di Luca Proietti
Il costruttivismo è una teoria filosofica e psicologica che rifiuta l’idea per cui la Scienza potrebbe e dovrebbe ricercare la conoscenza di una realtà oggettiva. Per i costruttivisti l’unica conoscenza utile e ottenibile è quella operativa, essendo priva della velleità di attingere all’essenza ontologica di una supposta realtà oggettiva, per essere applicabile alla realtà che percepiamo al fine di raggiungere i nostri obiettivi concreti. La ricerca non è più del vero quanto dell’utile per il cambiamento terapeutico, per il progresso scientifico e per il benessere dell’uomo. Il costruttivismo, lungi dal negare l’esistenza di una realtà oggettiva, afferma fermamente che essa sia inconoscibile indipendentemente dalle influenze dell’ osservatore.
CONTESTO
“Il Costruttivismo radicale, ovvero la costruzione della conoscenza” è la versione riveduta di un discorso tenuto in occasione di un convegno a Buenos Aires nel 1991, di Ernst Von Glaserfeld, filosofo e professore di psicologia. Il brano è contenuto nel “Manuale di Terapia Breve Strategica” a cura di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone. Glaserfeld ci spiega come secondo l’ottica costruttivista la conoscenza sia in realtà una costruzione dipendente dall’osservatore. Accettare questo punto di vista porta alla rinuncia della pretesa della conoscenza definitiva di una realtà oggettiva, ma apre alla possibilità di costruire una conoscenza pragmatica. Questo tipo di conoscenza, definita operativa, è in grado di aiutarci nella gestione della realtà da noi percepita e nel risolvere i problemi che questa ci presenta.
REPORT
Ernst von Glaserfeld afferma all’inizio del suo discorso: “il costruttivismo è una teoria della conoscenza che può causare una rottura radicale con il modo di pensare tradizionale del mondo scientifico”, io aggiungerei anche di tutto l’occidente.
Questo cambiamento porta infatti a una nuove modalità e contenuti del pensiero. Il costruttivismo infatti:
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E’ un modo di pensare diverso riguardo al nostro fare esperienza e alla conoscenza scientifica.
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Non ha l’obiettivo il descrivere una realtà assoluta, né il mondo, ma ci suggerisce un nuovo modo di pensarli.
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Non nega la realtà, ma afferma che non si possa conoscere una realtà indipendentemente dall’osservatore.
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Rifiuta quindi l’idea che la conoscenza debba essere la rappresentazione di un mondo esterno.
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E’ dunque un tentativo di separare l’ontologia (lo studio di un’essenza apriori) dall’epistemologia (lo studio di ciò che è conoscibile e dei processi conoscitivi).
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Ha come scopo il produrre una conoscenza operativa, cioè applicabile al nostro mondo percepito, l’unico che ci interessa, per gestirlo nella maniera più funzionale possibile.
Consapevole dello scompiglio che tali novità possono causare, l’Autore ci spiega i motivi che lo hanno spinto a proporle. Si tratta di quattro fonti sia storiche che autobiografiche: 1) il linguaggio; 2) la posizione filosofica degli scettici dagli inizi della teoria occidentale; 3) un concetto chiave della teoria dell’evoluzione di Darwin; 4) la cibernetica.
Le evidenze della Neurofisiologia
“Ti dico quanto, ma non cosa”. H.V. Foerster
Prima di analizzare ognuna di queste fonti, l’autore riporta una scoperta dei neurofisiologi che avvalorerebbe la teoria costruttivista. Heinz Von Foerster, uno dei padri del costruttivismo, ha evidenziato la scoperta dei neurofisiologi per cui non vi è alcuna differenza qualitativa tra segnali diretti alla corteccia, anche se provenienti da diversi recettori. Un segnale trasmesso dalla retina alla corteccia visiva ha la stessa struttura di uno proveniente dai recettori acustici o olfattivi etc.: essi variano tutti per ampiezza e frequenza, ma non vi è alcuna indicazione circa la qualità del segnale. In maniera analoga i recettori che percepiscono il colore rosso (la luce di lunghezza d’onda che corrisponde al rosso) inviano segnali identici a quelli inviati dai recettori per gli altri colori.
Dunque la distinzione tra i colori avverrebbe a livello della corteccia, ma non sulla base di “semplici differenze qualitative, poiché tali differenze non esistono”. Pertanto, non sarebbe corretto affermare che distinguiamo gli oggetti del mondo reale sulla base delle informazioni proveniente da “quello che è tradizionalmente considerato il mondo esterno”. Sarebbe da preferire dunque un epistemologia che faccia riferimento non a una realtà esterna, ma a una costruita dall’osservatore: da qui la parola “costruttivismo”.
