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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

Search Results for: tarantismo

30 May 2023

UN RICORDO DI LUIGI CHIRIATTI, STUDIOSO DI TARANTISMO

di Raffaele Avico

Ho avuto il piacere di incontrare Luigi Chiriatti due estati fa, in occasione di un periodo trascorso in Puglia; in quel frangente proposi a Luigi di vederci a casa sua. Mi trovavo in Valle D’Itria, Salento alto, per cui avrei dovuto fare un pezzo di strada in macchina, verso Calimera, suo luogo di residenza.

Avevamo già collaborato in passato soprattutto per una serie di articoli pubblicati su Psychiatry on Line (linkati più avanti) a tema tarantismo, e attraverso un’intervista fatta a distanza in tempi di pandemia, che si può recuperare qui.

Durante la visita a casa sua parlammo di diverse cose, per lo più riguardanti il “problema“ della preservazione della cultura salentina, il neo-tarantismo, il suo passato da “antropologo” incuriosito dai cantori locali (spesso, a detta sua, restii a farsi fotografare o in generale osservare durante i rituali di guarigione). Dopo quel momento, mi mostrò il suo ricco archivio, per fortuna recentemente acquisito dal comune di Melpignano.

Riporto alcune fotografie di quella visita al suo archivio privato in fondo all’articolo.

Luigi Chiriatti è venuto a mancare qualche giorno fa: mi piace ricordarlo riportando qui alcuni dei suoi contributi, qualche link di approfondimento per chi voglia approfondire il suo lavoro di ricerca sul tarantismo.
Va ricordato che Chiriatti è stato tra i fondatori del Canzoniere Grecanico Salentino, fondatore della casa editrice Kurumuny e direttore artistico dell’evento -ormai- internazionale La Notte della Taranta.

Qui alcuni spunti di approfondimento:

  1. Intervista Luigi Chiriatti Youtube
  2. In questa lunga e interessante intervista inviataci dallo stesso Chiriatti, accanto agli aspetti biografici, viene tracciata la storia del movimento di riscoperta delle radici della cultura salentina e del suo folklore, attraverso la creazione di nuclei di lavoro culturale come il Canzoniere Grecanico Salentino, l’Istituto Diego Carpitella e l’evento Notte della Taranta. Parte di quest’intervista confluì all’interno del volume “Interviste sul tarantismo”, scritto da Sergio Torsello. Arricchiscono il testo precisi riferimenti storici a luoghi, attori coinvolti e materiale culturale, per chi volesse approfondire l’argomento: intervista (scritta) a Luigi Chiriatti
  3. Sul tarantismo, di Luigi Chiriatti
  4. Sul tamburello e dintorni, di Luigi Chiriatti

Altro sul tarantismo su questo blog.

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Article by admin / Formazione / psicoterapia, raffaeleavico

7 March 2023

“UN RITMO PER L’ANIMA”, TARANTISMO E DINTORNI


di Raffaele Avico

Il DVD “Un ritmo per l’anima”, curato da Giuliano Capani, mette insieme un documento videofilmato e un libretto con raccolte le trascrizioni delle interviste agli autori coinvolti nel progetto.

Il DVD, della durata di 45’ circa, si apre con una costruzione romanzata di una storia di “tarantismo”, dove vediamo una ragazza salentina alle prese con una serie di problemi connessi alla questione del “morso” della taranta: la ragazza si aggira per un paese dove ogni finestra ha i suoi occhi, e in preda a una sorta di stato di transe, raggiunge il mare e batte, a ritmo, due pietre. Su questa scena compare quindi la voce narrante vera e propria, che racconta il fenomeno del tarantismo dalle sue origini, soffermandosi su come “il rito” fosse visibile in Salento fino alla fine degli anni ’60, e fornendone una descrizione nelle sue diverse fasi.

Già altri autori avevano tentato di scomporre il rituale nel suo svolgersi: dal momento “a terra”, in cui la tarantolata si contorce sul pavimento, passando per un momento di danza vera e propria e di armonizzazione crescente del corpo con la musica, fino al ritorno a terra, segno di un raggiunto stato di quiete.

Qui però si fa riferimento, in particolare, alla questione dello “scazzicare”. Cosa si intende con il termine scazzicare? La voce narrante ci spiega come i musicisti, prima di riuscire ad agganciare emotivamente la tarantata, spaziavano tra diverse sonorità cercando di capire quale fosse la più emotivamente coinvolgente, quella in grado di “toccare” o agganciare in senso emotivo la donna sottoposta al rituale. Il momento del “tocco”, o di aggancio, è il momento in cui la donna viene “scazzicata”, perturbata dal suono. I musicisti, osservando il comportamento della tarantata, adattano e modulano il suono, così da renderlo sempre più attivante e potenzialmente terapeutico, verso un’armonizzazione di tutte le parti (suonatori, tarantata, collettività che guarda), come in una sorta di cerchio terapeutico.

Il documentario prosegue poi con diverse interviste fatte a personaggi in qualche modo riconosciuti per il loro studio a riguardo del fenomeno:

  1. come primo intervistato, il Dr. Giuliano Guerra, medico psicoterapeuta e allora (si parla del 2001) presidente dell’Associazione Italiana di Ipnosi Terapeutica, spiega il suo punto di vista sulla questione: come prima ipotesi, parla di “quadro” isterico, ovvero, sarebbe stato l’elemento coreografico e corale a curare un disturbo conversivo di origine isterica, nel suo senso quindi più classico e in qualche modo teatralizzato; racconta però come, dal suo punto di vista, la questione potrebbe essere anche declinata in un altro modo: la compresenza di uno stato alterato di coscienza (elemento di sfondo) insieme a un certo potere del suono (e di alcune caratteristiche del suono stesso: la sua ritmica ipnotica, la forza del suono del violino), sarebbero dal suo punto di vista in grado di “agganciare” l’”onda vibratoria negativa” che a suo tempo produsse il “male” (la sofferenza psichica). Qui parliamo dunque, a suo dire, di una “potenzialità sciamanica” del suonatore, che entrando in un profondo stato di connessione interiore con il malato, lo guarisce usando un canale di accesso preferenziale, che in questo caso è il suono.
    É chiaro come in questo caso si vadano a mettere in discussione aspetti più complessi inerenti la cura delle turbe psichiche in generale e la loro natura: esistono in molte culture forme di terapia, e nella nostra ne osserviamo allo stesso modo un ritorno, che usano canali “altri” rispetto alla parola, con risultati quasi sempre positivi.
    Come se la sofferenza psichica avesse forma non solo di “discorso“ interiore in qualche modo distorto, ma possedesse una sua peculiare natura anche solamente incarnata, non vincolata alla questione delle parole, ma anzi in grado di prendere forme altre (suoni? immagini? sensazioni?) e in quanto tale fosse appunto curabile attraverso altri canali. Guerra fa infine notare che si tratta qui di una forma di cura del male “sintomatica”, e non risolutiva, tant’è vero che ciclicamente il “morso” ritornava e si doveva riprocedere a un altro rituale.
  2. Altro intervistato, Georges Lapassade, che focalizza la questione sulla questione bioenergetica esplorata da Reich, psicoanalista dissidente che introdusse una visione alternativa di male psichico, ovvero come di “energia bloccata nel corpo”. Tutto questo è molto simile a quello che oggi si fa in psicoterapia sensomotoria tentando di sbloccare “tendenze all’azione” rimaste congelate nel corpo – si veda per esempio il lavoro di Pat Odgen in ambito psicotraumatologico. Il ballo della tarantata, dal suo punto di vista, sarebbe stato in grado di sbloccare questa quota di energia psichica rimasta bloccata, liberandola e fluidificandola.
    Anche qui, teorie formulate in epoche differenti sembrano convergere in una concettualizzazione univoca (“idraulica”) inerente la dinamica della libido/energia psichica/tendenza all’azione. La questione, in fondo, seppur riformulata in termini differenti e in epoche diverse, ruota sempre intorno allo stesso cardine: qualcosa che voleva essere liberato o espresso, e non ha potuto farlo, qualcosa di solido che vuole tornare liquido.
  3. Viene quindi intervistato Antonio Fassina, medico milanese e direttore, al tempo, del centro “Nuove Terapie” a Milano (oggi rinominato Centro di Terapia Naturali), sulla questione relativa al fenomeno del tarantismo in generale: Fassina parla di competenze sciamaniche inconsapevoli possedute dai terapeuti/musici, compiendo un parallelismo tra le terapia del tarantismo e quelle della psicoterapia di oggi: “il paziente libera, lascia sul lettino del terapeuta quello che una volta lasciava sul pavimento della chiesa di Galatina”. Anche qui viene messo in luce il carattere sintomatico della terapia, in fin dei conti provvisorio: non andando a estirpare alla radice il male, questo poi si presentava, come ciclicamente, e quindi andava, nuovamente, bonificato
  4. Viene intervistato poi Tullio Seppilli, professore di Antropologia medica, che fa riferimento ad altre culture dove la danza e la possessione sembrino aver assunto valore o funzione catartica. La differenza forte, spiega Seppilli, è il fatto che per esempio nelle culture afro-americane brasiliane, in cui si ritrovano corrispettivi laici del nostro tarantismo, il fatto di essere “cavalli del dio”, di essere cioè “invasati”, era qualcosa visto positivamente e anzi considerato uno stato speciale di grazia; nello stato invece di transe indotta da una possessione prodotta dal “morso”, la cosa era vissuta con estrema preoccupazione vista la connotazione diabolica del fatto -com’è tipico della religione cristiana. Seppilli colloca nel lavoro di Ernesto Demartino la nascita dell’odierna etnopsichiatria, di fatto riconoscendo all’antropologo italiano ruolo di precursore di una visione più ”ampia” della psichiatria, che abbracci anche la soggettività umana in tutta la sua complessità e natura “sistemica”. Nel 1980 in Canada, a Montreal, venne organizzato un importante convegno chiamato “sciamanesimo ed endorfine”, in cui appunto venne discusso lo stato dell’arte intorno a questi aspetti che riguardavano la connessione tra pratiche di guarigione sciamanica e la psichiatria attuale; il tamburo suonato in modo ritmico -questo uno degli aspetti- è in grado di produrre un rilascio di endorfine con funzione anestetica del dolore psichico, questione appunto centrale se pensiamo a quanto il “tamburello” sia lo strumento cardine di ogni rito di tarantismo.

