di Raffaele Avico
Abstract
La ricerca sul funzionamento della memoria è stata, a partire dalla nascita della scienza psicologica, oggetto di profondo interesse e fonte di molteplici spunti di riflessione e dibattito.
Il modo però con cui gli scienziati si sono avvicinati allo studio delle suddette tematiche ha subito nel corso della storia notevoli cambiamenti, parallelamente alla nascita di nuovi filoni di ricerca (la neuropsicologia o la psicologia cognitiva, per esempio) e alla creazione di nuovi paradigmi teorici (Kuhn, 1979) che hanno complessificato l’argomento, rendendolo sempre più affascinante anche da un punto di vista clinico.
Sembra importante dunque risalire all’epoca in cui la memoria umana veniva considerata come una facoltà intellettiva in grado di conservare informazioni nel tempo (engrammi), osservabile a partire da informazioni sul comportamento e sui limiti dei soggetti (per esempio quante informazioni un individuo potesse codificare in un lasso di tempo definito), per delineare il percorso evolutivo che ha portato i ricercatori odierni a considerarla in modo più complesso e multicomponenziale, in relazione anche alla possibile influenza esercitata su di essa da fattori sociali, relazionali ed emotivi.
1880-1936
La memoria come singolo processo
Agli inizi del ‘900 la memoria veniva studiata attraverso esperimenti che testassero la capacità di ritenzione di informazioni posseduta dall’individuo. Potevano essere distinte, in Europa, tre tendenze di ricerca sulla memoria, indipendenti:
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un primo filone si concentrava sullo sviluppo della memoria infantile. La ricerca era effettuata attraverso l’osservazione sistematica dello sviluppo dei bambini, nel tentativo di valutare se e in quale misura la sviluppo mnestico fosse legato all’età.
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Un secondo filone di ricerca era derivato dagli esperimenti effettuati su soggetti adulti: si voleva valutare quanto i risultati e le scoperte sulla memoria relative a questi soggetti potessero essere generalizzabili a bambini di differenti età. Il confronto tra il funzionamento mnestico di soggetti adulti con quello di bambini di diverse età aveva anche l’obiettivo di sfatare alcuni pregiudizi dell’epoca sul funzionamento della memoria, secondo cui, per esempio, i bambini avrebbero ottenuto migliori performance rispetto agli adulti in termini di memoria grazie all’esercizio cognitivo quotidiano a scuola, o il pregiudizio sul miglior funzionamento mestico dei bambini maschi rispetto a quello delle femmine.
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Il terzo filone di ricerca si inseriva nel campo di indagine relativa al funzionamento mnestico del bambino applicato alle scienze giuridiche: quanto cioè in sede di testimonianza i bambini fossero suggestionabili e quanto fedeli alla realtà fossero le immagini e i resoconti da loro portati.
I ricercatori erano interessati a valutare quanto la memoria influenzasse pragmaticamente la vita dell’uomo e in che modo fosse possibile migliorare il rendimento cognitivo dei pazienti affetti da patologie comportanti oblio (e di conseguenza scarso funzionamento sociale).
Il pioniere degli studi sulla memoria è considerato Ebbinghaus (Ebbinghaus, 1885).
Nei suoi primi esperimenti sulla rievocazione, effettuati su se stesso, Ebbinghaus utilizzava sillabe senza senso (consonante-vocale-consonante, come DAK, MIF, PIF) dette logotomi: l’autore era convinto che si dovesse utilizzare materiale totalmente artificiale per non influenzare o distorcere i processi di codifica, ritenzione, rievocazione e oblio dell’informazione.
Ebbinghaus si occupò inoltre di studiare la modalità con cui un’informazione potesse essere recuperata attraverso la presenza di un ausilio cognitivo (rievocazione guidata da indizi), per esempio chiedendo a un soggetto di memorizzare coppie di sillabe senza senso, e in seguito di rievocare la sillaba mancate nel momento in cui gli venisse mostrato solo il primo membro della coppia (se il soggetto aveva codificato la coppia DAK-VOP, gli veniva chiesto in seguito di rievocare VOP a partire dalla sillaba DAK).
Questi primi esperimenti sul funzionamento della memoria consistevano in una rievocazione verbale di uno specifico contenuto mestico: le ragioni del prevalere di questo tipo di studi (sul materiale verbale codificato in memoria) furono ipotizzate da un’importante studioso della memoria umana, Baddeley (1982); la prima è che la codificazione verbale delle informazioni in entrata svolge un ruolo estremamente importante della memoria umana:
“Persino quando si ricordano immagini presentate visivamente […] c’è una forte tendenza a integrare altri aspetti della memoria mediante la verbalizzazione […] trasformando il compito visivo in un compito combinato, visivo e verbale al tempo stesso.” (Ibidem)
La seconda ragione individuata dall’autore è che la ricerca per mezzo del materiale verbale appariva molto più accessibile e semplice rispetto a quella effettuata prendendo in considerazione stimoli visivi, uditivi o tattili.
Ciò che veniva studiato era quindi l’aspetto più epifenomenico del funzionamento mnestico dell’individuo, in linea con le tendenze epistemologiche dell’epoca (un’attitudine a pensare alla memoria e alla mente come ad un elaboratore di informazioni complesse, al fine di rilevarne limiti e potenzialità, e un’attenzione particolare rivolta all’esperienza percettiva non mediata e alle sue caratteristiche fenomenologiche).
Queste prime ricerche sulla memoria erano di natura osservativa e descrittiva: l’obiettivo primario era quello di descrivere i cambiamenti relativi al funzionamento della memoria lungo l’arco della vita.
Un secondo autore ricordato per il suo contributo allo studio del funzionamento in infanzia della memoria è certamente Preyer (Preyer, 1882), pionieristico nelle sue osservazioni sistematiche effettuate sul figlio nei primi tre anni di vita. Preyer compì osservazioni etologiche sul figlio relative a più caratteristiche cognitive, tra cui le competenze sensomotorie, la percezione, l’acquisizione delle competenze linguistiche, l’apprendimento, l’acquisizione della funzione riflessiva e la memoria.
Il paradigma di ricerca da lui utilizzato, basato sull’osservazione il più possibile etologica e obiettiva dell’oggetto di studio, insieme a quello adottato da Ebbinghaus, posero le basi per lo sviluppo di un metodo che avrebbe contraddistinto le ricerche relative al recupero di materiale mnestico fino agli inizi degli anni ’50.
