PREMESSA: questo articolo rappresenta l’introduzione all’Ebook pubblicato da AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione), qui scaricabile
di Paolo Calini e Giovanni Tagliavini
Il periodo che stiamo attraversando, l’emergenza determinata dalla pandemia di SARS-Cov2, nella sua eccezionale complessità sta creando situazioni di fondamentale importanza, che richiedono attente riflessioni.
Da settimane ormai sentiamo utilizzare apertamente dai mass media termini come guerra, eroe, trincea, campo di battaglia, coprifuoco. Le parole che utilizziamo sono importanti, perché definiscono aree di significato e precisi orizzonti di senso che, a loro volta, strutturano la realtà in cui ci troviamo immersi: stiamo combattendo contro un nemico sconosciuto e invisibile, mutevole ed estremamente aggressivo.
Questo è l’ambito all’interno del quale tutti noi viviamo da diverse settimane: da questo ambito deriva il vissuto di minaccia (pervasiva sia nello spazio che nel tempo) e la risposta da formulare, con tutto il suo carico di responsabilità, a tutti i livelli (personale, terapeutico, politico, sociale).
Minaccia e risposta alla minaccia: questo, in estrema sintesi, è il tema che desideriamo affrontare in questo ebook.
La minaccia, comunemente intesa, è qualcosa che accade all’esterno, al di fuori di noi; un evento, quindi, su cui non possiamo esercitare controllo. La risposta, per contro, è quanto accade dentro di noi in termini di reazioni fisiche (nel nostro corpo), emozionali e psicologiche.
Dal momento che l’essere umano è un organismo particolarmente complesso, tutte queste reazioni sono sempre sovrapposte e compenetrate tra loro: si influenzano reciprocamente e si estendono a cascata coinvolgendo aspetti relazionali, sociali, culturali, etici. Da qui deriva la straordinaria complessità della risposta alla minaccia che gli esseri umani sono capaci di mettere in campo.
Questo grande “ventaglio” comprende anche la risposta di negazione, che da tante parti abbiamo sentito all’inizio della pandemia.
In contesti di normalità, di quotidiana routine, la nostra percezione della realtà è stabile: di solito vengono confermate le aspettative che abbiamo sui comportamenti, nostri e degli altri. Quando, ad esempio, arrivo sul luogo di lavoro la mattina e saluto un collega con un sorriso, so anticipatamente che quel collega mi risponderà o meno con un sorriso in funzione dell’esperienza che io ho di lui e dell’esperienza che lui ha di me: la sua risposta è funzione della qualità del nostro rapporto, che conosco bene. Questo si traduce in un senso di mastery (padronanza), di possibilità di controllo sulla realtà. Il filosofo tedesco Edmund Husserl, padre fondatore della fenomenologia filosofica, nel 1931 scriveva: “il mondo reale esiste solo nella presunzione costantemente prescritta che l’esperienza continui costantemente nel medesimo stile costitutivo” (Meditazioni cartesiane).
Ci aspettiamo, quindi, che, in generale, le cose “vadano come ci aspettiamo”.
Condizioni eccezionali e straordinarie, come la pandemia SARS-Cov2, disarticolano e alterano completamente questa linearità dell’esperienza, la presunzione dell’aspettativa attesa, il suo stile costitutivo: conseguentemente disarticolano il mondo reale per come lo viviamo.
Non è certo l’obiettivo di questo ebook approfondire oltre questo tema così complesso. Ma, nell’evidenza della trasformazione del mondo reale così come lo conosciamo e così come ci attendiamo che sia (basti fare riferimento all’obbligo del distanziamento sociale come misura protettiva contro l’infezione, distanziamento che, per lo meno nella nostra cultura, è piuttosto innaturale), concetti come minaccia, risposta alla minaccia, stress, adattamento allo stress, evento potenzialmente traumatico e trauma possono assumere un significato più ampio, se volete meno tecnico: assumono certamente uno spessore più esistenziale e più vicino al nostro vissuto quotidiano.
