di Raffaele Avico
INTRODUZIONE
In un essere umano sano, un’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di creare un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. Nel resoconto che un individuo post-traumatizzato farà della sua esperienza, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà, nel ricordo, colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo ricordarlo, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato.
Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la non elaborabilità in termini mnestici.
La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria.
Sembrerebbe cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo ormai trascorso. Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, pur tuttavia attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamato Disturbo da Stress Post Traumatico, in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo.
Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè; centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, in realtà però meno intensa, ma in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo intenso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.
L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento, per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.
Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi, vissuti spesso nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo, verrà in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale, durato per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. Il trauma ha, in un certo senso, un impatto sempre identitario: con esso, la vita dell’individuo, cambia. Tuttavia, esisteranno differenti gradi di modellamento dell’identità dell’individuo a partire dalla differente tipologia di evento traumatico, come prima sottolineato.
All’interno di questo filone di articoli a tema “trauma negli animali”, ci occuperemo di traumi singoli e unici.
Non verranno cioè presi in considerazione traumi cumulativi, protratti, e in grado di alterare l’identità di un individuo nel contesto di un disturbo da attaccamento. Questo perché, come è chiaro dal titolo, questo vuole essere un approfondimento sulla natura più naturale dell’impatto del trauma sul corpo e sulla mente, questa volta in ambito animale.
La teoria psicotraumatologica riguardante l’essere umano, ci servirà come base per esplorare quali sono le conseguenze di una trauma nel mondo animale; l’obiettivo sarà tuttavia, a partire dalle constatazione che da queste osservazioni arriveranno, comprendere ancora una volta, e possibilmente meglio, come l’uomo fuoriesca e gestisca un evento traumatico.
Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto.
Per questo, il PTSD è stato definito come una patologia della memoria, ponendo appunto l’accento sulla sua difficile digestione in termini di memoria. I potenti strumenti di apprendimento messi a disposizione dell’uomo dall’evoluzione, sembrano ritorcersi contro di lui/lei contribuendo a far sì che per lungo tempo non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del ricordo traumatico.
Per questo, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.
Differenti autori hanno osservato come gli animali sembrino possedere strumenti differenti per far fronte a un PTSD, oppure al contrario riescano a gestire l’elaborazione di un ricordo traumatico per via dell’assenza di alcune strutture “ingombranti” invece possedute dall’uomo.
In questa serie di articoli verrà tentato un lavoro di comparazione tra le risposte post-traumatiche osservate sia nell’uomo che negli animali (in particolare cercando di fare una rilevazione della letteratura che, in ambito animale, si è occupata di trauma), al fine di arrivare a una lettura il più possibile “naturalistica”, per così dire, del PTSD nell’uomo.
Osservando più in profondità lo sviluppo della risposta post-traumatica in un animale, può essere più semplice per l’uomo rispecchiarsi in esso, tentando di rispondere alla domanda centrale di questo filone di articoli, riguardante in definitiva il perchè di una così diversa durata dello stress post-traumatico da animale, appunto, all’uomo.
Per comprendere come venga studiato il trauma negli animali, dobbiamo cercare di addentrarci nella letteratura specialistica, a cavallo tra studi di etologia animale, etologia trasposta all’essere umano, neurobiologia (come funziona nel dettaglio il sistema nervoso di un animale colpito da trauma, cosa che in teoria potrebbe illuminare ciò che succede nell’uomo), e in generale all’interno di quell’enorme contenitore colmo di lavori scientifici che cercano di creare un “modello animale” del PTSD, così da facilitarne, appunto, lo studio nell’uomo.
Troviamo a questo proposito molteplici studi, che tra l’altro potrebbero porre alcuni quesiti etici: maltrattare un animale a fini di ricerca (quello che viene fatto con gli animali, di fatto, sottoponendoli a shock termici, deprivazione sociale, violenza fisica), potrebbe da un lato aiutarci a capire meglio le nostre stesse reazioni, dall’altro metterci di fronte alla sostanziale brutalità dei metodi di ricerca. Non sembra però al momento esserci alternativa, vista la necessità sostanziale di osservare animali vivi sopravvissuti a un trauma, ed essendo necessario applicare a questi alcuni requisiti basali di ricerca quantitativa, per esempio la numerosità del campione, cosa che obbliga i ricercatori a “produrre” animali traumatizzati in modo artificioso/non naturale.