In queste prime ricerche, la memoria veniva studiata soprattutto relativamente al recupero di materiale depositato da lungo tempo (memoria a lungo termine, nella definizione che ne avrebbero dato Atkinson e Shiffrin negli anni ’70), al riconoscimento di materiale mnestico a partire da appigli cognitivi ausiliari, e all’immaginazione. La ricerca sulla memoria a breve termine (ibidem) era non specifica e scarsamente sviluppata.
Gli studi sulla memoria a lungo termine avevano rivelato profonde differenze di performance a seconda dell’età dei soggetti coinvolti nelle ricerche, del tipo di compito proposto e del tipo di materiale di cui era richiesta la memorizzazione durante gli esperimenti. Rispetto alla velocità di immagazzinamento di un particolare stimolo, fu notato che i bambini parevano impiegare più tempo degli adulti a codificare un’informazione, ma che erano in grado di mantenerla in memoria per più tempo. Inoltre, stimoli verbali dotati di significato sembravano essere acquisiti più in fretta e ritenuti più a lungo (Preyer, 1882) .
Gli autori interessati alle suddette tematiche distinsero la memoria visiva da quella verbale, a partire da osservazioni effettuate sul comportamento di bambini di pochi anni (la cui memoria verbale, cioè la memoria che si serve del linguaggio per la codifica delle informazioni, appariva soggetta a maggiori variazioni e sviluppo rispetto a quella solamente visiva).
Gli autori inoltre concordavano nel ritenere più precoce lo sviluppo della memoria di riconoscimento (la memoria che permette di associare a uno stimolo X uno stimolo Y quando sia stata memorizzata l’associazione XY, e la cui nascita secondo gli autori avverrebbe già intorno ai 4 mesi di vita), rispetto allo sviluppo della memoria di rievocazione (la memoria cioè utilizzata senza l’ausilio di mediatori cognitivi, ma semplicemente attraverso uno sforzo di rievocazione, appunto, e la cui nascita avverrebbe intorno ai 4 anni nel bambino).
Ebbinghaus stesso (1897) si occupò nei suoi studi dello sviluppo della memoria in relazione all’età. L’autore scoprì che le differenze relative alle performance mnestiche di bambini di differenti età erano ridotte nel caso di utilizzo dei logotomi e di parole senza senso.
Successive ricerche da parte di altri autori (Netschajeff, 1902, e Lobsien, 1902) confermarono questi risultati, che sembravano suggerire un funzionamento della memoria verbale differente a seconda che fossero ricordate parole con o senza senso: i bambini studiati nelle ricerche sembravano trovare più semplice ricordare frasi composte anche da molte parole che non brevi liste di parole senza senso (Binet e Hanri, 1894). Altri ricercatori (Meumann, 1907) osservarono una capacità rievocativa più efficace in soggetti alle prese con liste di parole sensate e addirittura con liste di numeri (un numero possiede di per sé una valenza semantica).
Funzionamento mnestico, valenza semantica di ciò che è ricordato e primi riferimenti alla dimensione sociale della memoria
Gli sviluppi successivi della ricerca si indirizzarono sempre più verso l’integrazione della dimensione semantica del materiale di rievocazione.
La sensazione era che i primi ricercatori avessero tralasciato di considerare un aspetto fondamentale del funzionamento della memoria, l’influenza cioè del significato e della valenza affettiva di ciò che doveva essere ricordato.
I segnali di una tale necessità di cambiamento di metodo di ricerca erano emersi già negli studi sulla rievocazione di liste di parole, e trovarono piena conferma nelle successive ricerche sullo sviluppo della memoria, effettuate da molteplici autori. Brunswick, Goldsheider e Pilek (1932) effettuarono uno studio su larga scala relativo allo sviluppo cognitivo del bambino in età compresa tra i 6 e i 18 anni. Il campione, composto da 700 soggetti, fu osservato relativamente a diverse capacità cognitive (in particolare la memoria a breve e lungo termine), utilizzando parole con e senza senso, colori, numeri e poesie.
Sempre nel 1932 Brunswik et al. (1932) effettuarono una serie di esperimenti in seguito ai quali tentarono di teorizzare l’andamento di una curva di sviluppo generale della memoria, costruita unificando i risultati ottenuti nel campione alle diverse prove di memoria. I risultati indicarono migliori performance e un’impennata nell’andamento della curva nella fascia di età compresa tra i 6 e gli 11 anni, con un plateau relativo alle performance nell’età della pre- e della prima adolescenza (ibidem). In accordo con gli studi precedenti, ci si aspettava inoltre che i bambini più piccoli si distinguessero all’interno del campione per un utilizzo più massivo della memoria non vincolata dal dato semantico (il cosiddetto mechanical learning), partendo dall’idea secondo cui l’utilizzo della logica e soprattutto l’attenzione da parte dell’individuo al dato semantico comparisse più tardivamente nel corso dello sviluppo. I risultati evidenziarono al contrario performance più basse relative alla memorizzazione e alla codifica di parole senza senso in tutti i soggetti del campione, con una curva di performance regolare e in crescita continua fino all’età di 18 anni.
Questo secondo i ricercatori poteva far pensare a una rilevanza dell’aspetto semantico in ciò che voleva essere ricordato già a partire dall’infanzia; in secondo luogo dimostrava, più generalmente, quanto l’evocatività e il significato del materiale da codificare giocassero un ruolo fondamentale nel processo di rievocazione.
Tali risultati avrebbero trovato successiva diffusa validazione in ambito di ricerca (Bartlett, 1932; Fetchner, 1965; Weinert, 1962).
L’importanza della dimensione semantica relativa al materiale implicato nei processi di memoria (codifica, ritenzione, recupero e oblio) fu approfondita nei primi anni ’30 da Bartlett (1932).
In uno dei suoi studi, Bartlett chiese ai soggetti del campione di leggere e tentare di memorizzare una storia breve ma molto complessa e bizzarra, “La guerra degli spettri”, sugli indiani della costa americana nord-occidentale. L’autore scelse questa storia in quanto sconosciuta ai più e proveniente da una cultura lontana: l’obiettivo dello studio era quello di scoprire se e in che modo le differenze culturali avrebbero influenzato il modo in cui i soggetti ricordavano la storia.
Bartlett notò che i soggetti del campione tendevano sistematicamente a distorcere, sottraendo o aggiungendo particolari, le caratteristiche della storia e il suo svolgimento, al fine di renderla meno strana e insolita (per esempio cacciare le foche poteva essere sostituito con andare a pescare, canoa poteva diventare barca, e così via). Bartlett osservò che nella rievocazione i soggetti procedevano a una sostanziale ricostruzione e rielaborazione del testo, in funzione del loro livello di comprensione e di particolari schemi cognitivi posseduti.
