di Raffaele Avico
“Per ciò che riguarda la psiche non posso dir molto di preciso: è certo che per molti mesi sono vissuto senza alcuna prospettiva, dato che non ero curato e non vedevo una qualsiasi via d’uscita dal logorio fisico che mi consumava. (…) mi pare di poter dire che questo stato d’animo non è ossessionante come nel passato. D’altronde esso non può cessare con uno sforzo di volontà; intanto dovrei essere in grado di fare questo sforzo, o di sforzarmi di sforzarmi ecc. A parole è semplice, nei fatti ogni sforzo conseguente diventa subito un’ossessione e un orgasmo. [..] Le allucinazioni sono completamente passate e anche è diminuita la contrazione o rattrazione degli arti, specialmente delle gambe e dei piedi” (Antonio Gramsci, Lettere dal carcere)
La psicologia della carcerazione può allo stato attuale delle cose offrire interessanti spunti di riflessione. Può essere utile comprendere quali siano gli strumenti di preservazione della salute mentale adottati da carcerati e persone costrette a un regime di costrizione non per settimane o mesi, ma per anni.
Leggendo qua e là un po’ di letteratura e lavori sul tema, ci si imbatte in contenuti più rigorosi con elencazioni di patologia psichiatriche sviluppate nel contesto chiuso della cella, ma non è semplice raccogliere e sistematizzare contenuti che abbiano come oggetto centrale il semplice: che fare?
Uno dei siti forse più istruttivi, è Ristretti.it, incentrato sulle testimonianze dirette di carcerati e reclusi, costretti a un lavoro di costante e faticoso adattamento alle restrizioni della vita carceraria.
Ricordiamo che il carcere è una delle istituzioni totali.
L’obbligo alla chiusura pone diversi problemi alla vita dell’individuo. Senza voler forzare la mano a un confronto troppo diretto tra una vita “da quarantena” e una vita in carcere, può essere utile chiedersi quali elementi contribuiscono alla preservazione di una buona salute mentale durante un periodo forzato di isolamento. Ristretti.it ci fornisce alcuni spunti interessanti. Si parla di carcerite (qui un approfondimento) , di prisonizzazione (a indicare una serie di sintomi mentali e fisici collegati allo stile di vita carcerario), deculturalizzazione (perdita di schemi di comportamento adeguati alla cultura dominante), alienazione (accomodazione patologica ad un ambiente che destruttura la personalità), acculturazione (acquisizione di ruoli, comportamenti, valori della cultura carceraria).
Goffman, autore di Asylum, osservava come la “prisonizzazione” fosse una conseguenza dello stile di vita dentro tutte le istituzioni totali (quindi anche ricoveri per anziani, ospedali psichiatrici, caserme, monasteri).
Ristretti.it ci offre molto materiale da prendere in esame. Troviamo sottolineati aspetti della vita del carcere che diventano rituali (o meglio che divengono, progressivamente, ritualizzati, come il chiudersi delle porte, il momento del pasto, elementi ricorrenti e connotanti come il rumore delle chiavi del secondini, fatte tintinnare apposta – la sensazione è che l’ambiente chiuso ricrei un ambiente da esperimento sociale di memoria pavloviana). Altre, molteplici problematiche (dai sintomi psicosomatici al rischio di deterioramento cognitivo, a un collasso della libido/sessualità) vengono citate come possibilità connesse allo stato d’isolamento – qui un approfondimento.
