di Davide Boraso
PREMESSA: questo articolo è un estratto del libro PTSD: che fare? (acquistabile qui)
[…]
Il trattamento dei pazienti con storie di sviluppo traumatico è estremamente complesso. Spesso il terapeuta è messo a dura prova, e a passi in avanti nel corso della terapia corrispondono bruschi ritorni a situazioni critiche. Ciò che non andrebbe dimenticato è che si tratta di un trattamento a fasi di tipo gerarchico, con dei passaggi propedeutici: se non si raggiungono i risultati previsti per la prima fase, non si può procedere alla seconda, e così via.
Le fasi del trattamento, come verrà in seguito approfondito, potrebbero essere schematizzate come segue:
- Fiducia e costruzione dell’alleanza terapeutica
- Sicurezza, stabilizzazione e riduzione dei sintomi più disturbanti
- Lavoro ed elaborazione delle memorie traumatiche
- Integrazione dell’identità e riabilitazione
Se alcuni degli obiettivi raggiunti dal paziente non riescono a essere mantenuti, o se i risultati di fasi precedenti sono minacciati, occorre ritornare a lavorare sulla fase precedente.
Per esempio, se si sta lavorando su sicurezza e stabilizzazione dei sintomi, ma compaiono problemi sull’alleanza terapeutica, occorre interrompere l’intervento sui sintomi e tornare a riallacciare un’alleanza sufficientemente sicura e salda. Se invece si è iniziato un lavoro sulle memorie traumatiche e il paziente inizia a disregolarsi, faticando a controllare le proprie sensazioni ed emozioni, occorrerà riprendere il lavoro sulla sicurezza e la stabilizzazione dei sintomi più disturbanti; infine, se si sta lavorando sulla fase di integrazione dell’identità e la costruzione di una buona rete sociale, e vengono riattivate memorie traumatiche non risolte nelle fasi precedenti, anche in questo caso occorrerà interrompere la fase integrativa per tornare a riprendere le nuove memorie emerse per elaborarle prima di proseguire, e così via, in una andamento regolare con fasi che sono una propedeutica all’altra.
6.2 La fiducia e l’alleanza terapeutica
Come già sostenuto, nel contesto del lavoro clinico occorre prestare la massima attenzione nel costruire e mantenere l’alleanza terapeutica con pazienti cronicamente traumatizzati: la difficoltà a riporre fiducia nel prossimo e nelle figure accudenti è la naturale conseguenza delle esperienze traumatiche infantili, dei maltrattamenti e dei “neglect” da parte dei familiari, di figure sanitarie e altre persone di una certa autorità. Questa (sana) diffidenza si manifesta anche nella relazione terapeutica, di fatto, complicandone la costruzione.
Un’ulteriore complicazione potrà essere conferita dalla presenza di differenti “parti” o identità nel paziente che si comportano in modo diverso: una “parte apparentemente normale” (ANP, per usare l’acronimo citato a proposito della teoria sulla dissociazione strutturale della personalità elaborata da Onno Van Der Hart) potrà manifestare fiducia verso il terapeuta, mentre le altre parti cercheranno di sabotare il trattamento, a causa di diffidenza e sensazioni di vulnerabilità.
Alcune regole generali che valgono per il lavoro con questo tipo di pazienti, potrebbero essere sintetizzate come segue.
Il lavoro con questo tipo di utenza dovrebbe prevedere:
- L’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta
L’atteggiamento del terapeuta è fondamentale, soprattutto nelle fasi iniziali, per costruire un’alleanza che permetta un lavoro proficuo; l’accortezza principale sarà indirizzata a non attivare il MOI (Modello Operativo Interno secondo la formulazione di John Bowlby) disorganizzato, cosa che può essere realizzata mantenendo la relazione su un piano costantemente cooperativo. Soltanto in questo modo si potrà esporre il paziente -in un contesto protettivo e più favorevole- a situazioni emotive che non ha saputo gestire in passato.
Una terapia efficace per pazienti traumatizzati richiede quindi un terapeuta attivamente impegnato sia nel processo di trattamento che nelle interazioni. Riteniamo inoltre sia fondamentale la condivisione e il settaggio degli obiettivi reciproci; coordinarsi reciprocamente è una delle migliori modalità per attivare il sistema (motivazionale interpersonale) cooperativo; permette inoltre di ridurre i momenti di confusione e smarrimento, tipici del rapporto con pazienti fortemente traumatizzati.
Può capitare nelle fasi iniziali del lavoro che vi siano difficoltà ad individuare obiettivi precisi e condivisi: spesso i pazienti utilizzano frasi come “vorrei star meglio, voglio migliorare la mia vita, non voglio stare più male, voglio cambiare le cose”, etc.. A questo proposito riteniamo importante dedicare anche più di un incontro all’esplorazione di quanto ciò possa significare: meglio non accettare obiettivi troppo vaghi e generici, come nel precedente esempio. Il rischio è che in breve tempo ci si possa arenare o perdere il senso del lavoro terapeutico.
