di Matteo Respino
PREMESSA: UN ACCENNO SUL RUOLO DELLA STIMOLAZIONE CEREBRALE, OGGI.
Questo weekend sono stato al congresso internazionale della Society of Biological Psychiatry, tenutosi a New York. Ho notato la presenza di molti interventi sulla stimolazione magnetica transcranica, specialmente in un simposio, di grande successo, che titolava “Bridging the gap of causality in psychiatry”: nel contesto della psichiatria sembra oggi fare la ricomparsa la stimolazione cerebrale, nella forma della stimolazione magnetica transcranica, come forma di terapia fisica dei disturbi mentali. Come suggerito dal titolo del simposio, l’interesse crescente attorno a questo tema deriva sia dalle potenzialità terapeutiche di questo strumento, sia dalla possibilità che esso offre di testare “meccanismi causali” di certi stati affettivi attraverso la modulazione downstream di specifici circuiti cerebrali. Questo solo per sostenere come si assista, e a mio parere si assisterà sempre più, ad un ritorno alle terapie fisiche in psichiatria, con particolare riferimento alle terapie di stimolazione cerebrale.
In psichiatria, la terapia fisica per eccellenza, o quantomeno quella paradigmatica, è l’elettroshock.
La terapia elettroconvulsivante (ECT), comunemente nota come “elettroshock”, è un esempio abbastanza unico di come a volte, per complesse motivazioni storiche, culturali, linguistiche, la comunicazione tra il mondo scientifico della medicina (clinica e ricerca) e quello dell’opinione pubblica possa andare storta. Per una lettura un po’ datata ma approfondita, e sulla quale si basa questo breve report “storico”, consiglio l’articolo “The History of ECT: Unsolved Mysteries”, pubblicato nel 2004 su Psychiatric Times da Edward Shorter, professore di storia della medicina e di psichiatria a Toronto.
L’ECT è una terapia efficace. Le evidenze in questo senso sono molto numerose. Le linee guida inglesi Maudsley Prescribing Guidelines indicano ad esempio l’ECT come una delle terapie di prima scelta per la depressione refrattaria ai trattamenti, basandosi sui risultati di diversi trials clinici. Nell’articolo di Ross et al. Cost-effectiveness of Electroconvulsive Therapy for Treatment-Resistant Depression in the United States, pubblicato quest’anno su JAMA Psychiatry, gli Autori descrivono come, oltre ad essere significativamente più efficace della terapia farmacologica e della psicoterapia (50-60% dei pazienti depressi raggiungono una remissione rapida dopo la terapia rispetto al 10-40% di coloro che sono trattati con farmaci/psicoterapia), utilizzare l’ECT come prima linea di trattamento della “depressione resistente” (fallimento di due farmaci adeguati per dose e tempo di somministrazione) sarebbe la soluzione migliore in termini di “costo-efficacia”, ovvero di sostenibilità economica a livello di sistema.
Allora perché non si utilizza? Perché molti clinici, per non parlare dei pazienti e famigliari, considererebbero tale opzione “eccessivamente aggressiva” o semplicemente ne diffiderebbero a priori? Una visione storica ci aiuterà a capirlo. Inoltre, per un approfondimento di quelli che sono i 5 principali “pregiudizi” sull’elettroshock consiglio caldamente di consultare l’articolo del nostro collega, psichiatra e blogger Valerio Rosso alla pagina https://www.valeriorosso.com/2016/08/17/elettroshock-in-psichiatria/
BREVE STORIA DELL’ECT
Precedenti
La storia dell’ECT rientra nell’ambito delle cosiddette “terapie fisiche in psichiatria”. Il “modello” di questi trattamenti, d’ispirazione per il successivo sviluppo dell’ECT, fu l’induzione di febbre malarica per il trattamento della neurosifilide, inventato dallo psichiatra viennese Wagner von Jauregg. L’antenato dell’ECT, che risale al 1934, è stata la terapia “convulsivante” indotta da molecole come il Cardiazolo (Metrazolo in USA). Lo psichiatra Ladislas von Meduna, infatti, ipotizzò che schizofrenia ed epilessia fossero patologie in reciproco antagonismo, e che pertanto il favorire convulsioni (come quelle presenti in crisi epilettiche) potesse contrastare lo sviluppo schizofrenico.
La nascita, la diffusione e il declino dell’ECT
Poco dopo, nel 1938, lo psichiatra italiano Ugo Cerletti sperimentò con successo l’effetto dell’applicazione di corrente elettrica diretta al cervello: le pubblicazioni di Cerletti (e Bini) ebbero un impatto di grandissima rilevanza anche oltre oceano e dopo pochissimi anni l’ECT si diffuse negli USA. Già nel 1941, da Harvard, provenne il primo manuale titolato “Shock Treatment in Psychiatry: a Manual”, seguito da molti altri testi simili, a testimoniare la diffusione dello strumento.