A tal proposito l’autore arrivò a considerare il ricordo più una costruzione immaginativa che non il risultato di un processo di rievocazione. Secondo Bartlett coloro che ritenevano di possedere una buona immaginazione sarebbero risultati più sicuri nella rievocazione, ma non necessariamente più aderenti al dato di realtà di ciò che voleva essere ricordato. L’autore inoltre fu anche uno dei primi sostenitori dell’intervento della dimensione sociale nello sviluppo della memoria: egli sosteneva che la rappresentazione del ricordo formulata dall’individuo fosse distorta dalle esigenze sociali più propriamente contestuali del soggetto.
Bartlett sosteneva infatti che la narrazione di un determinato ricordo sarebbe stata influenzata nel suo svolgersi da ciò che il frangente relazionale sembrava richiedere, acquisendo particolari caratteristiche al fine di rendere più semplice per l’individuo sentirsi partecipe di quella stessa situazione sociale (ibidem).
L’attenzione dei ricercatori stava lentamente spostandosi dalle caratteristiche dei processi implicati nella memoria umana all’ambito maggiormente rilevante dei suoi contenuti.
1936-1965
Questo periodo è ricordato come un periodo di relativa stabilità, se non di mancanza di evoluzione, della ricerca relativa ai processi cognitivi di memoria. Questa assenza di tensione di ricerca va contestualizzata soprattutto nella zona dell’Europa centrale (Shneider, 2000).
Importanti eccezioni si notarono tuttavia nella scena di ricerca statunitense e soprattutto in quella russa.
In America, negli anni dell’avvento della corrente comportamentista, gli studi sullo sviluppo della memoria erano finalizzati in prevalenza a descrivere il comportamento dei processi di codifica, ritenzione e oblio in soggetti di differenti età; gli studi condotti erano tuttavia spesso relativi a una sola fascia di età.
Fanno eccezione alcuni studi, come quello condotto da Koppenaal, Krul e Katz (1964) sui processi di interferenza osservabili durante utilizzo da parte dei soggetti della memoria di riconoscimento (altrimenti detta memoria logica o associativa). Gli autori considerarono un campione formato da bambini suddivisi per fasce d’età, a partire dai 4 fino agli 8 anni; l’ipotesi era che il grado di interferenza (intendendo per interferenza il disturbo sul processo di rievocazione causato dal ricordo di altre cose, tanto più nel caso in cui queste siano concettualmente legate al materiale da ricordare) sarebbe aumentato con il progredire dell’età. Gli studiosi avevano previsto l’esistenza di una correlazione tra il livello di interferenza e l’età dei bambini studiati, partendo dall’assunto secondo cui la maggiore quantità di informazioni posseduta dai bambini più grandi avrebbe reso più difficoltosi i loro processi di rievocazione. Queste ipotesi avrebbero trovato validazione empirica a fine ricerca (ibidem).
Altri autori americani dell’epoca (Bousfield, Esterson e Whitmarsh, 1958) si occuparono invece di studiare i processi di memoria non mediati (processi cosiddetti di free recall), arrivando a importanti risultati di ricerca relativi alla modalità di organizzare il materiale mnestico in funzione dell’età (l’organizzazione in clusters e la categorizzazione del materiale immagazzinato in memoria erano strategie cognitive sempre più utilizzate col progredire dell’età)(ibidem).
La scena russa dell’epoca presentava caratteristiche differenti, essendo più concentrata sugli aspetti relativi alla memoria in un contesto di sviluppo, con un’attenzione particolare rivolta all’integrazione della questione semantica e metodi di studio utilizzati differenti.
Le idee di Vigotskij erano state all’epoca già assimilate dalla comunità scientifica, avendo posto alcune questioni che parevano di grande importanza nello studio del funzionamento della memoria, soprattutto in relazione all’utilizzo del linguaggio e agli aspetti più sociali del suo sviluppo (1932). Altri autori dell’epoca, come Istomina (1948) e Korman (1944; 1945), puntavano invece a chiarire le differenze esistenti tra memoria involontaria (una memoria attivata senza la volontà del soggetto e relativa a materiale che non necessariamente si desiderava ricordare, più o meno attinente al contesto) e la memoria volontaria (attivata invece in modo cosciente dal soggetto e caratterizzata da più processi cognitivi funzionanti in parallelo). La maggior parte dei ricercatori dell’epoca sosteneva che le forme più evolute di memoria si sviluppassero proprio nel passaggio dalla memoria involontaria a quella controllata durante lo sviluppo dell’individuo, passaggio mediato dall’utilizzo di processi cognitivi ausiliari (come la categorizzazione, l’utilizzo di indizi o le mnemotecniche).
Leontjev, Smirnov e Zinchenco (in Schneider & Pressley, 1997) studiarono le dinamiche di funzionamento dei due tipi di memoria relativamente a differenti stadi evolutivi; nelle loro ricerche gli autori scoprirono che la memorizzazione involontaria di informazioni (per esempio, nel compito di memorizzazione di una storia, la codifica di informazioni di secondaria importanza) pareva garantire nei bambini in età prescolare (4-6 anni) performance migliori in compiti di rievocazione, in confronto a bambini di età superiore. In altre parole, la codifica di informazioni sembrava in questo stadio evolutivo avvenire in modo più o meno efficiente indipendentemente dal tipo di memoria implicata nei processi di codifica. Al contrario, bambini di età superiore ottenevano migliori performance se, nel momento in cui avessero dovuto memorizzare una certa quantità di informazioni, utilizzavano strategie di memorizzazione volontaria e in piena coscienza del compito richiesto (ibidem).
Gli studi di ricerca condotti in Russia tra il 1936 e il 1965 rappresentano il contributo più importante allo studio dello sviluppo della memoria dell’epoca. Fu implementata la conoscenza sul funzionamento della memoria nei bambini in età prescolare (ibidem), e particolare energia fu spesa nel tentativo di inserire nel campo d’indagine gli aspetti relativi all’utilizzo del linguaggio e alla dimensione più sociale dello sviluppo della memoria. Il periodo prescolare e il primo periodo scolare (tra i 4 e i 10 anni) fu consensualmente riconosciuto come il più critico nel percorso di sviluppo delle capacità cognitive relative alla memoria, in accordo con la letteratura precedente (Brunswik et al., 1932).
