di Raffaele Avico
Abbiamo intervistato Lucia Tombolini, psichiatra e docente, storica collaboratrice di Giovanni Liotti, a proposito dei Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI).
Quello che ne è emerso è un ottimo dialogo per chi voglia meglio comprendere questa “lente” interpretativa su diversi fenomeni clinici.
L’intervista è raggiungibile a questo link.
La Teoria dei Sistemi Motivazionali è potenzialmente in grado di “superare” (o almeno di affiancare) la prospettiva pulsionale che Freud aveva pensato come “basale” nel funzionamento psichico.
Per Freud le pulsioni erano “rappresentanti” del corpo entro il “reame” della mente, fenomeni psicologici direttamente derivanti dal corpo, elementi di “confine” tra il somatico e la psiche: la psicologia di un individuo sarebbe stata, per Freud, “determinata” dalla forma della loro “organizzazione”.
Parliamo invece, con i Sistemi Motivazionali, di un insieme di comportamenti a base innata che si sviluppano fin dalla vita intrauterina, “regali” dell’evoluzione in grado di muovere il soggetto a comportamenti e relazioni, fin dalla sua nascita. Per una introduzione generale alla Teoria dei Sistemi Motivazionali interpersonali, si veda qui.
Integriamo l’intervista a Lucia Tobolini con un riferimento al tema delle emozioni, viste alla luce della teoria degli SMI.
Le emozioni potrebbero essere lette, usando questa lente, come “segnali” di attivazione di particolari SMI. Quando c’è un’emozione che si “staglia” dal fondo, è utile per uno psicoterapeuta chiedersi: “qual è il Sistema Motivazionale Interpersonale attivato in relazione ad essa”? Quando infatti questo stesso SMI avesse trovato un suo “compimento”, spesso osserveremmo un risolversi dell’emozione stessa, come se le emozioni avessero una “funzione di segnale” per qualcosa riguardante i Sistemi Motivazionali. Pensiamo per esempio all’ansia da separazione/paura nei bambini piccoli, che si attiva in concomitanza con la minaccia di un attaccamento interrotto, e si risolve quando l’attaccamento è (anche solo “vitualmente”) rispristinato: in questo caso l’emozione è un segnale, un segno dell’atteviazione di un particolare SMI. E la stessa cosa vale anche per le altre emozioni.
Un approfodimento su questi temi lo troviamo proprio sul prima citato “L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali” a cura di Liotti, Fassone e Montcelli: ne riportiamo qui di seguito un estratto, incentrato proprio sul tema emozioni e SMI (da pag. 162 a pag. 170), scritto da Giovanni Liotti -come sempre geniale.
—————
Sistemi motivazionali e psicopatologia dei disturbi emozionali
Per illustrare il contributo della TEM alla comprensione delle emozioni che caratterizzano la psicopatologia, ci soffermeremo sui casi in cui l’emozione appare sregolata per intensità e frequenza, esaminando i casi dell’ansia, della tristezza, della colpa, della vergogna e della collera.
[…]
Ansia
Se si esamina la più comune emozione che compare all’interno dei disturbi psicopatologici, l’ansia, alla luce della Teoria Evoluzionistica della Motivazione, si nota che la sua definizione elementare e classica – paura senza oggetto – appare discutibile. La TEM, infatti, induce a riconoscere sempre l’oggetto della paura in un ostacolo o una minaccia al conseguimento della meta di uno dei sistemi motivazionali. Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine. Pure riconducibili al sistema di attaccamento sono l’ansia generalizzata e l’ansia ipocondriaca, quando i problema cruciale sembra essere non soltanto la rappresentazione di un rischio (di un qualsiasi danno oppure di una malattia) ma anche o soprattutto la resistenza ad accettare il conforto che figure d’attaccamento (familiari, amici, medici) tentano di offrire nella forma di rassicurazione circa l’inesistenza o l’improbabilità del rischio temuto. Ben diverso è il caso dell’ansia sociale, dove l’ostacolo (l’oggetto della paura riguarda il conseguimento della meta di rango caratterizzante l’attivazione del sistema competitivo (agonistico). L’ansia sociale dovrebbe dunque essere meglio definita come paura di subire un giudizio negativo che compromette l’aspirazione a mantenere o incrementare il rango sociale percepito. Altri tipi di paura abnorme, come quelli che caratterizzano i disturbi correlati allo stress post-traumatico (fra i quali molti esperti considerano anche i disturbi borderline e dissociativi: Liotti, Farina, 2011) e quelli che possono apparire nel corso dei deliri di persecuzione, sono riconducibili soprattutto alle operazioni del sistema di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), non principalmente ai sistemi di attaccamento e di rango.
