di Raffaele Avico
Più volte su questo blog abbiamo scritto dei rischi connessi all’uso eccessivo di device tecnologici, all’iper-carico cognitivo connesso a un eccesso di dati, alla “bugia” del multitasking. Quali sono le conseguenze sulla nostra salute mentale dell’iper-esposizione ai dati, le conseguenze di quello che viene chiamato overload, o sovraccarico cognitivo?
Prima di tutto occorre definire lo span attenzionale e chiarire come la guerra quotidiana per la nostra attenzione su internet ci tocchi molto da vicino.
In psicologia generale lo span attenzionale è definito come l’estensione dell’attenzione selettiva, sia in senso di tempo (per quanto riesco a prestare attenzione a un determinato stimolo) che in termini di spazio (quanto ricordo di ciò che ho visto? Quanti elementi riesco a ricordare di una determinata serie?).
La capacità di prestare attenzione in modo selettivo, inoltre, è garanzia di apprendimento.
Focalizzare l’attenzione ci proietta in uno stato mentale particolarmente consono a immagazzinare informazioni: una dimensione mentale alternativa, differente, che ci consente di vivere a pieno l’esperienza dell’immagazzinamento delle informazioni che ci aggradano.
Alcuni studi hanno indagato uno stato mentale particolare che viene chiamato “learning state”, ovvero una condizione di particolare immersività dentro l’esperienza che ci permette di apprendere con più facilità e potenza da ciò che stiamo vivendo.
A tutti è capitato di trovarsi così immersi dentro un racconto che si sta leggendo, da sperimentare un lieve distacco dalla realtà e un’immersione profonda nella lettura.
Questo stato di immersività ci consente di immagazzinare con più forza le informazioni che ci arrivano, dato che l’apprendimento di svolge in modo più coinvolto ed “emozionato”.
La dimensione emotiva dell’apprendimento è cosa risaputa: l’apprendimento supportato da uno stato emotivo peculiare (per esempio rimanere particolarmente colpiti da una poesia, o da una canzone, la dimensione “interpersonale” dell’apprendimento-pensiamo al concetto di “filtro affettivo” di Krashen), rende più profondi i solchi tracciati nella nostra memoria dall’esperienza.
Senza addentrarci nella questione di come il mercato dell’attenzione riesca a distrarci così compulsivamente da ciò che stiamo facendo, osserviamo intorno a noi come lo span attenzionale della normale cittadinanza (è molto generica come definizione ma sufficientemente onnicomprensiva) sia minacciato da una tensione verso il “ritorno” al device tecnologico in grado di rompere lo stato di attenzione focalizzata -riportando il soggetto alla realtà del “digital”- staccandolo bruscamente da ciò che, al di fuori dello schermo, stia facendo e “immagazzinando” in termini di apprendimento.
Nel processo di apprendimento e di immersione, spezzare l’attenzione (con un controllo compulsivo del device tecnologico, per esempio) concorre a rendere più complicato il processo immersivo tenendoci sempre “in superficie”, come un ritorno costante a una realtà “altra” che ci distrae dal compito primario (per esempio la lettura approfondita).
In questo senso parliamo di attenzione selettiva intermittente: i Social Media e in generale Internet, come molti lamentano, possiedono armi sufficientemente potenti da forzarci a un “ritorno” al device (per esempio lo smartphone) interrompendo di fatto il nostro compito cognitivo principale.
Si potrà obiettare che la decisione di interrompere un qualche gesto per tornare a controllare lo smartphone, dipende dalla volontà del singolo. Verissimo nel momento in cui sopravvalutiamo le competenze attentive umane, di fatto labili. Quello che qui si vuole argomentare, è che l’essere umano non è sufficientemente forte da resistere a un invito così promettente come quello offerto dal Social, o dal digitale in sè. La promessa infatti di un appagamento relazionale, e il ricordo “neurobiologico” connesso a pregresse scariche di dopamina, si pongono a tampone di un bisogno che è gerarchicamente superiore e più basico rispetto a molti altri bisogni, più “laterali” ma altettanto importanti, come appunto l’apprendimento, la contaminazione, l’eplorazione mentale: si genera un conflitto che spesso ci vede perdenti, arresi alla compulsione del “checking”. Mettere in mano uno smartphone a individui nevrotici adulti, affamati di contatto umano e relazioni, è dare da bere agli assetati: la voglia, l’impulso, rischiano di avere la meglio.
