di Matteo Respino
A partire dal “progetto di una psicologia” elaborato da Freud sino allo sviluppo di molti altri sistemi teorico-tecnici e clinici, gli ultimi 100 anni hanno visto lo sviluppo di una grandissima quantità di modelli su cui fondare diversi tipi di psicoterapie, ovvero diverse prassi volte alla cura della sofferenza mentale. La domanda che ci poniamo oggi è quanto queste pratiche siano diverse l’una dall’altra e se queste differenze, in un certo senso, “facciano la differenza”.
Nel tempo molte psicoterapie (curiosamente non tutte) hanno mantenuto l’interesse, o l’ambizione, di dimostrare la loro utilità al di là delle impressioni o credenze soggettive, ossia di validarsi scientificamente, come ogni altra terapia medica. In fondo, questo è ciò quello che solitamente si propone chi lavora nell’ambito della cura: offrire terapie che funzionino. Senza aprire parentesi sulla natura della “domanda” posta dal paziente, che talora è esplicita (“vorrei non avere tale sintomo”) talora meno (pazienti che attraverso il sintomo esprimono una domanda più profonda, di cambiamento più radicale), penso che la spinta a voler dimostrare l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici sia un sano movimento scientifico di verità, sebbene talora difficile da perseguire.
Perché difficile? Per diverse ragioni, soprattutto metodologiche, ad esempio
- la durata degli interventi e la distanza temporale che si interpone tra la “somministrazione” delle sedute ed il “miglioramento” (cosa ci garantisce che nel frattempo non siano accaduti altri eventi, nella vita della persona, che ne hanno migliorato la condizione indipendentemente dal nostro intervento?).
- La complessità dell’intervento psicoterapeutico, che per quanto “semplificabile” rimane pur sempre una complessa interazione linguistica tra due esseri umani, certo non come somministrare un farmaco.
- L’impossibilità strutturale di effettuare studi “randomizzati in doppio cieco” (in cui sia paziente che terapeuta non sanno se il paziente sta assumendo un farmaco o un semplice placebo), il che riduce la “qualità” delle evidenze di efficacia in psicoterapia.
Pur considerando tutti questi limiti, molte psicoterapie possiedono buone evidenze di efficacia. Al di là della ricerca sull’efficacia, oggi sembra essere necessario approfondire la ricerca sul “processo”, ovvero su quali eventi specifici, o meccanismi, conducano al miglioramento del paziente. Altro modo di porre la domanda è, semplicemente, “come funziona la psicoterapia”?
Più specificamente, a funzionare sono i “fattori comuni” a tutte le psicoterapie (ad esempio avere un buon rapporto con il terapeuta) o sono piuttosto “le tecniche specifiche” di questa o quell’altra psicoterapia? Recentemente la rivista Lancet Psychiatry ha proposto una review di Mulder e colleghi, dal titolo “Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box”, che cerca di fare il punto su questo tema. A seguire un breve report su quanto sostenuto dagli Autori nell’articolo (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/28689019).
REPORT
Gli Autori esordiscono sottolineando un dato apparentemente contradditorio: esistono sia evidenze a supporto del fatto che le diverse psicoterapie funzionano “allo stesso modo” (qui gli Autori citano la famosa review di Luborski et al.), ovvero producono effetti di dimensioni del tutto paragonabili, sia evidenze di superiorità di certe psicoterapie specifiche su altre, quantomeno per certi disturbi (gli Autori citano Hoffman et al.). In sostanza, esistono dati a sufficienza per sostenere sia che le psicoterapie funzionano sulla base di “fattori comuni”, da cui ne deriverebbe grossomodo la medesima efficacia, sia che esistono differenze specifiche legate a fattori altrettanto specifici di trattamento. Non solo entrambe queste posizioni sembrano plausibili sul piano teorico, ma vi sono dati sufficienti a confermarle entrambe. Come sottolineato nell’articolo, questa dicotomia di posizioni non è affatto nuova, anzi, si potrebbe citare un famoso dibattito tra Skinner e Rogers (padri, rispettivamente, del comportamentismo e della “terapia fondata sul cliente”) nel quale il primo sosteneva che specifiche componenti di apprendimento indicevano certi cambiamenti, mentre il secondo sosteneva che una relazione terapeutica genuina, sana, fosse “necessaria e sufficiente”. Tale dicotomia, alla luce delle evidenze a sostegno di entrambe le posizioni, ha ancora senso? Oppure, a beneficio dell’avanzamento di questo affascinante campo, è possibile (quanto necessario) superarla? Forse, in linea con le evidenze di cui sopra, le differenze tra queste posizioni sono meno rilevanti in concreto di quanto appaiano in teoria.