Stando a quanto sostenuto dallo psichiatra e storico E. Shorter, in quegli anni l’ECT era già stato utilizzato ampliamente dall’esercito USA nella seconda guerra mondiale, e negli anni ’50 era ormai un trattamento standard per i pazienti depressi ricoverati in ospedale. Poi, tutto a un tratto, dagli anni ’60 agli anni ’80 l’ECT sostanzialmente svanì dai programmi di training per psichiatri in USA (N.B.: in Italia, ancora oggi, gli specializzandi in psichiatria non ricevono, di base, una formazione specifica in ECT – data anche la scarsità di centri che lo praticano). Giustamente, Shorter si chiede “why this sudden disappearance of a safe and effective therapy occurred is one the riddles of the history of psychiatry” e prova a chiarire il ruolo di alcuni fattori. Ecco cosa sostiene:
- In quegli anni, l’opposizione all’elettroshock delle case farmaceutiche era mite se confrontata a quello che sarebbe stata in futuro. Ad esempio, Paul Jansenn (sì, proprio lui, quello della Jansenn) sosteneva apertamente la superiorità dell’ECT nel trattamento delle depressioni rispetto ai farmaci triciclici. Pertanto, l’opposizione (blanda) delle case farmaceutiche non può essere considerata come un fattore determinante, in quel contesto, per la virtuale scomparsa dell’ECT.
- Allo stesso modo la psicoanalisi, all’epoca imperante nel contesto accademico della psichiatria, non si mostrava apertamente ostile all’ECT. Anzi, Shorter sostiene come negli anni ’50 molti psicoanalisti fossero positivi all’idea di combinare ECT e talking therapy.
- Il fattore incriminato è stata invece la contro-cultura degli anni ’60, ostile alla psichiatria in genere e specialmente all’ECT, la cui diffusione popolare sarebbe stata favorita da eventi culturali di massa come l’uscita del film One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo) di Milos Forman, ispirato dal libro di Ken Kesey, che ebbe un grande impatto sull’opinione pubblica. In parallelo, legislazioni contro l’ECT vennero approvate in alcuni stati dell’unione, e l’APA (American Psychiatric Association) non forniva che debolissime, se non nulle, voci di sostegno alla procedura.
Una lenta, lentissima ripresa
Un nuovo punto di svolta si ebbe grazie al lavoro di Max Fink, che nel 1979 pubblicava dati sulla maggiore efficacia dell’ECT rispetto agli antidepressivi. Sull’onda di questi nuovi dati sull’efficacia dell’elettroshock (efficacia di cui, nel loro intimo, tutti gli psichiatri erano già a conoscenza), nel 1985, su JAMA, una consensus conference sull’argomento scriveva che “not a single controlled study has shown another form of treatment to be superior to ECT in short-term treatment of severe depression”. Ma nonostante tali endorsements l’ECT ha purtroppo mantenuto, nel tempo, quella “fama” costruita dall’onda della cultura antipsichiatrica, e di cui fatica ancora oggi a liberarsi. Per tornare all’articolo di Ross e colleghi, gli stessi Autori si chiedono per quale motivo l’ECT rimanga una risorsa tanto eccezionale quanto eccezionalmente sottoutilizzata.
A mio parere non vi sono solo le barriere pregiudiziali della popolazione (per le quali, di nuovo, vi rimando calorosamente all’articolo di Valerio Rosso) ma vi è scarsa informazione sui suoi benefici anche tra i professionisti della salute mentale, che continuano a mantenere una visione più cinematografica che reale della procedura ed ancora oggi, per tante ragioni (alcune, a onor del vero, molto pragmatiche), “resistono” all’invio dei pazienti che si gioverebbero dell’ECT. Come citato da Shorter, Fink stesso parlava di “depressione non adeguatamente trattata” in luogo di “depressione resistente”, proprio per queste barriere al trattamento presenti negli stessi operatori. Nella mia breve e recente esperienza, oggi la situazione è quasi invariata. Negli USA, rispetto all’Italia, l’utilizzo dell’ECT è molto più diffuso, e il pregiudizio ad esso associato molto minore. Nel bel paese invece la congiuntura di una forte eredità antipsichiatrica e di pochi (eroici) centri attrezzati all’uso dell’ECT rende la (pre)disposizione di professionisti e pazienti ad affrontare questa terapia alquanto scarsa rispetto alle sue potenzialità.
Vorrei concludere citando direttamente E. Shorter nella parte finale del suo bell’articolo, che risale al 2004 ma che a me sembra ancora assolutamente valido, a distanza di 15 anni.
“[…] la psichiatria rimane infusa di quell tipo particolare di paure e pregiudizi che altre specialità mediche sono capaci di isolare con il muro della medicina basata sulle evidenze. La realtà è che la nostra cultura teme ancora la terapia elettroconvulsivante, esattamente così come alcuni temono ancora le vaccinazioni. I clinici sono ancora riluttanti a raccomandarne l’uso, talvolta per evitare di insospettire/indispettire il paziente e compromttere l’alleanza terapeutica.
In ogni caso, qui non si tratta di lenire dolori reumatici. Stiamo piuttosto parlando di malattie che mettono a rischio la sopravvivenza delle persone, come le forme gravi di depressione melanocolica, la mania e la catatonia. Un trattamento di provata efficacia è disponibile. La follia è non usare tutte le risorse a disposizione della medicina scientifica.”
BIBLIOGRAFIA
The Maudsley Prescribing Guidelines, 12th Edition, Wiley Blackwell Editor
Ross, EL et al. Cost-effectiveness of Electroconvulsive Therapy for Treatment-Resistant Depression in the United States. JAMA Psychiatry. Published online May 9, 2018. doi:10.1001/jamapsychiatry.2018.0768
https://jamanetwork.com/journals/jamapsychiatry/fullarticle/2680312
Shorter, E. The History of ECT: Unsolved Mysteries. Psychiatric Times. Febr 1st 2004