Non è infrequente che alcuni tipi di ansia abbiano come oggetto ostacoli al conseguimento delle mete di due o più sistemi motivazionali. Per esempio, il panico è non di rado riconducibile all’esperienza di paura senza soluzione tipica dell’attaccamento disorganizzato (Cassidy, Mohr, 2001). Nell’attaccamento disorganizzato esiste una tensione abnorme fra i sistemi di attaccamento e di difesa per la sopravvivenza (vedi capitolo 3), tale che coesistono paura di danneggiamento da parte della figura di attaccamento e paura di perderne la vicinanza protettiva così che non è possibile né cercare prossimità né fuggire (Liotti, Farina, 2011). Nel conflitto fra questi due sistemi motivazionali si apre la possibilità di gravi processi dissociativi, nei quali il sistema di difesa per la sopravvivenza contribuisce in particolare alla depersonalizzazione (Liotti, Farina, 2011).
Tristezza
I tre sistemi motivazionali chiamati in causa per comprendere i tipi più comuni di paura abnorme sono anche quelli più spesso coinvolti nelle diverse forme di dolorosa angoscia, tristezza e malinconia che compaiono in numerosi disturbi psicopatologici. Quando è coinvolto principalmente il sistema di attaccamento, la forma assunta dall’esperienza emozionale è quella della tristezza per la perdita, ben diversa anche fenomenologicamente dalla tristezza per la sconfitta o il fallimento, caratteristica dell’implicazione prevalente del sistema agonistico. Un’analisi attenta delle posture e dei resoconti dell’esperienza soggettiva permette poi di differenziare da queste due la forma di accasciamento emozionale legata al sistema di difesa per la sopravvivenza. Quest’ultima si palesa come sentimento diffuso ed estremo d’impotenza, riconducibile all’attivazione progressiva del nucleo dorsale del vago nel processo che conduce alla finta morte (feign death: vedi capitolo 1; vedi anche Porges, 2007 e Seligman, 1975).
É degno di nota che paura e tristezza (ansia e depressione se si preferisce la terminologia corrente in psicologia clinica e psichiatria) sono spesso associate fra loro con emozioni esperite in maniera abnorme (soprattutto collera etero- o autodiretta, vergogna e colpa) in diversi disturbi psicopatologici. La TEM permette di studiare queste associazioni di emozioni in ogni sindrome clinica a partire dall’ipotesi che esse siano coordinate dallo stesso sistema motivazionale e ne riflettano la tipica sequenza operativa. Per esempio, si può prevedere che la tristezza per la perdita si coniughi più facilmente al timoroso sentimento di vulnerabilità conseguente alla solitudine percepita (sistema di attaccamento) in un dato paziente, mentre la tristezza per sconfitta o fallimento sia più probabilmente legata, in un altro, alla paura del giudizio sociale negativo e alla vergogna (sistema agonistico).
Vergogna e colpa
Vergogna e colpa, che sono entrambe presenti in molti disturbi psicopatologici, sono state e sono ancora oggetto di importanti indagini e di controversie negli studi teorici ed empirici riguardanti la psicopatologia. È ben nota la divergenza fra le teorie psicoanalitiche classiche che attribuiscono un ruolo cruciale alla colpa seguendo la concezione freudiana del Super-lo, e la Psicologia del Sé (Kohut, 1971) che tende a considerare più importante la vergogna almeno nella genesi dei disturbi psicopatologici più gravi (per una sintesi recente degli argomenti di questa controversia, si può consultare il terzo capitolo del libro di Aron e Starr, 2013). Kohut (1971) considera la vergogna come un sentimento diffusivo che può espandersi a tutto il Sé annichilendolo, mentre la colpa è un sentimento più maturo che si manifesta in fasi più avanzate dello sviluppo della personalità, ed è conseguenza di singole contravvenzioni a specifiche proibizioni morali. Secondo Kohut (1971) le personalità narcisistiche non hanno sviluppato una struttura superegoica adeguata, e quindi non sperimentano sentimenti di colpa anche se possono descrivere le loro esperienze di vergogna in termini di elevati ideali morali. La fondamentale idea che la vergogna tende a essere sperimentata come pervasiva dell’esperienza di sé mentre la colpa è contestualizzabile nell’ambito di specifiche trasgressioni trova un corrispettivo nella discriminazione fra le due emozioni suggerita cal cognitivismo clinico: la vergogna si basa sulla convinzione (belief) di essere globalmente “sbagliati” o “fatti male”, mentre la colpa è basata sulla credenza di aver fatto qualcosa di male o di sbagliato.