Da alcuni mesi siamo di fronte ad una minaccia che altera completamente la nostra percezione del mondo e che impone la prescrizione di stili di esperienza innaturali, non consolidati, del tutto nuovi e pertanto non prevedibili. Anche se rimaniamo nel tessuto socioculturale, sia micro che macro, in cui siamo immersi, la risposta che metteremo in atto è del tutto personale e peculiare: essa, in ogni caso, rappresenta il nostro tentativo di adattamento integrativo ad un mondo trasformato e sconosciuto, un tentativo finalizzato a recuperare il senso di mastery (padronanza sul reale).
In questo senso, ognuno di noi risponde alla minaccia trasformativa in corso utilizzando gli strumenti che gli sono propri, che derivano dal proprio modo di fare esperienza, modo che ha molte diverse componenti: qualità e quantità delle risorse a disposizione, basi biologiche (in psichiatria biologica si direbbe: in funzione del temperamento), aspetti soggettivi legati alla percezione di sé all’interno delle relazioni e alla percezione dell’altro rispetto a sé stessi. Nel tentativo di ripristinare il senso di mastery e la prevedibilità del mondo, ognuno di noi cerca di “neutralizzare” lo stimolo nuovo e sconosciuto e prova a integrarlo nel proprio mondo di esperienze: ogni individuo lo farà in modo del tutto personale, individuale, idiosincrasico.
Da ciò deriva che, nel fronteggiare una minaccia, ogni individuo avrà una reazione propria ed unica.
Di fronte ad un evento abnorme e minaccioso, quindi, saltano i nostri schemi precostituiti di anticipazione delle risposte ad una data situazione. Questo impone cautela nella valutazione delle risposte che potremo osservare negli altri: semplificando, dovremo considerare “normale” ogni reazione emotiva, anche molto intensa, se a causarla sono eventi come quelli che stiamo vivendo nelle ultime settimane. Questo, naturalmente, non significa accettare con passività qualunque cosa osserviamo nelle reazioni nostre e altrui, procrastinando possibili interventi atti a gestirla: non significa, cioè, abdicare al proprio senso etico e deontologico di curanti. Su questo tema, si ritornerà più avanti in questo ebook, nel tentativo di mettere in luce un possibile agire finalizzato e dotato di senso.
Una conclusione legata a queste prime osservazioni è quindi la seguente: la reazione ad un evento abnorme può essere di qualunque tipo e di qualunque intensità.
Ma di cosa stiamo parlando quando usiamo la parola “evento”?
Troppo spesso viene operata una equivalenza di significato tra trauma ed evento che lo ha scatenato. In questo modo si incorre nell’errore di diagnosticare una sindrome postraumatica solo in funzione del fatto che una persona sia stata esposta a uno o più eventi estremi (intendendo con estremo un evento caratterizzato da una minaccia reale alla propria o altrui integrità fisica e vita). Si arriva quindi alla equivalenza (errata) per cui se un soggetto è stato esposto ad un evento estremo e manifesta sintomi a livelllo emozionale, psicologico e/o comportamentale, allora vuol dire che è stato traumatizzato.
L’aspetto problematico fondamentale in questo modo di ragionare è che non vengono poste due domande di essenziale importanza: quali sintomi presenta la persona di cui stiamo parlando? E, ancora più importante, quale dinamica correla l’esposizione all’evento con i sintomi presentati?
Per rispondere a queste domande bisogna ripartire dalla questione, basilare, delle reazioni psicofisiche individuali agli eventi stressanti.
Tutti noi, di fronte ad un evento fortemente stressante, manifestiamo una reazione psicofisica più o meno intensa e di durata variabile (pensiamo alla reazione che abbiamo quando siamo testimoni, per esempio, di un incidente stradale), tuttavia solo una parte degli individui esposti ad eventi estremi sviluppa una sindrome postraumatica stabilizzata.
Di per sé, l’evento estremo ed abnorme ha quindi la potenzialità di indurre una sindrome traumatica; ma essere coinvolti in un evento estremo non significa automaticamente avere la certezza che tale sindrome si avveri, cioè che si inneschi il meccanismo patogenetico detto traumatizzazione.
Possiamo quindi ridenominare gli eventi ad alto livello di stress come “eventi potenzialmente traumatizzanti” (notare l’enfasi sull’avverbio, potenzialmente): è assolutamente fisiologico e normale che tali eventi causino risposte psicofisiche piuttosto intense e particolari, che fisiologicamente richiedono un certo lasso di tempo per diminuire, calmarsi ed estinguersi.