1965 – 1980
L’approccio storico allo studio della memoria era fortemente influenzato dal paradigma epistemologico dell’epoca, che si proponeva di osservare nel modo più naturalistico possibile i fenomeni, senza troppe mediazioni intellettuali. La memoria era quindi osservata nelle sue manifestazioni a livello di performance cognitive dei soggetti (quante informazioni riuscissero a memorizzare e quanto antichi potessero essere i ricordi di persone di differenti età, ecc.).
Negli anni ’60 tuttavia si impose agli occhi della comunità scientifica una corrente definita neo-comportamentista, nata come evoluzione di quella comportamentista, che abbandonava l’attenzione eccessiva per l’osservazione del comportamento e dei processi di stimolo-risposta (S-R) e ammetteva l’esistenza e l’azione di variabili intermedie, interne al soggetto e non direttamente osservabili, inserite nella catena delle associazioni S-R (S- mediazione cognitiva- R). I ricercatori che sostenevano questa nuova concezione della psicologia umana, antecedente alla creazione del paradigma cognitivista, prendevano spunto dalla scienza cibernetica per tentare di spiegare il funzionamento della mente, arrivando a paragonare il funzionamento psichico dell’uomo a quello di un computer, anche in relazione allo studio dei processi mnestici (processi legati all’hardware e al software dei sistemi di memoria, dove per hardware si intendeva la capacità di memoria e la velocità di processazione delle informazioni, e per software le strategia mnestiche utilizzate). La memoria cominciò inoltre a essere pensata come formata da sotto-sistemi deputati a specifiche attività, come l’elaborazione delle informazioni mnestiche sensoriali, la memoria a breve termine e quella a lungo termine (ipotesi che sarebbe stata successivamente confermata dagli studi di neuroimaging sulla differente attivazione di aree cerebrali a seconda del compito di memoria richiesto) (Schacter, 1992).
L’avvento di questa nuova corrente epistemologica provocò il riaccendersi dell’interesse per gli studi sulla memoria, e nuove correnti di ricerca si svilupparono in direzioni diverse.
Un autore che è impossibile non menzionare nell’ambito degli studi sulla memoria è Tulving, che nel 1972 teorizzò una sorta di disposizione concentrica di tre sistemi di memoria differenti: la memoria procedurale, la memoria semantica e la memoria episodica, relative a categorie di materiale ricordato differenti. Secondo l’autore, la memoria episodica consisteva in proposizioni riguardanti eventi singoli e specifici della propria esperienza personale; quella semantica era riferita invece al patrimonio di conoscenze possedute, ed era basata sul significato culturale delle informazioni; infine, la memoria procedurale consisteva nella conoscenza sul come fare qualcosa, e si sviluppava a partire dall’esercizio (Tulving, 1972).
Tulving sosteneva che la memoria semantica, insieme a quella episodica, andassero a costituire la cosiddetta memoria esplicita (o dichiarativa), la memoria cioè utilizzata attraverso proposizioni linguistiche implicanti una relazione fra due o più concetti in base ai criteri logici di verità, e funzionale alla rievocazione di nomi, luoghi, date, eventi. La memoria procedurale invece fu descritta dall’autore anche come memoria implicita, cioè non accessibile alla coscienza dell’individuo e implicata nella formazione degli schemi corporei e dei modelli operativi interni a partire da meccanismi di condizionamento classico (ibidem).
Secondo Tulving, la ricerca condotta sulla memoria fino agli anni ’70 era stata indirizzata in prevalenza verso lo studio della memoria episodica, a partire dagli studi pionieristici di Ebbinghaus. Per contro, gli studi di Bartlett (1932) avevano iniziato la tradizione di ricerca relativa alla memoria semantica che, insieme all’interesse dei ricercatori per la dimensione socio-relazionale, caratterizzano ancora oggi le tendenze di ricerca sul funzionamento mnestico.
Contributi importanti alla ricerca sulla memoria furono apportati da altri autori, sulla scia del rinato interesse verso lo studio della memoria che caratterizzò gli anni ’70 e l’avvento di nuovi paradigmi e modelli teorici trasversali alle scienze psicologiche.
Atkinson e Shiffrin (1971) teorizzarono la presenza di due tipologie di memoria, dando origine a una rappresentazione sociale tutt’ora in utilizzo: distinsero cioè una memoria a breve termine da una invece a lungo termine, caratterizzate da differenti capacità di immagazzinamento di materiale e diverse velocità di recupero. Molto conosciute, dei loro lavori, le intuizioni sui processi di reiterazione dell’informazione e la teoria multimodale della memoria, secondo la quale esisterebbero tre sistemi di memoria, con differenti caratteristiche (il registro sensoriale, la memoria a breve termine e quella a lungo termine)(ibidem).
DOPO IL 1980
La ricerca contemporanea sulla memoria, e in particolare sullo sviluppo della stessa, si presenta con le caratteristiche di una derivazione degli studi pionieristici sopra descritti. I mezzi di ricerca attuali, nell’ambito della psicologia cognitiva, hanno permesso di superare alcune difficoltà di metodo esistenti fino a poco tempo fa, soprattutto relative all’indagine sulla distinzione tra memoria esplicita ed implicita nei bambini (Rovee-Collier, 1995).
In particolare l’utilizzo di tecniche sperimentali innovative, come le prove di abitazione/disabituazione e le tecniche di condizionamento operante (Rovee-Collier, 1995) ha contribuito a facilitare lo studio dello sviluppo mnestico infantile, reso difficoltoso dall’impossibilità di usare il linguaggio verbale come mezzo di comunicazione, stimolando in modo vigoroso la ricerca relativa alle suddette tematiche.
La ricerca attuale si concentra sull’aspetto maggiormente dinamico dei processi cognitivi relativi alla memoria e sul suo funzionamento ecologico, calato cioè nel contesto sociale d’appartenenza.
Se per molto tempo la psicologia generale aveva considerato la memoria come un “deposito” in cui venissero depositati i cosiddetti engrammi, e aveva posto come centrale lo studio dei limiti della stessa (a che ritmo venissero dimenticati i dati in essa inseriti o quale fosse il grado di accuratezza), oggi è prioritario lo studio sui processi cognitivi implicati nel suo funzionamento e i fattori che possano influenzarlo.
Fornire un’immagine esaustiva del panorama di ricerca attuale appare molto difficile, essendosi complessificato il concetto stesso di memoria e specializzato lo studio dei suoi diversi processi e componenti.