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Il Linguaggio
“Come mai quando parlo italiano mi sembra di vedere il mondo in modo diverso che non quando parlo inglese o tedesco?”
L’autore ha parlato fin dalla nascita più di una lingua, e davanti allo specchio oltre alle prime domande esistenziali si è posto un’altra domanda “Come mai quando parlo italiano mi sembra di vedere il mondo in modo diverso che non quando parlo inglese o tedesco?”. Qual’è quindi la visione del mondo più giusta? Ovviamente ognuno pensa che il suo modo di vedere il mondo sia quello giusto. Ma se si fanno abbastanza esperienze e si vive in un ambiente di persone aperte, che riescono accettano diversi modi di vedere il mondo, si arriva alla conclusione che: ogni gruppo ha ragione -dal suo punto di vista.
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Gli Scettici
“Siamo quindi intrappolati in un paradosso: vogliamo credere di poter conoscere qualcosa del mondo esterno, ma non siamo in grado di affermare la verità di questa conoscenza”
Gli scettici, filosofi dell’antica Grecia (VI secolo a.C.) hanno proposto un modo di approcciarsi alla conoscenza che è rimasto essenzialmente immutato fino ad oggi: uno può concordare o meno con la loro teoria, ma le loro argomentazioni sono logicamente incontrovertibili. L’Autore riporta l’affermazione degli scettici per cui noi conosciamo quello che è passato attraverso i nostri sistemi sensoriale e cognitivo. L’interazione tra questi due sistemi ci fornisce un’immagine della realtà. Ma non siamo in grado di sapere se tale immagine corrisponde realmente al mondo esterno, perché ogni volta che guardiamo la realtà la percepiamo sempre attraverso i nostri organi sensoriali e attraverso i filtri del nostro sistema cognitivo.
“Siamo quindi intrappolati in un paradosso: vogliamo credere di poter conoscere qualcosa del mondo esterno, ma non siamo in grado di affermare la verità di questa conoscenza”
I sensi potrebbero essere ingannevoli, e anche se non lo fossero non avremmo modo di verificarlo. La filosofia occidentale ha prodotto un sacco di “bei sogni” che raccontano come il mondo dovrebbe essere, ma non sono in grado di rispondere a una domanda radicale: quella che chiamamo conoscenza può essere considerata “vera”, cioè congruente a una conoscenza oggettiva che preceda l’esperienza?
E’ stato il Cardinale Bellarmino, convinto che ci fosse un modo migliore di trattare gli eretici intelligenti, a proporre a Galileo, per salvarlo dal rogo, di presentare le proprie teorie astronomiche in forma ipotetica, cioè come strumenti per fare dei calcoli e predizioni, piuttosto che come descrizioni del mondo di Dio. Questo anticipava il dialogo sulla separazione tra le conoscenze che potremmo chiamare “mistiche” e quelle “razionali”.
Su tale scia la filosofia scettica del XVI-XVII e XVIII con Montaigne, Gasendi e Marsenne hanno affermato che i modelli razionali dell’indagine scientifica possono essere considerati “modelli del nostro mondo esperienziale ma non di un mondo oggettivo”. L’Autore, riconoscendo due funzioni diverse alla visione “mistica” e a quella “razionale”, ma considerandole di pari dignità, cita Giambattista Vico: “Dio è l’artefice del mondo, l’uomo il Dio dei manufatti”.
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Un concetto evolutivo
“Una conoscenza efficace può essere prodotta solo attraverso un passaggio dal concetto di conoscenza come rappresentazione della realtà “oggettiva” a quello di conoscenza come rappresentazione della realtà più adatta”
Il modello di conoscenza mistico è giustificato dal dogma o dai libri sacri, mentre quello razionale, incrinatasi l’illusione di una conoscenza oggettiva della realtà, sembrava aver perso la sua ragione di essere. La teoria evolutiva di Darwin dice che un organismo per sopravvivere deve avere una struttura fisica e un comportamento adatti all’ambiente. L’adattamento, che non è altro che la “capacità di esistere” e sopravvivere in un ambiente, “non è in relazione con una rappresentazione vera del mondo esterno, ma alla capacità di far fronte alle circostanze”. Così anche un nuovo pensiero “per essere capace di esistere deve imporsi all’interno di uno schema di strutture concettuali esistenti in modo da non causare contraddizioni”. Per Piaget la conoscenza è un’attività di adattamento e “può essere prodotta solo attraverso un passaggio dal concetto di conoscenza come rappresentazione della realtà “oggettiva a quello di conoscenza come rappresentazione della realtà più adatta”. In questa prospettiva la conoscenza ci fornisce una mappa utile per orientarsi nell’ambiente, così come è percepito, non la riproduzione di un mondo oggettivo e indipendente.
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La Cibernetica
“Possiamo conoscere solo ciò che noi stessi abbiamo fatto”.
