di Giuseppe Salerno (psicologiafenomenologica.it)
“Ben venga il caos, perché l’ordine non ha funzionato”
Karl Kraus
Scopo delle poche righe che seguono è avviare una riflessione sul modo in cui la psicologia fenomenologica può costituire il fondamento di una prassi terapeutica nuova nel campo della salute mentale. Una tendenza di questo tipo inizia ormai a diffondersi in Italia con la neonata Associazione Italiana di Psicologia Fenomenologica e in campo internazionale attraverso il lavoro del Phenomenology and Mental Health Network.
Fin dalla loro origine le comunità terapeutiche sono state attraversate da due istanze contrapposte: la necessità di costruire e far rispettare un insieme di regole (all’interno della comunità e verso l’esterno) e quella di sostenere i pazienti nella libera espressione della propria vitalità. Da un lato, il bisogno normativo è mantenuto dalla necessità di costruire relazioni stabili, che non possono esistere se non nella condivisione di un terreno comune di regole (implicite ed esplicite). Sono disposto a mangiare fianco a fianco con uno sconosciuto, e magari anche a scambiarci due chiacchiere, perché mi aspetto che non rubi dal mio piatto appena mi distraggo. Dall’altro, sostenere ognuno nell’espressione del proprio modo di essere serve a mantenere viva la spinta verso un’esistenza autonoma, fatta di libertà, piacere e responsabilità. Se la prima necessità si impone sulla seconda si corre il rischio, sempre presente nel campo della salute mentale, della cosiddetta “malattia istituzionale” (Basaglia, 1965, 1967, Molaro, 2018) e della cronicizzazione. Il paziente, abituato a vivere in uno spazio troppo ristretto la propria soggettività, si irrigidisce dentro schemi di comportamento prefissati, che riconosce come quelli approvati e rinforzati dalla comunità. Così la persona lentamente spegne l’incandescente vitalità del corpo proprio sotto la cenere dell’accondiscendenza e dell’ossequiosità. È questa la storia di tanti pazienti che hanno vissuto il manicomio, la cui esistenza si è inabissata nelle paludi dell’istituzione, assumendo la forma di una vita congelata (Di Petta, 1994-2014).
Si può immaginare un continuum che si dispiega tra queste due istanze contrapposte. Lungo di esso ogni comunità terapeutica prende necessariamente posizione in ogni momento della propria storia. Variazioni e cambiamenti nel tempo possono dipendere da scelte dell’equipe terapeutica oppure da risposte più o meno consapevoli al comportamento del gruppo degli ospiti della comunità. In ogni caso, si instaura sempre un sistema circolare a retroazione (von Bertalanffy, 1969, Weiner, 1948-61), attraverso quale il gruppo di operatori e quello degli ospiti si influenzano a vicenda, come accade nelle famiglie tra il sottosistema genitoriale e quello dei figli. I primi provano a far rispettare un insieme di regole che funge da limite e contenimento all’interno del quale si costituisce il vero spazio di esplorazione e di crescita per i secondi.
Un equilibrio di questo tipo, che lo si voglia o no, si stabilisce sempre nella vita di comunità. Possiamo definirlo il livello di ordine/disordine (von Foerster, 1972) della comunità, dal quale dipende in gran parte la riuscita dei percorsi di cura. Il continuum regole/libertà, in questo modo, può essere concepito come continuum ordine/disordine. L’ordine costituisce la struttura della comunità, quel set di percorsi precostituiti dentro i quali si costruisce ed incanala la vita delle persone (gli orari dei pasti, l’organizzazione delle attività terapeutiche etc.), mentre il disordine è lo slancio vitale (Bergson, 1907) espresso da ogni individuo, in grado di trasformare le pratiche condivise e spingere verso la crescita individuale e collettiva (ad esempio la proposta di un gruppo di pazienti o di operatori di uscire in città per una visita al centro storico).
Come dicevamo, ogni comunità prende posizione lungo questo continuum assumendo in sé un certo grado di ordine/disordine. L’efficacia terapeutica di una comunità dipende molto dal mantenimento di un equilibrio dinamico tra queste due polarità in grado di sostenere la crescita individuale di ognuno. In alcuni casi il processo spontaneo della vita di comunità spingerà verso un lato, in altri verso l’altro. Il ruolo dell’equipe è quello di regolatore delle oscillazioni e “perturbatore strategicamente orientato” (Guidano, 1987). Per far questo è necessario, in primo luogo, avere a disposizione degli spazi di riflessione (riunioni d’equipe) all’interno dei quali rendersi conto del tema esistenziale rilevante per la comunità in un certo momento (il Woruber di Binswanger), e in secondo luogo adottare una teoria e una prassi in grado di sostenere questo processo di regolazione. Su questo ogni comunità si differenzia in base al proprio paradigma psicologico di riferimento (esplicito o implicito che sia). Esistono comunità che adottano un paradigma meramente medico-biologico in grado soltanto di diffondere il manicomio chimico delle farmacoterapie (Cipriano, 2015), altre ad orientamento cognitivo-comportamentale, come è il caso delle comunità per pazienti borderline costruite sul modello della Dialectical Behavior Therapy della Linehan (1993, 2015), e comunità ad orientamento psicoanalitico o sistemico, come per esempio il famoso Soteria-Berna di Luc Ciompi (2013). Ognuno di questi orientamenti è portatore di una certa visione dell’uomo e del mondo, carica di valori e capace di influenzare in maniera radicale le relazioni all’interno della comunità.
