di Raffaele Avico
Quando parliamo di disturbo dissociativo parliamo in realtà di un disturbo polimorfo che presenta diverse definizioni e del quale sembra difficile dare un’immagine univoca. Allo stato attuale, esistono due definizioni principiali, che distinguono la dissociazione propriamente detta, dalla dissociazione strutturale, come riassunto di seguito.
Distinguiamo:
- dissociazione come sintomo (dissociazione di stato): l’esperienza del soggetto è caratterizzata da discontinuità. Si parla in questo caso anche di detachment. Si può percepire che la persona sia con la mente in un altrove fantasticato o in una sorta di assenza; ci si può accorgere di un simile stato mentale “assorbito” osservando gli occhi, sgranati, di un individuo che ne sia colpito. In questi casi si parla di grounding proprio a indicare l’operazione di riportare la persona al dato reale e presente (per esempio chiedendo al soggetto di nominare degli oggetti della stanza). La dissociazione è presente laddove esistano esperienze non ricordate, cose fatte in uno stato di coscienza alterato senza che ve ne sia ricordo (come le fughe dissociative), oppure quando si parla di de-realizzazione o depersonalizzazione. I teorici del continuum (come Ruth Lanius) sostengono esista un gradiente di gravità dei sintomi stessi, partendo da un senso di straniamento nei confronti della realtà, fino al vissuto di depersonalizzazione (visione di sé dall’esterno) e derealizzazione (incredulità sulla realtà). In quest’ottica i sintomi dissociativi sono quindi gli stessi, sempre, ma posseggono livelli di gravità diversi.
- Dissociazione strutturale della personalità (dissociazione di tratto): nel contesto di uno sviluppo traumatico viene prodotta una spaccatura in due o più parti, verticale, della personalità. Si parla in questo caso anche di compartimentalizzazione. Una parte prosegue il suo percorso di adattamento al contesto (parte apparentemente normale, o ANP), l’altra, emozionale (emotional part, EP), rimane bloccata al momento del trauma, permanendo dentro i confini della personalità come una parte immobile e nascosta. Questa teorizzazione è quella presente sul libro Fantasmi nel Sè di Onno Van Der Hart, come qui approfondito.
Parliamo quindi di dissociazione come sintomo, oppure di dissociazione come alterazione della struttura della personalità.
In particolare nella concettualizzazione come sintomo della dissociazione, si ha la forte impressione che il soggetto presenti un’alterazione nella continuità dello stato di coscienza, che appare “intermittente”, mutevole nel caso dell’alternarsi di diverse “parti”, oppure corrotto da “assenze” dissociative.
Al di là della definizione unica, molto difficile da raggiungere, molteplici evidenze collegano la comparsa di disturbi di tipo dissociativo a esperienze traumatiche:
“Un vasta e crescente mole di letteratura scientifica indica da circa un secolo che i disturbi e i sintomi dissociativi sono correlati con esperienze traumatiche, in particolar modo quelle di tipo relazionale che avvengono durante l’infanzia e per le quali è stato proposto l’uso dell’espressione trauma dello sviluppo o sviluppo traumatico (Carlson 2009; Herman 1992; Lanius 2010; Liotti e Farina 2011; van der Kolk 2005).”
Leggiamo sul sito dell’AISTED (associazione italiana per lo studio del trauma e della dissociazione) che alcuni segni per riconoscere un’esperienza dissociativa in corso, sono:
- intrusioni ricorrenti e inspiegabili nel loro funzionamento cosciente e nella propria identità (es voci, azioni, discorsi, pensieri, emozioni, impulsi intrusivi);
- alterazioni del senso del sè (es: attitudini, preferenze, e sensazione di estraneità nei confronti del proprio corpo e delle proprie azioni);
- bizzarri cambiamenti della percezione (es: depersonalizzazione o derealizzazione, come sentirsi distaccati dal proprio corpo);
- sintomi neurologici funzionali intermittenti. Lo stress spesso produce un aggravamento dei sintomi dissociativi rendendoli più evidenti.
Qui un approfondimento.