Esempio di ricalibrazione di un obiettivo:
- Pt.: oggi sono stanca e mi sento confusa, faccio fatica aseguire un filo logico…
- Tp.: anche io sono un po’ in difficoltà nel seguire il filo del discorso, le va se facciamo insieme il punto della situazione sugli obiettivi che ci siamo dati e vediamo che direzione stiamo prendendo?
- Pt.: ok
- Tp: se non ricordo male, stavamo cercando delle strategie più efficaci per affrontare i momenti di ansia e forte agitazione… le sono capitate situazioni in cui ha potuto mettere in pratica ciò che abbiamo visto insieme negli incontri precedenti?
- Pt: sì, giusto, questa settimana ho avuto due momenti di forte agitazione, ma sono andati abbastanza bene…
- Tp: ottimo, le andrebbe di parlarmene? forse possiamo trovare qualcosa di interessante
- Pt: (annuisce con la testa)
- Tp: cosa intende con “sono andati abbastanza bene?”
Gli obiettivi possono senza dubbio modificarsi nel proseguo della terapia, in funzione di quanto potrà emergere, ma ottenere sin da subito un accordo su quanto si andrà a fare costituisce un forte atto di cooperazione per nulla scontato e non sempre atteso da chi si rivolge a un clinico.
Va aggiunto inoltre che la condivisione di obiettivi costituisce un’azione terapeutica di forte impatto: essa rappresenta una prima validazione dei bisogni profondi del paziente (spesso raramente incontrata nella vita di persone cronicamente traumatizzate) e di mentalizzazione congiunta delle sue speranze. Risulta quindi che un gesto apparentemente banale, anche se non sempre semplice, contenga in sè grande potenza relazionale ed empatica.
2. La chiara definizione di compiti reciproci, delle regole e del setting all’inizio del trattamento
Una precisa definizione degli obiettivi terapeutici e delle regole comuni ha la capacità di rassicurare e proteggere la coppia terapeutica da aspettative irrealistiche o negative sul percorso di cura, e dalla confusione motivazionale. È quindi fondamentale, per quanto possibile, mantenere regolarità e trasparenza su:
-
- luogo di incontro. Ci sono terapeuti che cambiano continuamente studio, cosa che può generare sentimenti di smarrimento nel paziente e la difficoltà a sentire quel luogo come sicuro e rassicurante
- orari. Discorso analogo a quello relativo al luogo: per quanto possibile è opportuno cercare di mantenere una routine per quanto riguarda giorno e orario delle sedute
- contatti al di fuori delle sedute. I confini relazionali sono fondamentali, spesso il paziente tende a valicarli. Social Network e chat istantanee andrebbero evitate, il paziente non dovrebbe avere il numero privato del terapeuta; può essere buona prassi spiegare (o annotare nel contratto terapeutico) sin da subito ai pazienti che comunicazioni tramite Social Network non sono previste, per evitare di generare incomprensioni, malumori o situazioni difficili da gestire successivamente. La possibilità di essere contattati fuori dalle sedute con messaggi di testo o con brevi conversazioni telefoniche può essere uno strumento molto utile, soprattutto in caso di crisi suicidarie; deve però essere regolamentata con precisione sin da subito, dato che i pazienti con storie traumatiche possono mettere in atto strategie controllanti, rischiando di diventare estremamente richiedenti
- onorario. Alcuni terapeuti hanno difficoltà a gestire gli aspetti legati all’onorario. È importante affrontare sin da subito anche questo aspetto: i pazienti traumatizzati, più di altri, possono confondere alcuni aspetti professionali del rapporto con il terapeuta equivocando significati implicati nel pagamento delle sedute. L’onorario può essere visto come il prezzo pagato per il loro scarso valore umano, oppure possono percepire la sensazione di essere sfruttati economicamente. Se si sospettano pensieri di quel tipo è opportuno discuterne fin da subito per non trovarsi nella condizione di subire rivendicazioni sull’onorario in fasi delicate della terapia.
6.3 Il tipo di legame affettivo che si costituisce fra paziente e terapeuta, caratterizzato da fiducia e rispetto
Se non è presente una buona alleanza terapeutica non è possibile alcun tipo di lavoro psicotraumatologico: non sono sufficienti arousal regolato, umore buono e condizioni generali ottimali per affrontare il trauma. Il terapeuta non dovrà però aspettarsi una fiducia incondizionata dal paziente o porla come requisito per il suo lavoro: dovrà invece continuamente ricercarla e faticosamente rinegoziarla cercando di modificare le aspettative negative e il timore di affidarsi del paziente stesso. Tuttavia, con persone molto diffidenti come schizoidi, pazienti evitanti, borderline, o che provengono da sottoculture caratterizzate da aspettative negative sull’altro (carcerati, tossicodipendenti), l’obiettivo della costruzione di una chiara alleanza potrebbe richiedere tempi lunghissimi o risultare addirittura impossibile. È necessario però che almeno una “parte” del paziente non sperimenti diffidenza o paura del terapeuta.
6.4 La raccolta della storia personale e il primo colloquio
Nella fase iniziale è fondamentale raccogliere informazioni rilevanti sulla storia del paziente e sul suo funzionamento attuale. Occorre indagare, all’interno della narrazione del paziente inerente il suo passato, la presenza di eventi traumatici che possano aver concorso nell’insorgenza dei disturbi.
