di Luca Proietti
Due studi di un gruppo italiano dimostrano come sia possibile ottenere una risposta terapeutica placebo anche in malattie neurodegenerative come il Parkinson, in queste condizioni risulterebbe fondamentale il meccanismo del condizionamento. Questi risultati potrebbero avere importanti implicazioni per i protocolli terapeutici di questa malattia e in generale per tutti i trial clinici randomizzati.
L’effetto placebo è il complesso fenomeno psicobiologico per cui la convinzione di ricevere un trattamento benefico può provocare reali effetti terapeutici. Generalmente si associa l’effetto placebo alla somministrazione di pillole inerti, fisicamente uguali al farmaco ma senza il principio farmacologicamente attivo. Più correttamente, come abbiamo visto nell’articolo precedente, anche il contesto esterno (ambiente, relazione medico paziente, tipo di comunicazione) e quello interno (credenze personali, ricordi associati ai trattamenti pregressi, tratti psicologici, variabili genetiche, speranze nei confronti della procedura terapeutica) producono risposte placebo. Quando somministriamo un principio farmacologicamente attivo, il suo reale impatto terapeutico è dato quindi dalla somma degli effetti specifici della sostanza (effetto specifico) e dall’effetto placebo veicolato dalle credenze del paziente (effetto aspecifico).
L’effetto placebo è mediato da due meccanismi: l’aspettativa positiva e il condizionamento. Il primo riguarda la convinzione da parte del paziente che il trattamento arrecherà beneficio. Il secondo, inconscio, indica il processo per cui somministrando con costanza un principio attivo, abitueremo il soggetto a sperimentare benefici effetti terapeutici in concomitanza con l’assunzione del farmaco; così la successiva somministrazione di una pillola inerte, ma fisicamente uguale al farmaco abituale, causerà gli stessi effetti benefici abituali.
Studi funzionali molecolari e di neuroimaging del sistema nervoso hanno dimostrato che all’effetto placebo corrisponde l’attivazione di vie neurobiologiche e recettori, in maniera analoga a quanto avviene con i farmaci. Uno degli aspetti più sorprendenti è che l’effetto placebo ha importanti implicazioni non solo nei disturbi della sfera psichica (ansia e depressione) o psicosomatica (percezione del dolore) ma anche in patologie neurodegenerative come il Morbo di Parkinson. In questa malattia si osserva una degenerazione, tra gli altri, dei neuroni che rilasciano dopamina (DA) in formazioni cerebrali profonde chiamate nuclei della Base, (in particolare nuclei del Corpo Striato); la carenza di DA è responsabile di molti dei sintomi motori, psichici e neurologici della malattia.
Studi hanno dimostrato che l’effetto placebo può aumentare il rilascio di DA nello Striato nei malati di Parkinson, modificando l’attività dei nuclei della Base e di un nucleo cerebrale (n. Subtalamico); l’equipe del Professor Benedetti dell’università di Torino, ha evidenziato che nella malattia di Parkinson con l’effetto placebo si può temporaneamente ripristinare il funzionamento di questi complessi circuiti neuronali, causando miglioramenti clinici apprezzabili dei sintomi (Benedetti et al., 2009). In questo lavoro sono stati reclutati pazienti in attesa di intervento di impianto di elettrodi per la stimolazione cerebrale profonda per il M. di Parkinson. Ad alcuni pazienti non è stato somministrato nessun trattamento farmacologico (primo gruppo), mentre gli altri sono condizionati per alcuni giorni con iniezioni di apomorfina sottocutanea (secondo e terzo gruppo). L’apomorfina è un farmaco antiparkisoniano che potenzia la trasmissione dopaminergica, stimolando i recettori dopaminergici dei neuroni, migliorando i tipici sintomi motori del M. di Parkinson come rigidità, lentezza nei movimenti, tremori. Subito prima dell’intervento al secondo gruppo è stata somministrata un’iniezione sottocutanea di soluzione fisiologica (soluzione inerte) con associata la suggestione di star ricevendo Apomorfina, mentre il terzo gruppo ha ricevuto un’iniezione sottocutanea di Apomorfina.
Sono state quindi misurate l’attività elettrica dei neuroni dei N. della Base e del N. Subtalamico, il miglioramento soggettivo riferito dal paziente e la sintomatologia oggettiva (rigidità) dei pazienti. Quest’ultima è stata valutata da un neurologo, all’oscuro del gruppo di appartenenza del paziente, tramite una scala apposita (UPDRS).
La somministrazione del placebo (soluzione salina) ha causato riduzione della rigidità, e un temporaneo ripristino dell’attività elettrica di scarica dei neuroni studiati: ri-attivazione dei nuclei ipoattivati dalla M. di parkinson (N. Talamici motori: Ventrale anteriore e Ventrale antero-laterale), e inibizione di quelli iperattivati dalla malattia (Sostanza Nera Reticolata e N. Subtalamico), analogamente a quanto avviene con l’apomorfina. L’entità della riduzione della rigidità risultava proporzionale all’intensità della risposta elettrica dei neuroni, a riprova del fatto che all’efficacia clinica del placebo (rigidità muscolare) è sottesa una reale risposta neurobiologica (attività neuronale).
Quanto dura e quanto ci mette ad agire l’effetto placebo nel Parkinson ?
In questi pazienti l’effetto placebo ha dimostrato la sua massima risposta clinica e neurofisiologica dopo 15 minuti, cioè lo stesso tempo di azione dell’apomorfina, tuttavia la durata dei benefici del placebo è minore, poiché esso termina in circa 45 min.
Questo studio ci mostra come un trattamento placebo, caratterizzato da una suggestione verbale di un miglioramento clinico possa ripristinare, anche se solo per poco tempo, un circuito neurobiologico danneggiato da una malattia neurodegenerativa come il Parkinson. Ha inoltre evidenze importanti sia per la farmacoterapia che per la psicoterapia. Si potrebbero infatti studiare protocolli che prevedano la riduzione del dosaggio farmacologico, con minori gli effetti collaterali, a parità di efficacia clinica.
Uno studio più recente dello stesso gruppo ha cercato di rispondere alla domanda se sia possibile ottenere anche senza un pre-condizionamento, ad esempio solo tramite suggestioni verbali, una risposta clinica per effetto placebo. Sembrerebbe di no: nel M. Parkinson l’effetto placebo si verificherebbe solo dopo procedure di precondizionamento con farmaci attivi, la sola aspettativa positiva con la somministrazione di un trattamento inerte non ha prodotto infatti alcun effetto terapeutico. (Frisaldi et al., 2017).
Questi lavori chiariscono i meccanismi della risposta placebo nel Parkinson, e in generale mostrano che sottoporre pazienti a un trattamento attivo prima di somministrazione di placebo, come avviene in trial clinici randomizzati (RCT), aumenta la portata dell’effetto placebo.
BIBLIOGRAFIA
Frisaldi, Carlino, Zibetti, Barbiani, Dematteis, Lanotte, Lopiano, Benedetti, The placebo effect in Bradykinesia in Parkinson’s disease With and without prior drug conditioning, Movement Disorder, 2017.
Benedetti, Lanotte, Colloca, Ducati, Zibetti, Lopiano, Electrophysiological properties of thalamic, subthalamic and nigral neurons during the anti-parkinsonian placebo response, Journal of Physiology 2009.