Altro aspetto messo in luce dal documentario, il parallelismo tra le pratiche di tarantismo e le attuali discipline di meditazione “dinamica”, basate sulla messa in scena del dolore mentale sul teatro del corpo (creazione di uno stato di caos indotto per mezzo di una respirazione volutamente caotica – espressione del dolore per via corporea – riappropriazione dello stato di equilibrio). Anche qui si va idealmente da uno stato di disequilibrio a una condizione di calma, da uno stato di disgregazione a uno stato di integrazione e armonia.
Platone, nel suo simposio, parla della medicina come l’arte umana di cercare equilibrio tra gli opposti, e della musica come di un’invenzione umana che concretizza il mettere insieme l’alto con il basso, il veloce con il lento, il forte con il piano, etc.: strumento dunque elettivo dove si debba eseguire un’operazione di “sintesi” o di riequilibratura di istanze disarmoniche, o di unione di pezzi tra loro scollegati.

Luigi Chiriatti, in uno spezzone del film, racconta di come la pizzica-pizzica come genere musicale, sembri racchiudere in sè un potere liberatorio non solo connesso al contesto salentino: il successo planetario del genere racconterebbe di questo “potere” intrinseco e quindi transculturale (pensiamo al recente successo del Canzoniere Grecanico Salentino negli USA, o al lavoro di recupero di pezzi tradizionali fatto da Ludovico Einaudi nel suo bellissimo Taranta Project).

Insieme a questi intervistati, il documentario Un ritmo per l’anima, importante lavoro di raccolta di testimonianze, vede al suo interno altri noti studiosi sul tema: Caterina Durante -fondatrice teorica del Canzoniere Grecanico Salentino-, Anna Nacci, Daniele Durante (nipote di Caterina Durante e primo tamburellista del Canzoniere Grecanico Salentino) e Mauro Durante, giovane violinista nel film, ora frontman del gruppo co-fondato dal padre.

In sintesi, ciò che emerge dalla visione di questo lavoro e ne definisce l’attualità, è sintetizzabile per punti in due aspetti:

  1. il razionale terapeutico che vuole portare unità dove c’è disgregazione, flessibilità dove c’è rigidità (movente clinico sottoscrivibile da tutte le odierne scuole di pensiero psicoterapeutico)
  2. l’aspetto dello sforzo fisico come strumento di vero risanamento psichico. Nel libretto contenuto nel DVD, viene riportata una testimonianza di Gurdjeff, che scrive: “Per far sì che tutti i centri lavorino nel modo giusto e non si ostacolino tra loro c’è bisogno di un vero sforzo fisico, solo in questo modo si crea la possibilità per l’armonia. Alcune nostre capacità possono essere espresse solo quando sottoponiamo il nostro corpo ad uno sforzo che esige una grande attenzione e un enorme consumo di energia, cioè quando gli sforzi che si fanno sono al limite dell’esaurimento, dandoci così la possibilità di accedere ad un contenitore speciale di energia: il grande accumulatore […]”

Altri documenti relativi al tarantismo, alle sue origini, ai libri che ne parlano, presenti su Psychiatry on Line e su Il Foglio Psichiatrico:

  1. apporti video sul tarantismo parte 1
  2. apporti video sul tarantismo parte 2
  3. intervista a Luigi Chiriatti
  4. “Sul tarantismo”di Luigi Chiriatti
  5. “sul tamburello” di Luigi Chiriatti
  6. “recensione del film “latrodoectus, che morde di nascosto”
  7. recensione di “Il tarantolismo” di Francesco de Raho
  8. immagini del tarantismo: Chiara Samugheo

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10 September 2020

IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo

di Raffaele Avico

Il fenomeno del tarantismo ha storicamente interessato molteplici territori (non solo la Puglia), pur prendendo nomi e forme diverse. Il denominatore comune era la finalità terapeutica dei rituali stessi, incentrati sull’elemento musicale come dispositivo di “regolazione” e di “catarsi”, e sull’elemento sociale (la presenza di osservatori, e il reintegro del “malato” all’interno della sua stessa comunità). Già questo ci dovrebbe far comprendere l’importanza, per la salute mentale, dell’elemento “regolazione emotiva” e dell’elemento “appartenenza”: l’elemento regolazione emotiva come possibilità, per l’individuo, di arrivare a padroneggiare il suo stesso disturbo, l’elemento appartenenza, invece, legato al bisogno profondo di connessione e socialità, anche quando in presenza di un “disturbo mentale”.

Su questi temi, abbiamo intervistato per Psychiatry on line Luigi Chiriatti a proposito di tarantismo e neotarantismo.

Chiriatti, etnomusicologo, è uno dei maggiori esperti italiani del fenomeno, avendo approfondito personalmente il tema in più modi; in rete troviamo un suo breve curriculum:

“Editore e studioso delle tradizioni popolari del Salento. Fondatore della casa editrice Kurumuny, ha inciso con il Canzoniere Grecanico Salentino il disco “Canti di terra d’Otranto e della Grecìa salentina”, ha curato e pubblicato numerosi lavori sul tarantismo, la musica e la cultura popolare salentina tra cui: “Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo salentino” (Capone editore 1995); “Opillopillopiopillopillopà. Viaggio nella musica popolare salentina” (Aramirè 1998). Ha inoltre curato i seguenti volumi: “Luigi Stifani, Io al santo ci credo. Diario di un musico delle tarantate” (Aramirè 2000); “Immagini del tarantismo” (Capone editore 2002); “Osso sottosso sopraosso: storie di santi e di coltelli” (Kurumuny 2004).”

Chiriatti, per il suo lavoro, è stato insignito di molteplici riconoscimenti anche in senso internazionale.

L’intervista si snoda intorno a molteplici punti/domande:

  1. ORIGINE DEL TARANTISMO
  2. COS’É E COME SI SVOLGE IL RITUALE DI TARANTISMO
  3. MORSO VS. RIMORSO VS. RITORNO DEL RIMOSSO
  4. LA FUNZIONE DELL’APPARATO MUSICALE
  5. PAGANESIMO O CATTOLICESIMO?
  6. LA DONNA TARANTATA: COME VENIVA CONSIDERATA IN SOCIETÀ?
  7. LA FASE CONCLUSIVA DEL TARANTISMO
  8. COS’É RIMASTO DEL TARANTISMO? IL NEOTARANTISMO
  9. I LIBRI DI CHIRIATTI, ALTRI RIFERIMENTI BIBLIO E VIDEOGRAFICI

Sempre sul tarantismo, qui.

Qui l’intervista:


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.