La descrizione dei vari aspetti di tali risposte è raggruppata nella definizione di risposta acuta da stress.
La base corporea di tale risposta si fonda sul funzionamento del nostro sistema nervoso autonomo: in particolare, per comprendere i meccanismi fisiologici ortosimpatici e parasimpatici (e la loro modulazione) che sono in azione in caso di minaccia grave e gravissima risulta preziosa la Teoria Polivagale di Stephen Porges, che verrà descritta in un altro capitolo di questo ebook.
La risposta acuta da stress, per quanto intensa, attiva fisiologicamente tutte le risorse (biologiche, emotive, psicologiche, relazionali, affettive, sociali) dell’individuo, legate alla sua sopravvivenza e al suo benessere: collettivamente queste risorse possono essere raccolte sotto l’ampio concetto “ombrello” di resilienza.
Essendo tutto il genere umano (Homo sapiens) dotato di notevole resilienza, nella maggior parte delle situazioni le risorse di resilienza prevalgono: questo porta la maggior parte degli individui a ritrovare uno stato di equilibrio in modo abbastanza rapido (da qualche ora fino a qualche giorno), con un ritorno del nostro arousal (livello di attivazione del sistema nervoso autonomo) allo stato precedente all’esposizione all’evento stressante. In tal caso, l’evento, seppur estremo, intenso, altamente stressante, non è stato traumatizzante, non ha attivato il meccanismo patogenetico che chiamiamo traumatizzazione. Un esempio: per alcuni giorni dopo l’esposizione a un evento molto stressante è possibile avere importanti disturbi del sonno ed un livello di allarme costante, come se ci sentissimo sempre in pericolo, nonostante sappiamo perfettamente che il pericolo è passato. Questi segnali possono gradualmente attenuarsi fino a scomparire completamente ed in modo spontaneo.
La risposta acuta da stress non deve quindi essere in alcun modo considerata come un disturbo, rientrando in tutto e per tutto in una normale risposta fisiologica ad un evento abnorme.
Gli studi e le conoscenze psicofisiologiche e psicoterapiche su tutti i tipi di stress da una parte permettono di affermare che la resilienza degli esseri umani è potente e molto versatile (previene in molti casi il meccanismo di traumatizzazione), dall’altra ci aiutano a identificare situazioni in cui la resilienza durante lo stato di crisi acuta (come ad es. nel disturbo acuto da stress, vedi sotto) sia stata superata, “spezzata”, e si sia instaurata la traumatizzazione con tutto il suo corteo sintomatologico (come nel disturbo da stress post-traumatico o PTSD).
Se desideriamo diventare più consapevoli della presenza di dinamiche traumatiche, di crisi o superamento della resilienza, dobbiamo quindi porre molta attenzione a quelle situazioni in cui i segnali/“sintomi” che hanno caratterizzato la fase di risposta acuta non scompaiono in pochi giorni ma invece rimangono numerosi, intensi, si consolidano e permangono per un periodo di tempo più lungo.
Questa condizione viene definita come Disturbo acuto da stress.
I sintomi possono essere molto vari, andando da vissuti di intrusione sensoriale (immagini, odori, rumori che erano associati all’evento, come ad esempio il vedere i fari dell’automobile con cui ho avuto un incidente frontale, sentire il rumore dello schianto delle lamiere, avere nel naso l’odore ed in bocca il sapore del sangue), alterazioni dello stato emotivo (come vissuti di profonda ed intensa tristezza o incapacità di tollerare frustrazioni o anche gratificazioni e momenti di felicità), comportamenti di evitamento delle situazioni che in qualche modo richiamano l’evento a cui siamo stati esposti (non riuscire più a guidare o a salire su un’automobile), sintomi di attivazione simpatica (disturbi del sonno, irritabilità, ipervigilanza, ecc.) fino ad arrivare a sintomi più complessi, e soggettivamente molto inquietanti, come si verifica in alcune esperienze dissociative (come ad esempio vedersi fuori dal proprio corpo o avere la percezione di un’espansione abnorme del tempo, che non passa mai, o che al contrario “ci sfugge” a causa di amnesie più o meno lunghe in durata).