Diversi studi, dicevamo, hanno formulato un parallelismo tra il comportamento animale e quello umano: l’idea di fondo sembra essere connessa alla possibilità di meglio capire il comportamento umano a partire da quello animale. Il che è avvenuto, se pensiamo per esempio alla letteratura psicotraumatologica recente. Quando uno psicotraumatologo osserva un paziente in una condizione di alterazione neurofisiologica, di iper-arousal, la sua mente va a spiegare l’evento partendo da alcune griglie teoriche per lo più etologiche, del tutto simili a quelle che un etologo appunto userebbe per descrivere un cane pietrificato dalla paura improvvisamente illuminato da due fari di auto, nella notte. Osserverà cioè un comportamento umano leggendolo usando un filtro etologico, naturalistico, come farebbe appunto con un animale. Questo perchè esistono alcuni meccanismi, definiti “paleopsicologici”, che ci accomunano agli animali dotati di un sufficientemente evoluto sistema nervoso, tali da produrre in noi reazioni animalesche, pre-razionali, di fatto istintuali.
Cosa ci distingue, però, dagli animali sopravvissuti a un trauma? Alcuni hanno sostenuto che quello che veramente rende unico il PTSD umano, sembrano essere le tempistiche del suo sviluppo e soprattutto del suo mantenersi. Il PTSD umano si mantiene per tempi lunghissimi, arrivando a modellare in modo durevole il comportamento e la vita in generale dell’individuo. Gli animali al contrario riuscirebbero prima degli uomini a fuoriuscire da uno stress post traumatico, per via di alcuni meccanismi naturali di dissipazione corporea del trauma.
A proposito di questo, dobbiamo fare riferimento al concetto di abreazione e a quello di dissipazione.
La parole abreazione è un neologismo coniato per esprimere il senso di “lasciare andare”, evacuare per via corporea, un malessere di origine psicologica. Veniva usata, e viene usata, soprattutto in ambito psicoanalitico, per descrivere appunto il senso di “sfogare per via corporea” dopo aver portato alla “soglia della coscienza” del materiale psicologico rimosso, fino a quel momento inaccessibile alla coscienza. Una crisi di nervi violenta, un corpo che si tende allo spasmo arcuandosi -come succedeva nella pazienti isteriche “classiche”-, sono esempi di tentativi di abreazione. Abreagire non vuol dire somatizzare: prevede un intervento più totale del corpo, incarnando il corpo stesso, in un momento definito, il malessere psichico portato dall’individuo, rivolto però verso l’”esterno”, verso il fuori.
Possiamo parlare di abreazione anche negli animali?
Se originariamente il termine abreazione indicava un evento di natura per lo più corporea (il fenomeno del tarantismo, le grandi crisi di agitazione durante un rituale sostenuto da una collettività osservante, potrebbe essere un altro esempio di abreazione), questo pareva essere giustificato da quello che -sempre psicoanaliticamente- potremmo chiamare “ritorno del rimosso”. Gli stessi precursori nella studi sull’isteria classica, osservavano come le isteriche sembrassero soffrire a causa del riaffiorare di “reminiscenze” -ricordi rimossi di origine traumatica.
Se ci spostiamo in ambito animale, si pongono ovvi problemi di ordine metodologico, non potendo accedere ad alcun tipo di comunicazione diretta inerente la mente di alcun tipo di animale, essendo noi costretti a bypassare i contenuti mentali dell’animale da noi osservato, per ragionare in termini di output e input. Per questo, sembra naturale osservare l’impossibilità di usare lo stesso termine -abreazione- per descrivere il fenomeno dell’evacuazione del “vissuto traumatico” per via corporea: è più appropriato in questo caso usare il termine dissipazione.
Il fatto che un vissuto post traumatico venga dissipato per via corporea, è stato osservato su diversi animali, con modalità differenti.
Ma come viene studiato, negli animali, il trauma, e con quali metodi?
Cerchiamo di addentrarci all’interno della questione dei “modelli animali”.
Può sembrare naturale che gli animali vengano studiati per comprendere alcuni meccanismi umani, ma questo approccio di base reca con sè una serie di assunti di fondamentale importanza scientifica, che potremmo riassumere in alcuni punti:
- se studiamo gli animali, è perché assumiamo che alcuni meccanismi neurobiologici siano sostanzialmente sovrapponibili ai meccanismi neurobiologici umani (per esempio, riteniamo sostanzialmente sovrapponibili i meccanismi neurobiologici dei topi ai meccanismi paleopsicologici umani -pensiamo per esempio l’enorme mole di studi che sono stati condotti e vengono tuttora condotti sul tema addiction/gratificazione). Naturalmente questo lo riteniamo vero con alcuni tipi di animali: vedremo successivamente come esistano delle differenze neuroanatomiche specifiche, che ci porteranno a ulteriori riflessioni in merito.