Prima Infanzia (0-5 anni)
La memoria appare essere una facoltà cognitiva innata dell’individuo, presente già, in forma elementare, nel feto (DeCasper & Fifer, 1980). Gli studi dimostrano che attività di memoria basilari sono presenti nel bambino fin dalla nascita, come la capacità di distinguere tra stimoli vecchi e nuovi o quella di memorizzare l’associazione tra due stimoli (condizionamento operante). Bambini di 2 mesi persistono nel preferire la visione di stimoli nuovi anche dopo un periodo di abituazione a uno stesso stimolo di due settimane; altri studi hanno dimostrato invece la presenza di una memoria visiva per il movimento di oggetti in bambini di 3 mesi (Bahrick e Pickens, 1995).
Ulteriori studi hanno evidenziato la presenza di comportamenti imitativi in bambini di età compresa tra i 10 e i 20 mesi, a prova dello sviluppo in questo periodo delle capacità legate alla memoria a lungo termine (Meltzoff, 1995), soprattutto in termini di memorizzazione di scripts e sequenze di azioni stereotipate (Bauer, 1997).
Ciò che appare comunque rilevante e peculiare della tendenza di ricerca attuale è la maggiore attenzione agli aspetti sociali implicati nello sviluppo della memoria, già dopo la nascita.
Gli studi sulla memoria, a partire dagli anni ’70 e in concomitanza con il crescere di nuovi paradigmi teorici legati alla psicologia cognitiva e alle neuroscienze in generale, hanno inteso integrare lo studio dei processi mnestici, come le fasi di codifica, immagazzinamento e recupero (proseguendo quindi idealmente la linea di ricerca più tradizionale e comportamentista) con un’attenzione privilegiata all’influenza esercitata dal contesto sociale e dalle relazioni primarie intrattenute dal bambino nei primi anni di vita.
Il merito di aver complessificato l’argomento, oltre che di essersi opposto alla rigida regolamentazione intestina agli studi di laboratorio tradizionali, è consensualmente attribuito a Neisser (1978). Neisser fu uno dei primi studiosi della memoria a indagarne in modo approfondito la dimensione legata al linguaggio e alla narrazione.
Già Vigotskij (1932) aveva chiarito l’importanza dell’influenza del linguaggio sui processi cognitivi e sull’utilizzo della memoria, teorizzando la presenza di un linguaggio interno con funzione normativa e regolativa dei contenuti della mente. Neisser (1978) approfondì l’aspetto più legato alla somiglianza tra ricordare qualcosa e narrare una storia: dimostrò che, per esempio, l’attività del narrare un avvenimento pubblico veniva spesso mescolata a riferimenti alla vita personale dei narratori, come elaborando un secondo racconto, dettagliato e fornito di struttura narrativa e scenario (Neisser, 1982). Questo faceva pensare a una struttura narrativa della memoria, strettamente vincolata dall’utilizzo del linguaggio interno e funzionale alla gestione del materiale mnestico immagazzinato durante lo sviluppo.
Lo studio di queste dinamiche, sviluppato per lo più in ambito cognitivista e neuropsicologico, e relativo ai primi anni di sviluppo, è stato ulteriormente implementato dalle teorie riguardanti la memoria cosiddetta autobiografica, relativa cioè alle informazioni riferite al Sé (Brewer, 1986) e composta da narrazioni sulla propria storia di vita, considerata da alcuni autori come un sotto-sistema della memoria episodica teorizzata da Tulving, ma avente caratteristiche peculiari e aree cerebrali deputate proprie (Kapur, 1993).
La ricerca attuale sulla memoria dei bambini in fase di sviluppo ha dimostrato non solo l’esistenza di un funzionamento mnestico nel bambino a partire dall’osservazione di schemi e copioni motori imparati (e quindi memorizzati) dal bambino (Schank e Abelson, 1977): ha anche indagato i processi di memoria utilizzati dal bambino per ricordare episodi riferiti al Sé e crearne racconti coerenti (memoria autobiografica).
Rispetto allo sviluppo della memoria autobiografica, è stato notato che già intorno ai 16-18 mesi di età i bambini cominciano a conversare su episodi passati specifici (Eisenberg, 1985 e Harley & Reese,1999), tuttavia solo nel caso in cui accompagnati nella rievocazione del passato da una figura adulta. In questa fase dello sviluppo sarebbe l’adulto infatti a fornire la maggior parte del contenuto e della struttura del materiale rievocato, incoraggiando quindi o più in generale manipolando cognitivamente il bambino (quest’ultimo parteciperebbe semplicemente confermando, negando o ripetendo quanto detto dall’adulto). E’ stato osservato infatti che circa all’età di 3 anni il bambino arriva ad un livello di maturazione cognitiva tale da essere in grado di compiere accurate descrizioni di eventi passati, seppur ancor necessitando di un sostegno cognitivo da parte di una figura adulta funzionale al mantenimento della coerenza del racconto (Hamond & Fivush, 1991; Ornstein, 1995).
C’è consenso generale in ambito di ricerca sul ritenere l’acquisizione linguistica un passaggio evolutivo cruciale nello sviluppo della dimensione narrativa della memoria episodica e di quella autobiografica, a prova della grande influenza esercitata dal linguaggio verbale sull’organizzazione e sulla gestione dei ricordi.
Lo studio della memoria autobiografica si caratterizza da un’attenzione per gli aspetti narrativi della comunicazione (la modalità con cui il soggetto si descriva e organizzi i suoi ricordi in modo narrativo) e da un’osservazione della qualità e della natura del materiale ricordato (quanto accuratamente il ricordo sia recuperato e quali aspetti del ricordo siano maggiormente considerati, per esempio quelli contingenti alla situazione ricordata, o le sensazioni sperimentate, o altro).
Gli elementi di ricerca che si configurano come veramente innovativi nel panorama attuale, sono pertanto quelli relativi all’influenza del contesto sociale sul funzionamento della memoria, e in particolare della memoria autobiografica.
Lo studio sul funzionamento della memoria autobiografica è indicativo di un approccio più generale allo studio della memoria, più complesso e multi-fattoriale.
I ricercatori odierni studiano il funzionamento della memoria a partire dall’interazione non-lineare tra molte variabili, tra cui le dinamiche relazionali-affettive sperimentate dall’individuo, le competenze e le caratteristiche del linguaggio utilizzato dal soggetto (a partire per esempio dalle massime conversazionali di Grice o dalle teorie di Labov sulla natura dell’interazione verbale), le capacità cognitive possedute dall’individuo, le differenze di genere (Nelson, 1996; Davis, 1999; Flannagan, 1996; Fivush & Haden, 2003; Brody, 1999) e le capacità meta-mnemoniche possedute dal soggetto (Schneider, 1999).
