Il modello organo-dinamico di Ey mette insieme le teorie di Janet, con le formulazioni di Jackson relativamente al suo “principio di gerarchia” cerebrale, trovando al momento riverberi nelle teorie più attuali di Damasio e Panksepp (solo per citare alcuni nomi maggiori). I concetti centrali che lo caratterizzano, sono:
- una visione evoluzionistica e gerarchicamente orientata dello sviluppo del cervello
- l’integrazione come funzione mentale centrale, avente come punto massimo di sua espressione la coscienza
- l’organizzazione come pilastro centrale della teoria (qui approfondito questo aspetto)
- la psicopatologia come espressione della disintegrazione/dissoluzione della mente
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La mente, in questa visione, è un’emanazione del cervello, a sua volta costituitosi per strati evoluzionisticamente successivi e sovrapposti. La teoria di Ey è largamente affine alla teoria del cervello triuno di MacLean. In questo modo, esiste un continuum non solo anatomico, ma anche funzionale delle diverse aree cerebrali, con le relative funzioni, secondo uno schema del tipo:
ANTICO |
RECENTE |
aree profonde |
aree recenti |
centri automatici |
centri a maggiore controllo |
conoscenza procedurale |
conoscenza dichiarativa |
Gli autori attribuiscono a una concettualizzazione della mente di questo tipo, la premessa teorica che fa da fondo all’intera Teoria dell’Attaccamento di Bowlby, che al momento rappresenta una griglia di lettura basale e fondativa per chiunque si occupi di psicologia e psicopatologia dello sviluppo, in grado di superare ed eclissare il modello freudiano “a fasi”.
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In seguito, gli autori portano molteplici evidenze a supporto della concezione gerarchica della strutturazione delle funzioni mentali, da quelle più basiche ed autonomiche a quelle superiori. Secondo la teoria formulata da Ey, il punto più alto di questa gerarchia è rappresentato dalla coscienza, definita in modo doppio:
- la coscienza sincronica: ovvero la capacità di mantenere un’attenzione sostenuta e orientata, la possibilità di orientamento nello spazio tempo, la coscienza quindi osservata dal vertice prospettico del “neurologo”, ovvero uno strumento necessario all’adattamento all’ambiente
- la coscienza diacronica: ovvero la coscienza di sè, intesa come “senso di essere unici e presenti nello spazio” (self-consciousness)
La coscienza andrebbe intesa dunque come costituita da queste due modalità della coscienza stessa combinate, reciprocamente costituentisi in un “unicum” funzionale alla vita dell’individuo (nelle parole dello stesso Ey: “ultimately it is the same to say that I’m conscious of something only if I am somebody”).
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La coscienza intesa come doppio dispositivo (diacronico e sincronico) emerge nella sua centralità per la vita dell’individuo quando, per molteplici ragioni, venga meno il suo “buon funzionamento”: Ey fa derivare, come spiegano gli autori, la maggior parte dell’eziopatogenesi dei disturbi psichici a fallimenti nella capacità di integrazione della coscienza dell’individuo. Questo lo riprende, l’articolo continua, dalle teorie di Janet, Jackson e Bergson (quest’ultimo aveva teorizzato che alcune aree cerebrali non avessero altra funzione che regolare altre aree del cervello -i numerosi studi focalizzati sulle funzioni prefrontali a fare da freno all’attivazione anomala dell’amigdala, vanno in questa direzione -per esempio i lavori di Ruth Lanius).
Il luogo “mancante”, quindi, o meglio, l’origine di molteplici forme di disturbo, andrebbe dunque da rintracciarsi nelle funzioni metacognitive, ovvero in quelle funzioni mentali superiori ((per esempio la funzione “madre” integrativa) che consentono alle altre, sottostanti, di funzionare al meglio. Gli autori notano come le teorizzazioni più recenti di Damasio ed Edelman sembrino rinforzare le teorizzazioni iniziali di Ey, formulate più di 50 anni fa.
Dal punto di vista invece psicopatologico, Ey descrisse due tipologie di problema a partire da ciò che considerava essere il nodo originario di ogni tipologia di problematica psichiatria: la dissoluzione (di Jacksoniana memoria). Distinguiamo, in questa visione, due tipologie di dissoluzione:
- dissoluzione locale, come conseguenza dell’alterazione di una singola funzione mentale (ambito storicamente preso in carico dalla neurologia)
- dissoluzione uniforme: in conseguenza dell’alterazione di livello alto della funzione integrativa, emerge un’impossibile integrazione tra funzioni (ambito storicamente preso in carico dalla psichiatria)
Seguendo questo modello, a ogni alterazione (dissoluzione) di ogni singola area/funzione cerebrale, avremo un “effetto” negativo (alterazione in negativo -deficit- dell’area colpita) e un effetto positivo (causato dall’impossibilità da parte della zona/funzione colpita di modulare le aree/funzioni gerarchicamente sottostanti).
Questa lettura supera, per certi versi, l’idea che il sintomo sia una diretta conseguenza della lesione dell’area cerebrale colpita. Se consideriamo per esempio gli studi sul rapporto tra corteccia prefrontale e amigdala effettuati dalla prima citata Ruth Lanius, andrebbe osservato come un disordine funzionale della corteccia prefrontale (in grado potenzialmente di frenare e modulare l’attivazione dell’amigdala) avrà effetti non solo negativi (per esempio con un deficit in termini di funzioni esecutive) ma anche positivi (sviluppo di un PTSD).
Il modello organodinamico di Henri Ey rappresenta un presupposto teorico della moderna visione psicotraumatologica, che come sappiamo “comincia” con Janet per arrivare, per fare alcuni esempi, alla Teoria Polivagale di Stephen Porges, agli studi sulla dissociazione strutturale di personalità di Van Der Hart, alla teoria sull’EMDR, ai libri divulgativi di Daniel Siegel di neurobiologia interpersonale, alla teoria della psicoterapia sensomotoria incentrata sul corpo.