di Raffaele Avico
La luna e i falò gira intorno a un tema centrale, un pilastro che doveva essere portante non solo per Anguilla (il protagonista del romanzo), ma anche per Pavese: la perdita, il recupero, il ricongiungimento cercato, la partenza e il ritorno. Per questo, il libro è impregnato di melanconia, risultando quasi insostenibile alla lettura in termini emotivi, seppur bellissimo. Anguilla, come sappiamo dalla sinossi, torna in patria dopo almeno 20 (?) anni, dalla California, avendo fatto fortuna, come un vero e proprio “zio d’America”. Partito per scappare alla persecuzione fascista, tornerà alla sua terra (le Langhe) a contare i morti del dopoguerra, e ad affacciarsi su ciò che rimane del suo passato.
Il libro è un lungo affaccio a ciò che del passato di Anguilla rimane; potremmo definirlo una lunga visita al museo di ciò che fu: l’infanzia di Anguilla come bracciante, i giochi di bambino, l’amicizia con Nuto (rimasta inalterata), la famiglia affidataria, la vergogna e la rabbia di classe.
Rintracciamo due piani del sogno melanconico di Anguilla, al suo ritorno:
- il cambiamento dei luoghi, la casa in cui crebbe ormai abitata da un’altra famiglia, rappresentano lo scorrere lineare di un tempo che viaggia sempre in una sola direzione: verso l’entropia e la morte. La narrazione di Anguilla si perde in ciò che i luoghi sanno riportargli alla mente: le feste di paese, i falò propiziatori nella notte di San Giovanni, i balli di paese prima della guerra. La percezione bruciante dello scorrere impietoso del tempo, sembra aggravare lo stato di sradicamento di cui Anguilla soffre da sempre, nato e vissuto “bastardo”, senza una radice. Durante la lettura, viviamo con Anguilla il tentativo di riappropriarsi dei luoghi che furono i suoi.
Ma sarà veramente possibile?
Nelle pagine di “La luna e i falò”, ci confrontiamo con il problema dell”’oggetto perduto”, che in qualche modo potremmo riformulare o semplificare nel problema dell’”infanzia perduta”, nell’elaborazione di un lutto che riguarda i propri, intimi sogni, la perdita di un sè bambino (che troveremo reincarnato -è possibile leggerla in questo modo- nel piccolo Cinto, anch’esso abusato, violato da una realtà brutale, oggetto di un forte transfert da parte dello stesso Anguilla). Essere andato via, dunque, non sembra aver risolto Anguilla: quel lutto “a metà”, l’attaccamento a quella perdita sembra, nella lettura, ancora vivo, ancora bruciante in lui, tanto da farcelo cogliere come affondato insieme all’oggetto perduto, aderente, incollato ad esso– e con esso lontano, distante. Freud ci mise in guardia sul pericolo di perderci dietro l’oggetto perduto, di morire un po’ per volta dentro un sogno melanconico infinito, che sembra essere quello che accade ad Anguilla. - un secondo piano, sembra in qualche modo meta-melanconico. A circa metà libro, Anguilla si chiede cosa resterà di quei luoghi, con lo scorrere del tempo. La sua non è solo quindi melanconica ricerca di ciò che fu: il rapporto con la sua terra di origine sembra subire un processo di metamorfosi, sembra piuttosto amore corrotto in pietà per i luoghi del suo passato. Il che, potremmo dire, vuol dire amore corrotto in pietà per se stesso.
Il lutto è ovunque, pervasivo, endemico, irrisolvibile.
É un lutto attuale, del momento presente, ma anche “futuro”, vissuto prima del tempo, anticipato, pre-vissuto. Anguilla osserva con occhi di madre luoghi che gli appartennero solamente in parte (ricordiamoci che, in quanto bastardo, il tema della mancanza di appartenenza gli si propose fin da subito), cercando una fusione, una simbiosi fuori-tempo, clamorosamente patetica.
Il percorso di Anguilla, è tutto interiore, tutto interno. La natura indifferente, diviene un grande schermo su cui lo osserviamo costruire delle domande, porsi delle questioni basali, umanissime, ma senza risposte tranne una: la fuga (Anguilla tornerà a Genova a fine romanzo; Pavese si suiciderà poco tempo dopo aver concluso il romanzo). La natura intima, psicologica, del percorso di Anguilla, il tema dell’appartenenza e del ritorno, del ricongiungimento impossibile verso quello che i lacanisti chiamerebbero oggetto piccolo (lo stadio iniziale, fusionale, unico, non ancora diviso della vita) struttura tutto il romanzo, facendone un capolavoro, pur difficile da leggere per la sua potenza evocativa e, in qualche modo, depressiva.
Il libro è infatti in grado di produrre melanconia nel lettore, in modo vivo e potente. Andrebbe letto da chiunque si confronti con un’emigrazione, con un distacco necessario, con un allontanamento dal proprio nucleo familiare di origine per ragioni di sopravvivenza. O dai bullizzati, o dai “tagliati fuori”. Ci si sentirà totalmente capiti, totalmente a fianco di Anguilla di fronte alla brutalità di una sola domanda, fatale: “perché?”.