Un autore di riferimento per gli studi sul funzionamento della memoria, e in particolare della memoria autobiografica, è oggi sicuramente Robyn Fivush.
La ricerca condotta da Fivush esplora le caratteristiche della memoria e del ricordo in bambini di differenti età, partendo dall’indagare in quale modo l’ambiente esterno possa influenzare il funzionamento della memoria stessa, con una particolare attenzione al contesto di comunicazione madre-bambino.
In un articolo del 2006 (Fivush, 2006), l’autrice descrive l’attività di ricordare come un fatto sostanzialmente sociale, co-costruito cioè nell’interazione con gli altri. La questione della comunicazione madre-bambino viene poi riletta alla luce di questo assunto e il ricordo, da questo punto di vista, viene posto come sempre costruito dalla madre insieme al bambino in fase di interazione verbale.
Fivush riprende e sviluppa le pur sporadiche teorie classiche che avevano approfondito l’aspetto della dimensione sociale del ricordo, in primo luogo le sopra citate ricerche di Bartlett (1932). Bartlett fu uno dei primi infatti a teorizzare che la costruzione di un ricordo potesse subire l’influenza di richieste culturali, contestuali all’ hic et nunc del soggetto. Le teorie formulate dall’autore illustravano come l’utilizzo della memoria e la rappresentazione (termine non scelto a caso) di un ricordo potessero essere distorti dall’utilizzo che, di questo stesso ricordo, il soggetto intendeva fare (ibidem).
Nel 2006, Fivush riprende queste considerazioni e allarga il campo d’indagine al funzionamento della memoria in ambito di sviluppo: considerando bambini in età prescolare (4-6 anni), l’autrice indaga come il processo di rievocazione di materiale mnestico si modifichi in funzione di variabili esterne, tra cui la qualità dei rapporti intrattenuti dal bambino con la madre e la sua cultura d’appartenenza (Fivush, 2006; Fivush e Haden, 2003).
Nell’ambito del funzionamento della memoria autobiografica del bambino, e al fine di studiarne i risvolti socio-relazionali, Fivush isola la questione sulla tipologia di stile narrativo utilizzato dalla madre nel comunicare con il figlio, in particolare nell’ambito della comunicazione su un evento che sia accaduto in passato ad entrambi (parent-child reminiscing o, in italiano, rievocazione congiunta).
L’autrice distingue due tipologie di stile narrativo utilizzato dalla madre insieme al figlio in ambito di rievocazione congiunta (dove per stile narrativo materno si intenda l’insieme delle caratteristiche che descrivono la modalità della madre di comunicare, in modo verbale e non, con il figlio): uno stile narrativo a bassa elaboratività ed uno ad alta elaboratività.
Secondo Fivush, una madre con uno stile narrativo a bassa elaboratività tenderebbe, nel comunicare con il figlio su un episodio di vita comune, a non stimolare o addirittura a bloccare il bambino al ricordo, per esempio non ponendogli domande, o svalutandolo. Una madre invece dotata di uno stile narrativo ad alta elaboratività tenderebbe, durante la comunicazione con il figlio, ad arricchire i contenuti del materiale rievocato dal bambino grazie a domande, approfondimenti e un’attenzione maggiore alla modalità del figlio di esporre il ricordo. Fivush ritiene inoltre che una madre ad alta elaboratività si preoccuperà di condurre il figlio a uno sforzo cognitivo maggiore, durante l’attività di rievocazione, rispetto a una madre non elaborativa, per esempio portandolo a focalizzare la sua attenzione sulle emozioni sperimentate nel là e allora dell’evento ricordato (ibidem).
Nei suoi esperimenti, Fivush dimostra che uno stile narrativo ad alta elaboratività influisce sulle capacità rievocative del bambino, potenziandole e rendendole più accurate (racconti più fedeli e completi sull’evento ricordato, con un maggior numero di riferimenti a vissuti interni ed emotivi); l’autrice sostiene inoltre che un maggior numero di riferimenti fatti dalla madre, in sede di rievocazione congiunta, a propri vissuti emotivi, “insegnerebbe” al bambino ad effettuare rievocazioni più complete e stimolerebbe lo sviluppo di una migliore teoria della mente nel bambino (Fivush & Fromhoff, 1988; Fivush, 1994, 2006; McCabe & Peterson, 1991; Reese, Haden & Fivush, 1993; Ruffman, Slade e Crowe, 2002).
Gli studi relativi alle suddette tematiche mostrano una tendenza attuale a considerare il funzionamento della memoria come profondamente influenzato da altri processi cognitivi, per esempio relativi al funzionamento sociale e allo stato emotivo di colui che ricorda.
Più che il processo singolo della memoria e i suoi limiti, si indaga oggi il funzionamento mnestico in relazione a molteplici fattori, ipotizzando che particolari situazioni a livello socio-relazionale ed emotivo possano migliorarne il funzionamento, cosa che in effetti è stato dimostrato negli esperimenti sul campo. In accordo con la teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1988; Thompson, 2000), questi studi dimostrano quanto la relazione madre-bambino, a partire dalle prime interazioni, sia di centrale importanza per lo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale del bambino stesso lungo l’arco della vita (Cassidy, Shaver, 1999).
Lo sviluppo della memoria tra i 5 e i 15 anni
Se lo studio del funzionamento mnestico nel periodo neonatale e prescolare, da 0 ai 5 anni, come è stato scritto, si articola oggi in tendenze di ricerche relative a più fattori, di differente natura, considerati implicati nel funzionamento della memoria, la progressione delle capacità mnemoniche che si verifica dai 6 agli 11 anni è oggi spiegata tenendo in considerazione quattro fattori:
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In primo luogo, utilizzando la metafora cibernetica, l’hardware del sistema di memoria è considerato dai ricercatori attuali, in linea con le ricerche pionieristiche di Ebbinghaus, in espansione, con il progredire dell’età. Dempster (1981), effettuando prove di rievocazione su bambini di dai 2 ai 9 anni, ha mostrato come il numero di items ricordati dal bambino cresca con l’età, fino a stabilizzarsi sul “magico numero 7±2”, intorno ai 9 anni (ibidem). Inoltre, le informazioni immagazzinate in memoria sembrano essere processate dall’individuo con sempre maggiore velocità durante la crescita (Kail, 1991, 1993), anche se resta da chiarire se questo aumento di velocità sia provocato da una maggiore familiarità del soggetto nei confronti del materiale da ricordare o dall’utilizzo più frequente di strategie di memoria, oppure da un incremento della velocità di processazione delle informazioni slegato da fattori esterni (incremento di per sé della velocità di precessazione)(ibidem).