Laddove tuttavia l’istituzione impone il rituale e una vita consumata nella ripetizione, emergono elementi di possibile salvaguardia. In particolare su ristretti.it troviamo citate:
- attività affermative (o di soggettivazione) di natura artistica: lavoratori di scrittura, di espressività, arteterapia, lettura, cucina (vd. Gambero nero)
- la cura “ossessiva” dell’immagine proiettata, con funzione di contenimento. Poi: cura del vestiario, della pulizia, dell’igiene, degli ambienti in cui si vive. Corpi trascurati, corpi annullati
- cura dell’alimentazione, con forti radicalizzazioni -fino ad arrivare a una maniacalità sugli aspetti “salutistici”
- cura dell’igiene del sonno: Ritretti.it fornisce un breve guida alla vita sana in carcere, dove il detenuto viene esortato a svegliarsi presto, a fare moto in cella, a non rimanere a letto e non dormire di giorno
- colloqui (con operatori, psicologi, psichiatri, ma anche parenti) con funzione di detensione, contenimento, socializzazione..in una parola: connessione. I colloqui hanno funzione inoltre di “destrutturazione” identitaria in un contesto che al contrario tenderebbe al cristallizzare gli aspetti identitari dell’individuo. Questo vuol dire che il lavoro di uno psicologo, per esempio, in questi contesti, dovrebbe essere quello di favorire una decostruzione identitaria e un ripensamento di alcuni aspetti relativi a come l’individuo percepisce se stesso (proprio perché il carcere alimenta rispecchiamenti ricorsivi in grado di portare la persona a una cristallizzazione dell’identità)
- la ritualità come doppia valenza: da un lato stringe l’individuo in una morsa di eventi ricorrenti, claustrofobici; dall’altro, rappresenta un importante riferimento ambientale in grado di sorreggere l’individuo nei suoi propositi auto-disciplinari. In questo lavoro etnografico, viene per esempio sottolineato come, nel contesto del carcere, uno degli elementi di maggiore impatto negativo sulla mente sia l’imprevedibilità, l’impossibilità di creare routines
- l’ambiente viene assorbito dal corpo: questo sia in positivo che in negativo. L’ambiente del carcere è un ambiente spesso molto “brutto”: il rischio è che questo pesi sulla psicologia delle persone. Qua avevamo già scritto sul rapporto tra psichiatria, psicologia e architettura, insieme a Maria Pia Amore. Questo elemento va considerato se si pensa al tema della cura del proprio spazio, alle “isole di ordine”, agli angoli personalizzati, alla presenza o meno di “safe places”.
- attività fisica come necessaria distrazione, in grado di frammentare la consapevolezza a riguardo della pena in sè, rendendola più tollerabile. Nelle Lettere dal carcere, Gramsci descrive quella che lui chiama “ginnastica da camera”, “che non credo sia molto razionale, ma che tuttavia mi giova moltissimo, secondo la mia impressione. (…) Credo che questa innovazione mi abbia giovato anche psicologicamente, distraendomi specialmente dalle letture troppo insulse e fatte solo per ammazzare il tempo”.
Per quanto riguarda, per così dire, la fenomenologia del vissuto carcerario, ci viene in aiuto un lavoro di Vincenzo Gagliardo chiamato Dei dolori e delle pene (qui scaricabile per intero), in cui vengono portate alcune riflessioni sulla salute mentale e fisica del carcerato, con alcuni spunti interessanti, seppur estremi. In particolare, due capitoli del lavoro (“della mente” e “del corpo”) meritano un approfondiment0:
Il corpo ignorato smette però di reagire come un animale domestico. E l’animale in gabbia rivela – anche se sembrava domestico – caratteristiche fino ad allora poco conosciute. La prima scoperta da farsi è che il corpo ignorato non produce vuoto ma dolore: dolore fisico. Il dolore è una reazione all’ignoranza del corpo, serve a ricordarci che siamo un corpo. E’ l’aspetto assunto dal senso della realtà, criterio di verità che prova ad ancorare la mente al mondo, dicendoci che ne siamo parte. E’ la parola dei muti ai quali non è consentito il gesto. [..] Alla luce di una lunga esperienza personale mi sono formato una convinzione che forse scandalizzerà qualche liberale: in carcere la malattia psicosomatica è uno stato necessario del corpo. La malattia è la cura, anche se una cura pericolosa. Non si guarisce per non morire. Come disse un detenuto: comportarsi da normali in una situazione anormale sarebbe proprio da anormali. La malattia psicosomatica (artrite, gastrite, eczema ecc.) fa da barriera a un più grave grado d’intossicazione: la malattia degenerativa (o invecchiamento precoce, come si diceva più chiaramente una volta) o l’epidemia. E’ il piccolo male che ci protegge dai grandi mali sempre in agguato fra le mura, in noi e fuori di noi: il diabete o l’epatite, la malattia cardiovascolare o la tubercolosi, il tumore o …, ecc. La malattia da carcere che si sviluppa a partire dall’iniziale alterazione dei sensi, è omeopatia spontanea. E’ l’arma della tolleranza verso il corpo contro l’annientamento. La ragione più profonda della malattia omeopatica naturale in carcere è la necessità vitale di resistere contro l’esasperato dualismo di un ambiente organizzato per scindere il corpo dalla mente.
