di Raffaele Avico
PARTE 1
.
Siamo abituati a pensare al panico come a un evento improvviso che interviene nella vita di un individuo, per lo più caratterizzato da ricadute corporee: lo conosciamo a partire dai suoi sintomi fisici (fame d’aria, senso di soffocamento, tachicardia, sudorazione); sappiamo che tentare di controllarlo nel suo esprimersi, conduce spesso al fallimento o addirittura a un peggioramento del sintomo stesso.
Sappiamo inoltre che il panico accade poche volte, realmente, nella vita di un individuo: il disturbo che ne consegue, il disturbo di panico, è una cosa differente e riguarda la paura che il panico si ripresenti: si genera una paura della paura, che rappresenta il disturbo vero e proprio.
Il soggetto, spesso, diviene un attento osservatore del proprio corpo: ogni spasmo, ogni segnale anomalo viene interpretato come possibile segnale di un ritorno del panico originario, creando grandi effetti di evitamento, richieste di rassicurazione nei confronti dell’ambiente circostante, controllo -appunto (si veda per un approfondimento sul tema controllo questo lavoro fatto con Luca Proietti e Andrea Vallarino).
Non è ben chiaro quale sia la causa primeva del panico, ma esistono alcune letture più interessanti di altre.
Questo articolo molto recente di Francesetti et al (2020), tenta di mettere insieme le neuroscienze affettive di Panksepp alla teoria dell’esperienza soggettiva di taglio gestaltico/fenomenologico.
Seguendo questa chiave di lettura, il panico accade in ragione di un senso enorme di rottura relazionale rappresentata dal soggetto.
Gli autori osservano come il panico si presenti spesso, per la prima volta, durante una fase di transizione del soggetto verso livelli più “alti” di autonomia. La sua comparsa, si colloca quasi sempre prima dei 35 anni, anni di sperimentazione e allontanamento progressivo dagli ambienti relazionalmente protetti dell’infanzia.
Inoltre, osservano come il panico possa essere interpretato come un senso di sovra-esposizione dell’individuo al mondo circostante, senza una mediazione relazionale percepita come presente.
Vediamo meglio il contenuto dell’articolo, per punti:
-
l’episodio di panico non è spiegabile come un episodio di paura: la paura viene anzi vissuta come reazione a una prima violenta sensazione di impazzimento/isolamento: è dunque, la paura, un’emozione secondaria, che viene dopo
-
in questa tipologia di problematica, diviene centrale per il soggetto la questione dell’interocezione. L’interocezione è la consapevolezza del proprio corpo, una sguardo d’insieme che l’individuo fa sul suo stesso stato corporeo, minuto dopo minuto, divenendo questo un lavoro continuo e ininterrotto di auto-osservazione
-
gli autori osservano come il problema centrale del panico, seguendo questa lettura, sarebbe l’incapacità di metabolizzare i segnali del corpo, di ricondurli cioè a qualcosa che abbia a che fare con un vissuto emotivo o relazionale. Questi pazienti, in effetti, sono molto concentrati sul funzionamento del loro corpo, come se dal buon funzionamento di quest’ultimo dipendesse l’intero loro funzionare in termini generali: manca in modo clamoroso l’idea che i segnali del corpo possano essere una conseguenza -e non la causa– degli stati emotivi da loro sperimentati in alcuni frangenti
-
gli autori propongono di leggere il panico come una reazione estrema da ansia da separazione non riconosciuta: si tratterebbe di considerare questi episodi come causati da rotture (anche solo ipotizzate o immaginate) di legami di attaccamento importanti, cosa che produrrebbe un senso di iper-esposizione della persona al mondo, non più mediata da una o più persone che facciano da “scudo”. Nel mito, lo stesso Pan fu abbandonato, bambino, in una foresta (sovra-esposto quindi all’ambiente, in modo non mediato)
-
In senso più “neuro”, Panksepp ha osservato l’esistenza di due sistemi di allarme:1) un allarme incentrato sulla paura e connesso alla presenza di una minaccia percepita nell’ambiente (la fear response) -amigdala, ippocampo, sostanza grigia periacqueduttale- e, 2) un allarme incentrato sulla separazione, mediato da parti differenti del cervello profondo (qui un approfondimento), in grado di alterare il funzionamento del corpo in modo modo simile a ciò che succede durante il panico (alterazione del respiro, ritmo cardiaco, sensibilità al dolore) -cosa che farebbe immaginare il panico più come una reazione parossistica appunto da separazione, più che non come una reazione di paura. Questa ipotesi sarebbe anche coerente con l’ipotesi polivagale di Porges (si veda questo articolo).
In definitiva, questo articolo parte da aspetti fenomenologici, incrociandoli a dati neuroscientifici per lo più centrati sul lavoro di Panksepp, per proporre una lettura del panico come di un evento vissuto in solitaria, ma avente una radice relazionale.
Il panico sarebbe, in quest’ottica, un enactment, un passaggio all’atto, una reazione patologica di fronte a un vissuto prima di tutto relazionale. Andrebbe quindi trattato, in terapia, come tale.
