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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

2 October 2023

Congresso Bari SITCC 2023: un REPORT

PREMESSA:  a cura di Gabriele Einaudi, un report dall’ultimo congresso della Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale (SITCC), tenutosi a Bari a fine settembre. La SITCC è nata a Roma il 30 dicembre 1972, da un’idea di Giovanni Liotti e Vittorio Guidano.

di Gabriele Einaudi

Si è concluso dopo quattro intensi giorni di lavori il congresso della Società Italiana di Terapia Cognitivo Comportamentale svoltosi dal 21 al 24 settembre a Bari. La città pugliese ha ospitato più di 700 iscritti tra molti soci, ma anche giovani colleghi e qualche curioso di differente orientamento. 19 tavole rotonde in parallelo, 100 simposi, 42 comunicazioni libere, 34 poster e 2 lectio magistralis in plenaria. Questi alcuni numeri che aiutano a comprendere lo sforzo degli organizzatori e la portata di un evento pienamente svolto in presenza dopo i difficili anni post Covid. Dopo Bologna e il congresso intermedio di Ancona orientato alla terapia in età evolutiva, a Bari il focus è stato più allargato. Il titolo del Congresso: la psicoterapia cognitiva tra ricerca, clinica, riabilitazione e impegno sociale. Sicuramente un taglio ampio che lascia emergere l’intento di collocare il confronto scientifico all’interno di una più ampia riflessione sulla sofferenza umana in una prospettiva di dialogo e collaborazione con il mondo politico e sociale. L’evento più importante per la SITCC si colloca all’interno dei festeggiamenti per i 50 anni della società scientifica. All’apertura dei lavori congressuali, si è collegato in video conferenza David Lazzari presidente del CNOP che insieme al FNOMCeO patrocinavano l’evento, ed ha augurato un buon lavoro ricordando l’importante weekend di urne aperte per il referendum sulla revisione del codice deontologico. Ai saluti istituzionali si sono aggiunti quelli di Maria Grazia Foschino Barbaro chair del congresso insieme a Francesco Mancini e del presidente SITCC Fabio Monticelli. Non sono mancati ospiti internazionali di rilevo tra i quali Ueli Kramer che ha raccontato lo stato dell’arte della ricerca sull’intervento terapeutico nei disturbi di personalità e Pim Cujipers che ha presentato i risultati frutto di 45 anni di ricerca in psicoterapia sulla depressione. Nei simposi e nelle tavole rotonde gli argomenti sono stati moltissimi, impossibile sintetizzarli tutti. Per segnalarne alcuni: si è parlato dell’impatto dei Sex Robot nella società e dei loro possibili utilizzi in terapia con Angelo Zappalà, degli sviluppi sullo studio del Disturbo Ossessivo Compulsivo Relazionale con Guy Doron, un altro ospite internazionale. Altri interventi, purtroppo molto attuali, hanno riguardato l’esperienza di accoglienza e trattamento di rifugiati e richiedenti asilo e la prevenzione del femminicidio. Angelo Crea, presidente della SIPCP la Società Italiana di Psicologia di Cure Primarie, ha anticipato i contenuti che avrebbe nei giorni seguenti portato all’attenzione della Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge sull’istituzione del servizio di psicologia di base nel Servizio Sanitario Nazionale.
Largo spazio quest’anno alla neurodiversità con discussioni sul trattamento dell’ADHD nell’adulto e su come meglio declinare la psicoterapia nell’autismo. Storica l’attenzione alla cura dei casi complessi, ma anche studi più recenti sulla Sex addiction, approcci integrati bottom-up e top-down, il lavoro con l’età evolutiva e i percorsi di affermazione dell’identità di genere.
In chiusura di congresso sono stati premiati tre giovani emergenti cha hanno vinto la Seconda Edizione del Premio SITCC Rising Stars Valentina Alfonsi, Eleonora Rosi e Luigi Tinella. Poco prima dei saluti, mentre Silvio Lenzi si impegna nel moderare l’ultima tavola rotonda con Bruno Bara, Fabio Monticelli e Antonio Semerari, a discutere le loro relazioni c’è Armando Cotugno. Pregevole il suo sforzo di delineare i punti in comune, ma Bara e Semerari preferiscono replicare e infine ci si accorda tutti insieme proprio sul non essere d’accordo. Le tante anime che costituiscono la SITCC e che, come in tutte le realtà democratiche, non sempre vanno d’accordo, costituiscono il vero valore di un’associazione che si nutre ancora oggi del pensiero dei grandi maestri, anche di coloro che non ci sono più, ma che riesce a guardare al futuro costruendo conoscenza fortemente declinata alla ricerca di benessere per la società e gli individui.