I sintomi dell’area intrusività, più degli altri, sono quelli che maggiormente caratterizzano le dinamiche di traumatizzazione come riattualizzazioni dell’evento passato nella quotidianità odierna.
É presente un “corto-circuito” tra passato e presente, poiché l’intrusione di una parte del passato nel presente mi fa vivere di nuovo il passato, perdendo, in qualche modo (talora parziale e breve, talora completo e/o prolungato) la “presa” sul presente e la distinzione, fondamentale, che ciò che è passato è terminato e non è più attivo nella sua compente di minaccia, inquietudine, senso di impotenza, disperazione, ecc. L’intrusività del passato è indubbiamente una delle cifre essenziali di qualunque esperienza autenticamente traumatica: l’evento traumatizzante viene rivissuto, non semplicemente ricordato. Girando nell’altro senso la stessa riflessione: quando un evento è traumatizzante non può venire ricordato in modo normale (è rimasto non elaborato, non digerito, come un corpo estraneo all’interno della psiche), e verrà di conseguenza evitato il più possibile. Ma più viene evitato, più tale evento “si carica di energia” (per venire ricordato e realmente elaborato) e tale energia crea una irruzione del contenuto traumatico nella vita psicofisica della persona, sotto forma di ri-vissuto, di ri-viviscenza traumatica.
Per convenzione, una durata inferiore a 30 giorni di questi disturbi viene definita e diagnosticata come disturbo acuto da stress. É una condizione che richiede attenzione clinica, almeno sotto forma di una consulenza/ valutazione da parte di un professionista (psicologo psicoterapeuta o psichiatra) esperto. Se intrusioni, evitamento, disregolazione dell’arousal (attività del sistema nervoso autonomo) e disregolazione emozionale (rabbia, paura, tristezza, vergogna, senso di colpa) persistono oltre i 30 giorni, va valutata la possibile presenza di un disturbo da stress post-traumatico (PTSD, vedi le prossime pagine e i prossimi capitoli dell’ebook).
Va subito sottolineato che risultare traumatizzati da un evento o da una serie prolungata di situazioni estreme non è un segno di debolezza psicologica: come spesso afferma un grande maestro della psicotraumatologia contemporanea, il professor Onno van der Hart, “ognuno di noi ha il suo punto di frattura” che viene raggiunto e soverchiato dall’insieme della esperienza traumatizzante in corso. La dinamica di traumatizzazione riguarda un aspetto di fragilità che è certamente parte della condizione umana, vissuta da ognuno di noi, dal primo all’ultimo giorno della nostra vita (vedi il mito del “tallone d’Achille”, perfetta descrizione mitologica di tale condizione), condizione che non è assolutamente riconducibile a una banale dicotomia tra “forti psicologicamente” e “deboli psicologicamente”.
Al contrario, la dinamica della traumatizzazione (ovvero il superamento delle capacità di resilienza) è sempre il risultato di una complessa interazione tra l’evento, la situazione del momento, le vulnerabilità della persona (sia precedenti l’evento sia attivate dall’evento stesso) e le sue risorse disponibili (fisiche, psicologiche, relazionali) in quel preciso istante.
Dalla lettura di questi ultimi paragrafi possiamo iniziare a comprendere meglio come mai, pure essendo state esposte allo stesso evento abnorme, alcune persone vadano incontro ad una risposta acuta prolungata o ad un vero e proprio disturbo da stress post-traumatico, mentre altre possano ripristinare in maniera soddisfacente il proprio livello di attivazione simpatica in qualche ora.
L’evento di per sé, ripetiamolo, ha la caratteristica di essere potenzialmente traumatizzante per tutti gli individui esposti. Nuovamente, ribadiamo che non dobbiamo cercare nell’evento in sé la cifra del trauma. Un evento diventa effettivamente traumatizzante nel momento in cui soverchia la possibilità dell’individuo di adattarsi alla stimolazione eccessiva insita nell’evento stesso; ovvero, l’evento diventa traumatizzante quando il suo impatto sovrasta ed annienta la resilienza dell’individuo, che vive questo peculiare stato come annichilimento, impotenza totale, come essere in totale balìa di quanto ci accade senza poterne avere alcun controllo, come usurpazione della propria volontà da parte dell’evento.