Si noti dalle riflessioni sopra come l’intero processo possa essere riletto usando come cornice la psicopatologia dei disturbi di natura conversiva o dissociativa. La malattia psicosomatica, in questo senso, interviene come “sintomo estremo” in ragione di un conflitto ulteriore, di fondo, intollerabile. Di fronte a questo conflitto e a un ambiente percepito come “impossibile”, la mente, secondo questa lettura, si organizza in senso difensivo prima auto-inducendosi uno stato simil-alterato di coscienza, quindi “producendo” sintomi di natura psicosomatica -con funzione, però, salvifica.
Addirittura Gagliardo ragiona su quanto esasperare la cura del corpo, possa essere nocivo -nel contesto del carcere- per la “tenuta” mentale:
Il prezzo di una troppo buona salute fisica rischia di essere la morte psichica. C’è un’abitudine che si sta diffondendo nella società (si pensi agli Stati Uniti) e che in carcere si è spesso vista da tempi più antichi: la dedizione maniacale al corpo di taluni attraverso diete rigorose ed esercizio fisico spaventoso. Il commento dei non-maniaci è bonario: «lo fa per non pensare, forse si è bevuto il cervello»
Il lavoro di Gagliardo (che, ricordiamolo, è un ex brigatista con molto carcere alle spalle), scava nella profondità psicologica dell’esperienza carceraria, parlando di conflitti intrapsichici spostati sul piano somatico, distorsioni della coscienza, stati para-deliranti.
Occorre riportare alcuni brani significativi del suo lavoro, per farcene un’idea più precisa:
- Il prigioniero si ribella contro ciò che sente assurdo, proprio contro quelle imposizioni che gli sembrano «folli» e perciò tanto più umilianti da accettare. Ben presto però si accorge di essere puntualmente perdente in questo scontro. Potrà allora accettare la sconfitta permanente e il costo che ne deriva come prezzo della dignità secondo il noto ragionamento implicito in ogni battaglia di principio: l’importante non è vincere ma resistere. Anche in questo caso un compromesso tra la propria coscienza e il comportamento esteriore è inevitabile in certe situazioni, giacché quel che ognuno ritiene giusto fare per reagire dipende comunque più dal contesto collettivo in cui si trova che dalla propria volontà; ma ognuno allora, a seconda della sua storia, della sua cultura e del suo carattere decide dentro di sé qual è la soglia del cedimento oltre la quale la sua dignità è messa in pericolo
- [..] Ma, a parte il relativo isolamento del senso della dignità per ciascun individuo (fatto in sé naturale e positivo dato che è rivelatore dell’unicità degli individui e, pertanto, del carattere insopprimibile del bisogno di libertà per gli esseri umani), abbiamo tutti a che fare con una difficoltà ancora più grande, questa volta sociale, di natura culturale e indubbiamente negativa: non siamo stati educati a vivere a lungo le contraddizioni. Una tale capacità, ovvero la resistenza interiore, richiede una forte modestia, un’accettazione cosciente dei propri limiti che cozza puntualmente con l’individualismo di cui i più vengono imbevuti fin da bambini. Può succedere allora che per esorcizzare la paura il cosciente compromesso sul comportamento si trasferisca pian piano in un compromesso della coscienza, spostando la soglia dell’invalicabile. E’ l’inizio della caduta sul cammino della disumanizzazione.
