE IN AMBITO DI TRAUMA PSICHICO
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI
  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE”
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI!
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA?
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF!
  • ANTONELLO CORREALE: IL QUADRO BORDERLINE IN PUNTI
  • 10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.2
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE: RISTRETTI.IT
  • NELLE CORNA DEL BUE LUNARE: IL LAVORO DI LIDIA DUTTO
  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.1
  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO”: EP.1 – FERNANDO ESPI FORCEN
  • NERVATURE TRAUMATICHE E PREDISPOSIZIONE AL PTSD
  • RIMOZIONE E DISSOCIAZIONE: FREUD E PIERRE JANET
  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM
  • LA CULTURA DELL’INDAGINE: IL MASTER IN TERAPIA DI COMUNITÀ DEL PORTO
  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA”
  • INTRODUZIONE AL MODELLO ORGANODINAMICO DI HENRY EY
  • IL SIGNORE DELLE MOSCHE letto oggi
  • PTSD E SLOW-BREATHING: RESPIRARE PER DOMINARE
  • UNA DEFINIZIONE DI “TRAUMA DA ATTACCAMENTO”
  • NO CASI, NO SUPERVISIONE: GRUPPI A TORINO
  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA
  • NOMINARE PER DOMINARE: L’AFFECT LABELING
  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD
  • CAUSE E CONSEGUENZE DELLO STIGMA
  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE?
  • LA TRASMISSIONE PER VIA GENETICA DEL PTSD: LO STATO DELL’ARTE
  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA?
  • THE MASTER AND HIS EMISSARY
  • PTSD: QUANDO LA MINACCIA É INTROIETTATA
  • LA PSICOTERAPIA COME LABORATORIO IDENTITARIO
  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI?
  • STRANGER DREAMS: STORIE DI DEMONI, STREGHE E RAPIMENTI ALIENI – Il fenomeno della paralisi del sonno nella cultura popolare
  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA
  • Psicopatologia Generale e Disturbi Psicologici nel Trono di Spade
  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL DEFAULT MODE NETWORK
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI
  • SUL REHEARSAL
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI”
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?
  • R.D. HINSHELWOOD: DUE VIDEO DA UN CONVEGNO ORGANIZZATO DA “IL PORTO” DI MONCALIERI E DALLA RIVISTA PSICOTERAPIA E SCIENZE UMANE
  • EMDR = SLOW WAVE SLEEP? UNO STUDIO DI MARCO PAGANI
  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA
  • PSEUDOMEDICINA, DEMENZA E SALUTE CEREBRALE
  • CORRERE PER VIVERE: I BENEFICI DELL’ATTIVITÀ FISICA SULLA DEPRESSIONE
  • FARMACOTERAPIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (DOC) DAL PRESENTE AL FUTURO
  • INTERVISTA A GIOVANNI ABBATE DAGA. ALCUNI APPROFONDIMENTI SUI DCA
  • COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO
  • CONCETTI GENERALI SULLA TEORIA POLIVAGALE DI STEPHEN PORGES
  • UNO SGUARDO AL DISTURBO BIPOLARE
  • DEPRESSIONE, DEMENZA E PSEUDODEMENZA DEPRESSIVA
  • Il CORPO DISSIPA IL TRAUMA: ALCUNE OSSERVAZIONI DAL LAVORO DI PETER A. LEVINE
  • IL PTSD SOFFERTO DAGLI SCIMPANZÈ, COSA CI DICE SUL NOSTRO FUNZIONAMENTO?
  • QUANDO IL PROBLEMA È IL PASSATO, LA RICERCA DEI PERCHÈ NON AIUTA
  • PILLOLE DI MASTERY: DI CHE SI TRATTA?
  • C’È UN EFFETTO DEL BILINGUISMO SULL’ESORDIO DELLA DEMENZA?
  • IL GORGO di BEPPE FENOGLIO
  • VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?
  • DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION
  • ACTING OUT ED ENACTMENT: UN ESTRATTO DAL LIBRO RESISTENZA AL TRATTAMENTO E AUTORITÀ DEL PAZIENTE – AUSTEN RIGGS CENTER
  • CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK
  • NON È ANORESSIA, NON È BULIMIA: È VOMITING
  • PATRICIA CRITTENDEN: UN APPROFONDIMENTO
  • UDITORI DI VOCI: VIDEO ESPLICATIVI
  • IMPUTABILITÀ: DA UN TESTO DI VITTORINO ANDREOLI
  • OLTRE IL DSM: LA TASSONOMIA GERARCHICA DELLA PSICOPATOLOGIA. DI COSA SI TRATTA?
  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE
  • IL PTSD IN VIDEO
  • PILLOLE DI EMPOWERMENT
  • SALIENZA ABERRANTE: UN MODELLO DI LETTURA DEGLI ESORDI PSICOTICI
  • COME NASCE LA RAPPRESENTAZIONE DI SÈ? UN APPROFONDIMENTO
  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER?
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • COSA RESTA DELLA LEGGE 180?
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • “The Perspectives of Psychiatry” di McHugh e Slavney: commento in due parti su come superare le fazioni in psichiatria.
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • COSA VUOL DIRE FARE PSICOTERAPIA?
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • IL DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITÀ: ALCUNE RIFLESSIONI
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • (LA CONTROVERSIA A PROPOSITO DELL’USO DI) CANNABIS: cosa sappiamo?
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
  • Home
  • RAFFAELE AVICO
  • PODCAST!
  • #TRAUMA
  • FONDATORI E COLLABORATORI
  • PSICOTERAPIA ONLINE
  • DIVENTA PATREON
  • IN VENDITA

Copyright © 2021 · Education Pro Theme on Genesis Framework · WordPress · Log in

DIVENTA PATREON QUI: logo
  • Home
  • RAFFAELE AVICO
  • PODCAST!
  • #TRAUMA
  • FONDATORI E COLLABORATORI
  • PSICOTERAPIA ONLINE
  • DIVENTA PATREON
  • IN VENDITA