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Article by admin / Editoriali

26 July 2023

NASCE IL “GRUPPO DI INTERESSE SULLA PSICOPATOLOGIA” DI AISTED (Associazione Italiana per lo Studio del Trauma e della Dissociazione)

di Raffaele Avico, Costanzo Frau

L’AISTED ha di recente promosso la creazione di un gruppo di ricerca e studio a proposito della psicopatologia, ispirato da e incentrato sull’opera e i concetti promossi da Henri Ey. Il gruppo di lavoro proporrà un lavoro di divulgazione e approfondimento sul tema della psicopatologia in chiave Neo-jacksoniana, coinvolgendo esperti in interviste, lavori, link ad articoli, etc,., che verranno resi disponibili all’interno della pagina di AISTED dedicata. Il primo incontro sarà con Giuseppe Craparo, in ottobre.

Ne pubblichiamo qui di seguito la presentazione.

Milano, luglio 2023

Questo gruppo di discussione e interesse nato in seno all’Associazione per lo Studio del Trauma e della Dissociazione (AISTED), si propone di raccogliere i contributi teorici ed esperienziali di un gruppo di individui interni ed esterni ad AISTED, a proposito del “problema” psicopatologico inerente il trauma e la dissociazione.

Cosa causa un evento dissociativo? Cosa causa una sindrome post-traumatica?

All’interno di questo gruppo di interesse cercheremo di mettere insieme e integrare alcuni aspetti teoretici, per tentare di ottenere una visione più chiara sulla teoria patogenetica della dissociazione e del trauma. 

Per fare questo coinvolgeremo esperti e studiosi del settore, e adotteremo riferimenti teorici d’avanguardia e più antichi (ma che riteniamo altrettanto attuali).

In particolare, adotteremo una prospettiva neo-jacksoniana, chiarificata in alcuni punti che qui elenchiamo:

  1. I punti teorici da cui muove la creazione di questo gruppo di lavoro, riguardano il modo di concepire la psicopatologia inerente il trauma; prima di arrivare al trauma, è opportuno tentare di comprendere come funzioni il complesso cervello-mente. Decidiamo di adottare una prospettiva neo-jacksoniana, pensando al complesso cervello-mente come regolato da logiche gerarchiche di funzionamento, con funzioni mentali superiori in grado di modulare e ricadere su quelle inferiori, aree cerebrali deputate a regolare altre aree, come nella concettualizzazione originaria formulata da John H. Jackson.
  2. Focalizzare l’attenzione sul complesso cervello-mente introduce la questione della necessaria integrazione tra interventi di tipo top-down, e gli interventi aderenti a una logica bottom-up. È possibile pensare che il complesso mente-cervello sia mosso da logiche di regolazione “dall’alto verso il basso” come appare, per esempio, quando in un lavoro di psicoterapia si lavora per dare un senso cognitivo a emozioni poco regolate in un paziente. É altrettanto plausibile osservare logiche di regolazione “dal basso verso l’alto”, quando attraverso esercizi mirati sul corpo (la respirazione, per esempio, o le tecniche di psicoterapia sensomotoria) si aiuti il paziente a modificare la forma dei propri pensieri a partire dallo stato del corpo. Entrambi gli interventi possono essere utilizzati nella psicoterapia.
  3. Le logiche di regolazione, si applicano anche a quelle di disregolazione: in senso top-down, una dominanza di cognizioni problematiche avrà una ricaduta sul corpo; una corporeità disregolata (pensiamo per esempio al corpo di un sopravvissuto a un trauma) avrà un effetto sulla forma dei pensieri, così come delle emozioni di un certo paziente. Promuovere, anche qui, un lavoro di bilanciamento e di auto-regolazione del complesso cervello-mente, non può che favorire il processo di benessere psicologico.

