di Raffaele Avico
Questo articolo è scritto da tre pesi massimi della psicotraumatologia mondiale: Onno Van der Hart, olandese, Kathy Steele, americana, e Nijenhuis, svizzero.
Vuole essere una riflessione sul lavoro da fare con le memorie traumatiche per pazienti traumatizzati gravi, portatori di sintomi dissociativi di tipo “complesso”.
Avere a che fare con pazienti con sintomi dissociativi gravi, significa avere a che fare con pazienti portatori di quello che viene chiamato PTSD complex, non risalente cioè a un trauma singolo, unico, ma a una serie protratta di traumi cumulativi, oppure a uno sviluppo traumatico fin dall’infanzia, per esempio crescendo a contatto con persone abusanti o verso le quali non fu possibile creare legami normali (attaccamenti “sicuri” per dirla con Bowlby). Pensiamo per esempio ai sopravvissuti a torture, a periodi di prigionia, oppure a vittime di violenza domestica protratta.
Come sappiamo, Van Der Hart ha formalizzato nel suo lavoro di ricerca la teoria della dissociazione strutturale della personalità. L’articolo si apre appunto con una breve descrizione della suddivisione in “sottosistemi” biologicamente coerenti costituitisi a seguito dell’esperienza traumatica: una parte rimasta congelata in senso emotivo al tempo del trauma (PARTE EMOTIVA, EP) e una parte chiamata APPARENTEMENTE NORMALE che in senso adattativo fu per così dire obbligata a continuare nel suo percorso di vita, consentendo all’individuo di portare avanti obiettivi di vita o semplice quotidianità.
A proposito di questo viene naturale, come in psicotraumatologia è spesso ripetuto, pensare a un obiettivo finale come inerente l’INTEGRAZIONE. L’integrazione, cioè, si costituisce come il momento finale del lavoro con questo tipo di pazienti, suddivisi, al loro interno, in modalità, “parti” distinte, che dovranno convergere e in qualche modo fondersi.
Questo articolo si concentra su quella che è la fase 2 (nel contesto del modello trifasico), ovvero il lavoro con le memorie traumatiche. Come si fa, in senso concreto, a lavorare con il materiale traumatico depositato nella memoria (implicita o esplicita che sia), del paziente?
Gli autori riportano alcuni punti di interesse:
- Janet distinse due tipologie di “azioni integrative”: la SINTESI e gli ATTI DI REALIZZAZIONE. Per sintesi, Janet intendeva l’atto di creare anelli tra pensieri, azioni, emozioni, corpo e mente, la mia vita con l’ambiente intorno a me, etc. Per esempio, un “anello” di congiunzione (dunque un atto di sintesi), potrebbe essere il dirsi “questo pensiero mi compare quando sono molto arrabbiato”, operando cioè una valutazione metacognitiva che consentirà di associare a uno stato emotivo l’emergere di un pensiero. Il creare atti di sintesi, “formando anelli”, costituisce la base per un lavoro più complesso e ampio, che Janet chiamava appunto realizzazione.
- La realizzazione, comprende due momenti: la PERSONIFICAZIONE (l’atto di sentire che le mie azioni, i miei pensieri mi appartengono, sono miei), e la PRESENTIFICAZIONE (l’atto invece di arrestarsi sul presente, in senso temporale). Sono questi, in linea di principio, “strumenti” atti a contrastare la tendenza a dissociare dei pazienti con trauma grave, così da condurlo/a idealmente a quello che gli autori chiamano una posizione di “prima persona singolare” (non dunque una molteplicità di parti vissute in terza persona, come differenti da sè, ma un singolo “IO” che coordina tutte le diverse sotto-parti oppure, meglio ancora, una singola parte sfaccettata e fluida in ogni sua manifestazione)
- il livello più semplice di dissociazione strutturale della personalità, è quello che comprende “solamente” EP e ANP: si crea, in questo caso, una spaccatura verticale nella personalità dell’individuo, con una parte in grado di adattarsi al contesto, l’altra mossa da logiche di difesa, incentrata su comportamenti difensivi in grado di “oscurare”, “eclissare” gli altri sistemi di difesa.
- Quando richiesto, è possibile che la PARTE EMOTIVA si suddivisa al suo interno, creando quella che viene chiamata dissociazione secondaria della personalità. Avremo quindi una singola parte apparentemente normale, e due o più parti emotive “attive” in parallelo. Gli autori chiariscono che questa forma clinica, sembra essere la più comune con pazienti portatori di un PTSD complesso. Inoltre, potremo osservare come una delle EP createsi in seguito alla dissociazione secondaria, potrà essersi identificata all’aggressore, assumendo forme “sadico/abusanti”.
- un aspetto da considerare, è il livello di fobia presente verso la parte EP: più il soggetto dimostra di avere paura della sua parte “emotiva” rimasta congelata al trauma, più è ampia la dissociazione strutturale, e più “lontane” le parti, e quindi più grave la sintomatologia post-traumatica
- gli autori passano dunque a discutere a proposito dell’importanza della fase 1, della stabilizzazione, prima di iniziare con il lavoro diretto sulle memorie traumatiche. É importante ricordare che la fase 1 è propedeutica alla fase 2: è in ogni caso sempre possibile tornare alla fase 1 quando ci si accorgesse di un tempo ”prematuro” per il lavoro diretto con i ricordi traumatici. Questo è un punto importante: va cioè resa possibile una sorta di oscillazione tra le due fasi, con fasi di evoluzione e possibili fasi di regressione. Ricordiamo i principali strumenti per la fase 1 (stabilizzazione dei sintomi): psicoeducazione, emdr, tecnica del posto al sicuro, psicoeducazione relativamente all’importanza dell’attività fisica, mindfulness guidata, management dei livelli energetici (qualità del sonno, riposo, alimentazione corretta). Tutto questo per far sì che il tono neurofisiologico si mantenga entro la finestra di tolleranza (concetto qui approfondito), per rendere possibile la fase 2 secondo il modello trifasico prima accennato.
