di Raffaele Avico
PREMESSA: questo articolo è presente in un ebook in free download curato da AISTED, qui scaricabile.
Il problema della stabilizzazione riguarda la prima fase del lavoro con pazienti post traumatici: sappiamo che riguarda il tentativo di stabilizzare la potenza dei sintomi al fine di consentire un migliore accesso alle memorie traumatiche.
Un aspetto poco approfondito e poco trattato della stabilizzazione, da usare come strumento aggiuntivo agli altri, integrato alle restanti risorse da usare, è la regolazione della distanza interpersonale, intesa come capacità di creare un giusto confine tra sé e gli altri.
Per approfondire questo aspetto poco trattato prenderemo come riferimento il testo di Maria Puliatti “La psicotraumatologia nella pratica clinica”, che in un capitolo approfondisce il tema; il libro è un riferimento particolarmente importante per chi voglia interessarsi al tema stabilizzazione perchè è totalmente incentrato su questo aspetto nel lavoro con adulti, bambini e adolescenti.
La questione della regolazione dell’attivazione attraverso il tema dei confini (che è quindi centrale se intendiamo il lavoro di stabilizzazione come una lavoro atto a “regolare” in modo più efficace il tono di attivazione o disattivazione neurofisiologico, per riportarlo all’interno della finestra di tolleranza), si presta a essere inserita nel tema più vasto della “psicoeducazione”.
Se vogliamo procedere a una breve recensione del libro della Puliatti (fatta in modo più esteso in questo podcast), sappiamo che stabilizzazione dei sintomi post traumatici può essere svolta usando 3 modalità principali:
- TIPO A: approccio farmacologico
- TIPO B: approccio relazionale/interpersonale
- TIPO C: approccio autonomo/regolativo
Per approccio relazionale, intendiamo il ricorso a espedienti totalmente interpersonali per regolare stati profondamente disturbanti: per esempio ricercare contatto fisico, cercare compagnia quando in presenza di sintomi invalidanti, e in generale qualunque cosa che contempli la presenza dell’altro.
La stabilizzazione fatta lavorando sulla questione dei confini, fa dunque parte di questa tipologia di approccio al sintomo, sintetizzata con il TIPO B.
Maria Puliatti ne parla nel suo La psicotraumatologia nella pratica clinica a pagina 43.
L’autrice osserva, usando le parole di Pat Ogden, che i soggetti fuoriusciti da esperienze traumatiche singole o cumulative, sembrano possedere confini interpersonali violati, troppo rigidi o troppo permeabili nei confronti dell’esterno.
Ma prima di tutto, cos’è un confine interpersonale?
Potremmo definire il confine interpersonale come un confine simbolico, psicologico ma anche interpersonale e profondamente in grado di impattare sul corpo, tra noi e gli altri. Il confine è un confine percepito e rappresentato in modo “pre-conscio”: ci fa sentire violati quando viene oltraggiato o sorpassato o non rispettato, ci fa sentire isolati o scollati dagli altri quando si sia irrigidito o impermeabilizzato (magari in risposta a una situazione traumatica, in modo difensivo).
Puliatti ne individua cinque tipologie, che elenca mettendo il concetto di confine in connessione con il vissuto soggettivo dell’individuo che li possegga:
- Fisico: chi, quando, come e quanto gli altri possono toccarmi, e viceversa?
- Emotivo: cosa considero come trattamento accettabile all’interno della relazione? Gli altri mi rispettano e mi trattano bene? Io faccio lo stesso?
- Spirituale: quanto mi sento a mio agio nel condividere il mio sistema di credenze, la mia spiritualità e le mie pratiche? Quando e con chi?
- Sessuale: quando, con chi e quanto della mia sessualità e delle mie opinioni riguardanti la sessualità condivido? (Si noti che i confini sessuali vanno oltre alla mera attività sessuale, essi si riferiscono anche a giochi, allusioni, gesti di natura sessuale e così via.)
- Intellettuale: in che modo le mie idee e i miei pensieri vengono ricevuti? Vengono presi in considerazione? Rispettati? Io ho accesso alle informazioni e all’apprendimento?
Come prima cosa occorre osservare che il senso di sicurezza percepita aseguito di un trauma, risulta alterato.
Sappiamo che il soggetto post-traumatico è un soggetto iperestesico: percepisce la realtà come filtrata dalla sindrome post-traumatica, sentendo rumori più forti e selettivamente selezionati dall’attenzione in quanto possibili minacce: questo per via del senso di vigilanza protratto tipico del PTSD, concomitante a un’attivazione autonomica costante.
Come primo punto da osservare dunque, l’aspetto della distanza dall’altro: per stabilizzare un paziente che provenga da una storia traumatica o da un evento traumatico acuto, è necessario che si lavori sulla distanza che il soggetto percepisca “sicura” rispetto all’altro.
Puliatti suggerisce in questo senso di lavorare affinché il soggetto divenga consapevole a proposito della “percezione somatica di intrusione”, variabile da soggetto a soggetto e direttamente correlata alla distanza (reale o percepita) del soggetto nei confronti dell’altro, affinché la stesso paziente sappia, nella vita “reale” al di fuori della stanza di terapia, meglio regolarla e gestirla.