- La falsa coscienza è essenzialmente un far di necessità virtù, una graduale rimozione della coscienza del conflitto, e della positività della sua esistenza all’interno della coscienza. La perdita dell’equilibrio interiore è una sorta di peccato d’orgoglio; si diventa incapaci di riconoscere i propri limiti e capaci invece di mentire a se stessi. L’individuo costruisce allora una falsa unità – falsa perché impossibile – tra coscienza e comportamento. Egli si rappresenta così un mondo sempre più fantastico, in una spirale solipsista che credo simile a quella del paranoico, dove gli altri diventano sempre più irreali o surreali, sempre più “strumenti” o “ostacoli”. Il confine tra fantasticheria e realtà si fa sottile e confuso, come quello fra bugia e autoinganno. Per esempio avviene spesso che tra una cella e l’altra il desiderio di qualcuno diventi una «voce» la quale per altri diventerà notizia sicura da diffondere fino a diventare illusione collettiva. In tutte le carceri di tutti i tempi e paesi si è sempre in attesa di un qualche progetto di clemenza o di un evento che farà comunque cambiar le cose in meglio.
- [..] Molta produzione letteraria, cinematografica o televisiva si spreca per descrivere queste «esagerazioni comportamentali», esaltandole o deprecandole o facendone oggetto di satira su cui ridere. Tutti hanno letto o visto modi di fare «da boss», attribuendoli alla presunta naturalezza d’un certo ambiente illegale quasi che sia, sulla scia delle teorie di Lombroso, un dato biologico, un immutabile innato carattere antropologico di certe persone che non può non dar luogo alla formazione di quell’ambiente. Questa immensa produzione intellettuale suscita ormai in me una sensazione penosa. Presentando questa particolare subcultura come un modo di essere «contro» quella ufficiale, ci si sbaglia, non ci si accorge di descrivere in realtà quello che è il primo passo di un cedimento umano vissuto e costruito nella realtà oppressiva e ricattatoria del carcere: non ci si accorge di assistere a un processo d’imitazione della cultura ufficiale e che da lì condiziona alla fine un intero strato sociale (rinnovandolo di padre in figlio) costituito da tutti coloro che devono delinquere per sopravvivere
- La nuova personalità dell’accasato non nasce da un’attiva volontà di dominio com’è nel sadico, ma dal colmo della rassegnazione prodotta da mille invisibili ferite; è più devastante del sadismo perché al posto di un principio attivo c’è l’autospegnimento dell’individuo, una passività creata da un vuoto di stimoli che ha raggiunto il colmo spezzando l’amore per la vita.
- La cella, la sezione, il cortile sono organizzati come un garage per una macchina non più destinata alla circolazione, mentre il detenuto, per una ragione naturale, cercherà di trasformarli in spazio abitativo: luogo in cui si svolge gran parte dell’esistenza dell’essere umano, fatto di abitudini, di relazioni, di simboli. Questa impresa, irrinunciabile perché impressa nella natura umana, diventa un lavoro di Sisifo che si svolge in una resistenza per lo più pacifica, sotterranea.
- […] E’ il caso di dire che ci sono cose che hanno tanto più valore quanto meno hanno prezzo: segnano il confine tra la vita concreta degli esseri umani in carne e ossa da una parte (le «persone») e le astrazioni e la merce dall’altra. La tesi non è semplicemente romantica; è fondamentale assumerla per capire che queste attività, questi spazi sociali, le abitudini e la cultura che ne conseguono sono la realtà esterna di quella realtà interiore di cui si è detto finora in queste pagine. In questi obbiettivi «casalinghi» si cela tutto ciò che ha a che fare con il senso della dignità personale, con i legami di vera solidarietà in una comunità, con il rispetto, l’amore.