In psicotraumatologia, il concetto di resilienza pertanto non è sinonimo di semplice adattamento, nel senso comune di capacità passiva di plasmarsi sui cambiamenti che la vita ci impone (si pensi al diffuso adagio popolare: ci si abitua a tutto) e non è solo la capacità di avere una risposta uguale e contraria finalizzata ad azzerare il cambiamento imposto dall’esterno.
La resilienza è, piuttosto, una funzione attiva dell’individuo, a volte volontaria e consapevole, a volte basata su capacità psicofisiche autonome e automatiche (strumenti innati e acquisiti) capace di ripristinare la risposta fisiologica che il nostro corpo mette in atto di fronte a condizioni cariche di energia e che possono potenzialmente soverchiare il nostro intero funzionamento corporeo e psichico.
Date queste premesse, a seguito dell’esposizione ad un evento potenzialmente traumatico -cioè un evento che possieda le caratteristiche intrinseche di soverchiare la resilienza dell’individuo esposto-, potremo osservare una restitutio ad integrum in alcuni individui (la maggior parte); in altri lo sviluppo di una sintomatologia che può essere anche invalidante ma che tende in breve tempo (al massimo entro quattro settimane dall’esposizione) a risolversi, anche grazie all’aiuto e alla consulenza di un professionista esperto; in altre persone ancora osserveremo invece il consolidamento di questa sintomatologia -dopo un periodo, considerato “standard”, di 30 giorni dall’esposizione all’evento.
In quest’ultimo caso parleremo di Disturbo da Stress Postraumatico (PTSD) caratterizzato dai gruppi sintomatologici dell’intrusione (di aspetti sensoriali estranei e connessi più o meno direttamente all’evento, che entrano nel campo di coscienza dell’individuo in condizione sia di veglia – immagini, rumori, suoni, odori o sapori esperiti durante l’evento che si ripresentano tali e quali a distanza di tempo- che di sonno -incubi notturni), dell’evitamento (di tutte le situazioni che in qualunque modo richiamino l’evento in sé), della disregolazione dell’arousal (sistema nervoso autonomo) e della disregolazione emozionale.
Arrivati a questo punto, ci si pone un ulteriore problema, che la pandemia SARS-Cov2 ci presenta in tutta la sua dirompente potenza. Tutto quello che abbiamo detto fino ad ora si applica in maniera piuttosto semplice se l’evento potenzialmente traumatico è singolo e puntiforme (come accade per un incidente stradale), oppure se è possibile prendersi una pausa di osservazione dalle situazioni di stress continuativo in corso, riuscendo a valutare con un minimo di chiarezza e competenza i sintomi in corso, su se stessi o sulle persone che ci chiedono un parere o una consulenza in quanto sanitari.
Dobbiamo constatare, purtroppo, che la situazione è più complessa. La pandemia di SARS-Cov2 è tutt’altro che puntiforme e singola: ci stiamo convivendo e ne siamo esposti ormai da mesi. La pandemia sta ancora continuando, in parte nella sua parte più chiaramente epidemica, in parte attraverso le sue conseguenze, che stanno lentamente emergendo e che riguardano la salute, le relazionali sociali, la situazione economica di miliardi di esseri umani in tutto il pianeta. Dopo tutto questo tempo (mesi) di reazione al virus siamo ancora ben lontani dal poter ipotizzare e considerare una completa smobilitazione dall’emergenza: nell’emergenza siamo ancora immersi. Di conseguenza, siamo ancora ben lontani dal poterci pensare di nuovo al sicuro e protetti.
Il livello di stress a cui siamo stati acutamente esposti non sta calando completamente, anche se lo desidereremmo: in parte rimane immutato, in parte si sta trasformando, in quanto iniziamo a dover affrontare scenari diversi, legati non solo a una protezione e cura dell’aspetto più acuto dell’infezione (fase 1), ma anche alla necessità di ripristinare un livello più usuale di vita socio-lavorativa, mentre in virus è ancora in circolo (fase 2).