- Van Der Hart è nell’articolo citato a proposito di uno degli obiettivi principali della fase 2: rendere cioè “non necessaria la dissociazione”. Quando cioè riusciremo a far sì che il paziente accolga e “maneggi” in modo tranquillo il materiale traumatico, senza per questo doversi dissociare, avremo reso non necessaria la dissociazione stessa e fatto grossi passi avanti nel lavoro clinico con questo paziente. Questo consentirà al paziente di passare da una ri-attualizzazione sensomotoria del vissuto traumatico, “incarnata”, “rivissuta”, a una verbalizzazione “solo a parole”, non più incarnata, finalmente simbolizzata e digerita per via linguistica. Gli autori sottolineano come un passaggio di questo tipo lo troveremo grazie a eventi in terapia “nuovi”, clamorosamente “innovativi” per il funzionamento del paziente.
- Esistono alcune controindicazioni per la fase 2: in particolare, è necessario fare attenzione al fatto che i criteri relativi alla stabilizzazione siano soddisfatti: in caso contrario non ha senso procedere all’esplorazione delle memorie traumatiche. Inoltre, altri fattori di controindicazione sono: età avanzata, psicosi, disturbo di personalità con abuso di sostanze in atto, oscillazioni troppo estreme tra parte emozionale e parte apparentemente normale, abusi interpersonali in atto.
A seguito di queste premesse, gli autori arrivano infine al vivo della fase 2.
Vediamo cosa propongono.
Gli autori propongono una metodologia chiamata “sintesi guidata”, finalizzata a superare la “fobia delle memorie traumatiche”.
Aspetti preparatori:
- fare in modo che il paziente possa essere accompagnato a casa dopo la seduta
- fornire maggiore tempo per il recupero del senso di grounding: prevedere dunque colloqui di 1,5 o 2 ore di durata.
- chiedere al paziente che ritagli del tempo dedicato a questo tipo di lavoro, dalle sue restanti occupazioni (per esempio chiedendogli di prendere mezza giornata di ferie dal lavoro, cosicchè sia mentalmente libero di dedicarsi all’esplorazione delle memorie traumatiche)
Momenti del lavoro: condividere i “kernel patogeni”:
- isolare e riconoscere i pensieri “copertura” con cui il paziente si è narrato, nel tempo, il vissuto traumatico
- avviare il paziente alla narrazione dei momenti pre e dopo-trauma, così come i momenti di “inizio e fine” del momento traumatico
- avviare il paziente alla narrazione di quelli che vengono chiamati “kernel patogeni”, ovvero i nuclei duri del momento della traumatizzazione, partendo eventualmente anche dall’esercizio del “peggior scenario”, ovvero direttamente dall’immagine più pesante anche solo da “immaginare” da parte del paziente
- avviare il lavoro sulle parti, usando immagini di “contatto” tra le parti, e chiedendo al paziente di descrivere la scena, oppure usando la tecnica della tavola dissociativa (immaginando cioè che il paziente sia seduto a capotavola con le sue parti sedute intorno al tavolo, e che dialoghi con ognuna di esse)
- queste immagini di condivisione saranno il giusto contesto per far sì che il paziente condivida con il terapeuta le immagini centrali, i “kernel patogeni”, i momenti cioè più pesanti da sopportare e ri- esprimere (qui potrebbe essere valutabile l’utilizzo dell’EMDR come strumento per inframezzare il lavoro, creando delle pause); il tutto in modo “graduale”
- aiutare il paziente alla “realizzazione” di quello che è successo, affrontando eventualmente il lutto di ciò che non fu e di ciò che avrebbe potuto essere. Ricordiamo che il lavoro in fase 2 comprende idealmente due momenti: la sintesi e, appunto, la realizzazione
Gli autori fanno poi alcuni cenni alla fase 3 e presentano un caso clinico (durato 5 anni, conclusosi con una completa “realizzazione”), concludendo l’articolo con un invito alla gradualità nel lavoro, all’attenzione verso i “limiti” del paziente in termini di attivazione neurofisiologica, e un ritorno ai prima citati concetti guida del lavoro: sintesi e realizzazione.
CONCLUSIONI
Come si osserva in questo articolo, lavorare sui ricordi traumatici significa tenere a mente 3 concetti chiave “da portare a casa”:
- stabilizzare/regolare
- narrare
- integrare
..il che equivale a dire che un’esperienza traumatizzante, per essere superata e “consegnata al passato”, dovrà essere tollerata e meglio regolata nei suoi sintomi psichici e corporei, narrata e infine integrata nel normale flusso di ricordi.
Esistono dei manuali che, della fase 2, fanno il loro core teorico. In particolare, da pochi anni è stato pubblicato un volume molto completo, che consigliamo a chi volesse approfondire gli aspetti squisitamente “pratici” del lavoro sulle memorie traumatiche, quando avesse a che fare con pazienti post traumatizzati. Il volume è questo.
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