La prospettiva neo-jacksoniana, nel promuovere un certo modello di mente, è stata promossa dai lavori di Henri Ey, che questo gruppo di lavorò tenterà di mettere in luce e divulgare.

Qui per andare alla pagina dedicata al progetto.

Article by admin / Formazione, Editoriali / psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

15 July 2023

Psychedelic Science Conference 2023 – lo stato dell’arte sulle terapie psichedeliche 

di Jonas Di Gregorio

Dal 19 al 23 giugno 2023 ho avuto occasione dipartecipare alla Psychedelic Science Conference, un congresso internazionale sugli psichedelici che si è tenuto a Denver negli Stati Uniti, organizato da MAPS, la Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies.

All’interno del Colorado Convention Center, oltre al teatro e alle sale in cui si sono svolte le presentazioni, erani presenti:

  • un’area espositiva con oltre un centinaio di stand tra organizzazioni non-profit, cliniche private, retreat centers, case editrici, società quotate in borsa, centri di formazione, università, piattaforme online, laboratori di sintesi farmaceutica, progetti di riduzione dei rischi, fondazioni, studi legali e via dicendo.
  • un padiglione, chiamato Deep Space, con istallazioni artistiche, dipinti, workshops e altro, con l’atmosfera di un festival stile Burning Man
  • una rassegna di cinema con film e documentari come ad esempio The Way of the Psychonaut, Better Living Through Chemistry, Ayahuasca Diaries, How to Change your Mind, Descending the Mountain.

I primi due giorni sono stati internamente dedicati a workshop di vario tipo che hanno registrato il tutto esaurito, come ad esempio:

  • Guidare sessioni di psicoterapia con la psilocibina
  • Introduzione alla Psilocibina come strumento nello sviluppo personale e spirituale
  • Introduzione alle terapie psichedeliche per il trattamento delle dipendenze
  • Psicoterapia assistita da psichedelici
  • Integrazione psichedelica e riduzione dei rischi nella pratica clinica
  • Respirazione Olotropica
  • Terapia Psichedelica e Veterani

Il programma del convegno era consultabile anche tramite una app dedicata, psysci23, scaricabile sul cellulare.

Presso lo stand di MAPS all’ingresso del padiglione espositivo erano presenti autori come ad esempio Micheal Pollan (Come cambiare la tua mente), Bessel Van Der Kolk (Il Corpo Accusa il Colpo), Bill Richards (Sacred Knowledge), Rachel Nuwer (I Feel Love), Charlie Wininger (Listening to Ecstasy), Ben Sessa (The Psychedelic Renaissance), e Stanislav Grof (Respirazione Olotropica, Psicologia del Futuro, La Mente Olotropica, L’Ultimo Viaggio, Quando Accade l’Impossibile, La Via dello Psiconauta, LSD – l’Innovativa Ricerca Psichedelica nei Reami dell’Inconscio). In alcuni momenti ho visto centinaia di persone in fila per acquistare alcuni di questi libri e richiedere una dedica autografata dall’autore.

La conferenza ha visto inoltre la partecipazione di diversi conduttori di podcast, alcuni dei quali hanno seguito la conferenza in diretta, come ad esempio Psychedelics Today, The New Health Club, Business Trip, Psychedelic Passage, Enhanced Therapy Podcast.

La notizia è stata divulgata negli Stati Uniti da testate giornalistiche e riviste online quali il Washington Post, Bloomberg, Rolling Stone, mentre in Italia ne ha dato notizia Il Manifesto.