La ricerca empirica sulle differenze fra vergogna e colpa sembra offrire sostegno alla tesi di Kohut: una meta-analisi di numerosi studi (Kim, Thibodeau, Jorgensen, 2011) dimostra che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna è significativamente superiore rispetto a quella con la colpa. Tuttavia, nello stesso studio meta-analitico sono presenti considerazioni riguardanti il rischio che un’inadeguata discriminazione concettuale fra vergogna e colpa renda vano il tentativo di indagare sia sul diverso ruolo patogeno delle due emozioni, sia sui processi mentali che le rendono abnormi per intensità, durata e contesto
di comparsa. Nell’articolo di Kim, Thibodeau e Jorgensen (2011) si legge che l’associazione dei sintomi depressivi con la vergogna cessa di essere significativamente diversa dall’associazione con la colpa quando si considerano due varianti di colpa disadattativa: la colpa causata da un esagerato senso di responsabilità per eventi incontrollabili, e la colpa generalizzata liberamente fluttuante (cioè non riferibile ad alcun contesto specifico). L’identificazione di diversi tipi di colpa crea problemi per la differenziazione fra vergogna e colpa negli studi empirici di psicopatologia, tanto più che sono state descritte, per lo più su basi cliniche, numerose varianti del sentimento di colpa: colpa edípica, colpa da separazione e slealtà, colpa del sopravvissuto, colpa da senso di responsabilità onnipotente e colpa maligna (self-hate guilt), colpa deontologica e colpa altruistica (definite in O’Connor, Berry, Weiss et al., 1997; Mancini, 2008). Il problema posto al ricercatore dalla difficoltà di discriminare fra la vergogna e alcune varianti della colpa può essere illustrato con un esempio. La colpa maligna e la colpa liberamente fluttuante potrebbero apparire difficilmente distinguibili dalla vergogna perché come quest’ultima sono emozioni diffusive che invadono ampiamente l’esperienza di sé e dunque, diversamente dalla colpa per trasgressioni a specifiche interdizioni morali, non sono facilmente contestualizzabili.
A nostro avviso, la TEM permette di discriminare sempre fra vergogna e colpa in modo particolarmente efficace, risolvendo il suddetto problema. Secondo la TEM, la vergogna è un’emozione tipica del sistema agonistico, anche se potrebbe manifestarsi nel sistema sessuale nella forma mitigata del pudore e, in forma estrema, nel sistema affiliativo come conseguenza dell’espulsione dal gruppo. La colpa, invece, non è tipica di alcun sistema motivazionale, e può manifestarsi in un buon numero di essi: nel sistema di accudimento (dove accompagna o segue il disattendere alle richieste di cura e stimola il rispondere), nel sistema cooperativo (dove frena la slealtà verso i partner con cui ci si è impegnati in un’impresa congiunta), nel meccanismo che inibisce la violenza intraspecifica (vedi la descrizione del MIV nel capitolo 3), e nel sistema affiliativo (dove scoraggia il persistere nella trasgressione alle norme del gruppo).
Nel normale funzionamento del sistema di attaccamento, la comparsa di colpa e vergogna non offrirebbe invece, almeno nei primi due anni di vita in cui il sistema è particolarmente attivo, alcun vantaggio evoluzionistico in termini di raggiungimento della meta adattativa. Per questa ragione, colpa e vergogna devono attendere la maturazione di sistemi diversi da quello di attaccamento per diventare facilmente osservabili nel bambino. Soltanto quando, durante il terzo anno di vita, si possono attivare, insieme a quello di attaccamento, altri sistemi motivazionali (nei quali colpa e vergogna rivelano le proprie finalità evoluzionisticamente adattative) le due emozioni si possono talora osservare, frammiste a quelle di attaccamento, durante le interazioni fra bambino e caregiver.