Quello che vorrei qui affermare è che anche la psicologia fenomenologica è ormai pronta ad esprimere le proprie potenzialità in questo campo. La fenomenologia porta con sé una visione dell’uomo e della sua cura che mette al centro proprio la contraddittorietà dell’essere umano nel suo duplice bisogno di un ordine che lo contenga e di un disordine vitalizzante, alla ricerca incessante di una forma, momentanea ed instabile, per la propria identità. Nella sua ossimorica definizione, la psicologia fenomenologica è proprio questo: un tentativo di costruire uno sguardo capace di tenere insieme l’ordine e il disordine dell’esistenza. Nel momento prettamente psicologico delle sue pratiche, infatti, essa riflette sulle spiegazioni, rintraccia le logiche e disegna progetti terapeutici, mentre nel momento fenomenologico si apre, attraverso l’epochè, alla comprensione e all’incontro corpo-a-corpo con i pazienti, senza barriere né confini. Un terapeuta, un educatore o un operatore capaci di cogliere il bisogno emergente dalla comunità in un certo momento (la Gestalt aperta direbbero alcuni) può trovare nella psicologia fenomenologica una teoria in grado di “mettere insieme i pezzi” e una prassi tesa all’incontro con il paziente, alla comprensione e al riconoscimento.
Del resto, non è la prima volta che la fenomenologia mette piede nel campo dei servizi di salute mentale. La fenomenologia è stata storicamente la culla del pensiero di Franco Basaglia, colui che più di ogni altro si è dimostrato capace di rivoluzionare il sistema dei servizi in Italia. Basaglia è stato uno psichiatra ad intonazione fenomenologica che aveva compreso l’importanza e la necessità di far proprio un metodo disciplinato per l’avvicinamento all’esperienza psicopatologica (Foot, 2018). Nei suoi primi scritti (1965) emerge con chiarezza questa consapevolezza, che sotto varie forme ha portato con sé nel percorso che lo ha condotto ad incontrare tanti pazienti oltre che a distruggere il dispositivo del manicomio. In un certo senso potremmo dire che il movimento della deistituzionalizzazione degli anni ’60 e ’70 abbia colto la rigidità e la ristrettezza di un sistema di cure oppressivo, quello manicomiale, tutto spostato sulla polarità dell’ordine, nel quale non c’era nessuno spazio per l’esistenza individuale, per la libera espressione del sé e della propria spontanea vitalità.
Da lì in poi, tuttavia, la strada non è stata facile. Ricostruire delle pratiche terapeutiche e una rete in grado di contenere la sofferenza mentale ha richiesto molto sforzo, con dei risultati, al di là di alcune fortunate esperienze come quella triestina (Dell’Acqua, 2014), non sempre soddisfacenti e difficili da riprodurre. Quello che forse è mancato è stato un pensiero radicato, come quello della psicologia fenomenologica, chiaro nei concetti ed evocativo nel linguaggio, capace di sostenere la pars costruens del processo di rinnovamento delle comunità terapeutiche (Di Petta, 2018).
Una volta abbattuti quei muri che rinchiudevano la follia nel perimetro dei manicomi, come accompagnare l’umanità sofferente ad incontrare il mondo? È davvero sufficiente abbattere i muri e restituire la libertà oppure è necessario farsi traghettatori per imparare insieme a navigare l’angoscia che la libertà sempre porta con sé? Cosa possiamo offrire ai pazienti dopo aver smantellato l’istituzione ordinatrice del manicomio? Sono sufficienti pratiche di reinserimento sociale o è necessario uno strumento per esplorare la propria sofferenza e crescere nel dolore? La psicologia e la psicoterapia fenomenologica possono costituirsi come strumento di cura e come viatico verso una libertà vissuta come possibilità di espressione e di comunicazione esistenziale oltre che come angoscia e dolore. Ciò può avvenire attraverso l’incontro psicoterapeutico, mettendo a disposizione del paziente un Tu con il quale condividere l’angoscia della libertà, e con il quale rifondare un dialogo con la perduta alterità, quella dell’Altro e quella del corpo proprio (Stanghellini, 2007, 2017).