Da un punto di vista personale, partecipare a questa conferenza è stata un’esperienza toccante. É stato bello rivedere amici e colleghi con cui ho lavorato in questi anni. Ho percepito un’atmosfera di grande collaborazione tra organizzazione diverse e un clima di grande entusiasmo legato ai risultati promettenti delle ricerche condotte con gli psichedelici in questi anni e il loro possibile impiego nel prossimo futuro per il moglioramento della salute mentale. Risultati e ricerche cliniche suggeriscono in particolare un impiego per il trattamento del PTSD (sindrome da stress post traumatico), della depressione, delle dipendenze da oppiacei, alcool e nicotina, e dell’ansia nei malati terminali.

É stata inoltre una conferma del fatto che le persone interessate a questo argomento stanno aumentando. La prima volta che partecipai alla Psychedelic Science Conference di MAPS fu nel 2017 in California. Ne diede notizia Il Fatto Quotidiano, con un articolo che generò un centinaio di commenti. In quella occasione parteciparono circa 3000 persone. Quest’anno l’evento ha visto la partecipazione di oltre 12000 persone, un record assoluto.

Durante la conferenza ho accompagnato e assistito Stanislav Grof, uno dei pionieri della riserca sull’uso terapeutico degli psichedelici, che il primo luglio 2023  ha celebrato 92 anni. Stan e sua moglie Brigitte hanno condotto, insieme a un team internazionale di facilitatori, un seminario di respirazione olotropica a cui hanno partecipato circa 200 persone. Il terzo giorno della conferenza, ho assistito alla proiezione del documentario “The Way of the Psychonaut”, sulla vita di Stanilsav Grof,  ed è stato toccante vedere le centinaia di persone presenti.

Insieme a mia moglie ho inoltre coordinato nell’area espositiva della conferenza lo stand informativo del Psychedelic Literacy Fund, una iniziativa filantropica che abbiamo lanciato nel 2020 finalizzata a promuovere maggiore informazione sugli psichedelici attraverso la traduzione di libri sulle terapie psichedeliche in diverse lingue. Per quanto riguarda l’Italia ad esempio, alcuni dei libri pubblicati con il supporto di questo progetto sono: LSD l’innovativa ricerca psichedelica nei reami dell’inconscio, La via dello psiconauta, Enteogeni alleati per la rinascita spirituale e Medicina per la coscienza.

Durante l’ultimo giorno della conferenza, abbiamo infine partecipato a un evento di raccolta fondi per lo Zendo Project, un’organizzazione non profit che in occasione di eventi come il Burning Man cerca di trasformare esperienze difficili con gli psichedelici in opportunità di crescita e apprendimento.

La conferenza è stata ricca di contenuti e in ogni momento della giornata si svolgevano circa 11 presentazioni in contemporanea in sale diverse. Sono tantissime le presentazioni a cui non ho avuto modo di partecipare per questo motivo. Fortunamente la maggior parte sono state registrate e saranno pubblicate sul canale YouTube di MAPS, dove sono presenti i filmati delle precedenti edizioni.

Garantire accesso legale alla popolazione a queste terapie richiederà molto lavoro ed enormi investimenti. Le sfide da superare sono ancora molte, dal punto di vista normativo, culturale ed economico. Allo stesso tempo, in questi anni sono emersi molti segnali incoraggianti e la sensazione è che si stia raggiungendo un punto di svolta sia nell’opinione pubblica che all’interno delle professioni mediche. Sono grato di aver partecipato a questo evento storico e sono emozionato di vedere come questo campo si svilupperà ulteriormente nei prossimi anni.

Jonas Di Gregorio, Denver, 25 giugno 2023

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Article by admin / Editoriali / psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

18 May 2023

6 MESI DI POPMED, PER TORNARE ALLA FONTE

di redazione POPMed

Amicə, è passato tanto tempo da quando vi abbiamo parlato per la prima volta di POPMed.

Dove siamo arrivati in questo nostro tortuoso viaggio nell’oceano della letteratura scientifica?

Siamo qui per raccontarvi questi ultimi 6 mesi!