Una buona raccolta anamnestica dovrà indagare, tra le altre cose:
- la qualità delle relazioni significative del paziente (familiari, compagno/a, amicizie e altre figure rilevanti del presente)
- aree di problematicità e sofferenza ad esse collegate (in quali situazioni di vita il disturbo emerge maggiormente, quali sono le attività più complicate da realizzare?)
- relazione con la famiglia di origine e atmosfera psicologica “respirata” nel corso dello sviluppo
- indizi di familiarità psicopatologica
Senza dimenticare di mantenere uno stile relazionale caldo, empatico, accogliente e non giudicante, si individuano le abilità già presenti nel paziente e le risorse da potenziare o da allenare. Si concordano poi gli obiettivi terapeutici comuni.
Esempi di possibili prime domande da fare nel primo colloquio sono le seguenti:
– cosa la porta qui oggi?
(è una domanda aperta e generica che dà la possibilità al paziente di iniziare dall’argomento che più ritiene adatto senza esercitare particolari pressioni o giudizi. Domande come: “qual è il suo problema” andrebbero evitate, perché possono avere un’influenza negativa sulla costruzione dell’alleanza)
– che effetto le fa essere qui?
(ci sono pazienti fortemente bloccati che faticano, soprattutto nelle fasi iniziali, a raccontare di loro. Possono quindi sostare in lunghi silenzi: una domanda di questo tipo li riporta al momento presente, focalizzando il discorso su sensazioni o emozioni sperimentate, al fine di stabilire un contatto)
– che idea si è fatto del suo disturbo? Ha fatto delle riflessioni in merito?
(è una domanda importante che permette di comprendere quali siano i pensieri e le credenze rispetto al disturbo. Spesso sono presenti credenze errate o anti-scientifiche rispetto al funzionamento della mente che, una volta svelate, potranno essere contestate tramite un lavoro di psicoeducazione)
– che cosa le hanno fatto per arrivare alla situazione odierna?
(è una domanda che può mitigare il senso di colpa spesso presente nei pazienti traumatizzati. Si parte dal presupposto che molti comportamenti, anche disfunzionali, siano un modo per reagire a situazioni ambientali complesse, indipendenti dalla volontà del paziente)
– quali sono stati gli eventi importanti della sua vita?
(il paziente può riportare eventi positivi o negativi. Nel caso siano positivi c’è la possibilità di individuare risorse o sensazioni positive che potranno essere utilizzate nelle fasi successive della terapia. Nel caso vengano individuati eventi negativi, occorre approfondirli perché potrebbero nascondere una natura traumatica)
– quali sono le cose più complicate da gestire che le sono accadute?
(può aiutare a comprendere quali siano i trigger presenti ancora nel presente e in che modo il paziente li gestisca)
– cosa le piace di più di se stesso/a?
(una domanda che permette di capire quale sia l’idea di se stesso/a del/la paziente e quali abilità/capacità positive ritiene di possedere)
Se anche utilizzando le domande precedenti ci fosse grande difficoltà nello stabilire un contatto, si può utilizzare un supporto grafico come un foglio o una lavagna. Per facilitare il compito è possibile far disegnare o scrivere al paziente una linea del tempo, su cui riportare eventi significativi positivi e negativi della propria vita. È un esercizio che permette di mettere a fuoco il modo di interpretare lo scorrere della vita, consentendo di prendere consapevolezza di alcuni momenti particolarmente rilevanti.
Alcuni pazienti potrebbero manifestare preoccupazione circa la totale veridicità dei ricordi o il loro preciso collocamento temporale. È utile rassicurarli e informarli sull’importanza della rappresentazione dei ricordi e come soggettivamente siano percepiti, più che della veridicità in sé.
Esempio.
- Tp: se può esserle d’aiuto, può tracciare una linea sulla lavagna. La linea rappresenta la sua vita dalla nascita ad oggi. Sulla linea della vita può indicare quali siano stati gli eventi più significativi che le sono accaduti
- Pt: ok, mi alzo e posso scrivere?
Tp: certo, si senta libera di usare la lavagna - Pt: però non sono certa di ricordare con precisione gli eventi e quando siano accaduti con esattezza
- Tp: è normale, non si preoccupi. Non è così importante, non siamo in un tribunale e io non sono un giudice. Ci interessa cosa e come ricorda, non ci serve la verità assoluta, per cui quello che disegnerà andrà bene
Una frase apparentemente banale che può avere un effetto rassicurante (non è una prova o una performance da realizzare) pone al centro la soggettività del paziente e la sua esperienza: in questo modo si trasmette l’idea che il protagonista del percorso sarà lui/lei.
Potrebbe sembrare scontato, ma in persone pesantemente traumatizzate l’idea di dar valore alla propria esperienza personale potrebbe essere una piacevole novità.
[…]
- Qui l’introduzione al libro a cura di AISTED.
- qui per aggregare nel blog tutto il materiale a tema trauma e ptsd.