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27 August 2020

TARANTISMO: 9 LINK UTILI

di Raffaele Avico

Alcuni documenti relativi al tarantismo, alle sue origini, ai libri che ne parlano, presenti su Psychiatry on Line e su Il Foglio Psichiatrico:

  1. apporti video sul tarantismo parte 1
  2. apporti video sul tarantismo parte 2
  3. intervista a Luigi Chiriatti
  4. recensione del documentario “Un ritmo per l’anima”
  5. “Sul tarantismo”di Luigi Chiriatti
  6. “sul tamburello” di Luigi Chiriatti
  7. “recensione del film “latrodoectus, che morde di nascosto”
  8. recensione di “Il tarantolismo” di Francesco de Raho
  9. immagini del tarantismo: Chiara Samugheo

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26 August 2020

FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza


di Raffaele Avico

Questo volume (la tesi di laurea di un medico Leccese nato nel 1881, Francesco de Raho), rappresenta un efficace tentativo di integrare gli studi sul tarantismo che fino ad allora avevano letto il fenomeno pugliese alla luce del paradigma medico/scientifico ottocentesco, agli studi successivi che vollero invece indagarne gli aspetti antropologico/folkloristici, legati alla cultura della terra del Salento.

Il libro è stato pubblicato nel 1908, e rappresenta di fatto la tesi di laurea del medico De Raho.

Il volume venne ignorato negli anni successivi, per ritornare citato da Ernesto De Martino nel suo La terra del rimorso, opera centrale per chiunque si voglia approcciare a una lettura critica sul fenomeno del tarantismo pugliese. De Martino omaggia De Raho nel suo La terra del rimorso onorando la generazione di cui lo stesso De Raho faceva parte, precedente alla propria, riconoscendone il contributo scientifico.

Il volume va, in primo luogo, contestualizzato entro il periodo storico che lo vide nascere: erano gli anni dell’affermazione della psicoanalisi e di un psichiatria aperta ad aspetti puramente psicologici, incentrata sul concetto di isteria come malattia nervosa più diffusa, e sulla sue cause.

De Raho apre, nel suo lavoro, con un’iniziale disamina sommaria della letteratura sul tarantismo (vecchia, ai suoi tempi, già di 300 anni, essendo i primi documenti scritti a proposito del fenomeno risalenti al 1600). Quindi, entra nel vivo della sua sperimentazione, operando un’indagine sul campo finalizzata a comprendere l’origine del fenomeno del tarantismo pugliese.

Nella seconda parte del volume, infatti, vengono descritti gli esperimenti che lo stesso medico effettuò su diversi animali da laboratorio, in situazioni diverse, per testare l‘effettivo potenziale tossico del veleno del “ragno” pugliese. Fino a quel periodo, infatti, l’origine del male sofferto dalle donne colpite da tarantismo, era attribuito al potenziale nocivo del veleno del ragno.

Diversi aspetti però non tornavano, e questo De Raho lo chiarisce molto bene nel suo lavoro di tesi: come mai le donne sembravano soffrire di tarantismo, solamente in campagna? Come mai inoltre il male sembrava riproporsi in modo ciclico, una volta l’anno?

Gli animali da laboratorio, morsicati molteplici volte da ragni raccolti dallo stesso De Raho (facendo attenzione a raccoglierli senza far sì che il veleno da essi ritenuto si disperdesse, per esempio rovesciando sulla terra una bottiglia di vetro, e spingendo il ragno dentro di essa), sembravano non subire alcun tipo di danno organico, coma a provare l’innocuità del veleno del ragno stesso.

Questi esperimenti erano svolti utilizzando un ragionamento di tipo deduttivo, entro una cornice “scientifica” che avrebbe nell’idea di De Raho “sotterrato” la mole di credenze e pensieri magici raccolti intorno alla figura (simbolica) del morso e intorno alla pratica rituale del tarantismo stesso.

Dimostrata, all’interno della sezione “zootecnica”, la sostanziale innocuità del veleno del ragno, il medico si spinge quindi a una rassegna di casi clinici (molto frequenti e facili da reperire a inizio ‘900, a differenza del periodo in cui De Martino effettuò le sue ricerche, negli anni ’60, quando il fenomeno conosceva già il suo declino), molto numerosa. Vengono riportati 25 casi clinici suddivisi in gruppi differenti a seconda che vi fosse stato o meno il morso “reale” di un ragno; questi casi sarebbero stati successivamente ripresi da De Martino come materiale di studio e citati nel suo La terra del rimorso.

Infine, de Raho si spinge a una valutazione del fenomeno tarantismo, per via medico/psichiatrica, “declassandolo” a forma minore di isteria.

La cosa interessante tuttavia della sua valutazione clinica, è la spiazzante modernità di lettura del fenomeno, usando lo stesso De Raho concetti che all’epoca dovevano essere particolarmente “innovativi”, che tuttavia sono ancora oggi validi e, per certi versi purtroppo, insuperati.

In particolare, De Raho cita gli studi di Pierra Janet a proposito del trauma, da un lato citando l’idea Janetaina di una personalità “divisa” e difficilmente “sintetizzata” ad opera delle funzioni mentali superiori della coscienza (idea che ancora oggi fa da fondo a molte delle teoria psicotraumatologiche più apprezzate), dall’altro osservando in modo molto acuto come il disturbo isterico fosse da ricercarsi laddove ci fosse, a monte, una personalità pronta a riceverlo (sia per una questione di suggestionabilità, che per una problema di fragilità contestuale). Giustamente, De Raho osserva, il fatto che non tutti sviluppassero una forma isterica come il tarantismo, ci dice di come è spesso più importante il “terreno” del “seme”. Anche qui, osserviamo, si sente un’eco janetiana (il disturbo post traumatico si innesta su un terreno di prostrazione psichica preesistente). 
Si spinge poi, il medico leccese, a una valutazione (neuro)fisiologica degli effetti della musica sulla mente dell’individuo, citando i più importanti studiosi dell’epoca, pur in grado di operare spiegazioni insufficienti -che tuttavia ci ricordano di come ancor oggi non tutto sia stato spiegato (per esempio la base neurobiologica di un evento catartico).

La musica, dice De Raho, “squassa simultaneamente tutti i rami e tutte le fronde dell’albero psichico come un vento impetuoso che aggiri il tronco alla base”; potrebbe essere definita come un “trascendente idioma senza parole che scorta sino al lembo dell’infinito”. Il che certamente è vero, ma non spiega il potere curativo della stessa.

È possibile, si chiede l’autore, che la musica eserciti un effetto realmente curativo, al pari di un farmaco, sul veleno iniettato dal ragno, così come sembravano credere i contadini del leccese di inizio ‘900? Pur assumendo che la musica “spinga” lo “spirito del corpo” a portare dei benefici a livello somatico (accertati da molteplici studi che lo stesso De Raho cita), non è possibile per la musica operare in senso terapeutico “al di fuori dei suoi confini”, per esempio facendo ricrescere un arto deputato, oppure guarendo un malato di polmonite. A meno che, ragiona De Raho, lo stesso atto di ascoltare un certo tipo di musica entro un certo tipo di rito socialmente condiviso, da parte di persone dotate di una certa disposizione d’animo, non poggi su un unico elemento centrale: la suggestione nel contesto di un problema “solamente” psicologico -che è poi, come abbiamo visto, la conclusione a cui arriva De Raho pensando al tarantismo, un problema cioè del tutto assimilabile a una forma minore di isteria.

Il volume rappresenta un elemento prezioso della bibliografia sul tarantismo (raccolta in toto da Sergio Torsello), perchè rappresenta una pietra miliare tra i primi lavori che vollero spogliare il tarantismo del suo portato magico/pagano, portandolo sotto lo sguardo della scienza biomedica -così facendo, però, decretandone la scomparsa.

Infine, raccoglie al suo interno le prime 4 fotografie mai apparse di donne tarantate, interessanti poichè mostrano come in passato (presumibilmente prima dei primi anni del ‘900) il rituale di tarantismo si svolgesse con l’aiuto di una corda appesa al soffitto, funzionale ad agevolare i movimenti e il ballo dei soggetti “morsicati”.


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4 May 2020

APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2


di Raffaele Avico

Già qui avevamo scritto a proposito degli apporti video sul tarantismo: esistono molti contributi reperibili in rete che ci possano dare un’idea di cosa significasse nella realtà un rituale di tarantismo, e di come questo potesse svolgersi nelle sue diverse fasi (fase in piedi, fase a terra, etc.).