Oltre ad un modo nuovo di interpretare e vivere le situazioni e i processi della vita in comunità, la psicologia fenomenologica porta quindi con sé qualcosa di nuovo: la centralità della psicoterapia nel percorso di cura. Nonostante alcuni tentativi vengano oggi portati avanti (Ariano, 2016), ancora troppo poco si è fatto per porre la psicoterapia al centro della cura del paziente che soffre delle forme più gravi della psicopatologia, quelle che conducono nel labirintico percorso dei servizi di salute mentale. Nel pubblico, per esempio, questo è ancora molto lontano dall’esser realizzato. Otto incontri (quelli concessi di solito nei servizi pubblici ai nostri pazienti) non sono sufficienti neppure a gettare un ponte stabile verso un’esistenza chiusa e ripiegata sulla propria sofferenza come, ad esempio, quella di una persona schizofrenica o gravemente depressa.
Approfondire il modo in cui la psicologia fenomenologica può fare da sfondo alla costruzione di nuove pratiche di cura esula dagli scopi di questo breve articolo. Ci sembra di poter iniziare a dire però che il pensiero fenomenologico possa costituire un terreno fertile su cui fondare un nuovo modo di vivere e lavorare nelle comunità terapeutiche, mantenendosi in bilico tra l’ordine e il disordine dell’esistenza.
Per concludere, parafrasando una massima di Kierkegaard, possiamo dire che la svolta di cui c’è bisogno nelle comunità terapeutiche è di iniziare a “dare del Tu ai pazienti” oltre che a noi stessi, nel senso vissuto di questa espressione, che è quello di sentirsi veri compagni di via. Questo è più facile se si sceglie come riferimento per il proprio agire clinico la psicologia fenomenologica in un’ottica post-paradigmatica e d’integrazione che, pur con tutti i limiti di un pensiero giovane, considera operatore e paziente come “fatti della stessa sostanza”. In questo modo si evita il rischio dell’oggettivazione e si pone al cuore della cura un comune processo di comunicazione esistenziale e di crescita reciproca.
Ps
in ambito di psicologia e psichiatria di comunità, si veda anche questa rubrica sul blog Psicologia Fenomenologica.
Bibliografia
- Ariano G. (2016), La psicoriabilitazione dello psicotico è psicoterapia?, LINK
- Basaglia F. (1965), Corpo, sguardo e silenzio – L’enigma della soggettività in psichiatria, in L’utopia della realtà, a cura di Franca Ongaro Basaglia, Giulio Einaudi Editora, 2014.
Basaglia F. (1967), Corpo e istituzione – Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale, in Scritti vol I, cit., pag. 433-34. - Bergson H. (1907), L’évolution créatrice, trad. It. L’evoluzione creatrice, BUR Rizzoli, 2012, Milano.
- Bertalanffy von L. (1969), General System Theory, (trad. Teoria generale dei sistemi, Mondadori, Milano, 2010
- Ciompi L., Hoffman H., Broccard M. (2013), L’effetto Soteria. Analisi di un nuovo trattamento antipsicotico, Sipintegrazioni Edizioni, Casoria.
- Cipriano P. (2015), Il manicominio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Elèuthera Edizioni, Roma.
- Dell’Acqua P. (2014), Non ho l’arma che uccide il leone. La vera storia del cambiamento nella Trieste di Basaglia e nel manicomio di San Giovanni, Alpha & Beta, Collana 180.
- Di Petta G. (1994-2014), Il manicomio dimenticato. Dal diario di un giovane medico, Edizioni Universitarie Romane, Roma.
- Di Petta G. (2018), Fenomenologia e deistituzionalizzazione: lettera aperta a Piero Cipriano, LINK
- Foerster von H. (1972), Observing system, Intersystems, Seaside, trad. It. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1987.
- Foot J. (2018), Franco Basaglia, in The Oxford Handbook of Phenomenological Psychopathology, edited by Giovanni Stanghellini, Matthew Broome, Andrea Raballo, Anthony Vincent Fernandez, Paolo Fusar-Poli, and René Rosfort, Oxford University Press, DOI: 10.1093/oxfordhb/ 9780198803157.013.21.
- Guidano V. F. (1987), La complessità del Sé: un approccio sistemico- processuale alla psicopatologia e alla terapia cognitiva, Bollati Boringhieri, Torino.
- Linehan M. M. (1993). Cognitive-behavioral treatment of borderline personality disorder. New York, NY: The Guilford Press.
- Linehan M. M. (2015). DBT Skills Training, ed. a cura di Barone L., Maffei C., Raffaello Cortina.
- Molaro, A. (2018). Il corpo e l’istituzione: Franco Basaglia dalla fenomenologia alla psichiatria radicale, in Physis, Rivista Internazionale di storia della scienza, n. 53 (1-2), pp. 331-360.
- Stanghellini G., Lysaker P.H. (2007), The Psychotherapy of Schizophrenia through the Lens of Phenomenology: Intersubjectivity and the Search for the Recovery of First- and Second-Person Awareness, in American Journal of Psychotherapy, 61 (2), :163-79. doi: 10.1176/appi.psychotherapy. 2007.61.2.163.
- Stanghellini, G. (2016), Lost in dialogue. Oxford: Oxford University Press, trad. Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2017.
- Wiener N. (1948-61), Cybernetics, or control and communication in the animal and the machine, The MIT Press, Cambridge , trad. it. La Cibernetica, Armando Editore, Milano, 2018.
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