di Raffaele Avico
Qualche tempo fa, ho avuto la possibilità di visitare la città/struttura psichiatrica di Geel, a pochi chilometri da Bruxelles, in Belgio. Geel è conosciuta in ambito psichiatrico perché ospita un progetto antico (che va avanti da centinaia di anni) di inserimento di malati psichiatrici all’interno di famiglie cosiddette normali, chiamate “foster families”.
Sceso dal treno a Geel, chiedo consiglio a un passante a riguardo del Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum, dato che su Internet è pubblicizzato poco e si trova altrettanto poco materiale foto/video a riguardo. Vengo indirizzato verso una struttura poco distante dal centro (cosa di per sè inusuale, dato che soprattutto in passato agli ospedali psichiatrici veniva destinata una collocazione al di fuori del centro abitato per ragioni di sicurezza/igiene sociale), chiamata dal passante “Sano Clinic”.
La raggiungo e mi trovo immerso in un vero e proprio villaggio collegato da sentieri interni e caratterizzato dalla presenza di case indipendenti, strutture cubiche di legno con grandi finestre da cui si vedono gli interni ed edifici più simili ai moderni ospedali. Faccio una prima ricognizione e noto che, visti dall’esterno, gli ambienti interni sono puliti e arredati in modo semplice; osservo inoltre la presenza di pazienti di varie età in locali diversi.
In prossimità di una delle strutture noto la presenza di camere singole in cui vedo alcuni degenti intenti a compiere attività quotidiane: fin qui niente di particolarmente nuovo, eccezion fatta per il grado di pulizia e ordine dei locali, che non sono abituato a vedere in Italia.
Noto infine pazienti che lavorano nelle aree verdi circostanti le case; ci sono anche laboratori di falegnameria molto organizzati (con macchinari funzionanti, etc.) in cui presumo vengano fatte attività di preparazione al lavoro, o in cui vengano insegnate attività artigianali.
Cerco qualcuno a cui chiedere maggiori informazioni e vengo indirizzato ad una persona che si trova in un altro edificio: qui entro e trovo un help-desk con una ragazza a cui chiedo, se possibile, di poter avere alcune informazioni in più a riguardo del progetto. Dopo avermi fatto attendere alcuni minuti, la receptionist mi indirizza a una terza persona che a sua detta mi concederà mezz’ora per illustrarmi le caratteristiche principali del progetto.
Qui mi accoglie il Dott. Wilfried Bogaerts, psicoterapeuta della clinica, che mi conduce nel suo studio e con cui avrò al fortuna di poter intrattenere un colloquio vero e proprio a riguardo del progetto di Geel. Al mio presentarmi e raccontando della situazione attuale della psichiatria italiana, di ciò che faccio e della città da cui provengo (Torino), mi stupisco nel constatare che il terapeuta sia a conoscenza del progetto I.E.S.A., di fatto una copia del progetto belga che mi trovo a visitare, attivato sul territorio dell’ASLTO3, e che conosca addirittura il nome dello psicologo che per primo lo importò nel nostro Paese (Dott. Aluffi).
Gli porgo delle domande specifiche a riguardo del progetto e si dimostra molto disponibile a spiegarmi in che modo il progetto si è evoluto nel tempo.
Le risposte da lui datemi potrebbero essere sintetizzate come segue:
- il progetto di Geel è antichissimo: la leggenda narra che già dal 1300 a Geel fosse sorta una comunità di accoglienza per malati mentali (in seguito a un evento scatenante), e che nel tempo il tutto avesse assunto proporzioni sempre più importanti fino ad arrivare, alla fine dell’800, a contare un totale di 3000 malati psichici ospiti delle famiglie del paese, che contava in tutto 20000 persone. 3000 pazienti psichiatrici per 20000 persone: un numero elevatissimo. Il Dott. Bogaerts mi racconta di come all’inizio il progetto fosse stato spinto e promosso dai preti e dagli organi clericali del luogo (Wikipedia cita il caso del padre di Vincent Van Gogh, che in una lettera al fratello di Vincent Theo, esprime il suo desiderio di mandare Vincent a Geel affinché venga preso in carico dalla comunità di accoglienza)
- con il progressivo affermarsi della scienza psichiatrica la gestione della malattia mentale migra entro il dominio della scienza medica, ma la modalità rimane sempre la stessa: le famiglie del paese accolgono i malati mentali introducendoli a uno stile di vita più “normalizzato” e famigliare
- nel tempo il numero dei pazienti si abbassa e il servizio viene organizzato in modo più strutturato: al momento attuale a Geel si contano 300 pazienti ospitati dentro 300 famiglie, con gradi diversi di autonomia e con diagnosi diverse
Mi spiega quindi le tappe principali della presa in carico di un paziente all’interno del progetto:
- i pazienti vengono in un primo momento presi in carico dalla struttura centrale (l’ospedale/villaggio in cui mi trovo) e in un secondo momento, se e quando ritenuti idonei, vengono indirizzati alla “foster family” che si è resa disponile all’accoglienza. Qui la persona viene inserita/o e si struttura per lei/lui un percorso di inserimento con grandi diversi di autonomia. Il dott. Bogaerts mi spiega come il grado di autonomia e la quantità di tempo di permanenza settimanale all’interno della famiglia, varino da caso a caso: molto dipende dalla gravità dei sintomi del paziente e da quanto a questo/a giovi il permanere all’interno di un contesto strettamente famigliare. Non per tutti, mi spiega infatti, sembra essere d’aiuto l’essere circondati da un ambiente ristretto come quello famigliare: alcuni tipi di pazienti lo patiscono, sembrano necessitare di più spazio e meno controllo