I COSTI DELL’OVERLOAD
La guerra dell’attenzione ci pressa da ogni dove, ogni singola volta che sblocchiamo il nostro telefono; e non saremo sufficientemente forti da resisterle, come sopra argomentato (i bisogni di appartenenza e seduzione, insieme alla componente dopaminergica, si pongono come primari, diventando nel tempo gratificatori unici, in grado di prevalere sugli altri).
Il risultato è che la nostra mente è costantemente impegnata in una lotta contro le distrazioni, in un costante slalom tra input al fine di tenere il focus su un determinato argomento.
Pensiamo alle interruzioni continue degli spot su Youtube, ai banner pubblicitari, al neuro-bombardamento di input pensati per noi su Social di diverso genere; un costante rumore di fondo, un vero e proprio inquinamento cognitivo a cui siamo sottoposti in modo pressoché costante.
Ma con quali costi?
Questo stato di sovraccarico viene chiamato overload cognitivo in riferimento alla fatica indotta da tre processi principali:
- il lavoro implicito di scrematura e differenziazione tra stimoli che costantemente facciamo per poter mantenere il focus. Il cervello, come sappiamo, è già di suo un filtro in grado di portare alla nostra attenzione pochi stimoli alla volta per ragioni di adattamento; bombardarlo in modo continuo di stimoli ridondanti e chiassosi, rende il lavoro di filtraggio ancora più faticoso e frustrante.
- la fatica della scelta continua, dell’eccesso di stimoli tra cui scegliere, rappresenta un problema per ora sotto-soglia, non ancora pienamente indagato (o almeno, non in relazione a Internet: ne parla bene Just Mick in questo video); ne scrive anche Pietro Minto in questo libro che abbiamo recensito di recente citando il concetto di FOMO (fear of better options), il timore relativo al fatto di aver fatto la scelta migliore in un mondo di possibilità di consumo pressoché infinite
- tradire costantemente la nostra attenzione con altro (come durante la lettura, l’impugnare e sbloccare il telefono) ci condanna al continuo bisogno di ri-focalizzarci su ciò che stavamo facendo “prima” di distrarci; questo è di per sé uno sforzo cognitivo, un task mentale. Il tema qui è complesso poichè esistono aspetti emotivi implicati nel fenomeno, dato che siamo meno portati a distrarci tanto più il compito è per noi stimolante. Il problema è che, in questo senso, solamente i compiti per noi massimamente edificanti in termini emotivi saranno in grado di coinvolgerci al punto da impedirci movimenti di distrazione: il risultato è che tutto ciò che non è per noi “centrale” rischia di disperdersi, con meno possibilità da parte nostra di essere contaminati da qualcosa di altro. Se mettiamo questo fenomeno insieme a quello delle bolle informative create dagli algoritmi, capiamo facilmente come tutti noi si rischi di “radicalizzarci” sempre di più su isole di contenuto “nostre”, senza associazioni libere, contaminazioni e scoperta di “altro”. É come sottoporsi a una Cura ludovico con i nostri stessi contenuti, tutto il giorno, auto-bombandardoci il cervello con contenuti in grado di “fittare” benissimo con ciò che già sappiamo, radicalizzandoci appunto.
Esistono degli studi che hanno indagato questi aspetti?
