di Raffaele Avico
Questo editoriale pubblicato sull’European Journal of Psychotraumatology per i 10 anni dalla sua fondazione come rivista, vuole rispondere alle domande, molto semplici:
- dove eravamo nel 2010?
- cosa abbiamo fatto in questi 10 anni?
- quali sono i vuoti di conoscenza, ancora, da riempire?
L’articolo parte con una serie di valutazioni a riguardo degli aspetti genetici inerenti il PTSD, osservando come l’avvento dei big data potrà in futuro contribuire a meglio chiarire la questione. A proposito di questo, recenti meta-analisi, molto ampie, paragonano il PTSD ad altri disturbi chiedendosi se la patogenesi del PTSD debba considerarsi solamente di natura sociale (con un PTSD generato solo da cattive esperienza collegate all’ambiente), o se esistano dei fattori predisponenti a livello genetico (nella fattispecie, questa seconda ipotesi viene maggiormente considerata plausibile). A livello sia di prevalenza tra persone colpite da trauma che di ereditarietà genetica, il PTSD viene nella metanalisi pubblicata su Nature prima citata paragonato alla depressione maggiore (“PTSD is similar to major depression in both prevalence (among trauma-exposed persons) and in heritability”).
L’articolo prosegue ragionando su ciò che è stato scoperto, negli ultimi 10 anni, a livello di neurobiologia del PTSD.
Una delle ipotesi dominanti e centrale, sembra essere relativa a un’alterazione delle strutture profonde del cervello “difensivo” (amigdala), associata a una scarsa o difettosa modulazione della stessa da parte del “freno” della corteccia prefrontale (gli studi di Ruth Lanius hanno approfondito a fondo questi aspetti). Questa ipotesi è però basata sul modello che vede il PTSD come un disturbo di alterazione dei processi legati alla paura, mentre numerosi studi negli ultimi dieci anni hanno messo in luce come sia necessario andare oltre questo modello. L’ipotesi proposta dagli autori riguarda una generale disregolazione di tutta l’espressione emotiva, declinata nelle diverse emozioni (quindi non solo la paura, ma anche rabbia, colpa e vergogna), a seguito dell’esperienza traumatica. Inoltre, l’articolo esprime l’urgenza” di annettere alla ricerca in ambito neurobiologico riguardante il trauma, le regioni sottocorticali e troncoencefaliche, come molteplici autori sottolineano.
Gli autori dell’editoriale, sintetizzano quindi alcuni aspetti desunti da 10 anni di articoli sul trauma pubblicati sulla loro rivista (che, ricordiamo, è totalmente open access):
- la frequenza di aspetti traumatici, e in generale la presenza di trauma, sembra essere largamente sottovalutata, con una frequenza di PTSD -vissuto almeno una volta nella vita- tra la popolazione generale molto più alta di quanto si pensi (circa il 70%)
- le conseguenza di un trauma vissuto in infanzia permangono anche nella vita adulta, su differenti piani. Questo è certo. La ricerca ha ancora molto da studiare però a riguardo delle traiettorie in termini di possibili conseguenze su altre aree esperienziali, e in senso intergenerazionale:
“What we do not know is how the neurobiological (Lanius & Olff, 2017), psychological (Baekkelund, Frewen, Lanius, Ottesen Berg, & Arnevik, 2018; Schafer, Becker, King, Horsch, & Michael, 2019), affective (Strøm, Aakvaag, Birkeland, Felix, & Thoresen, 2018), and relational (Heeke, Kampisiou, Niemeyer, & Knaevelsrud, 2019; van Dijke, Hopman, & Ford, 2018) alterations associated with different forms, durations, and structures (Armour, Fried, & Olff, 2017; Murphy, Elklit, Dokkedahl, & Shevlin, 2018) of psychotrauma exposure (and re-exposure) emerge and take different courses or trajectories across the lifespan – and across generations (Burnette & Cannon, 2014; Crombach & Bambonye, 2015; Schick, Morina, Klaghofer, Schnyder, & Muller, 2013).”