Come sapete, il fine di questo progetto resta quello di promuovere un giornalismo scientifico di qualità orientato al reale della pratica clinica, con una ricaduta diretta sulla dimensione professionale: raffinare quindi la presentazione di tutte quelle informazioni – complesse, insidiose, talvolta contraddittorie – presenti nella letteratura scientifica relativa alla macro-area della salute mentale e, come avevamo scritto qualche tempo fa, “essere delle lenti attraverso cui potervi affacciare con sicurezza a uno scorcio della letteratura scientifica esistente.”

“Tornare alla fonte” non sono quindi solo parole: sono un progetto, una direzione, una strada da percorrere costantemente nell’affacciarsi alla cosa scientifica. L’invito resta quello di poterla percorrere insieme.

Proprio con questo spirito – oltre alla newsletter, cuore del progetto, con i suoi 10 articoli scientifici contortati da sinossi introduttiva e approfondimenti specifici – abbiamo voluto lasciarvi anche qualche dritta su come navigare in quel tempestoso oceano della letteratura scientifica. Ricordatevi: non siamo qui solamente per darvi in pasto qualche articolo già addentato, masticato, digerito. Siamo qui soprattutto con l’intento di creare, insieme, un discorso complesso e co-partecipato sull’importanza del ritornare alla scienza e della sua connessione con la clinica.

Per chi non lo sapesse, qualche giorno fa abbiamo presentato, con un po’ di emozione, Per tornare alla fonte, la nostra prima micro-rivista digitale interattiva; una rivista da consultare quando nell’incertezza sentite, letteralmente, il bisogno critico di tornare alla fonte, di ripercorrere la storia di un articolo a partire dal suo concepimento fino alla pubblicazione. Essenzialmente vuole essere una sorta di manifesto per promuovere una prospettiva critica nell’avvicinarsi alla cosa scientifica; un breve manuale introduttivo per permettere a tutti – professionisti e non – di riscoprire la letteratura scientifica nel suo stesso intricato, complesso, incoerente e incerto farsi. Riscoprire quindi la scienza stessa, con uno strumentario adatto, capace di conferirvi la sicurezza –  o consapevolezza – necessaria per non perdervi.

Si tratta di una rivista digitale – ossia scaricabile in formato pdf e facilmente consultabile sui diversi dispositivi mobili (computer, tablet e smartphone) – e interattiva, in quanto all’interno sono presenti numerosi approfondimenti a cui potrete accedere direttamente e senza ulteriori costi nel corso della lettura tramite dei link esterni. Tra questi, riflessioni/contenuti di associazioni e professionisti con cui ci sembra di condividere, seppur in forme e spazi differenti, lo stesso fine, ossia la valorizzazione di una comunicazione qualitativamente orientata della cosa scientifica: potrete trovare – per esempio – organizzazioni quali il CEST (Centro per l’Eccellenza e gli Studi Transdisciplinari) e personaggi come Barbascura X.

Se invece non ci conoscete ancora, ma siete rimasti attratti da tutto questo e volete avere un assaggio delle precedenti newsletter o degustare la letteratura scientifica in maniera inedita, immediata, interattiva e graficamente accattivante, potete iscrivervi e ricevere la rivista The Best of POPMed 2022-2023 in cui sono stati raccolti quelli che, secondo noi, sono i 20 articoli scientifici più rappresentativi – in termini tanto contenutistici quanto valoriali – del nostro progetto. Anche in questo caso si tratta di una micro-rivista digitale interattiva.

Che tu sia quindi unə giovane interessato alla macro-area della salute mentale o unə professionista della cura, confidiamo questo progetto possa essere per te! Ti va di venirci a trovare? Se tutto questo ti interessa e vuoi supportarci, iscriviti e aiutaci a crescere! Ti aspettiamo per tornare, insieme, alla fonte! Se verrai, ci ritroveremo in mare, buon viaggio!

Raffaele, Francesco, Andrea

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QUI PER ISCRIVERTI A POPMED!

Trovaci anche su Instagram: @­­_popmed

Article by admin / Editoriali, Formazione / psichiatria, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

30 September 2022

POPMED, UNA NEWSLETTER DI AGGIORNAMENTO IN AREA “PSI”. PER TORNARE ALLA FONTE

di Raffaele Avico, Francesco della Gatta

Nasce Popmed, una newsletter a cadenza bi-settimanale di aggiornamento in ambito di letteratura scientifica in area “psi”.