Non dimentichiamoci che la fear response, la reazione di paura concomitante alla messa in atto della risposta attacco/fuga, è dipendente dalla distanza percepita nei confronti dell’altro minaccioso, e che questo avviene in ogni animale dotato di sistema nervoso anche basico (per un approfondimento su questi aspetti, si veda qui).
La fear response nel PTSD può essere innescata anche solo da uno sguardo interpretato come minaccioso: è piuttosto frequente che lo sguardo venga percepito come intrusivo e “emotionally abusing” nei pazienti con PTSD, al di là della natura dello sguardo “esterno” stesso.
Procedendo in questo capitolo, leggiamo che Puliatti suggerisce di “spingere il paziente ad assumersi il diritto di difendere il proprio territorio”, in modo che possa attivamente meglio regolare le distanze inter-corporee tali da sentirle “sicure”, non intrusive né “dismissing”, verso un’ideale “giusta distanza”. Questo porta inoltre a far sì che i confini corporei prendano il posto delle difese messe in atto dal paziente.
Da un punto di vista applicato troviamo nel libro di Fisher e Ogden del 2015 Psicoterapia Sensomotoria, alcuni esercizi da suggerire al paziente per prendere consapevolezza dei propri confini corporei e di quando questi vengano violati.
Inoltre, viene qui fatto un passo ulteriore nella definizione di quelli che le autrici chiamano confini “interni” (riguardanti cioè l’effetto che un’opinione espressa da altri significativi possa avere sulla “nostra” modalità di pensare a una determinata cosa, di fatto “violando” un confine interno in un certo modo “identitario”)
In particolare vengono in questo volume suggeriti 4 esercizi:
- usare alcuni gesti corporei solitamente usati per “segnare” aspetti territoriali (fare no con la testa, fare il segno di stop con le mani, aggrottare le sopracciglia, piegarsi all’indietro e allontanarsi, etc.) per auto-osservare i pensieri e le emozioni suscitate da questi, calandoli in “episodi” realmente accaduti in passato
- segnare -da un elenco- episodi passati in cui i confini corporei vennero violati, per comprendere come evitare che questo succeda in futuro; un esempio di violazioni di confine, è rappresentato da questo schema:
- ricordare un episodio di violazione interna di un confine, per isolarlo e lavorarci. Questo esercizio prevede che l’individuo riporti alla mente un episodio in cui si sia sentito violato internamente (per esempio tramite l’attribuzione di una qualità negativa da parte di un caregiver abusante in senso psichico); successivamente immaginare di possedere un buon confine interno, tale da impedire all’attribuzione esterna di produrre un impatto traumatico, e osservarne le ricadute somatiche
- immaginare di allineare le risposte verbali (esterne o formulate tramite il solo pensiero, quindi internamente) con le risposte somatiche, rispondendo alla domanda cosa faccio fisicamente mentre dico di no/ sì?
Questi esercizi applicati, comuni in chi lavori con la psicoterapia sensomotoria, vogliono rendere il più possibile concreto/applicato il lavoro sui confini, in un contesto di psicoterapia.
Quello che è importante sottolineare è che un individuo che fuoriesca da una situazione traumatica, si trova in uno stato neurofisiologico costantemente distorto, con oscillazioni rapide da stati di iperarousal e allarme percepito (magari in concomitanza di flashback), e stati di spegnimento e mancanza di energia psichica.
Il lavoro con i confini e la distanza interpersonale vuole promuovere un miglioramento del senso di sicurezza percepito da parte del paziente, verso una permanenza più costante all’interno della finestra di tolleranza.
Un aspetto poco approfondito, vista la natura speculativa del concetto e la difficoltà insita nel voler indagare il tema usando le metodologie della ricerca psicosociale, è il tema dell’utilizzo del “no” come strumento di regolazione interpersonale. Nel lavoro con pazienti traumatizzati osserviamo confini interpersonali permeabili, nel contesto di relazioni invischiate ed cariche di aggressività, in cui a un’onestà “radicale” (dico tutto, sempre), si associa un grande senso di violazione interpersonale spesso associata all’impossibilità di dire “no” -mettendo un paletto simbolico tra sé e l’altro. Paletti per esempio utili a sottrarsi a inviti non graditi, ma anche utili a mantenere protetto uno spazio interno di pensiero e auto-riflessione.
Il lavoro di psicoterapia deve in questi casi procedere nella direzione di legittimare il paziente all’apposizione di “no” che lo aiutino a sottrarsi a tentativi di violazione dei confini, a spinte verso inversioni di attaccamento, così da consentirgli/le una più stabile permanenza in “posizione di sicurezza”.
BIBLIOGRAFIA
- Pat Ogden & Janina Fisher, Psicoterapia sensomotoria. Interventi per il trauma e l’attaccamento. Trad. ed ediz. it. a cura di Giovanni Tagliavini, Laura Bartocetti, Paola Bertulli & Maria Paola Boldrini. Illustrazioni di Deborah Del Hierro & Anthony Del Hierro. Milano: Raffaello Cortina, 2016
- Puliatti, M. La psicotraumatologia nella pratica clinica. Maria Puliatti. Mimesis 2017.
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