di Raffaele Avico
Il disturbo bipolare fa parte della categoria diagnostica dei disturbi dell’umore (il segno più evidente di questo tipo di complicazioni psichiatriche è un innalzamento o un abbassamento inusuali del tono dell’umore) e ha come caratteristica centrale la polarizzazione dell’umore intorno ai due estremi di mania e di depressione (da qui il termine bi-polare). L’andamento dell’umore appare cioè inusualmente depresso in una prima fase, per poi virare in un’euforia non controllabile dal soggetto in altri momenti.
L’andamento di questi cicli ha portato alla creazione di ulteriori sotto-diagnosi che tentano di descrivere in modo più preciso lo svilupparsi del disturbo:
- disturbo bipolare di tipo I, con una gravità maggiore degli episodi sia depressivi che maniacali, e una scarsa consapevolezza di malattia da parte dell’individuo che ne soffre
- disturbo bipolare di tipo II, con episodi più lievi di maniacalità a intervallare il disturbo depressivo (grave), sempre con un andamento irregolare e poco prevedibile, ma con un livello di consapevolezza da parte del soggetto relativamente alto (e l’assenza di ospedalizzazioni necessarie, come invece succede per il tipo I del disturbo).
- disturbo ciclotimico, per cui non sono soddisfatti i livelli di gravità tali da far rientrare il disturbo nelle precedenti cateogorie, ma è comunque irregoalre il tono dell’umore e i cicli sono più rapidi
Il disturbo bipolare per immagini:
Il criterio di categorizzazione diagnostica, è il livello di gravità e di intrusività del disturbo nella vita del paziente.
Si parla inoltre di episodio “misto”, che appare in concomitanza con il passaggio da una fase (per esempio quella depressiva) all’altra, considerato il più rischioso in termini di possibile suicidio messo in atto dal soggetto colpito da una serie di emozioni opposte e contraddittorie.
Storicamente il disturbo fu osservato e decritto sempre usando l’immagine dell’alternanza tra stadi umorali opposti (“follia ciclica”).
Il disturbo ha una base prevalentemente genetica e una natura maggiormente organica: quindi, se diagnosticato correttamente, il trattamento va tentato in primo luogo impostando una terapia farmacologia da uno psichiatra che conosca a fondo la storia clinica del paziente; la terapia farmacologia va integrata poi con una psicoterapia che abbia valenza di psicoeducazione al conoscere e riconoscere i segnali del prossimo viraggio umorale o del passaggio da una fase del disturbo all’altra.
Se ci cercano delle origini psicodinamiche all’accesso depressivo, o a quello maniacale, si fa un errore cercando un significato interiore o interpersonale al disturbo, quando alla base è probabile esista uno squilibrio o un malfunzionamento di natura organica, che tuttavia non è ancora stato compreso a fondo. Una psicoanalisi, quindi, non è un trattamento indicato, a meno che non assolva a una funzione psicoeducativa che aiuti il paziente a monitorarsi e a divenire il maggiore esperto del proprio disturbo.
E’ tuttavia possibile che alcuni eventi significativi in senso relazionale possano favorire l’irregolarità del tono umorale (per esempio “innescando” la fase maniacale): la gestione di un disturbo simile esige da parte del paziente una certa regolarità nelle abitudini di vita (per esempio nella gestione del ritmo sonno/veglia, nell’orario di assunzione dei farmaci, nel regime alimentare, nel tenere il corpo in movimento, etc).
Storicamente si considerò la fase depressiva come “basale”, nel senso che strutturalmente si pensava ci fosse la fase depressiva in posizione sottostante quella maniacale, che le si sarebbe installata, in modo intermittente, sopra. Recentemente alcuni autori hanno proposto invece un primato della mania, ovvero, la depressione sarebbe la coda del periodo maniacale, che lascia il soggetto prostrato e esaurito in termini energetici. Ne abbiamo scritto qui. Per esempio in questo articolo, viene evidenziato come la natura centrale del disturbo sarebbe, secondo gli autori, un problema di tendenza a sviluppare primariamente episodi maniacali.