- a proposito di questo, viene creato un profilo personalizzato per ogni paziente, a seconda anche di quali siano i mezzi della “foster family” ospitante: esistono infatti famiglie che ricevono in casa il paziente introducendolo/a negli spazi di vita comuni a tutti i membri (camere da letto, cucina, etc.), altre che invece hanno costruito una dependance in un cui ricevere l’ospite, concedendogli quindi maggiori autonomie nel muoversi “in famiglia”
- è variabile inoltre il numero di giorni che il paziente dovrà passare con la famiglia: alcuni vi trascorrono solo una parte della settimana, dedicando gli altri giorni alla famiglia di origine (quando presente) o permanendo all’interno della struttura “madre”; altri potranno trascorrervi anche solo due giorni a settimana, in una sorta di affidamento (diurno e notturno insieme)
- alla mia domanda sui quadri diagnostici presenti all’interno del progetto, il Dott. Bogaerts si dimostra totalmente indifferente alla necessità di categorizzare i disturbi del soggetto, facendomi osservare come a suo modo di vedere sia più una necessità del curante – quella di parlare di una specifica categoria diagnostica- che non del paziente. Parole come schizofrenia, disturbo dello spettro autistico, etc., perdono di senso di fronte a un progetto di reinserimento sociale che mantenga uno sguardo particolareggiato e ritagliato intorno alla personalità del paziente. Questo non esclude tuttavia che al paziente sia assegnato un piano di cura e di reinserimento che tenga conto della sue difficoltà e necessità
- Infine, il Dott. Bogaerts mi spiega di come all’interno del progetto siano presenti anche alcuni bambini affidati a famiglie ospitanti (al momento attuale, circa una decina), e mi dà un’idea di quali possano essere i futuri sviluppi del progetto (la sua diffusione anche ai territori circostanti, e l’aumento del numero di pazienti presi in carico)
ALCUNE RIFLESSIONI
Quello che mi colpisce è innanzitutto l’apertura all’esterno del progetto: la facilità che ho trovato nell’ottenere un colloquio con un terapeuta in servizio all’interno della struttura, la distanza ravvicinata dei luoghi di cura con il centro cittadino e la visibilità in sé data ai pazienti, non nascosti/negletti ma esposti e osservabili.
É chiaro come il progetto sposi un’ideologia clinica fortemente orientata: si tratta cioè di cambiare la percezione che la società ha della malattia mentale, allargando la coscienza collettiva (in modo che essa possa abbracciare -contemplandola- l’esistenza e la natura della patologia psichiatrica) e di ridurre lo stigma nei confronti del malato mentale.
Inoltre si dà spazio e ci si concentra sulle risorse residue del paziente (sempre esistenti, come ci ricorda Vigotskij): questo avviene affidandogli responsabilità e autonomie reali perché calate nel contesto del territorio (e non create artificialmente nella bolla di una struttura chiusa e autarchica). Si fa cioè un lavoro di empowerment e di assegnazione di competenze civili a pazienti che di solito se ne vedono progressivamente, e quasi inesorabilmente, deprivati (chi lavora in ambito di salute mentale osserva questo fenomeno tutti i giorni).
Questo livello di intervento (territoriale/di reinserimento) viene ovviamente integrato a un approccio farmacologico e psicoterapeutico rendendo più “completo” e integrato, in un certo senso, l’approccio al sintomo e alle difficoltà del paziente, con risultati migliori in termini di qualità di vita e integrità psichica.
Colpisce poi la poca risonanza data a un fenomeno del genere in Italia (incluso il progetto IESA), segno di come avanguardie cliniche simili necessitino di essere spinte e copiate da modelli come quello di Geel, e maggiormente diffuse.
In Italia il modello di Geel è stato per primo adottato a Collegno (Torino) da parte del Dott. Aluffi e dagli operatori dell’ASLTO3 ; esiste inoltre una piccola realtà nel modenese chiamata “Rosa Bianca” e altre Asl che sul territorio italiano si sono mobilitate in questa direzione.
Il servizio IESA (acronimo con cui è stato chiamato il progetto, che sta per “Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”) permette di pagare le famiglie ospitanti: sul territorio di Torino alla “foster familiy” viene elargito un bonus di 1100 euro mensili -con variazioni-, che saranno in ogni caso meno rispetto a quanto costerebbe allo Stato collocare il paziente all’interno di una struttura riabilitativa.
Seguendo questo disegno di “politica clinica”, è facile osservare come possano essere avvicinati due bacini di utenza che necessitano -entrambi- di un supporto: la famiglia ospitante, che si avvantaggia di un apporto affettivo -ma anche economico- extra, e l’utente psichiatrico che in essa trova un nuovo contesto di crescita personale e di presenza affettiva; il tutto coordinato da operatori preposti e formati al progetto.
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