Il vantaggio adattativo della colpa è evidente: essa muove alla riconciliazione e dunque contribuisce a salvaguardare relazioni sociali dotate di alto valore evoluzionistico. Il valore evoluzionistico della vergogna può sembrare a prima vista meno evidente, ma diviene chiaro se si considera la dinamica dei segnali di sottomissione e di dominanza durante le contese per il rango sociale. Quando la sfida e l’aggressività reciproca fra due contendenti, che caratterizzano le prime fasi operative del sistema agonistico, cominciano a dimostrare la forza superiore di uno dei due, nell’altro si attiva un automatismo psicobiologico che inibisce il comportamento aggressivo. Questo automatismo è noto come subroutine di resa, o di sottomissione, del sistema agonistico. Nella subroutine di resa il tono muscolare, fino a quel momento molto alto per permettere le condotte aggressive, si riduce bruscamente. Il sangue, che era stato richiamato nei muscoli per nutrirli durante lo sforzo competitivo, defluisce rapidamente verso i visceri e soprattutto verso la cute, donde il rossore tipico della vergogna. L’andare verso l’antagonista a testa alta e schiena dritta, per colpirlo, si arresta in una sorta di accenno di fuga (fuga invertita, nella terminologia degli etologi) e si trasforma in uno dei possibili segnali di resa. Lo sconfitto evita lo sguardo del vincitore a segnalare che cessa di attaccarlo, china il capo e persino si prostra, oppure si getta sul dorso e alza nel vuoto gli arti, a mitare la posizione di una preda sul punto di essere uccisa. Allo stesso tempo anche il vincitore cessa l’attacco, e pur mantenendo la postura dell’agressione vincente (spalle alzate, mento in alto) rivolge nel vuoto la tensione aggressiva residua: può emettere, per farlo, una sorta di urlo di trionfo rivolto verso il cielo, può correre brevemente sul terreno dell’agone, o colpire con i pugni il proprio torace invece dell’avversario sconfitto, come fanno i gorilla. E questa la subroutine di trionfo, detta anche di dominanza, del sistema agonistico che viene spontaneo collegare, quando la osserviamo in un animale, a un’emozione simile all’orgoglio umano. La vergogna, invece, è l’emozione che altrettanto spontaneamente colleghiamo all’incipiente subroutine di resa che apre la strada ai segnali di sottomissione.
L’essenziale valore evoluzionistico legato alla capacità di formare gruppi sociali coesi dipende dunque anche dalla capacità di manifestare vergogna, avviando con i corrispondenti comportamenti la costruzione di gerarchie sociali primordiali basate su rapporti di dominan-za-subordinazione (Trower, Gilbert, 1989). Tali tipi di gruppo sociale sommano in sé i vantaggi dell’orientamento univoco (indicato dal do-minante) e dell’unione delle forze di molti. L’esistenza di gerarchie di rango riduce la conflittualità interna fra i membri del gruppo, e apre la strada all’evoluzione di forme diverse di gruppo sociale, meno rigidamente gerarchiche e più orientate alla collaborazione (vedi il tema del sistema di affiliazione umano nel capitolo 4).
La TEM permette dunque una chiara distinzione fra le emozioni di colpa e vergogna attraverso l’analisi degli scopi finali che l’individuo persegue nel momento del loro manitestarsi (rispettivamente, riparazione di una relazione per la colpa, e riconoscimento della maggiore forza o competenza di un altro membro del gruppo per la vergogna).
Quest’analisi è facilitata dall’osservazione dei comportamenti e dei fenomeni corporei che accompagnano le due emozioni: posture chine, evitamento dello sguardo diretto, lieve allontanamento dall’altro e rossore nel caso della vergogna; avvicinamento benevolo con postura eretta e sguardo rivolto all’altro nel caso della colpa.
