di Raffaele Avico
La letteratura a riguardo dell’aggressività richiama a sè elementi di etologia, psicologia evoluzionista e Teoria dei Sistemi Motivazionali Interpersonali. L’ipotesi che entro ognuno di noi esista un istinto di morte, il freudiano Thanatos, è affascinante ma poco utile a una reale spiegazione di come funzioni, entro la specie umana, la spinta ad aggredire l’altro. In natura, ci insegna l’osservazione degli animali, esiste un’aggressività difensiva (destinata a sottomettere l’altro senza però ucciderlo) e un’aggressività predatoria (l’animale uccide l’altro per cibarsene). All’interno della stessa specie, quasi mai si verificano episodi di aggressività predatoria, tranne che per l’uomo.
La presenza di aggressività predatoria tra umani, la si osserva nei casi di psicopatia (il limite estremo dell’antisocialità: durante l’uccisione non è avvertito nè rimorso nè paura, come succede nei casi di aggressività a scopo difensivo, ma un senso di eccitamento e di soddisfazione per l’atto in sè).
Si discute molto a proposito di quello che potrebbe stare alla base di questi comportamenti predatori; in natura esiste un meccanismo di interruzione del comportamento predatorio, una volta che l”avversario” è sottomesso. Durante, per esempio, una lotta in termini di rango, quando l’animale dominante sottomette a sè un altro membro del branco, non lo uccide per istinto (poichè punta non a ucciderlo, ma a sconfiggerlo).
Solo nella specie umana si assiste all’uso di aggressività predatoria tra conspecifici, come se le leggi di natura fossero state, qui, “sospese”. Uno dei padri dell’etologia attuale, Konrad Lorenz, sostenne in modo molto acuto l’ipotesi secondo la quale lo sviluppo del cervello nell’uomo, il pensiero concettuale e la comunicazione verbale avessero derubato l’uomo della sicurezza che gli forniva l’istinto (come se l’evoluzione in termini cognitivi dell’uomo avesse slegato e “ingannato” l’istinto, non più trattenuto nella sua valenza utilitaristica).
Laddove si manifesta la mancata inibizione di un meccanismo di controllo dell’impulso predatorio, nell’uomo emergono quei tratti che lo rendono ai nostri occhi “psicopatico”, ovvero predatorio con i suoi conspecifici senza che ci sia colpa o rimorso.
Ciò che Giovanni Liotti, nel suo ultimo bellissimo lavoro (“L’evoluzione delle emozioni e dei sistemi motivazionali”, 2017), porta come ipotesi, è un deficit in termini di integrazione di parti diverse del cervello. Immaginiamo il cervello come composto da parti più antiche/profonde (più istintuali) e zone evolutivamente più nuove (come la neo-corteccia): nei casi gravi di psicopatia molteplici studi di neuro-imaging (tra cui http://www.jneurosci.org/content/jneuro/31/48/17348.full.pdf) descrivono un funzionamento cerebrale in cui le parti più antiche (istinto) sono direttamente collegate a quelle più nuove (ragionamento freddo), senza la mediazione del sistema limbico (affettività, contatto con l’altro). In altre parole è come se l’istinto si riversasse direttamente nel ragionamento, senza tenere i considerazione l’altro nella sua soggettività. Tutto questo si osserva anche nei bambini con problematiche di tipo autistico (che è una sindrome dell’intersoggettività): qui però sembra essersi mantenuto il senso di ciò che è giusto o sbagliato in termini etici (per esempio “non far soffrire l’altro”, “non torturare l’altro”, etc.).
Liotti inserisce tutto questo discorso nel quadro di uno sviluppo individuale altamente problematico e dove il trauma è un evento ricorrente.
Purtroppo allo stato attuale non si conoscono a fondo le ragioni sottese allo sviluppo di una personalità psicopatica, di fronte alla quale la psichiatria e la psicologia clinica si sono arrese, in passato, etichettandola come “non trattabile”.