Anche le équipes sanitarie si trovano in questa doppia situazione, da una parte con l’obiettivo di mantenere le metodologie e le prassi operative necessarie per affrontare la patologia ancora in corso, dall’altra di ripristinare una quotidianità clinica e un lavoro di équipe conosciuto e messo in atto da anni -legato a un ritorno alla “normalità”.
Mentre alcune persone stanno già vivendo, dolorosamente, una situazione di traumatizzazione (come disturbo da stress acuto o come PTSD), tutti noi siamo immersi in una difficoltà reale e molto umana, legata alla oggettiva fatica ad adattarci a condizioni pesanti e in gran parte imprevedibili, a eventi abnormi (emergenze, lutti gravi) e in gran maggioranza non usuali, di difficile decifrazione. Parliamo in questo non di problemi traumatici (nei quali la resilienza viene sopraffatta e il funzionamento dell’individuo in qualche modo si “spezza”), ma di problemi di adattamento nei quali la resilienza è “affaticata”, ma non soverchiata, e il funzionamento dell’individuo (o dei gruppi familiari, sociali, lavorativi) muta, si “deforma”, ma non si spezza. Utilizzando una analogia abbastanza precisa mutuata dall’ortopedia (un’altra branca medica competente, non a caso, di traumi), possiamo dire che un ambito sono le fratture (dove il disturbo acuto da stress è una frattura composta e il PTSD una frattura più netta, talora complessa, che necessita di un intervento specialistico, magari semplice ma mirato ed esperto come un gesso), un altro ambito sono le contusioni, che in primis hanno bisogno di una terapia sintomatica (riposo, ghiaccio, anti-infiammatori, attenzione e cura delle parti colpite, da parte del contuso in primis ma anche di chi gli sta intorno).
Solo in caso di contusioni multiple e invalidanti è necessario un intervento specialistico mirato: spostandoci di nuovo in ambito psicodiagnostico, utilizziamo in tal caso la descrizione clinico-diagnostica di disturbo dell’adattamento, o DdA.
Approfondiamo un attimo il tema, molto ampio, delle dinamiche legate all’adattarsi/abituarsi a situazioni e periodo stressanti. Osservando cosa ci sta accadendo in attualità, questi temi si ripropongono con forza: stiamo infatti tentando di riprendere il controllo della situazione, in una condizione durevole che implica, con regolarità, una minaccia solo un poco più conosciuta di quanto fosse alcune settimane fa. Ci si chiede di continuare ad andare avanti a vivere, riprendendo modalità sospese per 2-3 mesi, pur sotto la costante minaccia della morte, della malattia, della discontinuità, dell’interruzione dei ritmi, delle ritualità e delle consuetudini. Dobbiamo costruirci delle difese per sopravvivere nel costante pericolo del contagio e delle sue conseguenze. Ci troviamo quindi nella necessità di trovare un equilibrio fra i continui stimoli che tendono a soverchiare le nostre capacità di resilienza e la necessità di andare avanti nella quotidianità.
In qualche modo dobbiamo regolare il nostro sistema autonomo; non possiamo esporci continuamente ad un tale livello di stress senza poterci autoregolare. L’abituazione ci permette di raggiungere questo obiettivo ma ad un prezzo non sempre accessibile. Certamente, come dice il popolare adagio: ci si abitua a tutto. Molto spesso è vero (tranne per ciò che ci risulta traumatico), ma c’è sempre un costo a questo abituarsi, e a volte il costo risulta troppo alto e faticoso: in tal caso è utile poter dire che lo sforzo di abituarsi si trasforma in una situazione che richiede cura specifica, che convenzionalmente chiamiamo disturbo d’adattamento.
Utile fare un esempio di una fatica da adattamento in ambito lavorativo sanitario. Un operatore di rianimazione (medico o infermiere) è abituato a gestire la sofferenza e la morte del paziente e le conseguenze di questo evento potenzialmente traumatizzante sui famigliari e su se stesso in quanto operatore; da operatore esperto e professionale svolgerà i suoi compiti con umanità ed attenzione, prestando cure che vanno ben oltre gli aspetti prettamente tecnici rappresentati da un esame clinico-diagnostico o da una procedura terapeutica: lo fa occupandosi il più possibile della persona, garantendone la dignità, la riservatezza, l’autodeterminazione, prestando attenzione ai bisogni anche psicologici. Ciò che caratterizza ogni operatore sanitario esperto ed efficace è proprio questa capacità di rispondere, abbastanza contemporaneamente, a vari livelli e tipologie di bisogno dei pazienti.