Si potrebbe opinare che una tale scrupolosa discriminazione tra colpa e vergogna non è clinicamente indispensabile, argomentando che le due emozioni si manifestano spesso insieme in diversi disturbi psico-patologici, e sono riconducibili a percezioni negative di sé che hanno molti aspetti in comune. A queste argomentazioni, la TEM oppone solidi controargomenti. È vero che le percezioni di sé durante le manifestazioni congiunte di colpa e vergogna si sovrappongono e rendono difficile la discriminazione tre vedue emozioni, ma no os per ke rappresentazioni dell’altro, e quindi di sé-con-l’altro Nella colpa il Sè è rappresentato come responsabile di un danno che ha causato all’altro o alla relazione con l’altro, quindi come dotato di forze, competenze o risorse pari o superiori a quelle dell’altro, altrimenti non avrebbe potuto recargli danno. Nella vergogna, invece, la rappresentazione dell’altro è caratterizzata dalla riconosciuta superiorità, quanto meno sul piano etico, e la rappresentazione di sé da un’ inferiorità meritevole di giudizio morale negativo e persino di disprezzo. In altre parole, chi prova vergogna si sente inferiore e tendenzialmente impotente, mentre chi prova colpa si sente responsabile e abbastanza “forte” da poter-causare danno. Quanto poi al motivo per cui le due emozioni di colpa e vergogna e le due corrispondenti rappresentazioni tendono apparentemente a sovrapporsi, la TEM lo rintraccia nel confondersi quasi simultaneo di due contesti relazionali e motivazionali che però restano diversi fra loro. Per esempio, un paziente in psicoterapia che racconti di aver tradito qualcuno che ama, mentendogli, prova durante il racconto colpa verso la persona amata, e vergogna di fronte al giudizio negativo che si aspetta formarsi nella mente del terapeuta. E probabile che un terapeuta attento soprattutto alle dinamiche relazionali e motivazionali in cui è personalmente coinvolto durante lo scambio clinico noti soprattutto o soltanto la vergogna del paziente, e intervenga su quella. Un terapeuta portato a esplorare le narrazioni e le dinamiche intrapsichiche del paziente piuttosto che la relazione terapeutica in corso forse noterebbe, di fronte allo stesso racconto, soltanto la colpa. Un clinico che cerchi guida nella TEM noterebbe entrambe le emozioni, contestualizzate in due simultanee rappresentazioni di sé-con-l’altro: quella in corso e che coinvolge il terapeuta (dove affiora la vergogna), e quella con la persona amata e ingannata che il paziente sta rievocando (dove affiora la colpa). Il vantaggio clinico sta nella possibilità di esplorare, nella sequenza che appare più opportuna (di regola, prima la colpa e poi la più paralizzante vergogna), entrambi gli ambiti di esperienza e significato.
Collera
La collera compare normalmente nelle sequenze emozionali tipiche di diversi sistemi motivazionali. Nel sistema di attaccamento essa appare nella forma di protesta contro l’incipiente allontanamento della figura di attaccamento, ed è finalizzata a impedirlo. Nel sistema di accudimento il fine della collera è scoraggiare in modo rapido ed energico la persona che si vuole proteggere dal compiere azioni dannose o pericolose, come segnalato nello scritto di Bowiby (1984) di cui il capitolo 3 ha offerto una sintesi. La collera appare nel sistema agonistico durante le prime fasi della contesa per il rango, e si manifesta come aggressività ritualizzata il cui scopo è ottenere la resa dell’an-
tagonista senza danneggiarlo seriamente (vedi i capitoli 1e 3). Una
forma primordiale e violenta di collera accompagna la fase di attacco del sistema di difesa per la sopravvivenza, dove l’aggressività non è ri-tualizzata ma volta a danneggiare o uccidere. E importante ricordare che l’aggressività, altrettanto distruttiva, del sistema predatorio non è accompagnata da collera (vedi capitolo 3). Infine, stati mentali e condotte alla cui genesi contribuiscono i sistemi motivazionali di ordine superiore, inducendo modificazioni nella collera e nell’aggressività che caratterizzano le operazioni di sistemi più arcaici, sono la gelosia, l’invidia e il sarcasmo.
La causa più frequente di manifestazioni abnormi per intensità e durata della collera eterodiretta è certamente il deficit, transitorio e contesto-dipendente ovvero più stabile, della funzione regolatrice esercitata dai sistemi motivazionali di ordine superiore su quelli evoluzionisticamente più antichi. Tale deficit può conseguire a variabili genetiche e temperamentali, ma probabilmente è più spesso conseguente a tensioni dinamiche abnormi fra sistemi motivazionali come quelle fra attaccamento e ditesa per la sopravvivenza che caratterizzano l’attaccamento disorganizzato (capitolo 3; Liotti, 2014a).