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Un secondo aspetto coinvolto nella crescita delle capacità di memoria è considerato essere l’utilizzo di strategie, da parte dei soggetti, durante le diverse fasi di codifica, ritenzione o rievocazione delle informazioni, osservato nel bambino, seppur con varianti individuali, a partire dai 5/6 anni di età (Kail, 1990; Scheider & Pressley, 1997). Una strategia di memoria è stata definita un comportamento intrapsichico o esterno al soggetto che ne favorisca l’utilizzo della memoria, potenzialmente conscio e controllato dall’individuo stesso (Flavell, Miller & Miller, 1993). Le strategie mnestiche si sviluppano dai 5 ai 10 anni di età (ibidem), e assumono forme diverse a seconda del meccanismo che ne sta alla base (la più comune, oltre ad essere una delle più studiate, è considerata la strategia di reiterazione; altre sono la strategia di organizzazione, quella di elaborazione, e altre)(McShane, 1991). C’è consenso diffuso nel ritenere che le differenze individuali nell’utilizzo di strategie mnestiche svolgano un ruolo importante nello sviluppo delle facoltà mnemoniche del bambino tra i primi anni di scuola elementare e quelli dell’adolescenza.
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Terzo fattore considerato implicato nella progressione delle capacità mnemoniche tra i 6 e gli 11 anni è sicuramente l’acquisizione della capacità meta-mnemonica, ovvero la capacità (dichiarativa o procedurale) di monitorare il proprio funzionamento mnestico, essendo in grado di descriverlo. Tale capacità è considerata essere influente sul funzionamento mnestico in genere e sulle strategie mnemoniche utilizzate dall’individuo (Schneider, 1999).
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Il quarto fattore considerato dai ricercatori è relativo alla cosiddetta domain knowledge, la conoscenza cioè posseduta dall’individuo relativamente a un determinato argomento (come per esempio il gioco degli scacchi o il cinema). I ricercatori hanno scoperto che una conoscenza approfondita di un determinato argomento facilita la codifica e il successivo recupero di informazioni semanticamente attinenti a quello stesso argomento, indipendentemente dall’utilizzo di strategie di memoria (Bjorklund, 1985).
In generale, c’è consenso nel ritenere l’aumento delle conoscenze specifiche possedute dall’individuo in fase di sviluppo predittivo di un miglioramento diffuso delle capacità di apprendimento e di memoria, anche in relazione all’utilizzo di strategie di memoria e allo sviluppo della meta-memoria (Siegler, 1998).
L’interazione tra molteplici fattori, a determinare la qualità delle performance cognitive dell’individuo, è stata enfatizzata nel model of good information processing, formulato negli anni ’90 da più autori (Pressley, Borkowski & Schneider, 1989; Schneider & Pressley, 1997), che sottolinea appunto l’interazione tra le capacità di base dell’individuo, anche a livello neurologico, la quantità di informazioni acquisite sul mondo, il suo utilizzo di strategie e l’aspetto motivazionale, nel determinare il grado di performance a compiti di memoria.
Nuove tendenze di ricerca
Negli ultimi decenni i ricercatori hanno osservato che i processi di memoria non sempre rispondono al controllo cosciente dell’individuo, ma che, al contrario, spesso ciò che è ricordato sembra essere frutto di un processo di codifica involontario (memoria cosiddetta involontaria e implicita) (Graf e Schacter, 1985; Glemberg, 1997). La prova dell’esistenza di un sotto-sistema di memoria non controllato coscientemente dall’individuo sembra palesarsi nel momento in cui affiorino alla coscienza ricordi o informazioni che il soggetto non aveva intenzione di ricordare. E’ stato notato infatti che molto di quello che bambini e adulti ricordano sembra essere immagazzinato in modo implicito nei sistemi di memoria, senza l’ausilio di risorse attentive controllate dal soggetto. Gli esperimenti sull’effetto di priming sembrano evidenziare questi processi (Ausley & Guttentag, 1993).
Il carattere involontario di tali processi di selezione delle informazioni, e la presenza di sotto-sistemi mnemonici in grado di auto-organizzarsi, ha fatto parlare di “sistema dinamico complesso non-lineare” in riferimento alla memoria (Siegel, 1999), accostando lo studio del funzionamento mnestico allo studio dei sistemi complessi.
Lo studio di queste dinamiche, relativo quindi a fattori non-strategici implicati nei processi di memoria, coinvolge una parte della scena attuale di ricerca, e ha portato a risultati interessanti: si è notato per esempio che lo sviluppo della memoria implicita sembra subire meno evoluzioni durante lo sviluppo rispetto a quella dichiarativa (l’effetto di priming, per esempio, non sembra essere dipendente dall’età del soggetto, cosa che farebbe pensare a una memoria implicita attiva già dalla nascita; al contrario si è notata per le funzioni più dichiarative della memoria, come l’utilizzo di strategie, una costante evoluzione con l’età) (Squire, Knowlton & Musen, 1993). Evidenze sperimentali dimostrano inoltre la presenza di aree deputate differenti per memoria esplicita ed implicita (Voss & Pallerm, 2007).
La questione dei fattori non-strategici implicati nei processi di memoria ha aperto la strada a un filone di ricerca che considera il funzionamento della memoria non solo regolato da processi lineari, ma anche da meccanismi di rievocazione di informazioni basati su criteri di somiglianza e convenienza. Reyna e Brainerd (1995), nella teoria delle cosiddette “tracce sfumate” (fuzzy-trace theory) sostengono per esempio che il carattere fluido e dinamico dei processi di memoria sarebbe caratterizzato da un’attivazione delle informazioni in modo parallelo, anziché sequenziale come nella logica, e da un successivo triage cognitivo compiuto implicitamente dal soggetto sulle diverse tracce relative ad uno stesso evento.
Parzialmente allontanandosi dalle ipotesi tradizionali, gli autori hanno inoltre ipotizzato un diverso funzionamento di base della memoria nel bambino e nell’adulto, quest’ultima considerata dagli stessi più influenzata dal fattore emotivo e semantico e nel complesso meno attendibile rispetto alla memoria del bambino, più diretta e “letterale”(ibidem).