Alla voce “sovraccarico cognitivo” troviamo su Wikipedia inglese alcuni spunti interessanti:
- il concetto ha radici storiche molto lunghe; in epoca moderna, negli anni ‘70 già ci si interrogava su quali sarebbero state le conseguenze dell’iper-abbondanza di stimoli e le possibili conseguenze sulla salute mentale degli individui. L’ultima formulazione, e più recente, è attribuita a un ricercatore tedesco (Peter Roetzel) che in questo approfondito articolo traccia uno stato dell’arte del problema in termini il più possibile scentifici, da un punto di vista della “psicologia dei consumi” e del business. In questa meta-analisi della letteratura esistente, l’autore identifica i rischi e in particolare 3 modi di concettualizzare il problema dell’overload di informazioni: 1) l’overload come conseguenza di una scarsa attenzione al “design” della progettazione dell’esperienza utente in sè, una sorta di perversione non prevista della creazione di dati in eccesso; 2) l’overload come un virus, con persone non ancora coscienti della portata della “malattia” diffusa da piattaforme sempre più spinte in termini di dati e informazioni prodotte (“Users seem to ignore possible side effects of information overload up to a very high level before retreating from these channels or platforms”) e 3) l’overload come conseguenza di un’assenza di tempo sufficiente ad affrontare la complessità delle informazioni prodotte in rete (qui l’accento è messo appunto sul tema “tempo limitato”). L’articolo raccoglie le strategie di fronteggiamento del problema in 3 categorie (incentrate su 3 soggetti: l’uomo, il processo cognitivo in sè, e la tecnologia): sono raccolte in questa tabella
- la pagina descrive due tipologie di overload di informazioni: da eccesso di fonti, e da eccesso di “profondità” delle stesse; entrambe sapranno produrre -soprattutto in soggetti particolarmente meticolosi o puntigliosi- FOBO (fear of better options) e “not just right experience”, una sensazione insomma di insoddisfazione a fronte di grandi quantità di informazioni tra le quali decidere -sempre estremamente faticosa e frustrante. Uno dei rischi, insomma, è condurre ad analisi-paralisi, a blocchi di performance
- La pagina cita il lavoro di Clay Shirky, che in questo video in tempi non sospetti (2008), ragionava sulla deriva che la dis-intermediazione totale generata dall’iper-connessione avrebbe generato; in effetti, aver scavalcato e resi superflui gli intermediari che facevano da filtro (per esempio i giornali nazionali, le case editrici -oggi ognuno pubblica in autonomia in qualsiasi ambito) ha aumentato in modo spropositato i contenuti in circolazione, da un lato liberando e democraticizzando la cultura (che era il sogno dei nerd-hippie fautori della rivoluzione digitale che oggi viviamo), dall’altro “aprendo le gabbie” e dando voce a chiunque, cosa che osserviamo oggi e di cui cominciamo a percepire il lato oscuro.
Al di là degli aspetti più teorici, l’overload cognitivo resta un problema che ci tocca nel vivo del nostro vivere quotidiano; il proliferare di pratiche mutuate dalla psicologia orientale, i corsi di pratiche zen, la ricerca di “focus” e la letteratura di self-help mirata ad aumentare la produttività, ci dicono di come la cittadinanza percepisca il problema come attuale e urgente.
É più che probabile che il futuro prossimo ci riservi una regressione a forma più contenute di accesso alle informazioni che intorno a noi gravitano: forme di minimalismo, decluttering “interiore”, ricerca di contatto con la natura (forest bathing), pratiche di “filtro” che ci consentano una migliore “ecologia” mentale, un ritorno al mono-tasking, maggiore attenzione all’UX (user experience), e altre forme di ribellione a un “data smog” percepito come sempre più tossico in termini psicologici.
Può sembrare banale, ma sarà sempre più centrale -al fine di preservare una buona igiene mentale- lavorare su abilità di costruzione di uno stile di vita adeguato. Per fare alcuni esempi:
- differenziando in modo feroce il tempo impiegato nel lavoro da quello libero, suddividendo i due momenti in modo rigido/verticale, per contrastare un senso di reperibilità continua
- ritagliando momenti di assenza di produttività, di svago puro, o di semplice daydreaming slegato da task lavorativi
- inframezzando gli impegni settimanali con attività fisica
- investendo una parte della propria energia mentale nella costruzione di abitudini sociali positive, “in presenza”
- valutando l’abbandono totale/temporaneo di abitudini nefaste come appunto il checking o lo scrolling compulsivo, auto-monitorando la qualità del tempo che spendiamo in rete
- limitando l’impatto sulla propria psiche di news/social/spazzatura mediatica
- assumendo maggiore consapevolezza sui rischi connessi al “mercato della dopamina“
..insomma, occorrerà sempre di più lavorare sul proprio stile di vita.
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