di Matteo Respino
L’articolo “The evolution of distrubuted association networks in the human brain”, i cui contenuti sono qui sintetizzati, è stato pubblicato nel 2013 sulla rivista Trends in Cognitive Sciences. Gli Autori, Randy Buckner e Fenna Krienen, sono noti scienziati che lavorano nel dipartimento di psicologia della Harvard University. Link all’articolo via PubMed: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24210963
Vi siete mai chiesti, nello specifico, cosa rende il cervello di noi umani capace di pensare nel modo in cui pensiamo? Cosa ci rende capaci, rispetto ad ogni altra creatura nel mondo animale, di tale potenza cognitiva? Una risposta che sia allo stesso tempo definitiva, certa, specifica e unica non esiste, quantomeno non al momento attuale. Esistono però numerose evidenze circa il fatto che alcuni aspetti della cognizione umana siano legati all’attività di aree cerebrali chiamate “associative”, che sostanzialmente svolgono la funzione di integrare informazioni provenienti da altre aree cerebrali.
Per capirsi, il nostro cervello è composto da diverse aree, alcune di esse sono “le prime” a ricevere informazioni (inputs) dalla periferia, ad esempio la corteccia visiva primaria. Altre sono “le ultime”, quelle che ricevono i “dati elaborati”, e sono infatti quelle che inviano gli outputs (i comandi finali) ai nostri organi periferici (ad esempio, la corteccia motoria primaria che fornisce i comandi finali su come muoversi nello spazio). Ecco, in mezzo a questi due estremi si trovano aree in cui le informazioni provenienti da diversi sistemi sensoriali (da tanti inputs diversi) vengono elaborate con un grado di complessità crescente. Si parla in questo caso di “aree associative”.
Lo sviluppo del cervello umano
Il cervello umano possiede circa 86 miliardi di neuroni ed un’immensa potenza computazionale (pensate al numero, quasi inimmaginabile, di connessioni tra questi neuroni). Non è stato sempre così. Noi umani siamo passati relativamente in fretta, in poche centinaia di migliaia di anni, dall’uso di strumenti banalissimi alla soglia dell’intelligenza artificiale. Questo sviluppo di abilità “cognitive”, in proporzione rapidissimo, si spiega quantomeno in parte con l’evoluzione altrettanto rapida dell’anatomia del nostro cervello. Si è trattato di uno sviluppo esponenziale, “in crescendo”: per passare dal volume cerebrale dei nostri antenati mammiferi più antichi al volume cerebrale dell’Homo Erectus ci sono voluti 6 milioni di anni, ma solo un ulteriore milione è quello che separa noi, oggi, dal suddetto Homo Erectus, e noi possediamo un cervello che è sostanzialmente due volte più grande. Ricapitolando, su un totale di 7 milioni di anni di sviluppo, il grosso della crescita del nostro cervello è avvenuto nell’ultimo settimo, quando tale volume è raddoppiato. Si tratta solo di una questione di volume? Ovviamente no. Se così fosse, le balene sarebbero molto più intelligenti di noi. Altri fattori sono ad esempio:
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il volume cerebrale in rapporto alla dimensione corporea (anche chiamato il “quoziente di encefalizzazione”)
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la densità neuronale (quanti neuroni per unità di volume cerebrale).
Ad esempio, uno scimpanzè ha un volume cerebrale molto inferiore di una balena, ma un maggiore quozione di encefalizzazione ed una maggiore densità neuronale: nel complesso lo scimpanzè possiede un maggior numero di neuroni ed una maggiore “potenza computazionale” di una balena.
Come sottolineato dagli Autori, è verosimile che alcuni eventi genetici “chiave” (in termini evoluzionistici) siano stati coinvolti in questo rapido sviluppo. Di fatto, in confronto ai nostri antenati, nei mammiferi più evoluti (quindi anche e soprattutto in noi umani) avviene che lo sviluppo embrionale delle cellule cerebrali si “allunghi” su un maggiore raggio temporale, e pertanto quelle cellule che saranno i nostri neuroni hanno più tempo a disposizione per replicare, aumentando di numero, e per organizzarsi in strutture più complesse.
Veniamo quindi a tale organizzazione, ponendoci una semplice quanto fascinosa domanda: le aree cerebrali si sono sviluppate allo stesso modo, o alcune più di altre? La risposta, non così sorprendente a questo punto, è che lo sviluppo anatomico del cervello umano ha riguardato primariamente la “corteccia associativa” citata all’inizio.
Lo sviluppo della corteccia associativa
Sull’onda di quanto appena scritto, ciò che caratterizza la corteccia cerebrale umana è di presentare uno sviluppo abnorme delle “aree associative”. Se immaginassimo un albero dell’evoluzione della corteccia cerebrale nei mammiferi, fino ad arrivare a quella umana ai rami più alti, osserveremmo come la corteccia “associativa” aumenta costantemente di volume, di specie in specie, fino a raggiungere il massimo grado di sviluppo negli umani. Viceversa, le nostre aree più semplici, come quelle motorie (che inviano comandi) o sensoriali (che ricevono informazioni), non sono poi tanto diverse da quelle di altre specie.