La cibernetica è una disciplina che studia gli organismi autoregolati e autorganizzati. L’Autore si domanda se anche la conoscenza non sia in realtà il risultato di un processo di autoregolazione, per rispondere a questo interrogativo è nata la “cibernetica di secondo ordine”, che si è interessata più dell’osservatore che delle cose osservate. I cibernetici dicono che : “la conoscenza comunque la si intenda, deve essere prodotta o costruita sulla base di un materiale accessibile al conoscitore”, che non è altro che una riformulazione di ciò che Gianbattista Vico diceva : “possiamo conoscere solo ciò che noi stessi abbiamo fatto”. Pertanto i cibernetici hanno iniziato a investigare su che cosa potesse essere accessibile al soggetto conoscente e che cosa invece fosse logicamente irraggiungibile. La conclusione a cui giungono è che i sistemi autoregolati sono chiusi per quanto riguarda la ricezione di informazioni, per dimostrare ciò si rifanno a Claude Shannon, il quale ha dimostrato che: “il significato delle informazioni non viaggia dall’emittente al ricevente; viaggiano solo i segnali; e i segnali risultano tali solo nel momento in cui qualcuno li può decodificare, e per fare ciò il ricevente deve conoscerne il significato.” Dunque la comunicazione può funzionare solo quando si sia precedentemente stabilito un codice comunicativo: quello che avviene nel caso della lingua; purtroppo, non abbiamo un codice pre-stabilito per i sensi, che ci permetta di decodificare i segnali che ci giungono da un ipotetico mondo esterno; ci è possibile pertanto guardare i segnali solo dall’interno, dalla parte del ricevente. Non possiamo dunque definire delle informazioni, supposte esistenti, al di là della nostra barriera percettiva.
LA CONOSCENZA È UN’ATTIVITÀ DEL SOGGETTO COSCIENTE
L’autore esamina i concetti di “differente” e “uguale”. Le nozioni di differenza e uguaglianza sono tra i primi ed indispensabili mezzi per costruire la conoscenza, ma sono essi stessi delle costruzioni. Vi sono due differenti tipi di uguaglianza: l’equivalenza -cioè due elementi uguali rispetto a tutte le caratteristiche esaminate-, e quello di “identità individuale” con cui indico una cosa che “non è del tutto o non solo” la cosa vista ieri, pur essendo lo stesso individuo. L’equivalenza ci aiuta a costruire la conoscenza classificando l’identità/entità individuale tramite la continuità. Pensiamo a una busta chiusa che abbiamo lasciato ieri sulla nostra scrivania: oggi, riprendendola in mano, diamo per scontato che sia la stessa busta di ieri, ma se qualcuno ci chiedesse come possiamo affermare che quella di oggi sia la medesima lettera di ieri… avremmo tutti delle difficoltà.
TEMPO E SPAZIO
Durante la notte i miei sensi non hanno fatto esperienza di nessuna lettera, eppure il giorno dopo affermo che questa sia la lettera di ieri. Sto assumendo che esista una continuità fuori dal mio mondo percettivo, che esista uno spazio al di là della mia esperienza dove le lettere e gli oggetti possono stare mentre non presto loro attenzione o percepisco altre cose.
L’autore chiama questo processo costruzione di un proto-spazio, una sorta di deposito dove possono essere messe le cose perché conservino la loro identità individuale mentre non vengono percepite. Sorge allora spontaneo chiedersi cosa fanno gli oggetti nel proto-spazio mentre io ne percepisco altri. Essi conservano la loro esistenza, durante lo scorrere della mia esperienza attuale, in modo che siano disponibili quando volgerò nuovamente la mia attenzione verso di loro. Questo parallelismo di due estensioni viene definito proto-tempo, differisce dal proto-spazio perché contiene le nozioni di “prima” e “dopo”. “Prima” e “dopo” non sono altro che proiezioni dell’esperienza di elementi all’interno del deposito proto-spaziale che non sono al momento nel campo della percezione. E’ questo parallelismo che ci permette di scegliere un’“esperienza standard” , come il movimento della lancetta di un orologio e proiettarlo su altre sequenze percettive, cioè la misura del tempo. Il tempo dunque non è un’illusione ma una costruzione.
Se tutto il mondo è una costruzione come posso ancora distinguere tra illusione e realtà? Ciò è possibile grazie alla ripetibilità, alla conferma di un altro metodo sensoriale o di un altro osservatore, ma non sulla base di una presunta verità. L’Autore conclude sostenendo che Il tempo e lo spazio sono materiali indispensabili per costruire una realtà razionale, e come piuttosto sia un’illusione la pretesa di una conoscenza razionale di una realtà assoluta e oggettiva che trascenda la nostra esperienza.