Nel corso di une recente intervista fatta a Luigi Chiriatti, di prossima pubblicazione (Chiriatti è uno dei più esperti sul tema, autore di molteplici saggi a riguardo del tema -come Morso d’amore, riformulazione della sua tesi di laurea, indagine etnografica sui casi di tarantismo nel Leccese nel periodo compreso tra gli anni ’70 e ’90), Chiriatti ha chiarito l’esistenza di molteplici altri apporti video.

Esiste una tesi fatta da Vanessa Elena Cerutti in cui si può leggere a proposito della documentazione audiovisiva sul tema, qui scaricabile e consultabile per un ulteriore approfondimento.

Per quanto riguarda i video, oltre a quelli segnalati nell’articolo sopra riportato (“apporti video sul tarantismo” parte 1), troviamo:

  1. il documentario video di Morso d’amore (non reperibile in rete al momento)
  2. meloterapia del tarantismo a cura di Diego Carpitella:
  3. il male di San Donato, di Luigi di Gianni:
  4. ritmo ed estasi di Folco Quilici (non reperibile in rete)
  5. Immagini del tarantismo di Benito Dispoto (non reperibile in rete)
  6. Pizzicata, film di Edoardo Winspeare (qui un estratto)
  7. La sposa di San Paolo di Rosaleva
  8. il DVD documentario Latrodoectus, che morde di nascosto, qui recensito
  9. Viaggio a Galatina di Luigi A. Santoro (non reperibile in rete)
  10. va inoltre citato questo lavoro di documentazione audio reperibile sulle teche rai
  11. ragnatele salentine di Giorgio Tupone, qui visualizzabile per intero
  12.  il DVD un ritmo per l’anima, qui recensito

Da ricordare anche il lavoro di compulsazione e assemblamento bibliografico citato dallo stesso Chiriatti fatto da Sergio Torsello nel volume La tela infinita e qui completato sul blog di Venicenzo Santoro.

La tela infinita è al momento la più ampia e completa raccolta di materiale bibliografico presente sul fenomeno tarantismo.

Va citato inoltre il lavoro dei fotografi del tarantismo, in particolare il lavoro di Franco Pinna e di Chiara Samugheo, di cui abbiamo qui scritto.

Altra fonte da citare, il pregevole già citato blog “Vincenzo Santoro; musiche e culture popolari dal Salento al Mediterraneo: approfondimenti, pubblicazioni e iniziative“.

Article by admin / Formazione / psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, raffaeleavico

14 August 2019

IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO

di Raffaele Avico

Il tarantismo affonda le sue radici in forme di ritualità pagane addirittura pre-cristiane; la presenza di una moltitudine di santi a cui chiedere grazia, oltre che alla divinità principale, ci racconta del sopravvivere di un politeismo che il cristianesimo non riuscì a sopprimere ma che anzi, più probabilmente, dovette accogliere. A riguardo dei riti, si racconta di come la stessa Chiesa si ponesse in modo ambiguo e spesso contrario a questo genere di rituali, accogliendo nelle sue chiese lo svolgersi dei rituali stessi, ma discostandosene in senso ideologico. Con la sua riscoperta, bonificato dagli aspetti più morali, assunto a forma folkloristica da preservare e anzi promuovere, il tarantismo è oggi oggetto di fascino e ricerca.

Il lavoro di documentazione viene portato avanti da studiosi appassionati che ne studiano le radici storiche e gli aspetti etno-psichiatrico/medici (come Luigi Chiriatti e Sergio Torsello, insieme a molti altri). Esistono anche molti blog sul tema, curati con attenzione.

Dal punto di vista fotografico, si sono succeduti apporti di assoluto spessore, anche se la quantità di materiale a nostra disposizione è poca. Per un esauriente approfondimento sul tema fotografia etnografica sul tarantismo, questo lavoro è ottimo (PDF in download). Vi si chiarifica come lo stesso DeMartino fosse stato ispirato da una serie di fotografie fatte da un fotografo francese:

“È lo stesso De Martino, dunque, che, nell’introduzione de La terra del rimorso, attribuisce alle immagini di André Martin il merito di aver scatenato in lui l’interesse nei confronti del tarantismo”

In seguito, durante la spedizione del 1959 (da cui originò il libro La terra del rimorso), venne prodotto molto materiale fotografico, tra cui il celebre lavoro di Franco Pinna.

Prima di costoro, nel 1954, una fotografa barese trasferitasi a Milano, Chiara Samugheo, aveva pubblicato su di una rivista dell’epoca, Cinema Nuovo, un “foto-documentario” su un rituale di taranta, ritratto nel suo divenire narrativo, primo vero contributo fotografico divulgato in tutta Italia a proposito di questo tipo di fenomeno.

Le foto di Carla Samugheo, qui in seguito riprodotte, antecedenti a quelle prodotte da Franco Pinna, furono di grande ispirazione per lo stesso De Martino.

Per una rassegna esaustiva di tutte le immagini presenti sul tarantismo a eccezione di quelle di Franco Pinna, esiste un libro dedicato curato da Luigi Chiriatti e Maurizio Nocera, dal titolo “Immagini del tarantismo“.

Per quanto riguarda la documentazione video a proposito del tarantismo, qui è presente una catalogazione dei contenuti più importanti da consultare o vedere.

Ecco le fotografie di Chiara Samugheo:

  [Read more…]

Article by admin / Aggiornamento / neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, recensioni

19 March 2019

TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA?

di Raffaele Avico

Il rituale della taranta prevedeva che una donna (ma in casi rari anche un uomo) “pizzicata” dal morso di un ragno, dovesse sottoporsi a un rituale di danza e musica al fine di epurare il male contratto a seguito del morso. Questo rituale avveniva per mezzo di una sessione musicale in cui strumenti centrali erano il tamburello e il violino, e come strumento secondario la chitarra.
Nel rito tradizionale, la donna veniva prima sottoposta a una fase iniziale in cui necessitava di essere scazzicata, cioè toccata, smossa dal suono: questo processo iniziale poteva durare parecchio tempo finchè non si fosse trovato il particolare mix di suoni in grado di smuovere il corpo, a terra, della donna. In qualche modo è come se gli strumenti e la donna si accordassero tra loro: avvenuto il “tuning”, poteva cominciare il rituale estenuante di musica e ballo forsennato, fino a una risoluzione prostrata del rito con la donna a terra, esausta ma “guarita”. Alcuni rituali potevano arrivare a giorni interi di musica e ballo.

Cosa connette questo tipo di pratica rituale e terapeutica a ciò che oggi viene studiato a proposito della psicoterapia dei traumi? Molto, soprattutto se pensiamo alla recente riscoperta del corpo e del suo utilizzo in psicoterapia. Peter Levine in primis, insieme a Pat Odgen con la sua psicoterapia sensomotoria, ci raccontano di uno stress post traumatico precipitato in forma corporea, quindi di origine psichica ma grandemente osservabile nelle sue ripercussioni somatiche. Il PTSD è una sorta di disturbo della memorizzazione con forti implicazioni in termini corporei. Laddove non si riesca a lavorare direttamente sulla memoria, un approccio corporeo consente di “scaricare” il corpo da quelle che Pat Odgen racconta essere le “tendenze all’azione” inespresse, e che Peter Levine descrive come “emotività” imprigionata nel corpo, riferendosi in particolare ad emozioni primarie e forti, tipiche di eventi estremi, come la rabbia e la paura.

IMMOBILITÀ + PAURA

Uno dei concetti chiave per capire la concettualizzazione del trauma di Peter Levine, è il connubio che Levine postula tra immobilità e paura. Non c’è trauma senza entrambi questi aspetti: il trauma si produce perchè la persona è intrappolata in un’immobilità terrifica: in psicoterapia occorre districare questo nodo, separare la paura dall’immobilità per mezzo, Levine sostiene, anche del corpo. Qualsiasi forma di movimento quindi che produca un “riattivarsi” del corpo, nell’idea di una risoluzione teleonomicamente corretta di ciò che nel contesto dell’evento traumatico fu bloccato, è in questo senso terapeutica. Spesso l’immobilità terrorizzata del paziente vittima di un trauma, blocca ogni tentativo di attacco/fuga (la risposta naturale di un animale spaventato da un predatore): prescrivere al paziente di integrare alla psicoterapia un’attività fisica smobilizzante, come la corsa, un’arte marziale, si fonda sul razionale clinico di “scaricare il corpo”, sciogliendo il nodo paura/immobilità, verso un duplice obiettivo:

  • portare a compimento le tendenze all’azione rimaste bloccate quando il trauma si originò (gli animali si scuotono, o utilizzano un tipo di tremore neurogeno, come qui approfondito)
  • promuovere senso di maggiore controllo sulle attivazioni neurofisiologiche procurate dalla memoria del trauma (il ricordo del trauma si affaccia alla coscienza riverberando sul corpo attraverso un insieme di sintomi molto fisici, come tachicardia, sudore freddo, senso di non essere radicati a terra).