Una risposta al “perché”, o al “come”, le aree associative si siano sviluppate maggiormente delle altre non è ancora stata trovata. Un’ulteriore domanda, particolarmente interessante, è se le aree associative siano semplicemente aumentate di volume rispetto alle altre o nel tempo abbiano acquisito nuove, speciali proprietà. Tale domanda interroga un’altra questione radicale: la cognizione umana deriva da un semplice “potenziamento” della capacità computazionale presente in strutture più primitive? In altre parole, si tratta di una questione “quantitativa” per cui “più neuroni = più pensiero = essere umani”? O deriva piuttosto dallo sviluppo di qualcosa di nuovo, qualitativamente diverso in termini di struttura e funzione, che renderebbe quindi anche il nostro pensiero “qualitativamente diverso”? Il nostro cervello, a livello delle aree associative, ha in effetti visto sviluppo di qualcosa di nuovo: le reti neurali non-canoniche, il “miracolo” su cui si fonda la nostra capacità pensare.
Reti neurali “non-canoniche”
Premessa: le aree cerebrali ed i neuroni al loro interno, anche se posti a grande distanza, comunicano tra loro attraverso i “cavi elettrici” del cervello, i cosiddetti assoni neurali, che si organizzano i “fasci di sostanza bianca”. Questo rende il cervello un intrigo infinitamente complesso di “reti neurali” intersecate tra loro, che oggi si possono studiare attraverso tecniche specifiche di risonanza magnetica. Evidenze provenienti da questo contesto ci dicono che la corteccia cerebrale si organizza in molteplici “reti neurali” o “network cerebrali”: insiemi di aree cerebrali, anche distanti tra loro, che tendono ad attivarsi in sincronia. Come si organizzano queste rete neurali? Come si “passano le informazioni”? Con quale gerarchia? Sulla base di quali principi? Domande complesse che oltrepassano lo scopo di questo articolo. Ciò che ci è utile sapere ora è che, in generale, negli umani osserviamo la compresenza di reti neurali “non-canoniche” e di reti neurali “canoniche”. Cerchiamo di capire di cosa parliamo.
La corteccia animale è dominata da “reti neurali canoniche”. Anche alcune parti della nostra corteccia sono organizzare in tal modo, ad esempio le aree della corteccia coinvolte nell’elaborazione dello stimolo visivo. Ecco un esempio di rete neurale canonica che può aiutare a capire il concetto: lo stimolo visivo di un pericolo viene percepito nell’area visiva A, passato alla successiva area B, elaborato in serie nelle aree C e D (ed in nessun’altra possibile area, non c’è variazione) ed infine una risposta motoria fuga viene inviata dall’area E agli organi periferici che ci consentono in effetti di fuggire.
Una rete neurale canonica è una rete di elaborazione dei dati con limitata flessibilità, organizzata secondo principi gerarchici rigidi, “lineari”, in cui l’informazione viene elaborata “in serie” secondo fasi prestabilite. Tale tipo di rete presenta questi limiti poiché è “costretta” anatomicamente ad aree non associative. Sono reti tethered, ovvero “costrette”, “legate”.
Viceversa, una rete neurale non-canonica, come le reti che si costituiscono nelle aree associative, ha maggiore flessibilità, una gerarchia indefinita, si organizza “in parallelo” o “circolarmente” attraverso circuiti rientranti, e così riverbera l’informazione quanto necessario alla sua processazione e allo sviluppo di capacità mentali superiori (umane). Sono reti untethered (“slegate”, poiché si fondano sulla corteccia di tipo associativo). Difficile come concetto? Pensate a quando una serie di stimoli provenienti dall’ambiente producono in voi una certa sensazione, come qualcosa che non va, ma non inducono immediatamente una reazione di fuga. Piuttosto, in quel contesto (una festa, una lezione, a casa in famiglia) comincerete a pensare, pensare e ancora pensare. Cercherete di capire qual è il problema, di identificarlo e poi di risolverlo più o meno logicamente. Nel frattempo, integrerete questi processi con la memoria di situazioni passate simili, e automaticamente sarete influenzati a scegliere una cosa o un’altra anche sulla base della vostra esperienza. Inoltre, penserete a voi stessi nel futuro, a come vorreste uscire da quella situazione. Tutto ciò avviene contemporaneamente grazie a molti processi neurali che avvengono in parallelo all’interno di tali reti neurali non-canoniche.
In sostanza, le reti neurali non-canoniche sono strutturalmente “adeguate” a sostenere la cognizione umana nella sua forma più alta, ovvero quella di una internal mentation, la capacità di “pensarsi”.
Conclusione: l’ipotesi del tethering
Tale ipotesi, avanzata dagli Autori, riassume sostanzialmente quanto detto finora integrandolo in un’ipotesi specifica che si può riassumere come segue:
in seguito a uno sviluppo evoluzionistico massivo della corteccia associativa, la maggior parte della corteccia cerebrale umana non sarebbe più “costretta” a seguire le gerarchie sensori-motorie. Piuttosto, in virtù della struttura di tale “nuova” corteccia, si svilupperebbe invece una vasta attività intermedia (tra i segnali in ingresso e quelli in uscita) con caratteristiche di riverbero circolare del segnale, sulle cui proprietà si fonderebbe l’unicità della cognizione umana.
D’obbligo usare il condizionale poiché, per quanto verosimile e per quanto accertati siano molti dei suoi assunti, si parla di una “teoria complessiva” che in quanto tale, pur fornendo una cornice utile in cui comprendere lo sviluppo della cognizione, è ancora in attesa di conferme o disconferme.