Gli Autori sottolineano come sembri esserci un riconoscimento reciproco, da parte dei teorici dei due poli, della rilevanza “dell’altra parte”. Sostenitori dei “fattori specifici” riconoscono l’importanza di fattori aspecifici quali il coinvolgimento del paziente, l’ottimismo e la collaborazione attiva ed esplicita al raggiungimento di obiettivi chiari e condivisi. Viceversa, teorici dei “fattori comuni” riconoscono come in alcuni contesti clinici molto specifici, come i disturbi d’ansia di stampo fobico, interventi per nulla “comuni”, ma piuttosto molto limitati/specifici, come l’esposizione del paziente allo stimolo fobico, siano necessari. Inoltre, punto fondamentale, gli Autori sottolineano come i “fattori comuni” non siano più considerati come un contenitore generico: quando si parla di fattori comuni non si parla di un “va bene tutto”, ma piuttosto di interventi che per quanto “comuni” a diverse psicoterapie sono del tutto specifici nella loro funzione, e che potrebbero possedere un loro distinto potere curativo. In sostanza, il dibattito sulla dicotomia fattori comuni versus fattori specifici sembra essere oggi più che altro una distrazione rispetto alla “semplice” ed unica domanda che bisognerebbe porsi: “quali sono i meccanismi che producono un effetto in psicoterapia”?
Per promuovere la ricerca sul processo in psicoterapia in questa direzione, gli Autori sostengono sia necessario focalizzarsi su diversi approcci, attraverso i quali si potrà a) rispondere alla domanda di cui sopra e b) superare l’obsoleta dicotomia fattori comuni versus fattori specifici. Eccone alcuni:
- Trattamenti transdiagnostici
Molte psicoterapie sono manualizzate allo scopo di trattare uno o più specifici disturbi mentali. I cosiddetti “fattori specifici” sarebbero procedure che si applicano nel contesto ristretto del trattamento di quel disturbo. In realtà, sia in ricerca che in clinica si assiste oggi ad una grande attenzione per le dimensioni “transdiagnostiche”. Ad esempio, l’incapacità di regolare le emozioni è un problema che si trova in alcune forme di depressione, ma anche in disturbi d’ansia ed in diversi disturbi di personalità. Lo sviluppo di trattamenti o fattori applicabili a diversi disturbi (poiché transdiagnostici) sembra essere una prima via per superare questa dicotomia - Studi su “componenti terapeutiche”
In questa prospettiva lo scopo è chiaramente quello di studiare quanto le specifiche componenti di un trattamento psicoterapeutico contribuiscano, individualmente, all’effetto finale. Metaforicamente è come voler dividere un piatto nei suoi ingredienti originali e capire quanto un certo ingrediente contribuisca al risultato finale. Cosa fareste se voleste sperimentare qualcosa del genere su una vostra ricetta? Provereste a cucinare nuovamente quel piatto “togliendo” l’ingrediente che volete studiare! Similmente, questo ambito prevede dismantling designs, dove un trattamento psicoterapeutico è confrontato con lo stesso trattamento “meno una sua parte”, ed additive designs, dove un certo fattore viene aggiunto al trattamento “standard” per valutarne l’effetto individuale - E-therapies
Si tratta di terapie somministrate online, senza l’interazione diretta con un curante. Pur potendo apparire come un’eresia inconcepibile, sembra che le e-therapies (per lo più training di tipo cognitivo-comportamentale) abbiano un effetto che è paragonabile a quello delle terapie standard, sebbene limitato ad alcuni disturbi (gli Autori citano la review di Hedman). Questo approccio è particolarmente prono ad un uso sperimentale volto a comprendere “quali meccanismi specifici producono quali cambiamenti”, potendo essere manipolato nel dettaglio “aggiungendo” o “togliendo” parti di training e riducendo l’influenza della relazione terapeutica (intesa, in tal contesto sperimentale, come fattore di confondimento).
Gli Autori sottolineano infine come vi sia necessità di aspirare ad una scienza clinica “accurata”. Questo significa non limitarsi a fare ricerca sull’efficacia di una certa psicoterapia, ma piuttosto cercare di integrare la ricerca sul processo (“cosa succede in psicoterapia?”; “quale aspetto specifico di questa terapia funziona? Quale no?”) con la ricerca di base (neurobiologica) sui determinanti del benessere e della malattia.
PROSPETTIVE
Le linee d’indirizzo oggi perseguibili per far avanzare questo il campo della ricerca in psicoterapia sembrano andare nella direzione di una comprensione più limpida dei “fattori” che producono un cambiamento, al di là del loro essere comuni a molte psicoterapie o meno. Aggiungo che questo approccio proposto dagli Autori sembra andare di pari passo con quello di altri lavori, pubblicati di recente sulle più illustri riviste di psichiatria al mondo, che propongono lo sviluppo di psicoterapie molto “semplificate”, allo scopo di diffondere trattamenti che siano “semplici da apprendere e somministrare” e che mirino a trattare “chiare dimensioni comportamentali validate neurobiologicamente” (Alexopoulos et al., 2013).
BIBLIOGRAFIA
Alexopoulos et al. A model for streamlining psychotherapy in the RDoC era: the example of Engage. Molecular Psychiatry 2013; 19,14-19.
Hedman et al. Cognitive behavior therapy via the internet: a systematic review of applications, clinical efficacy and cost-effectiveness. Expert Rev Pharmacoecon Outcomes Res 2012; 12:745-64.
Hoffman et al. The efficacy of cognitive behavioral therapy: a review of meta-analysis. Cognit Ther Res 2012; 36:427-40.
Luborsky et al., The Dodo bird verdict is alive and well-mostly. Clin Psycho Sci Pract 2002; 9:2-12.
Mulder et al., 2017. Common versus specific factors in psychotherapy: opening the black box. Lancet Psychiatry 2017.