di Raffaele Avico
Abbiamo qui affrontato da più angolazioni, e più volte, il tema del trauma e di ciò che significa attraversare un trauma singolo, o fuoriuscire da una trauma complesso/ripetuto.
Sappiamo che uno dei problemi maggiori in chi sopravviva a un evento traumatico, è il recupero di un senso di sicurezza percepita.
Non basta, inoltre, che il trauma venga spiegato/narrato a un possibile interlocutore: per recuperare il senso di sicurezza questo potrebbe non essere sufficiente, essendo il trauma ricordato non solo come episodio, ma anche come “memoria somatica”, incarnato nel corpo.
É cioè sul piano del corpo che il trauma sembra permanere con più forza, soprattutto quando questo sia avvenuto in un’età precoce; nel corso dello sviluppo, non tutto ciò che viene vissuto da parte del bambino viene infatti assimilato come fosse un episodio, o come un evento che verrà poi ricordato come un “normale” ricordo: in certe fasi dello sviluppo l’apprendimento avviene in modo procedurale, “assorbito” in modo implicito usando registri di memoria più profondi e non sempre mediati dal linguaggio.
Cosa significa questo?
Se il trauma è avvenuto in una fase molto precoce dello sviluppo del bambino, è possibile che non sia fattibile per lui/lei ricordarlo sotto forma di parola, o di “episodio”; è probabile invece che permangano una serie di difficoltà relative al “senso di sicurezza” percepita per via corporea, di difficile soluzione.
Più volte abbiamo qui approfondito come il problema non sempre debba essere affrontato per via verbale: molteplici linee di ricerca e nuovi rami della psicotraumatologia ci raccontano di come il corpo debba essere coinvolto nel lavoro di cura, quando sia necessario, e in modo “creativo”, se necessario. Sono un esempio di queste forme creative di utilizzo del corpo, le tecniche di grounding (qui alcuni esempi tramite una serie di video distribuiti gratuitamente dalla European Society for Trauma and Dissociation), le tecniche di psicoterapia sensomotoria mutuate dal lavoro di Pat Ogden, le risorse di “centratura”.
L’utilizzo di questi strumenti clinici in aiuto alla “semplice” psicoterapia ci racconta di come di fronte a pazienti che abbiano vissuto potenti traumi, si debba mettere al centro del lavoro, il corpo, e le sensazioni ad esso riferite.
Un tema centrale è, come si diceva, il tema della sicurezza percepita.
Per un sopravvissuto a un evento traumatico, un punto importante sarà tornare a sperimentare quel senso di “immobilità senza paura” che Stephen Porges chiarisce essere il presupposto per una vita sana e aperta alle relazioni con gli altri. Il che significa tornare a sperimentare “sicurezza”.
Il tema della presenza e della ricerca di un “luogo sicuro” è in questo senso fondamentale.
Il “luogo sicuro” prima di tutto è un luogo fisico, realmente esistente nella vita di un individuo, presso il quale lui/lei sia sicuro/a di sperimentare un senso di sicurezza.
Può essere una piccola stanza in un appartamento condiviso per uno studente universitario nel cuore di una grande città, una panchina nascosta in un parco, una certa sedia disposta in modo tale da farlo/a sentire protetto. Oppure, un ambiente più diffuso, come un paese di mare.
Chiedere a un individuo quale sia il suo/a luogo sicuro, porta solitamente a risposte abbastanza circostanziate e puntuali. Esiste più o meno per ognuno di noi un luogo fisico dove il “test neurocettivo” sia completamente passato, dove il nostro corpo ci fornisca chiari segnali del fatto che, lì, possiamo “distendere i nervi”.
I segnali corporei sono inequivocabili: le tensioni muscolari si allentano, il cuore decelera, si sperimenta un senso di ristoro progressivo e la forma stessa del pensiero cambia, assumendo un andamento più lineare, narrativamente coerente, con maggiore spazio all’introspezione e all’immaginazione. L’insegnamento di Bowlby qui torna potente: l’esplorazione (anche interiore, attraverso l’immaginazione) è possibile solo se in presenza di una condizione di sicurezza, di una “base sicura”.
A proposito di quest’ultimo punto, ci viene in aiuto la teoria polivagale di Stephen Porges, a raccontarci di come l’attivazione di una reazione di difesa, sia in grado di “spegnere” altre competenze cognitive, cambiando i contenuti e la forma stessa del pensiero.
Sempre nella teoria polivagale viene spiegato molto bene come l’uomo sia dotato di una sorta di “sesto senso” percettivo che gli consente, in modo implicito (senza cioè che questo tipo di valutazione arrivi alla coscienza), di valutare il grado di sicurezza di un determinato ambiente. Questo atto percettivo, viene chiamato neurocezione (lo abbiamo descritto qui).
Porges sottolinea in più passaggi come, nell’atto di progettare un luogo di cura, dovrebbe essere anche valutato il “grado di sicurezza” emanato dal luogo stesso, in particolare dove si abbia a che fare con persone traumatizzate o dalla salute compromessa, che in quel luogo, dovrebbero ri-trovare una condizione primaria di sicurezza “ambientale”.
Il tema del “luogo sicuro”, del “safe place”, è fondamentale, perchè in un quadro post-traumatico, avere almeno un luogo dove sia possibile per l’individuo sperimentare un senso di “immobilità senza paura”, avviando un processo di “ristoro” e di regolazione emotiva, può funzionare come un’oasi del deserto, un luogo di pace nel contesto di una realtà sperimentata come attivante e minacciosa.
Chiunque quindi si trovasse ad aver a che fare con persone colpite da trauma, dovrebbe dunque promuovere la creazione, anche artificiosa, forzata, di almeno un luogo sicuro, una “tana” sicura (ricordiamoci che il tutto risponde a un mandato evoluzionistico). Alcuni terapeuti utilizzano delle tecniche di imagery per quella che chiamano “installazione del luogo sicuro”, per esempio nel protocollo EMDR. In quest’ultimo caso, si tratta di promuovere da parte dell’individuo l’immaginare un luogo sicuro e pacifico “interiore”, da recuperare nel momento di maggiore disregolazione o minaccia percepita.
Come si svolge questo protocollo di “installazione del luogo sicuro”? Attraverso un esercizio di visualizzazione. Lo racconta bene questa collega.
Molto meglio, in ogni caso, interrogare il soggetto su un luogo reale, realmente esistente: un luogo dove poter sperimentare quello che, in teoria, dovrebbe essere la normalità -la possibilità di stare fermi, e riposare senza paura, appunto.
Ripetiamolo un’ultima volta: è importantissimo che il paziente possieda già o si crei in modo attivo un luogo che riesca a percepire come “tranquillo”, pacifico. Questo perché come sappiamo il problema del post trauma, consta, almeno all’inizio, in un difficile recupero di uno stato di sicurezza percepita come “fisica”, “corporea”, agevolata -almeno in prima battuta- dalla presenza di un “ambiente” -intorno- sicuro.
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