Ha un costo di 9,90€ al mese.

Qui di seguito, la sua presentazione sulla piattaforma Substack.

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Ogni due settimane, 10 articoli in ambito di letteratura scientifica che non dovresti perdere.

Ciao, siamo Raffaele Avico e Francesco Della Gatta, fondatorI di PopMed, una newsletter a cadenza bi-settimanale pensata per proporti una decina di argomenti inerenti la salute mentale ricavati da un lavoro di compulsazione di PUBMED.

Cos’è PUBMED?

Pubmed è il più grande archivio mondiale di articoli scientifici e materiale medico/psichiatrico/psicologico.

Pubmed contiene lo scibile umano in termini di ricerca scientifica in ambito medico, compreso tutto ciò che riguarda la salute mentale.

Saperlo usare bene apre a un orizzonte infinito di conoscenza.

L’obiettivo di questa newsletter è semplice: ogni due settimane ti invieremo una decina di articoli che crediamo possano essere importanti in ambito di ricerca sul tema “psi” (psichiatria, psicologia clinica, avanguardie di ricerca in tema psicologia, salute mentale), presentandoteli con una sinossi minima.

Trovi qui un esempio di newsletter inviata.

A te poi il compito di esplorare, se vorrai, i link che ti invieremo.

Questo, per 9,90€ al mese.

Due cose sui link:

  • Rimandano ad articoli free, che non dovrai pagare (la cosa non ti costringerà a incaponirti su ShiHub 🙂 )
  • Saranno spesso in lingua inglese
  • Riguarderanno aspetti di “avanguardia”, ovvero sviluppi recenti della letteratura, tranne uno (nel senso che tra i 10 articoli ce ne sarà uno “storico”, di impatto epocale)
  • Daremo priorità ad articoli con alto impatto scientifico (meta-analisi e review, ma anche articoli RCT)

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Ma, perché abbiamo deciso di creare un servizio di aggiornamento in ambito salute mentale?

Viviamo in un tempo di continui “attentati” al nostro focus, di grande dispersione dell’attenzione. Un vero e proprio “mercato della dopamina” progettato per convogliare la nostra attenzione su oggetti digitali che dovremmo consumare/acquistare.

Anche in ambito di salute mentale e avanguardie di ricerca, riteniamo importante muoverci nella direzione di una “raffinatura”, di una “pulizia” progressiva del “segnale”, anche nel macro-ambito della divulgazione.

Il nostro progetto vuole tornare alla “Fonte”, in tutti i sensi.

Crediamo che un lavoro sulle fonti, possa far risparmiare molto del tempo speso in rete, che potremmo utilizzare meglio o per fare altro. 

Per questo abbiamo voluto creare un servizio incentrato sulla fruizione semplice (10 link) e contemporaneamente sulla qualità.

Se c’è un luogo non ancora profanato dal mercato dell’attenzione, questo è la redazione di una rivista scientifica, per sua natura un luogo regolato da tempistiche lunghe, da cicli di controllo sulla qualità; esistono anche qui delle eccezioni e meccanismi indotti da “fattori commerciali”: tuttavia, le riviste scientifiche sono il punto più “a monte” verso cui un ricercatore o un interessato all’ambito “salute mentale” possa spingersi per auto-aggiornarsi.

Tutto ciò che viene dopo, più a valle, è divulgazione.

Nell’attività di divulgazione, per esempio tra le mura di una redazione di una testata giornalistica non scientifica, le notizie o i fatti della scienza vengono spesso “sporcati” per ragioni economiche, essendo l’elemento emotivo causa di “engagement” e lettura della notizia stessa. Questo non avviene sempre, ma in un mercato editoriale impoverito e sovraccarico, rappresenta un rischio reale. 

A cascata, una cattiva informazione proposta a una massa di individui non sempre in grado di soppesare o filtrarla, produce sofferenza mentale, polarizzazione e confusione. 