Il ballo, e probabilmente anche il ballo della tarantolata, si colloca entro questa tipologia di strumento clinico.

La fase di ricerca del suono che “scazzica” è interessante perchè ci racconta di una tonalità musicale da accordare a un qualcosa di interiore, rimasto bloccato, il che è facile da comprendere se pensiamo a un brano musicale che sappia emozionarci anche senza l’uso di parole: il linguaggio emotivo usa canali più complessi di quello solamente linguistico, altrimenti non avrebbe senso l’arte in generale: alcune forme di percetto non linguistico, ci riescono ad agganciare emotivamente, come in modo pre-cognitivo, intuitivo, o pre-verbale.

La fase della ricerca del giusto “suono” va quindi interpretata come un momento di “ascolto” o di sintonizzazione allo stato psichico della pizzicata, seguendo un canale pre-verbale, o meglio, a-verbale. Da lì, il rituale del tarantismo veniva condotto a esaurirsi per mezzo di una ripetizione ritmica, tribale, di un pattern tendenzialmente sempre uguale di testo e linee musicali.

Quindi: fase 1: ascolto/sintonizzazione; fase 2: ripetizione/epurazione. Come se prendessimo un passaggio di un brano che ci emoziona particolarmente, lo mettessimo in repeat continuo, fino a piangerne, e poi smettessimo di sentirlo quando avesse perso il suo “potere” curativo. Il che probabilmente è un modo di auto-curarsi molto diffuso e sottoscrivibile. Questo, ma elevato al quadrato, con tempi e modi più intensi, è un rituale di tarantismo, anch’esso costruito al fine di “sciogliere” e “indirizzare a un compimento” emozioni complesse, rimaste in forma “solida” all’interno dell’individuo, come un nodo che venga disciolto.

La letteratura sul tarantismo, come ho già scritto qui: http://www.psychiatryonline.it/node/7720, racconta di storie individuali, quelle delle tarantolate, costellate non solamente da problemi post-traumatici, ma anche da questioni più tradizionalmente nevrotiche (come sensi di colpa arrivati a divenire sindrome isterica, vissuti di indegnità, conflitti di coscienza maturati in seno a una cultura patriarcale, maschilista e sostanzialmente retrograda, animata da credenze pagane e superstizioni antiche e difficili a morire): in questo caso il ballo, la cura, aveva sempre la funzione di “espettorare” il male per via di un rito eseguito all’interno di una comunità coesa. È ipotizzabile che il rituale fosse messo in atto al di là di quale fosse la causa prima del “disturbo” della donna colpita dal morso, per il quale veniva dunque messo in campo lo strumento “corporeo”, laddove gli “altri guaritori” (medico e prete, sostanzialmente) avevano fallito.

Sul tema tarantismo, troverete approfondimenti mirati e di qualità cercando la parola “tarantismo” su Psychiatry On Line.

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6 April 2023

Laetrodectus, che morde di nascosto


di Raffaele Avico

Il documentario video “Laetrodectus, che morde di nascosto“ traccia un percorso di esplorazione sul fenomeno del tarantismo usando alcune figure professionali che tentano di profilare le origini e la natura del fenomeno e del suo surrogato odierno, rivoltato in chiave “commerciale” (l’interesse attuale per il neotarantismo e la pizzica, il gran numero di gruppi che la suonano).

L’opera di Jeremie Basset e Irene Gurrado, con le musiche originali di Ruggiero Inchingolo, uscita nel 2009, è stata girata tra Francia e Italia.

Viene intervistata la figlia del maestro Stifani, il “dottore delle tarantate”, che contò molteplici riti di taranta eseguiti con il suo violino, Ruggiero Inchingolo, un musicologo già allievo del prima citato Stifani, Gino Dimitri, uno storico ed esperto di tarantismo, e George Lapassade, sociologo di Parigi scomparso nel 2008 e studioso del fenomeno.

Vengono messi in luce diversi aspetti:

stati dissociativi patologici|normale dissociazione|stati mistici/realizzazione

  1. Quello che Lapassade osserva, è che il fenomeno cosiddetto di neotarantismo, diviene uno scimmiottamento attuale del rituale antico, svuotato del suo significato originale, autenticamente terapeutico
  2. In senso storico, con l’intervento di Gino Dimitri viene tracciato un breve affresco di quello che sembra essere stato il decorso del fenomeno del tarantismo, a partire dagli antichi riti pagani di origine romana e ancor prima, presumibilmente, greca (a questo proposito è da notare che qualche anno fa a Lecce e Melpignano fu stata allestita una mostra, divisa in due spazi, sulle “menadi danzanti”, ancelle devote al dio Dioniso secondo la mitologia greca- che voleva riprendere il tema della mousikè technè — intesa come unione di suoni, canto, danza e recitazione — usata in senso catartico e quindi connessa al fenomeno attuale del tarantismo). Lo storico parla del tarantismo come di un “relitto” dei rituali pagani pre-cristiani, oggi paradossalmente assunto a segno distintivo del territorio e occasione di festa. Fino a 40 anni fa, è presumibile che il tarantismo fosse ancora collegato a una condizione di malessere e povertà culturale, soprattutto per quanto riguarda lo stato della donna, costretta nei vincoli di una società patriarcale e povera, senza prospettive.
  3. Inizialmente, la credenza effettiva, reale, a proposito della nocività del morso del ragno, sembrava molto radicata nella popolazione: solo successivamente la questione sull’origine del “problema” della tarantolata venne trasposta in senso psicopatologico o almeno “socio-culturale”. Quello che Gino Dimitri fa notare è che inizialmente si credeva davvero al bisogno del ballo come cura per il veleno dei ragni nascosti nelle campagne del Salento (in particolare appunto da parte del ragno Latrodoectus, anche detto Vedova Nera): la questione venne poi allargata e medicalizzata, con l’avvento della psichiatria; esiste un’epoca di passaggio in cui al rituale di cura per le tarantate, si affiancarono gli internamenti in manicomio per coloro che sembravano soffrire di patologie nervose o di possessione
  4. Per mezzo dell’intervento dell’etnomusicologo Ruggiero Inchingolo, viene posta l’attenzione sull’effetto della musica suonata durante i rituali terapeutici. Viene illustrato come il suono ritmico, terzinato, del tamburo, pareva avere un effetto di induzione di transe sui soggetti colpiti dal “morso”, considerando che spesso le sessioni rituali avevano una durata molto lunga, anche giorni. Insieme al suono del tamburo, lo strumento melodicamente principale era il violino, in particolare suonato su toni molto acuti (il rumore del “pizzico” dell’archetto sulle corde, simile a uno sfregamento, pareva avere un forte potere attivante verso il soggetto sottoposto al rituale). Tamburo e violino, insieme, producevano un intensificarsi dell’effetto di “aggancio” della tarantata, condotta per mezzo della musica verso la liberazione dal dolore.
    Di seguito potete visualizzare il contributo di Inchingolo.

Un aspetto che durante la visione del documentario sembra ritornare, è infine il significato del “morso”, da interpretarsi come “passato che ritorna” — un qualche senso di colpa interiorizzato che necessita, periodicamente, di essere risolto e evacuato, oppure un qualche conflitto irrisolto che necessita di un suo luogo di “recitazione”/drammatizzazione.

Qui per aggregare altro (su questo blog) a tema “tarantismo”.


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14 February 2022

PLACEBO E DOLORE: IL POTERE DELLA MENTE (da un articolo di Fabrizio Benedetti)

di Raffaele Avico

La ricerca sull’effetto placebo sta dando risultato interessanti: rappresenta un’evidenza scientifica di come la nostra rappresentazione degli eventi, possa interferire con il nostro benessere soggettivo. Esiste il piano della realtà concreta, al di fuori di noi, e la rappresentazione che ce ne facciamo.

