di Matteo Respino
Non esiste “la depressione”, quanto piuttosto molti tipi di depressione. Le classificazioni usate più comunemente sono basate sui sintomi: per esempio, si parla di depressioni melanconiche, agitate, ansiose. Oggi esiste la possibilità di distinguere le depressioni basandosi su dati biologici, nello specifico sull’attività cerebrale a riposo dei malati, e a partire da queste nuove classificazioni fondate biologicamente muoversi verso la distinzione di tipi di depressione clinicamente rilevanti.
Recentemente la rivista Nature Medicine ha pubblicato un articolo che sta riscontrando un grande successo nella comunità scientifica: si tratta di uno studio multicentrico che titola “Resting-state connectivity biomarkers define neurophysiological subtypes of depression”, promosso dal gruppo di Conor Liston della Weill Cornell Medicine, che ha coinvolto oltre 1000 soggetti in studio.
Link alla pagina pubmed https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/27918562
REPORT
La psichiatria, da sempre, cerca di comprendere quali siano i fondamenti naturali, biologici, della sofferenza mentale. Purtroppo, la complessità dei fenomeni in studio non consente di individuare un singolo, chiaro fattore determinante una singola, chiaramente distinguibile malattia. Piuttosto, quelle che chiamiamo “malattie mentali” sono entità più o meno artefatte, nel senso che la loro definizione deriva dall’accordo tra esperti in materia su quali siano i fenomeni con maggiore “autonomia nosografica”. Gli sforzi della psichiatria si sono fondamentalmente sempre mossi nella seguente direzione: definizione di malattia basata su un certo numero e tipo di sintomi, e successiva ricerca dei fattori biologici che sostengono quella malattia “clinicamente definita”. Questo articolo propone di muoversi in direzione opposta. Viene dimostrato infatti come sia possibile distinguere diversi tipi di depressione basandosi contemporaneamente su un dato fisiologico (l’attività cerebrale a riposo) e su certe caratteristiche sintomatologiche.
Gli Autori hanno reclutato oltre 1000 soggetti depressi: per ognuno di essi erano disponibili dati di risonanza magnetica e dati clinici sulla severità e sulle caratteristiche del quadro depressivo. L’attività cerebrale a riposo è stata misurata attraverso uno specifico tipo di scansione di risonanza magnetica chiamata resting-state, in cui si chiede al paziente di stare fermo durante la scansione e, pur rimanendo sveglio, di non pensare a nulla in particolare. Tale tecnica consente di identificare quali aree cerebrali sia più o meno attive a riposo. Queste informazioni sono state poi integrate con quelle cliniche in un’analisi statistica “di cluster”. Per quanto questi nomi possano intimorire, in realtà la statistica è spesso intuitiva da capire: cosa sono le analisi di cluster? Si tratta di identificare dei gruppi “omogenei”, ovvero di mettere insieme, all’interno di un gruppo (o cluster), quelle informazioni che sono allo stesso tempo 1) molto simili tra loro e 2) molto diverse da tutte quelle appartenenti ad altri gruppi. In questo caso tale processo è stato effettuato includendo nella stessa analisi sia i dati di risonanza, sia i dati clinici.
Il risultato è stata l’identificazione di 4 sottotipi di depressione, chiamati “biotipi 1-4”.
Alcuni esempi di come questi biotipi si distinguano per caratteristiche sia cliniche che fisiologiche, ovvero di attività cerebrale a riposo, sono i seguenti:
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Una riduzione dell’attività cerebrale nei circuiti fronto-amigdaloidei (deputati al controllo cognitivo, frontale, su affetti negativi quali l’ansia e la paura mediati dall’amigdala), si osservava nei biotipi 1 e 4, caratterizzati da elevati livelli d’ansia.
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Alterazioni dell’attività cerebrale in regioni talamo e frontostriatali (che mediano l’attività motoria, ma anche la motivazione) si sono osservati nel biotipo 3, caratterizzato da anedonia e ritardo psicomotorio.
PROSPETTIVE
Questo studio contribuisce a mostrare come la psichiatria non debba necessariamente fondarsi su classificazioni delle malattie basate “unicamente” sui sintomi, classificazioni che sappiamo essere non del tutto affidabili. L’accuratezza delle classificazioni di malattie in psichiatria potrebbe in futuro giovarsi di un’integrazione sempre maggiore tra dati clinici, ovvero i sintomi osservati quotidianamente, e dati biologici, espressione del funzionamento del nostro corpo.