di Raffaele Avico
Radical Choc, l’ultimo episodio della trilogia del collasso di Raffaele Alberto Ventura, è un trattato forse più sociologico che economico, idealmente da collocarsi -a detta dell’autore stesso- come precedente agli altri due volumi della trilogia (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti).
Ventura per la prima metà del libro, esegue una lettura dall’alto della società di oggi, tentando di spiegarne la difficile sostenibilità soprattutto in termini di rapporto costi/benefici. Per poter procedere in avanti e verso l’alto, e garantire una riproposizione continua dei rapporti dialettici tra le parti sociali al suo interno (per esempio tra la domanda e l’offerta nel mercato), la tecnostruttura statale dovrebbe essere in grado di, nel tempo, “scalare” in termini di grandezza verso l’alto: in assenza di questo movimento di crescita perpetua, visto il finire dello spazio di sviluppo, parti di o intere fasce di professionisti potrebbero, nel tempo, risultare inutili.
La tecnostruttura statale, dovrebbe in altri termini garantire a se stessa il perpetuarsi della domanda di servizi e lavori necessari per far funzionare la macchina stessa -ma per fare questo, occorre che essa diventi sempre più grande. É una nevrosi della tecnostruttura stessa, per così dire, generata da un problema di economia libidica interna, con troppa energia da smaltire, e pochi strumenti per farlo; un po’ come un uomo o una donna che, irrequieti, si auto-procurino nuove fonti di stress -nuovi progetti, nuove idee, case più grandi- da usare come alibi per giustificare o convogliare la stessa loro irrequietezza, dilaniati nella sostanziale impossibilità di fermarsi, o vivere il momento presente.
In particolare, Ventura sottolinea come a partire dalla nascita dello stato moderno, avvenuta per difendere la popolazione dai suoi stessi impulsi più basici e dai rischi di un contatto troppo poco filtrato con la natura (lo stato di natura di Hobbes), la classe di quelli che Ventura chiama “competenti” sia stata lo strumento umano con cui la tecnostruttura si sia incaricata di ridurre le incertezze e i difetti strutturali interni al suo funzionamento, così che questa potesse meglio procedere nella sua corsa -all’apparenza- infinita.
I competenti, risolutori di problemi, utili a offrire alla società quote maggiori di sicurezza percepita, sono coloro che nel suo primo libro aveva definito membri della classe disagiata: laureati, nuovi intellettuali, operai cognitivi, architetti, psicologi, filosofi: figure professionali utili fintanto che la macchina statale -la tecnostruttura- possieda sufficiente spazio e bisogni -che quindi richiedano la risoluzione di sempre nuovi problemi.
Ma cosa succede sa la macchina, per cause di forza maggiore, si ferma?
Volendo provare a sintetizzare il lavoro di Ventura, anche relativamente agli altri suoi saggi (Teoria della classe disagiata e La guerra di tutti, qui recensito), e provando a darne una lettura in senso psicologico, cosa potremmo trarne?
Alcuni spunti:
- abbiamo osservato negli ultimi anni continui tentativi di giustificare e spiegare la “crisi”, effettuati spostando il centro della crisi stessa da un tavolo all’altro: la crisi economica spiegata attraverso la crisi climatica, a sua volta usata per spiegare crisi sanitarie, come un continuo gioco di spostamento, che ora sembra essere arrivato a un punto di arresto: se veramente di crisi si tratti, dovremmo inserire questa crisi nel contesto di un più esteso cambio di paradigma, che Ventura descrive nel dettaglio, trasversalmente, nella sua trilogia del collasso. La crisi, è prima di tutto una crisi di senso. Non è un caso che Ventura esegua una lunga rincorsa storica per tracciare i confini del cambio paradigmatico che intravede nella società odierna: come lui, lo fanno Alessandro Baricco e, sopra tutti gli altri, Harari. Per capire dove stiamo andando, sembrano sostenere questi autori, occorre capire da dove siamo venuti: solo così riusciremo a tracciare le linee di un nuovo orizzonte di senso.
- Harari, insieme a Ventura -anche se in modo diverso-, focalizza molto bene come uno dei problemi che si potranno presentare, nel prossimo futuro, sarà mantenere una qualità della vita alta pur essendo sganciati dall’idea di essere “utili” alla sopravvivenza della tecnostruttura/società. É probabile, spiega Harari, che in un futuro non troppo lontano, molte persone -tra cui molti competenti o disagiati- si raggrupperanno in quella che definisce la classe degli inutili, la useless class. Costoro dovranno capire come vivere bene, rendendosi conto di non essere necessari al proseguimento del progresso sociale. Questo problema, come si diceva, tocca l’ambito del senso e del significato: che senso dare a una vita passata nel poco lavoro, o nel non lavoro, e nell’assenza di pericoli contingenti a riguardo della sicurezza? Per riuscire a vivere bene in queste condizioni, occorrerebbe eseguire un lavoro di distanziamento, un superamento prima di tutto interiore da tutto ciò che, a proposito del valore etico del lavoro, abbiamo imparato.
- è necessario che i competenti, i “disagiati”, superino l’impasse del bisogno di riconoscimento, descritta a fondo nel libro La guerra di tutti, verso una nuova forma di flessibilità, una nuova capacità di adattarsi: non è detto infatti -o meglio, è improbabile-, che quello che al tempo fu promesso loro, verrà realmente offerto in premio per la corsa a ostacoli da essi intrapresa
- è necessario tenere a mente i rischi ingenerati da un sistema tecnocratico che abbia come motore centrale la preservazione della sicurezza (o meglio, la sua “produzione” come dice Ventura): questi rischi, potrebbero concretizzarsi in forme di governo anti-democratiche, o “burocratico/fascistoidi”, e per parlare di questo Ventura tira in mezzo il modello cinese.
La guerra di tutti, è la guerra dei competenti gli uni contro gli altri, delusi da promesse non mantenibili, in un sistema che non cresce alla velocità necessaria alla produzione di sufficiente domanda.
Ci troviamo dunque in un interregno paradigmatico, in una terra che, come ben descrive il già citato Harari nel suo 21 lezioni per il XXI secolo, ha perso i suoi simboli, e ne cerca di nuovi. Un deserto senza indicazioni che procura vertigine, e che vede nuovi paradigmi alternarsi -per ora- senza che nessuno di questi riesca realmente a divenire dominante. Come nota Harari, i due paradigmi per ora più forti, in grado potenzialmente di prendere il posto delle grandi istituzioni novecentesche -a rischio di collasso (Ventura chiude il libro con l’immagine di Economia e Politica, abbracciate, che si schiantano al suono, ma con estrema lentezza, tanto da non produrre nessun rumore, solo un lungo brusio di fondo)-, sono il paradigma laico guidato da un’etica di rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo e dell’ambiente in cui vive, e quello scientifico, sempre più ingombrante in termini di potenza semantica, pur nelle sue derive negative (per esempio il fatto che la scienza non fornisca mai una risposta definitiva, e limitandosi a risposte “sospese” non produca fidelizzazioni “forti”)
Con la sua trilogia, insieme ad altri pionieri del mondo “nuovo”, Ventura ci propone non tanto una soluzione, quanto uno strumento di interpretazione del presente, una chiave di lettura che con cui unire i puntini per far affiorare nuovi orizzonti di senso.
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