Gli studi sul placebo vanno inseriti nel discorso più ampio relativo agli studi sul dolore. Il dolore, come evidenzia questo articolo, è una sensazione anche soggettiva, costruita dalla mente di chi lo prova, e non è una somma delle informazioni solamente nervose: ci sono elementi contestuali e relazionali che inquinano la mera trasmissione per via nervosa. Cosa significa questo? É stato dimostrato, come ben espresso nell’articolo citato, che un ambiente di cura adeguato, e una buona relazione con il curante, intervengono a potenziare gli effetti della cura farmacologica.

Viene data una spiegazione doppia rispetto a come funziona l’effetto placebo in relazione al dolore:

  1. la prima ragione è connessa al meccanismo di apprendimento classico: dato che abbiamo imparato che un determinato farmaco funziona e ci fa stare meglio, assumere il placebo di quel farmaco conduce al rilascio delle stesse sostanze analgesiche che il cervello avrebbe rilasciato in concomitanza con l’assunzione del farmaco vero. In questo modo, la sensazione di dolore cala senza un intervento diretto del farmaco, ma solo grazie a ciò che noi presupponiamo ci gioverà, e questo perché il nostro cervello ricorda un effetto benefico “antico”. Un esempio di condizionamento classico è l’aumento della salivazione prima di un pasto di cui ricordiamo le particolari proprietà (il nostro cervello anticipa il piacere prodotto dal pasto, innescando il riflesso della salivazione prima che il pasto sia effettivamente consumato). Questo meccanismo è definito “inconscio”, nel senso che avviene al di sotto del ragionamento cosciente.
  2. La seconda spiegazione riguarda le aspettative che il paziente fa a proposito di una determinata cura (questo ha portato Fabrizio Benedetti, professore ordinario di neurofisiologia e fisiologia umana all’Università di Torino -considerato uno dei maggiori esperti di effetto placebo al mondo-, a parlare di effetto placebo non solo a proposito della medicina classica, ma anche a riguardo dei percorsi di psicoterapia). Questo è un meccanismo definito “conscio”: osservare un buon arredamento nello studio di un medico o di un terapeuta, un’attrezzatura rassicurante, intrattenere un buon rapporto con il curante, aumentano l’efficacia della cura stessa. Sono fattori “contestuali” che tuttavia hanno un grande peso nella riuscita della cura: si presume che fino a poche centinaia di anni fa la maggior parte delle terapie fossero interamente costruite sul “ contesto”, e che fosse più il “rituale” a guarire, che non il farmaco (come raccontano gli studi di etno-psichiatria e antropologia medica, per esempio in relazione al fenomeno ormai scomparso del tarantismo in sud Italia)

Tutto questo significa che la cura non passa solamente da ciò che assumiamo, ma anche dal modo in cui rappresentiamo il farmaco o la relazione di cura (i fattori di contesto). In questo senso, se è vero l’effetto positivo connesso al placebo, è dimostrato anche l’effetto contrario (effetto nocebo): anticipare un effetto avverso di un farmaco, lo produrrà con più probabilità che non in caso di approccio “fiducioso”, così come non fidarsi del -ed affidarsi al- proprio medico andrà a sventaggio della cura. Ulteriore aspetto da considerare, è il fatto che alcuni soggetti sembrano rispondere meglio ai farmaci placebo, a partire da caratteristiche di personalità. Come dire che chi riesce (per storia personale, temperamento o altri fattori soggettivi) a fidarsi, e ad affidarsi, ha più probabilità di essere aiutato.

Per approfondire, oppure altro sul placebo su questo blog.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

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21 February 2021

IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1)

di Raffaele Avico


INTRODUZIONE

In un essere umano sano, un’esperienza traumatica ha il potere di creare uno spartiacque esperienziale in grado di creare un “prima” e un “dopo” l’esperienza traumatica stessa. Nel resoconto che un individuo post-traumatizzato farà della sua esperienza, il trauma occuperà un posto di primo piano nella scena drammatizzata del suo percorso di vita, come uno degli eventi più importanti e difficili da dimenticare. Con il tempo, l’evento traumatico assumerà, nel ricordo, colori più sbiaditi, ma non per questo i contorni del suo ricordo saranno meno acuminati o taglienti; l’impatto che avrà il suo ricordarlo, saprà sopravvivere al tempo, come se questo, appunto, non fosse mai passato.

Una delle caratteristiche centrali di un evento traumatico, è la non elaborabilità in termini mnestici.

La sindrome post-traumatica, per questo motivo, è stata più volte definita come una patologia della memoria.

Sembrerebbe cioè che il problema centrale del periodo post-traumatico, sia la difficoltà per il soggetto di lasciare andare questo ricordo nel passato, confinandolo a un tempo ormai trascorso. Il ricordo del trauma permane nella mente di un individuo in modo monolitico, pur tuttavia attivo nei suoi effetti: ogni volta che si presenterà alla coscienza sotto forma di ricordo, i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, costituendosi in una sindrome ben conosciuta e studiata nell’uomo, chiamato Disturbo da Stress Post Traumatico, in inglese sintetizzato nell’acronimo PTSD. Il PTSD è stato studiato diffusamente a partire dalla Prima Guerra Mondiale: viene al giorno d’oggi studiato in relazione a qualunque evento sia in grado di impattare in modo traumatico, appunto, sulla vita di un individuo.

Per capire se un evento abbia avuto un impatto di natura traumatica, occorre prestare attenzione ai segni e sintomi che un PTSD porta con sè; centrali sono in questo la presenza di un senso di disregolazione emotiva al ricordo dell’evento traumatico (che potremo scambiare per paura panica, in realtà però meno intensa, ma in grado di alterare lo stato neurofisiologico di un individuo in modo intenso), la fobia degli stati mentali collegati al suo ricordo, la possibile presenza di sintomi dissociativi più o meno gravi.

L’uomo pare incistarsi nel suo lavoro di tentata elaborazione del trauma, con scarsi risultati: l’associazione istantanea ricordo+disregolazione sembra invincibile per molto tempo. Alcuni strumenti clinici usati in questi casi, come l’EMDR, tentano un approccio differente al problema, per così dire aggirando il ricordo diretto dell’evento, per via di un intervento che potremmo definire bottom-up, non focalizzato direttamente cioè sulla memoria dell’evento, ma sulle sue ripercussioni somatiche.

Per quanto riguardo l’uomo, sono stati osservati traumi di diversa natura, e con un differente impatto sulla mente: generalmente, però, distinguiamo i traumi unici e potenti, dai traumi subdoli e continuativi, vissuti spesso nel contesto di un attaccamento problematico con le figure di riferimento. Un’ulteriore distinzione che viene fatta a riguardo della natura dei traumi, riguarda la questione identitaria. Abbiamo cioè traumi definiti interni all’identità, e traumi esterni all’identità. Se immaginiamo un bambino intrattenere un rapporto problematico con una figura di attaccamento violenta, per esempio, ci verrà facile immaginare quanto l’intera identità dell’individuo, verrà in seguito modellata a partire da quel difficile rapporto iniziale, durato per ragioni di sopravvivenza del bambino stesso, molto a lungo. Il trauma ha, in un certo senso, un impatto sempre identitario: con esso, la vita dell’individuo, cambia. Tuttavia, esisteranno differenti gradi di modellamento dell’identità dell’individuo a partire dalla differente tipologia di evento traumatico, come prima sottolineato.

All’interno di questo filone di articoli a tema “trauma negli animali”, ci occuperemo di traumi singoli e unici.

Non verranno cioè presi in considerazione traumi cumulativi, protratti, e in grado di alterare l’identità di un individuo nel contesto di un disturbo da attaccamento. Questo perché, come è chiaro dal titolo, questo vuole essere un approfondimento sulla natura più naturale dell’impatto del trauma sul corpo e sulla mente, questa volta in ambito animale.

La teoria psicotraumatologica riguardante l’essere umano, ci servirà come base per esplorare quali sono le conseguenze di una trauma nel mondo animale; l’obiettivo sarà tuttavia, a partire dalle constatazione che da queste osservazioni arriveranno, comprendere ancora una volta, e possibilmente meglio, come l’uomo fuoriesca e gestisca un evento traumatico.

Uno degli aspetti più problematici del lavoro sul trauma nell’uomo, consta del problema dell’elaborazione mnestica del ricordo traumatico, che permane per molto, spesso moltissimo tempo nella memoria del soggetto.

Per questo, il PTSD è stato definito come una patologia della memoria, ponendo appunto l’accento sulla sua difficile digestione in termini di memoria. I potenti strumenti di apprendimento messi a disposizione dell’uomo dall’evoluzione, sembrano ritorcersi contro di lui/lei contribuendo a far sì che per lungo tempo non riesca a dimenticare il trauma, adattando la sua vita all’emergere del ricordo traumatico.