Più complessa è la genesi della collera rivolta verso se stessi. Per rivolgere verso di sé collera e aggressività, è anzitutto necessario che esista la capacità di un dialogo interiore a sostegno della coscienza di sé estesa nel tempo (Damasio, 2010), ovvero a sostegno della descrizione narrativa dell’identità personale. Secondo la TEM, in assenza di tale capacità (che ovviamente manca negli animali e non è sviluppata nei piccoli umani fino al terzo anno di vita) collera e aggressività so-no, per regola di adattamento darwiniano, sempre eterodirette. Data l’esistenza della capacità di dialogo interiore, particolari contesi interpersonali e specifici processi mentali devono intervenire nel corso dello sviluppo della personalità perché collera e aggressività possano essere rivolte verso di sé, rompendo la regola evoluzionistica che le vuole eterodirette. Alcune ipotesi sui contesti interpersonali e sui processi mentali capaci di dirigere su di sé collera e aggressività sono stare discusse nella parte finale del capitolo 3 (pp. 85-86).
COMMENTO
Liotti era un bowlbiano convinto e aveva in mente, pensando alla clinica, la Teoria dell’Attaccamento, sapeva di come i bambini esprimono emozioni a partire da “mandati” evoluzionistici, pre-cognitivi, assolutamente innati. Una parte del suo lavoro è stata incentrata sul comprendere come questi mandati si attivano e funzionano nel rapporto di un paziente con il suo terapeuta, o all’interno della vita di un bambino che poi diventa uomo. Pressoché tutti i comportamenti di un bambino possono essere letti a partire dalla lente “sistemi motivazionali”: i problemi insorgono quando questi mandati non trovano “soddisfazione“, o non sono “attivabili”.
Un noto test proiettivo riguardante i bambini in età prescolare, l’MCAST, permette di simulare delle situazioni critiche per osservare quanto e in che modo il bambino attivi i suoi sistemi motivazionali (in particolare il sistema di attaccamento), e come questi trovino il loro compimento.
Nella vita di un adulto, di fronte a situazioni di minaccia, o in altri numerosi frangenti, i Sistemi Motivazionali si attivano e cercano una loro meta: le emozioni ci raccontano di come questa “traiettoria”, questa teleologia, si sviluppi e trovi una sua chiusura.
La cosa importante da tenere in considerazione è che molte delle emozioni portate da un paziente durante una psicoterapia, possono essere rilette a partire da questa prospettiva.
Come sottolinea Liotti, per esempio, un attacco di panico o una forte ansia a riguardo del corpo potrebbero essere riletti come un sistema di attaccamento attivato che non trova un suo compimento (avevamo qui scritto a proposito di una lettura del panico come ansia da separazione estrema, di fronte a una minaccia di “rottura di un attaccamento”): non sarebbe tanto il problema in sé l’oggetto della minaccia, quanto il terrore relativo al percepirsi -in questo- isolati (cito testualmente Liotti: “Per esempio l’ansia da separazione, sintomo caratteristico di disturbi agorafobici e claustrofobici, è spesso riconducibile alla percezione cosciente o inconscia di un ostacolo al raggiungimento della meta del sistema di attaccamento (la vicinanza protettiva a una fonte di aiuto e conforto quando, per qualsiasi motivo, ci si senta vulnerabili e soli: Bowlby, 1972). L’ansia da separazione andrebbe allora considerata, con maggiore precisione, come paura dell’inaccessibilità o della perdita delle figure di attaccamento, e come paura della solitudine”). Il passaggio è abbastanza importante, perché sposta l’attenzione dal sintomo a qualcosa di più relazionale e primevo, elemento causale che spesso viene facilmente accettato e riconosciuto dal paziente come plausibile e “naturale”. Inoltre ci fa riflettere su quanto gli aspetti relazionali, in clinica e fuori da essa, rappresentino un elemento centrale: non sarebbe tanto cosa dice una terapeuta a una suo paziente a fare la differenza, ma come risponda alle richieste implicite messe in atto dal paziente a livello dei sistemi motivazionali, quanto il terapeuta sappia rispondere a un sistema di attaccamento attivato in un paziente spaventato, quanto sappia porsi in modo cooperativo in altri frangenti, etc.
Su quest’ultimo punto convergono d’altronde molti filoni di studi in ambito psicoanalitico, il che ci racconta -ancora una volta- di come Liotti abbia saputo integrare in sé visioni diverse, approcci teorici differenti, sempre più convergenti, alla ricerca di un “denominatore comune” in psicoterapia.
Su Liotti abbiamo qui tentato una sintesi del suo “modello di lavoro”.
—-
NB: “POPMED”, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO A TEMA “PSI”, A PAGAMENTO. Qui per iscriverti