di Raffaele Avico
L’ultima edizione della Scuola di Neuroetica della SISSA ha avuto come focus centrale il tema “Emozioni, linguaggio e autocontrollo“, con particolare attenzione al tema narrazione in ambito di addiction. L’idea è che il produrre narrazioni coerenti riesca a incentivare la motivazione a un cambiamento più rapido (piano del comportamento), e che questo abbia ripercussioni anche sulla neurobiologia. La discussione si è mossa sul crinale tra un biologismo spinto (come raffigurare i conflitti in atto in un soggetto colpito da addiction tramite brain imaging? come osservarne, quando presenti, i cambiamenti in ambito di panorama neurotrasmettitoriale?) e una valutazione più ampia della questione (promossa da Stefano Canali di Psicoattivo, organizzatore dell’evento) nei termini di una diversa concettualizzazione della dipendenza stessa (patologia della volontà, problema inerente il controllo sugli impulsi, posizione di passività o di controllo/mastery nei confronti dell’oggetto dell’addiction, questioni che rappresentano la cifra del lavoro fatto sul già citato Psicoattivo, unico blog italiano che tenti una lettura “totale” del problema, unendo rigore scientifico ad aspetti neuroetico/esistenziali – cui rimandiamo per approfondimenti).
Una delle questioni poste dall’incontro, è se l’uso del linguaggio riesca a interferire, e in che modo, con la messa in piedi di comportamenti di addiction.
AFFECT LABELING
Per affect labeling intendiamo l’etichettamento verbale di stati emotivo/corporei indefiniti, svolta in modo volontario, ma fatta anche in modo implicito. Esiste una letteratura specifica sul tema, seppur non nutrita. Gli studi più interessanti sono:
- Questo studio pubblicato su Frontiers in Psychology nel 2014, descriveva come a seguito di un processo di etichettamento di stati affettivi provocati sui soggetti del campione tramite esposizione a particolari stressor, nominare verbalmente stati interiori percepiti come indefiniti sapesse produrre un abbassamento del generale senso di stress percepito. In senso neuroanatomico, venne osservata una maggiore attivazione delle zone prefrontali e un abbattimento dell’attivazione dell’amigdala (la corteccia prefrontale frena, in questi casi, l’attivazione dell’amigdala, come molta letteratura sul trauma conferma)
- Questo studio del 2014, pubblicato sempre su Frontiers in Psychology, osservava come i circuiti neurali attivati nei compiti di reappraisal (ristrutturazione cognitiva) e affect labeling, fossero sostanzialmente sovrapponibili. Il reappraisal è un’operazione di ri-narrazione di un evento emotivamente saliente, al fine di ridurne la potenza attivante. L’affect labeling sembrava produrre risposte neuroanatomiche similari.
- Questo studio, del 2018, pubblicato da Torre e Lieberman (che è il riferimento di ricerca per l’affect labeling), ampliava la questione, osservando 4 aree generali di impatto dell’affect labeling sull’individuo: a) area esperienziale, con una riduzione generale dello stress percepito, b) area autonomica, con marker neurofisiologici evidenti sia immediati che ritardati: minor tachicardia, abbassata conduttanza cutanea, diversa intonazione della voce -segnali autonomici di uno stato nervoso maggiormente “placato”, c) area neuroanatomica, con un maggior intervento della corteccia prefrontale intesa qui come CAUSA del seguente abbattimento dell’amigdala e, d) area comportamentale, con migliori performance a compiti stressanti specifici, come in ambito di terapia espositiva.
Quest’ultimo articolo portava anche la questione su aspetti maggiormente speculativi, chiedendosi: “perchè il nominare stati corporeo/affettivi interiori avrebbe un effetto così calmante/disattivante?”, producendo 4 ipotesi:
- DISTRAZIONE: per cui lo stimolo parola riuscirebbe a ridurre lo stimolo attivante in senso emotivo per mezzo di un’operazione di sviamento dell’attenzione selettiva interna
- AUTO-RIFLESSIONE: per cui l’etichettamento verbale di stati affettivi consentirebbe di portare l’individuo a un riconoscimento di aspetti di sé e quindi a uno stato di distanziamento/DIS-IDENTIFICAZIONE dagli stessi (stato idealmente ricercato anche nella mindfulness)
- RIDUZIONE DELL’INCERTEZZA: per cui l’etichettamento verbale di stati affettivi consentirebbe di ridurre lo stato di ansia e incertezza derivato da uno stato emotivo percepito come ambiguo, non chiaro (ipotesi molto accreditata data l’esistenza di molta letteratura sulle risposte autonomiche procurate dall’esposizione dell’individuo a stimoli “non conosciuti”)
- CONVERSIONE SIMBOLICA: per cui simbolizzare uno stato affettivo, in qualche modo concettualizzandolo, riuscirebbe a produrre un “distanziamento psicologico” tale da ridurre l’attivazione dell’amigdala
L’affect labeling è il modo tecnico per tradurre un concetto caro a Daniel Siegel, neurobiologo statunitense, che usa lo slogan “nominare per dominare”. Ovvero, l’etichettamento linguistico consente di interferire laddove vi siano risposte autonomiche o automatiche, in particolare nell’ambito generale dei “disturbi da controllo dell’impulso o della volontà” (come l’addiction) o quando si debbano “regolare” stati emotivi disregolati (abbiamo visto come l’atto stesso del nominare consenta di ridurre stati di iperarousal e di rientrare in quello che lo stesso Siegel chiama Finestra di Tolleranza).
Come ultimo aspetto da considerare, l’affect labeling è lo strumento centrale della psicoterapia, presente quando si metta “parola” a dominare e idealmente gestire un “sintomo”. È quindi, in realtà, uno strumento molto antico: gli articoli prima citati rappresentano il tentativo di farne oggetto di studio e di ricerca scientifica.