In relazione a questo, un aspetto interessante, ulteriore, presente in questo articolo, è una lettura ipotetica del panico per modelli cognitivi: si tratterebbe -il panico- del risultato di un momento di conflitto tra due tendenze opposte: una spinta alla separazione/allontanamento da una o più figure affettivamente rilevanti, e un bisogno profondo di sentirne la vicinanza. Gli autori sottolineano nuovamente come il panico si presenti -a loro dire non casualmente – in seno a momenti di vita evolutivamente importanti (momenti di svincolo, lunghi viaggi) con al centro il tema di una possibile rottura relazionale.
Il panico, passa così dall’essere accostato all’emozione della paura, all’essere considerato figlio di altre due esperienze umane, quella della separazione e quella della solitudine (percepita intollerabile di fronte a un mondo inospitale/freddo).
PARTE 2
.
Usando il modello liottiano (qui approfondito in area Patreon) come potremmo interpretare un lettura del panico di questo tipo? Abbiamo visto come seguendo questo modello il panico accade perchè viene immaginata, supposta una rottura relazionale profonda, uno stato di sovra-esposizione all’ambiente. É importante sottolineare che rottura relazionale non va intesa qui in senso letterale: non è un rapporto specifico che si va qui a supporre in crisi (per esempio il mio rapporto con mia madre), ma un assetto relazionale, un sentirsi in connessione con figure significative che garantiscono protezione e calore. Per questo, come prima si accennava, il panico potrebbe essere interpretato come una manifestazione estrema di ansia da separazione.
Liotti, come qua abbiamo approfondito, ha speso molta energia nel tentare di comprendere come un individuo si comporti, lungo la crescita, nel contesto di un ambiente traumatico. Un esempio di sviluppo traumatico, è per esempio un contesto in cui un bambino cresca a fianco di una madre con tratti borderline non regolati, con violenti sbalzi d’umore, aggressività verbale e corporea, violazioni di confine.
Liotti, nel suo Sviluppi traumatici scritto con Benedetto Farina, ha osservato la presenza di strategie di controllo funzionali a permettere al bambino la conservazione, il mantenimento di un legame di attaccamento, “a tutti i costi”.
Nel corso nello sviluppo, l’obiettivo per un bambino è infatti mantenere il legame a ogni costo, anche in una condizione di trauma protratto in corso: meglio male accompagnati, che soli.
Per fare questo, dovrà, come abbiamo accennato, mettere in atto delle strategie che gli/le consentano di salvaguardare il legame, anche quando la figura di attaccamento sia una figura abusante/traumatizzante.
Le strategia di controllo gli/le consentiranno dunque di garantirsi protezione all’interno di in un legame di attaccamento, anche quando tutto sembrerebbe spingere perchè questo legame si rompa.
In questo senso, possiamo dire che il fallimento delle strategie controllanti, porta il bambino alla percezione della natura disorganizzata dell’attaccamento in sè, esponendolo a un mondo relazionale profondamento disturbante, e al tempo stesso privandolo del senso di protezione garantito da un rapporto “normalizzato” con la figura di riferimento.
Provando a collegare dunque questa questione con la teoria sul panico espressa nell’articolo di Francesetti, potremmo considerare il panico come un momento di fallimento di una strategia controllante.
Immaginiamo una vignetta clinica:
Francesca, cresciuta a fianco di un padre ciclotimico e alcolista, trovò nel contro-accudimento una strategia di controllo che le consentì di crescere al suo fianco, all’interno di un rapporto di qualità accettabile, caratterizzato da scontri frequenti ma caldo in senso affettivo. Dopo i 30 anni, svincolatasi dal nucleo familiare di origine, mantenne come modalità interpersonale dominante, l’accudimento: tendeva a porsi in modo accudente all’interno dei rapporti creati con partner e amici. Questa strategia di controllo interpersonale -sviluppata in famiglia e portata fuori- si mostrò, nel tempo, insostenibile in termini di prostrazione energetica, con attacchi di ansia quando sotto stress, e un primo attacco di panico avvenuto a 32 anni in occasione del suo trasferimento all’estero, sperimentato con un enorme senso di isolamento relazionale.
Come leggere un attacco di panico di questo tipo?
Se teniamo a mente il modello sul panico prima esposto di Francesetti, e la teoria di Liotti, possiamo leggere il panico di Francesca come un momento di scarsa tenuta delle strategie controllanti da lei messe in atto: esposta a un movimento di “svincolo”, verso un livello di autonomia maggiore, slegata da rapporti intra-familiari che garantissero paradossalmente la tenuta e l’utilità, il senso delle strategie controllanti stesse, Francesca subisce un momento di “rottura relazionale” rappresentata, il senso di non essere connessa a nessuno sul pianeta, in concomitanza- appunto- con l’attacco di panico.
Se torniamo con la mente al mito di Pan, immaginiamo il senso di esposizione terrorizzante del Pan bambino abbandonato dalla madre in un bosco, in quanto deforme (Pan era mezzo uomo, mezzo capra): il disturbo di panico lo potremo osservare, di nuovo, come una sovra-esposizione angosciante al mondo, un’eclissi momentanea dei riferimenti affettivi, il senso di non avere nessuna figura che faccia da mediatore tra noi e il mondo “fuori”.
Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.