- l’emergere di un PTSD di massa, o l’avvento di un trauma di massa possono al giorno d’oggi giovarsi -per così dire- di strumenti tecnologici, con potenziali benefici (ma anche danni) per la popolazione. Tra tutti, i Social media, potenzialmente in grado di fotografare l’impatto di un evento, o di propagarne, paradossalmente, la portata traumatica.
- esiste negli ultimi anni una maggiore attenzione alla psicotraumatologia dell’emigrazione, con aspetti peculiari e forme di intervento mirate (citata la Tf-CBT, ovvero la psicoterapia cognitivo-comportamentale trauma-focused, incentrata sul modello trifasico qui descritto e la narrative exposure therapy (NET; Lely, Smid, Jongedijk, Knipscheer, & Kleber, 2019)
- si delinea sempre più la distinzione tra PTSD, PTSD complex e PTSD con sintomi dissociativi, anche grazie agli aggiornamenti relativi ai criteri diagnostici introdotti dal DSM-5 e dal ICD-11.
- per quanto riguarda la psicoterapia, lo strumento da mettere i n campo, in prima linea, è la psicoterapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, insieme all’EMDR. Questo lo sostiene la psicotraumatologia mondiale: “On the basis of comprehensive meta-analyses, recent national and international clinical guidelines have recommended several trauma-focused cognitive behavioural treatment programmes and EMDR as first-line treatments for PTSD”.
- In senso psicofarmacologico, viene osservato come il razionale “prossimo futuro” di intervento, sia l’utilizzo di farmaci in maniera breve e mirata al fine di facilitare i processi di elaborazione della memoria durante le sessioni di psicoterapia. Questo passaggio risulta importante se consideriamo come nel 2010 (gli autori riportano) l’intervento farmacologico sembrasse ridursi alla combinazione SSRI/SNRI, ora non più proposta per il PTSD. Gli autori osservano come vi sia allo stato attuale un tentativo di integrare in modo più intelligente il farmaco al lavoro di psicoterapia, quest’ultimo da considerarsi come IL lavoro da effettuare, in prima battuta, dovunque vi sia uno stress post-traumatico. È probabile che il futuro della terapia con il PTSD preveda sempre di più un lavoro di psicoterapia trauma-focused, con il supporto del farmaco come “facilitatore” della psicoterapia stessa (si pensi alla psicoterapia supportata dall’uso di MDMA)
- a riguardo delle nuove tecnologie, vengono citate nuove forme di intervento sensomotorio combinato a uso di dispositivi di realtà virtuale/immersiva (come il progetto 3MRD), così come il tentativo di creare “fenotipi” usando strumenti digitali (per fare assessment, si potrebbe idealmente valutare un uso “differente” di un telefono da parte di un soggetto colpito o meno da PTSD)
- per quanto riguarda i modelli conoscitivi usati per meglio inquadrare il fenomeno stress post-traumatico, gli autori citano il network model di Borsboom, anche in relazione al PTSD. Viene sottolineato come un modello incentrato sulla causalità circolare, potrebbe aiutare a meglio comprendere (pur con limitazioni) la fenomenologia del disturbo, e le diverse ripercussioni dello stress post-traumatico sulla vita di un individuo (pensiamo per esempio alle conseguenze sul sonno del PTSD, in grado di peggiorare ricorsivamente il PTSD stesso, insieme causando ricadute depressive, e così via). Viene citato il machine learning per compiere indagini epidemiologiche in grado di fornire una sorta di identikit ideale del paziente potenzialmente vittima di PTSD e per identificare i predittori di una buona risposta ai trattamenti
Gli autori concludono raccomandando progetti di respiro globale (https://www.global-psychotrauma.net/about), auspicando migliori analisi epidemiologiche che si giovino di nuove tecnologie incentrate anche sui big data e portate avanti da gruppi di ricerca multidisciplinari. Vengono inoltre auspicate pubblicazioni “open access” in modo da poter garantire ampia diffusione dei risultati delle ricerche ed avere quindi maggiore influenza su i policymakers.