- se studiamo gli animali, è perchè siamo in grado di rappresentare la nostra specie come composta da “animali”, con le stesse proprietà di altri animali dotati di sistema nervoso; implicitamente, inoltre, in questo modo sottolineiamo come alcuni dei comportamenti umani siano figli di meccanismi neurobiologici non mediati da libero arbitrio, e non velleitari; questo punto ci fa inoltre riflettere su quando una parte della ricerca in ambito psichiatrico/psicologico porti con sè una visione del comportamento umano per lo più “biologista”. Questa visione implica che l’uomo sia figlio dei suoi stessi meccanismi biologici, almeno per alcuni tipi di comportamento (quelli per esempio che più ci rendono simili agli animali, mediati da zone profonde e antiche del cervello)
UN ARTICOLO INTRODUTTIVO (da Nature)
In questo articolo pubblicato su Nature, troviamo alcune considerazioni importanti a riguardo dello studio del PTSD negli animali.
Viene fatta una rassegna di quelli che sono i principali sintomi del PTSD, divisi per cluster, nell’uomo, interrogando il lettore con una semplice domanda: quali sono i sintomi misurabili in senso empirico, del PTSD, nel topo?
Ne risulta una breve rassegna su cosa sia indagabile e cosa no, arrivando a concludere che l’unico sintomo realmente non misurabile, per ovvie ragioni, è la presenza di pensieri intrusivi.
É forse utile fare un brevissimo riassunto di come il DSM 5 raggruppi i sintomi da PTSD. Sappiamo che i sintomi del post trauma sono divisibili in 4 cluster:
- Riesperienza
- Evitamento
- Cognizioni negative
- Iper-arousal e iperestesia
Sappiamo cioè che un evento traumatico tende a essere rivissuto in modo acceso per via di coinvolgenti flashback vissuti dal “sopravvissuto”, a causa dei quali lo stesso tenderà a evitare alcuni luoghi/situazioni. Inoltre, sappiamo che lo stress post traumatico tende a generare nell’individuo un senso di negatività auto-diretta, relativa a sè, attraverso quelle che vengono chiamate “cognizioni negative”. Infine, come a contorno di tutto questo, osserviamo come nel PTSD il livello di attivazione generale del sistema nervoso autonomo (l’arousal), sia costantemente sbilanciato verso l’alto, con tutto ciò che ne deriva: in particolare, un livello costante di iper-arousal conduce all’iper-estesia, cioè a una percezione anomala e amplificata di alcuni aspetti dell’esperienza sensoriale (come sentire i rumori, o alcuni rumori, in modo troppo acceso, o interpretare alcuni aspetti dell’esperienza in modo minaccioso/distorto).
Per quanto riguarda la ricerca nel topo, come si diceva, i pensieri intrusivi, la riesperienza e i flashback non sono indagabili, per l’impossibilità di accedere all’esperienza rappresentata -mentale- del topo stesso; l’evitamento è tuttavia facilmente osservabile, di fronte a possibili trigger che rievochino nella mente del topo l’evento traumatico; per quanto riguarda le cognizioni negative, i ricercatori sostengono di riuscire a inferire la presenza di cognizioni negative attraverso test inerenti la motivazione, la preferenza sociale e il test della “preferenza edonica”; per quanto riguarda invece lo stato di attivazione neurofisiologica del topo (arousal), viene osservato come esistano molteplici strumenti di rilevazione del livello di arousal; infine, osservano che, così come accade per l’uomo, per poter attribuire al topo il vivere una condizione di post trauma, debba essere passato un certo lasso di tempo (non necessariamente un mese), così da escludere l’ipotesi che il topo studiato non stia vivendo semplicemente una condizione di post trauma acuta e strettamente contestuale.
Torniamo all’articolo su Nature. Gli autori si pongono alcuni domande:
- Come costruire un buon modello animale (per meglio capire il PTSD nell’uomo)?
- Come poter asserire che il PTSD in un uomo si comporta allo stesso modo, in un topo?
Gli autori elencano alcuni aspetti inerenti la neurobiologia del PTSD, compresi gli aspetti più profondi, genetici, cercando parallelismi nel topo. Si domandano infatti se il trovare distorsioni in alcuni meccanismi neurobiologici conseguenti al PTSD, sia negli animali che nell’uomo, non sia segno di una prova provata dell’intervento di quello stesso meccanismo nell’insorgere di un PTSD.
Qui, riassunti, tutti i parallelismi.
Sempre su questa linea, osservano anche come per costruire un buon modello animale del PTSD, si possa passare per via farmacologica: se uno stesso farmaco ottiene stessi risultati, benefici, sul PTSD di un animale e di un uomo, potremo trarne che i meccanismi sui cui il farmaco agisce, sono perlomeno simili. Il problema, osservano gli autori, è che non esiste un approccio farmacologico gold-standard, come altrove abbiamo osservato.