Per questo, possiamo definire il PTSD come una forma di condizionamento esasperato e disfunzionale.

Differenti autori hanno osservato come gli animali sembrino possedere strumenti differenti per far fronte a un PTSD, oppure al contrario riescano a gestire l’elaborazione di un ricordo traumatico per via dell’assenza di alcune strutture “ingombranti” invece possedute dall’uomo.

In questa serie di articoli verrà tentato un lavoro di comparazione tra le risposte post-traumatiche osservate sia nell’uomo che negli animali (in particolare cercando di fare una rilevazione della letteratura che, in ambito animale, si è occupata di trauma), al fine di arrivare a una lettura il più possibile “naturalistica”, per così dire, del PTSD nell’uomo.

Osservando più in profondità lo sviluppo della risposta post-traumatica in un animale, può essere più semplice per l’uomo rispecchiarsi in esso, tentando di rispondere alla domanda centrale di questo filone di articoli, riguardante in definitiva il perchè di una così diversa durata dello stress post-traumatico da animale, appunto, all’uomo.

Per comprendere come venga studiato il trauma negli animali, dobbiamo cercare di addentrarci nella letteratura specialistica, a cavallo tra studi di etologia animale, etologia trasposta all’essere umano, neurobiologia (come funziona nel dettaglio il sistema nervoso di un animale colpito da trauma, cosa che in teoria potrebbe illuminare ciò che succede nell’uomo), e in generale all’interno di quell’enorme contenitore colmo di lavori scientifici che cercano di creare un “modello animale” del PTSD, così da facilitarne, appunto, lo studio nell’uomo.

Troviamo a questo proposito molteplici studi, che tra l’altro potrebbero porre alcuni quesiti etici: maltrattare un animale a fini di ricerca (quello che viene fatto con gli animali, di fatto, sottoponendoli a shock termici, deprivazione sociale, violenza fisica), potrebbe da un lato aiutarci a capire meglio le nostre stesse reazioni, dall’altro metterci di fronte alla sostanziale brutalità dei metodi di ricerca. Non sembra però al momento esserci alternativa, vista la necessità sostanziale di osservare animali vivi sopravvissuti a un trauma, ed essendo necessario applicare a questi alcuni requisiti basali di ricerca quantitativa, per esempio la numerosità del campione, cosa che obbliga i ricercatori a “produrre” animali traumatizzati in modo artificioso/non naturale.

Diversi studi, dicevamo, hanno formulato un parallelismo tra il comportamento animale e quello umano: l’idea di fondo sembra essere connessa alla possibilità di meglio capire il comportamento umano a partire da quello animale. Il che è avvenuto, se pensiamo per esempio alla letteratura psicotraumatologica recente. Quando uno psicotraumatologo osserva un paziente in una condizione di alterazione neurofisiologica, di iper-arousal, la sua mente va a spiegare l’evento partendo da alcune griglie teoriche per lo più etologiche, del tutto simili a quelle che un etologo appunto userebbe per descrivere un cane pietrificato dalla paura improvvisamente illuminato da due fari di auto, nella notte. Osserverà cioè un comportamento umano leggendolo usando un filtro etologico, naturalistico, come farebbe appunto con un animale. Questo perchè esistono alcuni meccanismi, definiti “paleopsicologici”, che ci accomunano agli animali dotati di un sufficientemente evoluto sistema nervoso, tali da produrre in noi reazioni animalesche, pre-razionali, di fatto istintuali.

Cosa ci distingue, però, dagli animali sopravvissuti a un trauma? Alcuni hanno sostenuto che quello che veramente rende unico il PTSD umano, sembrano essere le tempistiche del suo sviluppo e soprattutto del suo mantenersi. Il PTSD umano si mantiene per tempi lunghissimi, arrivando a modellare in modo durevole il comportamento e la vita in generale dell’individuo. Gli animali al contrario riuscirebbero prima degli uomini a fuoriuscire da uno stress post traumatico, per via di alcuni meccanismi naturali di dissipazione corporea del trauma.

A proposito di questo, dobbiamo fare riferimento al concetto di abreazione e a quello di dissipazione.

La parole abreazione è un neologismo coniato per esprimere il senso di “lasciare andare”, evacuare per via corporea, un malessere di origine psicologica. Veniva usata, e viene usata, soprattutto in ambito psicoanalitico, per descrivere appunto il senso di “sfogare per via corporea” dopo aver portato alla “soglia della coscienza” del materiale psicologico rimosso, fino a quel momento inaccessibile alla coscienza.  Una crisi di nervi violenta, un corpo che si tende allo spasmo arcuandosi -come succedeva nella pazienti isteriche “classiche”-, sono esempi di tentativi di abreazione. Abreagire non vuol dire somatizzare: prevede un intervento più totale del corpo, incarnando il corpo stesso, in un momento definito, il malessere psichico portato dall’individuo, rivolto però verso l’”esterno”, verso il fuori.

Possiamo parlare di abreazione anche negli animali?

Se originariamente il termine abreazione indicava un evento di natura per lo più corporea (il fenomeno del tarantismo, le grandi crisi di agitazione durante un rituale sostenuto da una collettività osservante, potrebbe essere un altro esempio di abreazione), questo pareva essere giustificato da quello che -sempre psicoanaliticamente- potremmo chiamare “ritorno del rimosso”. Gli stessi precursori nella studi sull’isteria classica, osservavano come le isteriche sembrassero soffrire a causa del riaffiorare di “reminiscenze” -ricordi rimossi di origine traumatica.

Se ci spostiamo in ambito animale, si pongono ovvi problemi di ordine metodologico, non potendo accedere ad alcun tipo di comunicazione diretta inerente la mente di alcun tipo di animale, essendo noi costretti a bypassare i contenuti mentali dell’animale da noi osservato, per ragionare in termini di output e input. Per questo, sembra naturale osservare l’impossibilità di usare lo stesso termine -abreazione- per descrivere il fenomeno dell’evacuazione del “vissuto traumatico” per via corporea: è più appropriato in questo caso usare il termine dissipazione.

Il fatto che un vissuto post traumatico venga dissipato per via corporea, è stato osservato su diversi animali, con modalità differenti.

Ma come viene studiato, negli animali, il trauma, e con quali metodi?

Cerchiamo di addentrarci all’interno della questione dei “modelli animali”.

Può sembrare naturale che gli animali vengano studiati per comprendere alcuni meccanismi umani, ma questo approccio di base reca con sè una serie di assunti di fondamentale importanza scientifica, che potremmo riassumere in alcuni punti:

  • se studiamo gli animali, è perché assumiamo che alcuni meccanismi neurobiologici siano sostanzialmente sovrapponibili ai meccanismi neurobiologici umani (per esempio, riteniamo sostanzialmente sovrapponibili i meccanismi neurobiologici dei topi ai meccanismi paleopsicologici umani -pensiamo per esempio l’enorme mole di studi che sono stati condotti e vengono tuttora condotti sul tema addiction/gratificazione). Naturalmente questo lo riteniamo vero con alcuni tipi di animali: vedremo successivamente come esistano delle differenze neuroanatomiche specifiche, che ci porteranno a ulteriori riflessioni in merito.
  • se studiamo gli animali, è perchè siamo in grado di rappresentare la nostra specie come composta da “animali”, con le stesse proprietà di altri animali dotati di sistema nervoso; implicitamente, inoltre, in questo modo sottolineiamo come alcuni dei comportamenti umani siano figli di meccanismi neurobiologici non mediati da libero arbitrio, e non velleitari; questo punto ci fa inoltre riflettere su quando una parte della ricerca in ambito psichiatrico/psicologico porti con sè una visione del comportamento umano per lo più “biologista”. Questa visione implica che l’uomo sia figlio dei suoi stessi meccanismi biologici, almeno per alcuni tipi di comportamento (quelli per esempio che più ci rendono simili agli animali, mediati da zone profonde e antiche del cervello)

UN ARTICOLO INTRODUTTIVO (da Nature)

In questo articolo pubblicato su Nature, troviamo alcune considerazioni importanti a riguardo dello studio del PTSD negli animali.

Viene fatta una rassegna di quelli che sono i principali sintomi del PTSD, divisi per cluster, nell’uomo, interrogando il lettore con una semplice domanda: quali sono i sintomi misurabili in senso empirico, del PTSD, nel topo?