Oltre ai processi non-strategici implicati nella memoria, attuale appare oggi l’interesse verso l’attendibilità dei resoconti portati in sede di testimonianza dai bambini (e quanto questi possano in definitiva essere suggestionabili), e l’acceso interesse verso lo studio della memoria autobiografica in relazione alla dimensione sociale.
Il dibattito sull’attendibilità dei resoconti portati dai bambini in sede legale si svolge tra i sostenitori delle teorie attuali derivate dalle scuole classiche (che per esempio individuano nel periodo prescolare la fase di maggiore suggestionabilità del bambino), e le ricerche più rivoluzionarie, come appunto quella delle “tracce sfumate”, che sostengono al contrario una maggiore attinenza al dato reale nei resoconti portati da bambini anche in età precoce (Reyna e Brainerd,1995).
INFLUENZA DELLA VITA RELAZIONALE SUI PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA
Come è stato detto, un filone di grande interesse nel panorama di ricerca attuale in psicologia cognitiva indaga lo sviluppo della memoria autobiografica del bambino in relazione alla vita relazionale da esso esperita all’interno del gruppo primario.
Questi studi fanno tesoro delle scoperte effettuate in ambito cognitivo relativamente ai processi di memoria, tradizionalmente considerati come facoltà distinte della mente, e col tempo pensati in relazione a fattori motivazionali, semantici e socio-relazionali.
Oggi, autori come Fivush, Low & Durkin (2001) e altri (Haden, Haine & Fivush, 1997), considerano il funzionamento della memoria autobiografica modulato nel bambino dalla tipologia di conversazione intrattenuta dallo stesso con la madre. Studi di ricerca dimostrano che madri dotate di uno stile narrativo altamente elaborativo consentirebbero ai propri figli di ricordare con maggiore precisione e completezza le vicende dalle propria autobiografia, insegnando loro a riferirsi a più aspetti del ricordo, e in particolare agli aspetti emotivi dello stesso. E’ stato dimostrato infatti che un maggior riferimento da parte della madre a emozioni di segno positivo e l’adozione di uno stile valutativo confermativo (Labov & Waletzky, 1997) durante la fase di parent-child reminiscing sembra accrescere le performance del bambino -in età prescolare- relativamente a compiti di rievocazione autobiografica (Fivush & Fromhoff, 1988; Fivush, 1994, 2006; McCabe & Peterson, 1991; Reese, Haden & Fivush, 1993).
I ricercatori coinvolti in questi studi propendono per collocare la nascita della memoria autobiografica nel contesto di interazione sociale dell’individuo (Fivush, 2006), e considerano il processo del ricordare come un costrutto interpersonale (Bretherton, 1993).
Gli studi sopra citati sottolineano inoltre che anche la tipologia di stile d’attaccamento costruito dal bambino verso la madre sembra essere correlata alla qualità dei resoconti autobiografici portati dal bambino in sede di parent-child reminiscing. Si sono osservate in particolare maggiori difficoltà nei bambini con stile d’attaccamento classificato come Disorganizzato (D) in compiti di narrazione di eventi autobiografici condivisi con la figura d’attaccamento, rispetto a quelli Sicuri (B) (ibidem; Reese e Farrant, 2003).
Alla questione dell’influenza esercitata sulla memoria dai rapporti di attaccamento con le figure primarie si affiancano gli studi relativi alle distorsioni dei ricordi provocati da particolari richieste sociali contestuali al soggetto. La memoria è stata recentemente definita una
“proprietà globale della nostra mente: la proprietà di leggere il presente in modo storico e dinamico, generando un’interpretazione della situazione/azione corrente che è contemporaneamente lettura del presente, ripristino delle situazioni/azioni che abbiamo esperito in passato e aspettativa di situazioni/azioni che potrebbero presentarsi in un tempo più o meno immaginario. Il nostro presente è dunque sempre sospeso tra un passato costantemente reinventato, riorganizzato e riutilizzato e un insieme di futuri possibili costantemente attesi, pianificati e rimaneggiati. Il passato, il futuro e i tempi possibili sono parte inestricabile del nostro comprendere il mondo e agire in esso, ma la memoria esiste solo nel presente.” (Carassa, Tirassa, 2005).
Si configura dunque una visione dei processi di memoria come in grado di generare significato nel presente a partire da un’attività di sintesi su informazioni relative al passato del soggetto.
Come è stato sopra evidenziato, quest’attività di sintesi (cioè il modo con cui si riportino alla mente una serie di informazioni, eventi, e come queste informazioni vengano organizzate dal soggetto) risulta essere suscettibile in particolari fasce d’età all’influenza delle richieste di agenti esterni, anche involontarie o implicite (per esempio gli studi sull’influenza dello stile narrativo materno sulla memoria autobiografica).
Ciò che viene però sottolineato da altri autori è il fatto che tale processo di sintesi possa subire, anche in età adulta, distorsioni (solitamente in termini di eccesso o difetto di informazioni ricordate) provocate dalla necessità dell’individuo di esibire socialmente un livello di confidence elevato (cioè il livello di fiducia di un soggetto verso le sue stesse capacità mnemoniche).
Questi autori sostengono che l’influenza della dimensioni relazionale influenzerebbe i processi di memoria sia distorcendo i contenuti a seconda dell’ambiente in cui il soggetto si trovi a interagire, sia modulando la quantità di informazioni attivate, sempre a seconda delle richieste dell’ambiente esterno (nel caso in cui, per esempio, ciò che dovesse essere ricordato non fosse importante, e non fosse necessaria l’aderenza “verbatim” ai dati di realtà, il soggetto eseguirebbe una ricerca poco raffinata, generalizzando o sintetizzando il materiale mnestico rievocato).
Le richieste provenienti dal contesto in cui l’individuo si trovi a interagire lungo tutto il percorso di sviluppo sembrano essere in grado dunque di influenzare la modalità con cui una certa informazione venga rievocata, e perfino di intaccarne i contenuti.
Si rendono necessari dunque ulteriori studi di ricerca che si muovano nella direzione di applicare queste conoscenze all’ambito psicoterapeutico, affinché il terapeuta non sottovaluti o banalizzi il problema delle evidenti ripercussioni provocate dalle dinamiche relazionali sul funzionamento mnestico, e nel tentativo di fornire al paziente quella protesi cognitivo-affettiva che gli consenta di recuperare una sua personale e indispensabile storia di vita (Veglia, 1999).
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