A conclusione del capitolo “Della mente” del lavoro di Gagliardo, l’autore fa un riferimento all’aspetto che considera più centrale, inerente la sessualità:
Si arriva così vicino alla questione fondamentale per comprendere l’obbiettiva fragilità di ogni movimento prigioniero, al perché del rischio di crollo della personalità nel singolo murato da vivo. Nessuna misura repressiva potrebbe infatti avere successo in una simile impresa se non avvenisse su una base di cui si parla sì, ma sempre come se non fosse la base dell’intero edificio bensì un aspetto tra gli altri… Tabù dei tabù, non se ne parla come si dovrebbe neanche in pur apprezzabili studi di denuncia come quelli di Foucault o di Ignatieff; peggio ancora, lo si ignora quasi del tutto persino nelle proteste dei detenuti, lo si trascura tra gli abolizionisti. Se in questo capitolo quest’argomento viene dunque affrontato per ultimo è per meglio dimostrare la sua decisività nel distruggere la realtà interiore, sperando che un giorno sia il primo ad essere affrontato quando ci si occupi di critica delle prigioni; nell’attesa, la critica della prigione e del pensiero punitivo sarà sempre, a mio parere, viziata alla radice. Ecco l’ovvietà (centrale) diventata (periferico) mistero: non si dice mai che la persona reclusa è, anzitutto, un castrato sessuale o, se si preferisce, un sub-castrato dato che nessuno lo evira fisicamente.
Ristretti.it regala d’altronde molto altro materiale consultabile. Nell’opera per esempio “Il carcere immateriale” (scaricabile qui), Ermanno Gallo osserva come uno degli aspetti da considerare relativamente alla vita da carere, sia il senso di stravolgimento della percezione del tempo, che viene così descritto:
Esiste un legame stretto fra stress e modificazione della “percezione del tempo“. Già i benedettini, con la tipica scansione del tempo monastico, avevano tenuto conto del pericolo di quella che possiamo definire “malattia del tempo“. Alla fantasticheria mistica alternavano infatti il lavoro, il gioco, l’attività libera e anche la socialità, forse più mondanizzata e «aperta» di quanto si sia disposti a ritenere. La sofferenza legale si può considerare perciò non semplicemente malattia delle sbarre, ma malattia del tempo: «La menomazione dello spazio genera senza dubbio ansia, angoscia, senso di soffocamento, che possono sfociare nell’asma, nella stanchezza cronica, nell’astenia; ma la menomazione temporale, a mio avviso, è più grave. La mente, immersa in una dimensione del tempo innaturale, reagisce in modo imprevedibile. C’è chi non esce più dalla cella, neppure durante l’aria. Chi guarda la televisione di notte e dorme di giorno. Chi rifiuta di pensare e chi pensa troppo. Senza considerare le lacerazioni che non sono visibili e che si manifesteranno più tardi, dopo la scarcerazione»
Che fare, dunque?
Considerando come le ricadute depressive siano inevitabili, a riguardo degli elementi protettivi e di salvaguardia la letteratura e gli spunti prima citati ci permettono di fermarci su tre elementi principali:
- la costruzione di routines
- il mantenimento di uno stile di vita adeguato (alimentazione, igiene, sonno, moto)
- la cura di forme alternative di connessione agli altri essere umani
Torniamo dunque agli aspetti essenziali della vita quotidiana dell’uomo, minacciati dallo stato di isolamento. Sul “che fare”, Open ha scritto un buon articolo a riguardo, da leggere.
Infine, va fatta una riflessione sull’”assetto cooperativo”. Giovanni Liotti, nei suoi lavori, osserva come la “posizione cooperativa” consenta, spesso, di svincolare posizioni soggettive bloccate in senso patologico. L’assetto cooperativo (fare qualcosa con qualcuno, insieme a qualcuno, o anche ragionare, dialogare in modo cooperativo, per un bene terzo, comune) sblocca stati di impotenza, crea significato, vivifica la relazione. Liotti lo considera l’espressione più alta dello sviluppo cognitivo umano. In una condizione deprivata come l’isolamento, cercarlo potrebbe regalarci apertura, ossigeno e benessere psichico.