In molti modi la pandemia di SARS-Cov2 ha provocato uno stravolgimento delle nostre competenze e della nostra professionalità di curanti. Uno dei (purtroppo molti) aspetti è legato a questioni basilari di protezione e sopravvivenza. Va ricordato che nella descrizione dei bisogni di ogni individuo, proposta da Abraham Maslow tramite una famosa figura a piramide, alla base troviamo il bisogno di essere al sicuro e venire protetti. Il personale ospedaliero, in particolare quello dei reparti intensivi e subintensivi, è stato coinvolto in una realtà, durata molte settimane, di continuo stravolgimento di tali bisogni, sia per un aumento delle situazioni che necessitavano cure ad alto livello di intensità e specializzazione, sia per un incremento del numero dei decessi a cui neanche gli operatori di rianimazione erano abituati.
Già solo questo livello di stravolgimento ha portato intensa fatica di adattamento.
Ad esso si sono sommate molte altre situazioni di stravolgimento della vita ordinaria nella vita di ogni operatore, sia a livello professionale che personale e familiare (citiamo solo ad esempio quante preoccupazioni di infezione, mai prima vissute, sono nate riguardo al tornare ogni giorno a casa dall’ospedale e incontrare il partner, i propri bambini o familiari anziani).
Risulta ovvio che è e sarà alto il costo fisico ed emotivo di occuparci dei bisogni di sicurezza e protezione dei nostri pazienti nel momento in cui ci troviamo nel paradosso che, per poter concretizzare questa nostra mission professionale, stiamo mettendo in discussione i nostri personali bisogni di sicurezza e protezione. Pensando concretamente a questo costo come a una spesa energetica, osservando la colonna delle “uscite” sul mio conto corrente, riuscirò a fare un bilancio, riuscirò a rendermi conto se sto “andando in rosso”?
Questa domanda è cruciale e incoraggiamo ognuno a farsela, non appena la situazione emergenziale al lavoro recederà.
Il rischio, se non valutiamo la nostra fatica di adattamento, sarà, nella migliore delle ipotesi affrontare il lavoro tornato “abbastanza normale” senza l’energia sufficiente, quindi sentendoci costantemente “col fiato corto”. Nella peggiore delle ipotesi non daremo importanza a sensazioni, vissuti, comportamenti che sono già da considerarsi come sintomi (cioè aspetti problematici che richiedono cura) di un vero e proprio disturbo dell’adattamento che porta danno a noi e all’ambiente intorno a noi (soprattutto: lavorativo, familiare e amicale).
Un possibile segnale di fatica di adattamento è la nascita di una sorta di fatalismo cinico: pensare “tanto tutti moriamo prima o poi, è soltanto arrivata la sua ora” indubbiamente ci permette di riprendere la nostra quotidianità (di autoregolarci) ma a scapito della ricchezza e della profondità che avevamo prima nel nostro lavoro. Il cinismo costituisce uno dei primi segnali di difficoltà di adattamento a condizioni di stress estremo in ambito lavorativo (oltre al primo segnale di una prossima capitolazione del nostro ruolo professionale di curanti). Perdere di vista la deontologia ed il senso etico durante un lavoro, perdere di vista il proprio ruolo, significa perdere la propria identità professionale, e di conseguenza lesionare anche parte del senso di identità personale.
La sindrome da burn-out, con perdita talora completa di motivazione in ambito professionale -fino a un senso di alienazione-, è un buon paradigma per descrivere, osservare e diagnosticare molti aspetti di disturbo dell’adattamento (DdA) conseguente a grave stress lavorativo.
