di Raffaele Avico
Chi lavora in ambito scolastico si interfaccia quotidianamente con le differenze soggettive degli allievi, i quali si muovono nel percorso di apprendimento con velocità diverse e metodi personali, non strettamente generalizzabili. Osserviamo in una stessa classe ragazzi che possiedono facilità in alcune materie, altri che sembrano avere dei blocchi su altre, come se esistessero idiosincrasie rispetto, per esempio, al padroneggiare la matematica, o nell’usare la lingua italiana. La natura di queste differenze non è facilmente spiegabile; indubbi fattori di influenza sono il contesto di provenienza (che rappresenta l’imprinting culturale fatto al bambino, che nei primi anni letteralmente si imbeve di ciò che ha intorno a sé attraverso comportamenti emulativi), i primi gruppi di pari, etc.
Osservando questi aspetti, Stephen Krashen, brillante linguista statunitense, ha chiarito in modo sintetico la differenza tra acquisizione ed apprendimento: Krashen inserisce questa distinzione nell’ambito della linguistica e la associa in particolare al momento in cui un bambino, per esempio, debba imparare una (seconda) lingua.
L’acquisizione, infatti, è un processo inconscio che non avviene in modo razionale, quanto piuttosto attraverso l’immergersi dentro la mole degli input che è necessario acquisire (per esempio, un bambino che cresce in una famiglia dove si parla il dialetto, lo fa suo senza studiarlo: lo sente parlare, e lo “osserva”, fino ad acquisirlo). Quando si tratta invece si apprendimento, entra in gioco il lavoro razionale e di studio nel senso più comune del termine.
Krashen sostiene che l’acquisizione è stabile e profonda: l’apprendimento invece, è di durata relativamente breve (qui un interessante articolo di approfondimento: https://amicidellagbpirelli.files.wordpress.com/2015/03/appunti-di-metodo.pdf).
Lo studioso americano è conosciuto poi per un concetto di particolare interesse definito “filtro affettivo”, che mette l’accento su come la componente affettiva intervenga nei processi di apprendimento.
E’ indubbio che l’emotività funzioni da “acceleratore” o “freno” ai processi di apprendimento. Quando c’è pathos e ci emozioniamo nel leggere una poesia, o nel leggere un romanzo, immagazziniamo informazioni con più velocità e con maggiore forza. Krashen ipotizza che esista un filtro affettivo che funzionerebbe come una difesa che viene di volta in volta abbassata o alzata. Esisterebbero quindi differenze di apprendimento da parte del bambino nei confronti di insegnanti diversi. A causa di questo filtro, non sarebbe il bambino in sé a essere al centro del processo di apprendimento, quanto piuttosto il rapporto che esiste con il suo “maestro”. In questo senso, come la psicologia generale ci conferma, l’apprendimento -in ambito scolastico- è sempre un lavoro congiunto, di collaborazione, fatto “in due”. Se riconosciamo in un altro un maestro, per esempio, abbassiamo il “filtro affettivo” lasciando che quello che dice/fa quell’altro produca in noi un cambiamento vero e duraturo: ci lasceremo influenzare solo dopo aver instaurato una relazione con la persona da cui decideremo -in primis- di apprendere. Se la relazione con un insegnante, per esempio, è turbata da fattori relazionali (sentirsi troppo in soggezione, in difficoltà, non provare stima), il filtro affettivo immaginato da Krashen contribuisce a bloccare i processi di transfert che in caso contrario favorirebbero l’imparare da lui/lei, un po’ come succede, in ambito famigliare, ad un figlio che rinneghi tratti caratteriale del padre, costruendosi una propria identità a partire da quello che il padre NON è. Una relazione invece, con un maestro, costruita su un affetto, fa da cornice a un apprendimento molto più profondo e rapido.
Ecco un video in cui lo stesso Krashen ci mostra ciò che intende per filtro affettivo (nel contesto dell’apprendimento di una lingua):