Ne risulta una breve rassegna su cosa sia indagabile e cosa no, arrivando a concludere che l’unico sintomo realmente non misurabile, per ovvie ragioni, è la presenza di pensieri intrusivi.

É forse utile fare un brevissimo riassunto di come il DSM 5 raggruppi i sintomi da PTSD. Sappiamo che i sintomi del post trauma sono divisibili in 4 cluster:

  1. Riesperienza
  2. Evitamento
  3. Cognizioni negative
  4. Iper-arousal e iperestesia

Sappiamo cioè che un evento traumatico tende a essere rivissuto in modo acceso per via di coinvolgenti flashback vissuti dal “sopravvissuto”, a causa dei quali lo stesso tenderà a evitare alcuni luoghi/situazioni. Inoltre, sappiamo che lo stress post traumatico tende a generare nell’individuo un senso di negatività auto-diretta, relativa a sè, attraverso quelle che vengono chiamate “cognizioni negative”. Infine, come a contorno di tutto questo, osserviamo come nel PTSD il livello di attivazione generale del sistema nervoso autonomo (l’arousal), sia costantemente sbilanciato verso l’alto, con tutto ciò che ne deriva: in particolare, un livello costante di iper-arousal conduce all’iper-estesia, cioè a una percezione anomala e amplificata di alcuni aspetti dell’esperienza sensoriale (come sentire i rumori, o alcuni rumori, in modo troppo acceso, o interpretare alcuni aspetti dell’esperienza in modo minaccioso/distorto).

Per quanto riguarda la ricerca nel topo, come si diceva, i pensieri intrusivi, la riesperienza e i flashback non sono indagabili, per l’impossibilità di accedere all’esperienza rappresentata -mentale- del topo stesso; l’evitamento è tuttavia facilmente osservabile, di fronte a possibili trigger che rievochino nella mente del topo l’evento traumatico; per quanto riguarda le cognizioni negative, i ricercatori sostengono di riuscire a inferire la presenza di cognizioni negative attraverso test inerenti la motivazione, la preferenza sociale e il test della “preferenza edonica”; per quanto riguarda invece lo stato di attivazione neurofisiologica del topo (arousal), viene osservato come esistano molteplici strumenti di rilevazione del livello di arousal; infine, osservano che, così come accade per l’uomo, per poter attribuire al topo il vivere una condizione di post trauma, debba essere passato un certo lasso di tempo (non necessariamente un mese), così da escludere l’ipotesi che il topo studiato non stia vivendo semplicemente una condizione di post trauma acuta e strettamente contestuale.

Torniamo all’articolo su Nature. Gli autori si pongono alcuni domande:

  1. Come costruire un buon modello animale (per meglio capire il PTSD nell’uomo)?
  2. Come poter asserire che il PTSD in un uomo si comporta allo stesso modo, in un topo?

Gli autori elencano alcuni aspetti inerenti la neurobiologia del PTSD, compresi gli aspetti più profondi, genetici, cercando parallelismi nel topo. Si domandano infatti se il trovare distorsioni in alcuni meccanismi neurobiologici conseguenti al PTSD, sia negli animali che nell’uomo, non sia segno di una prova provata dell’intervento di quello stesso meccanismo nell’insorgere di un PTSD.

Qui, riassunti, tutti i parallelismi.

Sempre su questa linea, osservano anche come per costruire un buon modello animale del PTSD, si possa passare per via farmacologica: se uno stesso farmaco ottiene stessi risultati, benefici, sul PTSD di un animale e di un uomo, potremo trarne che i meccanismi sui cui il farmaco agisce, sono perlomeno simili. Il problema, osservano gli autori, è che non esiste un approccio farmacologico gold-standard, come altrove abbiamo osservato.

Che fare, dunque? Gli autori intendono proporre una nuova linea di ricerca. Come premessa, osservano che:

  • generalmente, il PTSD negli animali è studiato a partire dal tipo di trauma, sottoponendo gli animali (in questo caso, il topo) a differenti tipi di stress. Qui una rassegna completa delle tipologie di traumi costruiti artificialmente per il topo.
  • Uno dei paradigmi più studiati, è il paradigma della risposta condizionata alla paura. Seguendo questo tipo di ragionamento, il PTSD sarebbe da considerarsi una forma distorta e grave di condizionamento primario, un apprendimento pavloviano in piena regola. Ne abbiamo scritto altrove quando abbiamo parlato del PTSD come di un “apprendimento a prova singola”, teoria proposta anche da Stephen Porges

Continuando nella lettura dell’articolo, notiamo come uno degli aspetti più difficili nella costruzione di un modello animale per il trauma, sia il replicare gli eventi traumatici all’interno della vita dell’animale.

Come si è visto e qui troviamo riassunto, esistono molteplici vie che ci consentono di ricreare un trauma in un animale.

Il punto, al di là del tipo di trauma ricreato in laboratorio, è ragionare sul perché applicare un certo tipo di stimolo a quel particolare animale, e in che modo.

L’aspetto più importante su cui riflettono gli autori, è senza dubbio il tema della risposta condizionata alla paura.

Anche qui, vediamo come lo stress post traumatico venga interpretato come una forma estrema e prolungata di condizionamento, tanto forte e duraturo da modellare la vita dell’individuo in più modi.

Ovviamente, ragionano gli autori, questa visione assume che il meccanismo di fondo per lo sviluppo del PTSD sia un meccanismo di condizionamento, cioè di apprendimento: questa cosa non è scontata e andrebbe tenuta in “forse”.

COME DIAGNOSTICARE CORRETTAMENTE PTSD NEGLI ANIMALI DA LABORATORIO?

Procedendo nella disamina su “come stressare” in modo eticamente corretto e alla stesso tempo utile a generare nell’animale una riposta post traumatica, gli autori si pongono alcune questioni importanti; in sequenza:

  1. sulla popolazione umana colpita da trauma, solo il 10% sviluppa PTSD
  2. in questo senso, “procurare” una trauma a un animale, potrebbe non essere sufficiente affinché questo sviluppi uno stress post traumatico
  3. come risolvere questo problema? in due modi: A e B
  4. A) valutando fattori di rischio pregressi nel corso della vita dell’animale
  5. B) effettuando analisi dettagliate del comportamento dell’animale a seguito della traumatizzazione, per comprendere se abbia sviluppato -effettivamente – un PTSD

Per quanto riguarda i fattori di rischio, diverse evidenze sono state trovate in termini di fattori di rischio (nei ratti).

I fattori di rischio predisporrebbero a uno sviluppo di PTSD da parte dell’animale.

Nello specifico:

  1. una tendenza ansiosa precendente all’evento traumatico, misurata in vari modi

Per quanto riguarda l’uomo:

  1. eventi distali avversi (infanzia traumatica, eventi avversi generici antecedenti al trauma) in grado di procurare alterazioni in senso epigenetico sullo sviluppo del soggetto stesso
  2. eventi prossimali avversi (deprivazione del sonno, uso di alcol, droghe, etc.)

Per quanto riguarda invece il problema della resilienza individuale animale, cosa che renderebbe difficile capire quale degli animali abbia realmente sviluppato un PTSD, gli autori raccontano di un procedimento altamente specifico di diagnosi del PTSD negli animali partendo ovviamente da un criterio temporale (+ di 30 giorni di sintomi continuativi, criterio tra l’altro valido anche nell’uomo), per arrivare a una serie di test e procedure molto selettive qui descritte.

Gli autori concludono con alcune considerazioni:

  1. un modello animale ci vuole, con tutti i limiti del caso: solo così sarà possibile dettagliare meglio le ragioni di forme di resilienza presenti in alcuni individui piuttosto che altri, a partire da aspetti neurobiologici finora controversi o non ancora pienamente compresi
  2. esistono fattori predisponenti al PTSD. Allo stato attuale, le donne sono maggiormente predisposte (nell’essere umano più che nei ratti, anche per ragioni sociali), così come altri fattori (eventi distali, prossimali, etc.). Qui il riassunto di questi aspetti
  3. la possibilità in futuro di creare animali mutati geneticamente allo scopo di studiare la correlazione tra differenze genetiche, e sviluppo di stress post traumatico, è un elemento da tenere in considerazione nella creazione di modelli animali sempre più raffinati (si veda qui)
  4. la localizzazione più dettagliata dei circuiti neurali implicati nel PTSD, si potrà giovare, in futuro, di tecniche di avanguardia, come la deep brain stimulation -si veda per un approfondimento, sempre su Nature, qui)

Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA

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  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO 22 June 2018
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  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico) 9 May 2018
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE 6 May 2018

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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