Se desideriamo applicare le conoscenze sul burn-out nel campo del lavoro sanitario (sia per noi stessi, per valutare il nostro livello di fatica di adattamento, sia per l’ambiente intorno a noi, al fine di pianificare interventi di miglioramento dello stress tra i sanitari) è utile conoscere anche il concetto, sempre proveniente dalla letteratura anglosassone di compassion fatigue, termine sicuramente più suggestivo, evocativo ed efficace del suo corrispettivo italiano di trauma vicario. La osservazione e valutazione della compassion fatigue3 può certamente portare beneficio per molte delle condizioni di “malessere professionale”, in cui assistiamo ad un soverchiamento della resilienza sia individuale che gruppale ed organizzativa (pensiamo alle riorganizzazioni degli ospedali per approntare reparti Covid che hanno determinato lo scioglimento di équipes consolidate ed il loro rimescolamento, comportando per necessità proprio il rischio di riduzione della resilienza offerta dal gruppo).
Oltre al burn-out e alla compassion fatigue, nella valutazione del disturbo di adattamento (DdA) nel personale sanitario va aggiunta particolare attenzione all’allargamento “a macchia d’olio” dei sintomi al di fuori dell’ambito lavorativo.
Molti segni e sintomi di DdA coinvolgono infatti: 1) il funzionamento individuale soprattutto riguardo alla regolazione corporea (con insonnia, dolori migranti, somatizzazioni talora gravi, esordio di malattie o aggravamento di patologie pre-esistenti, ad es. ipertensione, diabete, nevralgie, problemi autoimmuni) e riguardo alla regolazione emozionale (con manifestazioni in particolare ansiose e depressive); 2) la vita relazionale e affettiva, con estensione a livello personale e familiare delle difficoltà nate sul lavoro (senso di estraneità e distanza con persone prima a noi care, atteggiamento cinico o polemico coi nostri familiari, aumento della litigiosità e irritabilità nei loro riguardi, fino alla violenza verbale o fisica, ecc.).
Molto frequente, come modalità auto-prescritta di “autocura” del disagio emotivo da DdA, il ricorso a sostanze d’abuso (tranquillanti, alcool, cannabis, cocaina) e a dipendenze comportamentali (gioco d’azzardo, dipendenza da internet, ipersessualità, sensation seeking grave con comportamenti ad alto rischio).
In conclusione, parlare di stress, resilienza, adattamento (e i suoi disturbi) e traumatizzazione significa muoversi all’interno di un ambito ampio e complesso, ma esplorabile mediante punti di repere e utilizzando strumenti di orientamento specifici.
Ogni sanitario ha la possibilità (e aggiungeremmo il dovere) di utilizzare le proprie competenze di cura, già presenti e a disposizione grazie alla propria formazione professionale, per informarsi in merito, anche tramite questo ebook, e procedere innanzitutto ad una auto-valutazione del proprio livello di stress e di fatica di adattamento.
Il passo ulteriore, sempre utilizzando le proprie competenze terapeutiche, è quello di decidere di mettere in atto un piano di cura personale, piano che potrà o meno includere l’intervento di un professionista competente nell’area dello stress e del trauma.
Incoraggiamo Voi lettori a chiedere il consiglio di un esperto se doveste avere dubbi sulla completezza della Vostra indagine auto-valutativa sullo stress percepito e vissuto; se persone care intorno a Voi Vi segnalassero Vostre modalità di sofferenza emotiva e/o comportamentale prima non presenti; se il livello di fatica di adattamento fosse globalmente alto o se i segnali di tale fatica fossero pochi ma intensi (probabile presenza di disturbo dell’adattamento), se Vi doveste riconoscere nella descrizione di professionista in burn-out o con compassion fatigue, se dopo oltre un mese dall’inizio degli eventi stressanti viveste in modo stabile gran parte o tutti i sintomi di PTSD (intrusione, evitamento, disregolazione emozionale e della attività del sistema nervoso autonomo).
Allo stesso modo, incoraggiamo i lettori che hanno responsabilità di coordinamento e di management/direzione di équipe ad attivare lo stesso pensiero valutativo-terapeutico focalizzandolo non sul singolo ma sulle modalità di funzionamento e il livello di stress/disturbo di adattamento/trauma della équipe che dirigono.
Nelle prossime pagine approfondiremo molti temi accennati in questo capitolo, con la speranza di arricchire il vostro bagaglio di conoscenze riguardo a cura del corpo, dello stress e dei problemi post-traumatici.
Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.