di Matteo Respino
La capacità di un individuo di parlare due lingue, il cosiddetto “bilinguismo”, ed il suo effetto sulle funzioni cognitive, sui sistemi biologici cerebrali e sull’esordio di patologie neurologiche e psichiatriche è un argomento di grande interesse in un mondo sempre più globale, in cui masse di individui emigrano per le più diverse ragioni, esponendosi quindi alla “fatica” di imparare una nuova lingua. Il fattore migratorio, insieme all’invecchiamento generale della popolazione, rende particolarmente interessante l’interazione “bilinguismo-declino cognitivo” in età avanzata, interazione certamente complessa poiché probabilmente influenzata da molte variabili confondenti quali lo status socio-economico, la professione, il livello educazionale, quanto si è effettivamente proficienti nella seconda lingua, il contesto e supporto sociale, etc. Questi fattori potenzialmente confondenti hanno reso l’argomento piuttosto controverso e di difficile studio, sebbene negli ultimi anni siano usciti diversi studi a fare chiarezza in merito, alcuni provenienti da gruppi italiani.
Innazitutto, diverse evidenze suggeriscono che il bilinguismo “protegge” gli individui ritardando l’esordio di demenza di approssimativamente 4-5 anni. Ad esempio, uno studio retrospettivo del 2013 (Alladi et al.) che ha investigato oltre 600 pazienti affetti da demenza, ha mostrato appunto che i pazienti con bilinguismo esprimevano la malattia circa 4 anni e mezzo dopo i pazienti monolingua, indipendentemente da diversi fattori confondenti quali, tra gli altri, educazione e status professionale.
Una bella review sulle evidenze in argomento è quella di Perani, che titola “Bilingualism, dementia, cognitive and neural reserve” pubblicata su Current Opinion in Neurology nel 2015 e che si focalizza sul concetto di “riserva cognitiva”, ovvero la capacità di mantenere livelli di funzione mentale e cognitiva più alti di ciò che ci aspetterebbe, dato un certo livello di patologia già presente a livello dei tessuti cerebrali. Infatti, in generale, la presenza di danno tissutale tende a precedere l’insorgenza di demenza conclamata. La riserva cognitiva è quindi sostanzialmente una misura di “resilienza” al danno neuropatologico. Nella sopracitata revisione della letteratura scientifica si riassumono le evidenze che complessivamente sostengono come il bilinguismo potrebbe essere un importante fattore di potenziamento della riserva cognitiva migliorando funzioni esecutive, attenzione selettiva, ma anche memorizzazione. Vengono inoltre revisionati quegli studi, soprattutto retrospettivi, come quello di Alladi già citato, ed altri che hanno sostanzialmente osservato il medesimo dato: il bilinguismo ritarda l’emerge di demenza di diversi anni, indipendentemente da altri fattori quali immigrazione o educazione.
Infine, gli Autori riassumono le evidenze legate alle differenze anatomico-biologiche tra il cervello bilingua e quello monolingua. I soggetti con bilinguismo mostrerebbero infatti, ad esempio, una maggiore connettività funzionale a livello frontoparietale ed una maggiore densità della sostanza grigia di aree critiche per il linguaggio e più in generale per il mantenimento del controllo cognitivo, quali il lobulo parietale inferiore e la corteccia cingolata anteriore dorsale. Infine, gli stessi Autori hanno pubblicato recentemente uno studio (Perani et al., 2017) su 85 soggetti in cui, a sostegno dell’ipotesi che il bilinguismo costituisca un elemento di riserva cognitiva, hanno dimostrato una maggiore connettività metabolica in network cerebrali centrali per il mantenimento di funzioni cognitive quali default-mode e soprattutto executive-control network.
In conclusione appare oggi sempre più chiaro che il bilinguismo sia un fattore di sostanziale beneficio, di potenziamento della riserva cognitiva e capace di ritardare l’esordio di disturbi neurocognitivi maggiori. Nonostante ciò tale effetto sembra essere legato al sottotipo di bilinguismo. Ad esempio, sembra centrale che il soggetto si mantenga proficiente nella seconda lingua durata il corso di tutta la vita, anche durante la terza età.
Bibliografia
Alladi et al. Bilingualism delays age at onset of dementia, independent of education and immigration status. Neurology, 2013, 81(22):1938-44.
Perani et al. Bilingualism, dementia, cognitive and neural reserve. Current Opinion in Neurology, 2015, 28:618-625
Perani et al. The impact of bilingualism on brain reserve and metabolic connectivity in Alzheimer’s dementia. PNAS, 2017, 114:1690-1695.