di Raffaele Avico
La nostra attenzione procede per mezzo di continui riorientamenti: in termini attentivi siamo manipolati da ciò che ci attira di più, o che riteniamo conveniente, a partire da un criterio di selezione degli stimoli ambientiali che cambia, in noi, con il procedere del tempo e a partire da molti fattori.
La “risposta di orientamento”, che struttura la nostra attenzione, ha una natura duplice: manifesta e implicita.
- La risposta di orientamento manifesta è costituita da un nostro tendere “esteriore” verso un determinato stimolo, per mezzo in primis dello guardo, poi del volto, infine del corpo in tutte le sue parti. Nel corso della crescita, avviene un percorso di maturazione cerebrale che ci consente di applicare dei filtri in qualche modo costituiti da quelli che sono i nostri valori, le identificazioni al punto di vista di altri per noi significativi, le griglie con cui osserviamo la realtà: questo processo è un processo top-down, che cioè parte dal cervello e ricade sul corpo, che agisce di conseguenza
- La risposta di orientamento invece implicita, è costituita dallo spostamento della nostra attenzione “interiore”, che ci consente, per esempio, di prestare mentalmente attenzione alle reazioni di un nostro partner mentre guardiamo un film: un fenomeno totalmente invisibile agli occhi di un osservatore esterno che ci stesse guardando. Questa risposta è maggiormente in balìa delle risposte automatiche del sistema nervoso: è la prima a focalizzarsi su un potenziale pericolo, la prima a “notare” che qualcosa non va.
Le due tipologie di orientamento, in condizioni ottimali, convergono. Quando riusciamo a focalizzare sia esteriormente, ma anche interiormente, la nostra attenzione su qualcosa, possiamo goderne pienamente l’esperienza. Sono interessanti gli studi sul “flow”, quello stato mentale di piena concentrazione -estremamente ricercato dagli sportivi -in cui la mente è iperfocalizzata sul presente e ciò che si sta facendo. In condizioni di sicurezza e tranquillità, tendenzialmente riusciamo a godere del presente grazie a un’attenzione ben focalizzata sia esteriormente che “dentro” di noi.
DOPO UN TRAUMA
Chi ha subito un trauma, tuttavia, vive profonde difficoltà di concentrazione e di permanenza nel momento presente. In che modo avviene questo?
Chi sperimenta un PTSD vive una difficoltà di sincronizzazione nelle due risposte di orientamento. Quello che succede, è che nel momento in cui si stia sperimentando una certa situazione “esteriore”, la risposta implicita di orientamento è segretamente allertata verso i possibili indizi che l’individuo collega al trauma. Questi indizi, i “trigger”, possono essere rappresentati sia da memorie di per sé (che tornano a fare capolino alla coscienza), che da eventi o particolari dell’ambiente esterno, che assumono valore di minaccia.
Ecco quindi verificarsi uno scollamento e una divergenza tra i due focus attentivi: la persona è nel presente, ma in qualche modo è lontana, poiché la sua attenzione implicita è mobilitata nella ricerca di possibili stimoli minacciosi.
Questo atteggiamento è frequentissimo in chi soffre di PTSD, anche non necessariamente collegato a gravi traumi. A volte basta una discussione forte con una persona a cui teniamo, o un senso di profondo disagio sperimentato in un contesto a cui non sentiamo di appartenere, per produrci delle forme molto lievi, ma subdole, di stress post-traumatico. Il mobbing sul posto di lavoro, per esempio, porta con sé molte di queste dinamiche.
La permanenza nel presente è dunque sacrificata, i questi casi, sull’altare del bisogno di sicurezza: solo gli stimoli rassicuranti o minacciosi verranno notati e presi in considerazione dall’attenzione selettiva “interna”, compromessa dall’esperienza del trauma.
Si verifica in questi casi un “restringimento” del campo della coscienza, dato che, se all’apparenza per la persona è ancora possibile dedicarsi a un compito cognitivo esterno, la sua attenzione interiore (governata da risposte riflesse e non filtrate da un ragionamento cosciente -per questo si parla di “riflesso di orientamento”, studiato storicamente sugli animali già da Pavlov) sarà focalizzata e chiusa dagli schemi connessi al vissuto traumatico.
Si osserva inoltre una certa tendenza della persona a “ritornare” al trauma, come in modo compulsivo, con l’attenzione: questo aspetto il cui meccanismo non è totalmente chiaro (come mai non riusciamo a lasciarci scorrere addosso, semplicemente, la memoria del trauma?), diviene anch’esso altamente invalidante.
Nel libro di Pat Odgen Il trauma e il corpo, vengono descritti nel dettaglio questi aspetti: essendo la risposta di orientamento implicita un processo bottom-up, viene consigliato, per il trattamento, un utilizzo di strategie di sensorymotor, quindi non basate sul dialogo. Per un paziente con PTSD cronicizzato, è più importante fare un lavoro di esplorazione di questi meccanismi, portandoli alla luce soprattutto nei risvolti “incarnati” (quali sono le sue tendenze di evitamento, quali le reazioni somatiche, il senso di minaccia e la tachicardia, l’alterazione del respiro, la difficoltà nel gestire il contatto oculare, per esempio), che non impostare il lavoro solamente sull’uso della parola, spesso insufficiente.