di Raffaele Avico
Questo volume (la tesi di laurea di un medico Leccese nato nel 1881, Francesco de Raho), rappresenta un efficace tentativo di integrare gli studi sul tarantismo che fino ad allora avevano letto il fenomeno pugliese alla luce del paradigma medico/scientifico ottocentesco, agli studi successivi che vollero invece indagarne gli aspetti antropologico/folkloristici, legati alla cultura della terra del Salento.
Il libro è stato pubblicato nel 1908, e rappresenta di fatto la tesi di laurea del medico De Raho.
Il volume venne ignorato negli anni successivi, per ritornare citato da Ernesto De Martino nel suo La terra del rimorso, opera centrale per chiunque si voglia approcciare a una lettura critica sul fenomeno del tarantismo pugliese. De Martino omaggia De Raho nel suo La terra del rimorso onorando la generazione di cui lo stesso De Raho faceva parte, precedente alla propria, riconoscendone il contributo scientifico.
Il volume va, in primo luogo, contestualizzato entro il periodo storico che lo vide nascere: erano gli anni dell’affermazione della psicoanalisi e di un psichiatria aperta ad aspetti puramente psicologici, incentrata sul concetto di isteria come malattia nervosa più diffusa, e sulla sue cause.
De Raho apre, nel suo lavoro, con un’iniziale disamina sommaria della letteratura sul tarantismo (vecchia, ai suoi tempi, già di 300 anni, essendo i primi documenti scritti a proposito del fenomeno risalenti al 1600). Quindi, entra nel vivo della sua sperimentazione, operando un’indagine sul campo finalizzata a comprendere l’origine del fenomeno del tarantismo pugliese.
Nella seconda parte del volume, infatti, vengono descritti gli esperimenti che lo stesso medico effettuò su diversi animali da laboratorio, in situazioni diverse, per testare l‘effettivo potenziale tossico del veleno del “ragno” pugliese. Fino a quel periodo, infatti, l’origine del male sofferto dalle donne colpite da tarantismo, era attribuito al potenziale nocivo del veleno del ragno.
Diversi aspetti però non tornavano, e questo De Raho lo chiarisce molto bene nel suo lavoro di tesi: come mai le donne sembravano soffrire di tarantismo, solamente in campagna? Come mai inoltre il male sembrava riproporsi in modo ciclico, una volta l’anno?
Gli animali da laboratorio, morsicati molteplici volte da ragni raccolti dallo stesso De Raho (facendo attenzione a raccoglierli senza far sì che il veleno da essi ritenuto si disperdesse, per esempio rovesciando sulla terra una bottiglia di vetro, e spingendo il ragno dentro di essa), sembravano non subire alcun tipo di danno organico, coma a provare l’innocuità del veleno del ragno stesso.
Questi esperimenti erano svolti utilizzando un ragionamento di tipo deduttivo, entro una cornice “scientifica” che avrebbe nell’idea di De Raho “sotterrato” la mole di credenze e pensieri magici raccolti intorno alla figura (simbolica) del morso e intorno alla pratica rituale del tarantismo stesso.
Dimostrata, all’interno della sezione “zootecnica”, la sostanziale innocuità del veleno del ragno, il medico si spinge quindi a una rassegna di casi clinici (molto frequenti e facili da reperire a inizio ‘900, a differenza del periodo in cui De Martino effettuò le sue ricerche, negli anni ’60, quando il fenomeno conosceva già il suo declino), molto numerosa. Vengono riportati 25 casi clinici suddivisi in gruppi differenti a seconda che vi fosse stato o meno il morso “reale” di un ragno; questi casi sarebbero stati successivamente ripresi da De Martino come materiale di studio e citati nel suo La terra del rimorso.
Infine, de Raho si spinge a una valutazione del fenomeno tarantismo, per via medico/psichiatrica, “declassandolo” a forma minore di isteria.
La cosa interessante tuttavia della sua valutazione clinica, è la spiazzante modernità di lettura del fenomeno, usando lo stesso De Raho concetti che all’epoca dovevano essere particolarmente “innovativi”, che tuttavia sono ancora oggi validi e, per certi versi purtroppo, insuperati.
In particolare, De Raho cita gli studi di Pierra Janet a proposito del trauma, da un lato citando l’idea Janetaina di una personalità “divisa” e difficilmente “sintetizzata” ad opera delle funzioni mentali superiori della coscienza (idea che ancora oggi fa da fondo a molte delle teoria psicotraumatologiche più apprezzate), dall’altro osservando in modo molto acuto come il disturbo isterico fosse da ricercarsi laddove ci fosse, a monte, una personalità pronta a riceverlo (sia per una questione di suggestionabilità, che per una problema di fragilità contestuale). Giustamente, De Raho osserva, il fatto che non tutti sviluppassero una forma isterica come il tarantismo, ci dice di come è spesso più importante il “terreno” del “seme”. Anche qui, osserviamo, si sente un’eco janetiana (il disturbo post traumatico si innesta su un terreno di prostrazione psichica preesistente). Si spinge poi, il medico leccese, a una valutazione (neuro)fisiologica degli effetti della musica sulla mente dell’individuo, citando i più importanti studiosi dell’epoca, pur in grado di operare spiegazioni insufficienti -che tuttavia ci ricordano di come ancor oggi non tutto sia stato spiegato (per esempio la base neurobiologica di un evento catartico).
La musica, dice De Raho, “squassa simultaneamente tutti i rami e tutte le fronde dell’albero psichico come un vento impetuoso che aggiri il tronco alla base”; potrebbe essere definita come un “trascendente idioma senza parole che scorta sino al lembo dell’infinito”. Il che certamente è vero, ma non spiega il potere curativo della stessa.
È possibile, si chiede l’autore, che la musica eserciti un effetto realmente curativo, al pari di un farmaco, sul veleno iniettato dal ragno, così come sembravano credere i contadini del leccese di inizio ‘900? Pur assumendo che la musica “spinga” lo “spirito del corpo” a portare dei benefici a livello somatico (accertati da molteplici studi che lo stesso De Raho cita), non è possibile per la musica operare in senso terapeutico “al di fuori dei suoi confini”, per esempio facendo ricrescere un arto deputato, oppure guarendo un malato di polmonite. A meno che, ragiona De Raho, lo stesso atto di ascoltare un certo tipo di musica entro un certo tipo di rito socialmente condiviso, da parte di persone dotate di una certa disposizione d’animo, non poggi su un unico elemento centrale: la suggestione nel contesto di un problema “solamente” psicologico -che è poi, come abbiamo visto, la conclusione a cui arriva De Raho pensando al tarantismo, un problema cioè del tutto assimilabile a una forma minore di isteria.
Il volume rappresenta un elemento prezioso della bibliografia sul tarantismo (raccolta in toto da Sergio Torsello), perchè rappresenta una pietra miliare tra i primi lavori che vollero spogliare il tarantismo del suo portato magico/pagano, portandolo sotto lo sguardo della scienza biomedica -così facendo, però, decretandone la scomparsa.
Infine, raccoglie al suo interno le prime 4 fotografie mai apparse di donne tarantate, interessanti poichè mostrano come in passato (presumibilmente prima dei primi anni del ‘900) il rituale di tarantismo si svolgesse con l’aiuto di una corda appesa al soffitto, funzionale ad agevolare i movimenti e il ballo dei soggetti “morsicati”.
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