Che fare, dunque? Gli autori intendono proporre una nuova linea di ricerca. Come premessa, osservano che:
- generalmente, il PTSD negli animali è studiato a partire dal tipo di trauma, sottoponendo gli animali (in questo caso, il topo) a differenti tipi di stress. Qui una rassegna completa delle tipologie di traumi costruiti artificialmente per il topo.
- Uno dei paradigmi più studiati, è il paradigma della risposta condizionata alla paura. Seguendo questo tipo di ragionamento, il PTSD sarebbe da considerarsi una forma distorta e grave di condizionamento primario, un apprendimento pavloviano in piena regola. Ne abbiamo scritto altrove quando abbiamo parlato del PTSD come di un “apprendimento a prova singola”, teoria proposta anche da Stephen Porges
Continuando nella lettura dell’articolo, notiamo come uno degli aspetti più difficili nella costruzione di un modello animale per il trauma, sia il replicare gli eventi traumatici all’interno della vita dell’animale.
Come si è visto e qui troviamo riassunto, esistono molteplici vie che ci consentono di ricreare un trauma in un animale.
Il punto, al di là del tipo di trauma ricreato in laboratorio, è ragionare sul perché applicare un certo tipo di stimolo a quel particolare animale, e in che modo.
L’aspetto più importante su cui riflettono gli autori, è senza dubbio il tema della risposta condizionata alla paura.
Anche qui, vediamo come lo stress post traumatico venga interpretato come una forma estrema e prolungata di condizionamento, tanto forte e duraturo da modellare la vita dell’individuo in più modi.
Ovviamente, ragionano gli autori, questa visione assume che il meccanismo di fondo per lo sviluppo del PTSD sia un meccanismo di condizionamento, cioè di apprendimento: questa cosa non è scontata e andrebbe tenuta in “forse”.
COME DIAGNOSTICARE CORRETTAMENTE PTSD NEGLI ANIMALI DA LABORATORIO?
Procedendo nella disamina su “come stressare” in modo eticamente corretto e alla stesso tempo utile a generare nell’animale una riposta post traumatica, gli autori si pongono alcune questioni importanti; in sequenza:
- sulla popolazione umana colpita da trauma, solo il 10% sviluppa PTSD
- in questo senso, “procurare” una trauma a un animale, potrebbe non essere sufficiente affinché questo sviluppi uno stress post traumatico
- come risolvere questo problema? in due modi: A e B
- A) valutando fattori di rischio pregressi nel corso della vita dell’animale
- B) effettuando analisi dettagliate del comportamento dell’animale a seguito della traumatizzazione, per comprendere se abbia sviluppato -effettivamente – un PTSD
Per quanto riguarda i fattori di rischio, diverse evidenze sono state trovate in termini di fattori di rischio (nei ratti).
I fattori di rischio predisporrebbero a uno sviluppo di PTSD da parte dell’animale.
Nello specifico:
- una tendenza ansiosa precendente all’evento traumatico, misurata in vari modi
Per quanto riguarda l’uomo:
- eventi distali avversi (infanzia traumatica, eventi avversi generici antecedenti al trauma) in grado di procurare alterazioni in senso epigenetico sullo sviluppo del soggetto stesso
- eventi prossimali avversi (deprivazione del sonno, uso di alcol, droghe, etc.)
Per quanto riguarda invece il problema della resilienza individuale animale, cosa che renderebbe difficile capire quale degli animali abbia realmente sviluppato un PTSD, gli autori raccontano di un procedimento altamente specifico di diagnosi del PTSD negli animali partendo ovviamente da un criterio temporale (+ di 30 giorni di sintomi continuativi, criterio tra l’altro valido anche nell’uomo), per arrivare a una serie di test e procedure molto selettive qui descritte.
Gli autori concludono con alcune considerazioni:
- un modello animale ci vuole, con tutti i limiti del caso: solo così sarà possibile dettagliare meglio le ragioni di forme di resilienza presenti in alcuni individui piuttosto che altri, a partire da aspetti neurobiologici finora controversi o non ancora pienamente compresi
- esistono fattori predisponenti al PTSD. Allo stato attuale, le donne sono maggiormente predisposte (nell’essere umano più che nei ratti, anche per ragioni sociali), così come altri fattori (eventi distali, prossimali, etc.). Qui il riassunto di questi aspetti
- la possibilità in futuro di creare animali mutati geneticamente allo scopo di studiare la correlazione tra differenze genetiche, e sviluppo di stress post traumatico, è un elemento da tenere in considerazione nella creazione di modelli animali sempre più raffinati (si veda qui)
- la localizzazione più dettagliata dei circuiti neurali implicati nel PTSD, si potrà giovare, in futuro, di tecniche di avanguardia, come la deep brain stimulation -si veda per un approfondimento, sempre su Nature, qui)
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