“Tornare alla fonte” significa in questo senso due cose:

  1. proporre un aggiornamento non filtrato che consegni al lettore notizie e informazioni di prima mano, con cui possa crearsi una propria idea sugli eventi della ricerca scientifica
  2. favorire la “pulizia del segnale”, tentando cioè di garantire la diffusione di un giornalismo scientifico di qualità, non guastato da logiche economiche. Le riviste scientifiche sono anch’esse regolate da fattori economici (non ci illudiamo del contrario): pur fiduciosi, tenteremo di selezionare contenuti il più possibile “puri” da riviste ad altissima rilevanza scientifica.

A chi è rivolto questo servizio?

A professionisti, interessati ai temi delle salute mentale e delle neuroscienza, ad appassionati di psicoterapia che vogliano leggere del materiale di qualità sulle migliori teorie e prassi, a individui impegnati che desiderino giovarsi di un aggiornamento “per punti”, sintetico ma di qualità.

COME SCEGLIEREMO I LINK DA INVIARE? LA GERARCHIA DELLE FONTI

Questa immagine riassume in modo sintetico la gerarchia della letteratura scientifica.

Come si osserva, gli articoli che assumono maggior valore sono articoli pensati per raggruppare i risultati di altri articoli, o che presentano particolari protocolli di ricerca (come gli studi RCT). 

PopMed si rifarà a questi ultimi esempi di lavoro scientifico, per necessità escludendo quelli protetti da un paywall.

Seppur esistano portali -illegali!- come SciHub attraverso i quali i paywall potrebbero essere aggirati, abbiamo optato per consigliare articoli aperti: già tra questi, la quantità di informazioni e dati di grande rilevanza, è sterminata.

Buona lettura/studio, e grazie per la fiducia che vorrete darci!

Raffaele e Francesco


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Article by admin / Editoriali / psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale

10 January 2022

24 MESI DI PSICOTERAPIA ONLINE

di Raffaele Avico

Questo articolo rappresenta una riflessione personale sulla psicoterapia e sullo stato mentale degli individui che mi è capitato di consultare, come psicologo clinico, in quasi 24 mesi di periodo pandemico. Premetto che per me è stato un privilegio in senso umano poter lavorare con così tante persone, ognuna all’interno del suo mondo, unico, e ho trovato in questa esperienza un’occasione di estrema crescita personale, vista la quantità di lavoro assegnatomi in un periodo così peculiare.

Come tutti sappiamo, le prime avvisaglie del “problema pandemico” arrivarono sul finire di gennaio 2020, quando la notizia di un virus cinese cominciò lentamente ad apparire sugli organi di informazioni in Italia, per poi diventare altamente preoccupante già poche settimane dopo con i primi focolai, le prime profilazioni del virus, l’isolamento del “paziente zero” e l’avvio dello stato di eccezione/emergenza che ancora oggi viviamo.

Ad oggi siamo all’incirca a due anni dallo scoppio della peggiore crisi sanitaria da cinquant’anni a questa parte a livello mondiale, cosa che ha ovviamente trasfigurato l’intera realtà, le modalità con cui lavoriamo e comunichiamo, gli scenari urbani con cui quotidianamente ci confrontiamo, la realtà della salute mentale degli individui.

Con questa riflessione cercheremo di concentrarci su quest’ultimo aspetto, cercando di rispondere alla domanda: qual è lo stato della salute mentale degli individui, dopo due anni di adattamento forzato a uno stato delle cose di questo tipo? Quanto è reale e presente un problema anche di salute mentale, negli individui, a due anni dall’avvio di uno stato eccezionale a livello mondiale? Quali strascichi lascerà questo periodo sulla salute mentale dei cittadini? Cercheremo inoltre di riflettere sul mestiere dello psicoterapeuta, e su quanto anche in questo caso sia stato forte l’impatto trasformativo della pandemia.

Per approcciare una tematica così ampia suddividiamo gli aspetti del problema in due tipologie, ovvero gli aspetti clinici (che riguardano la presenza o meno di sintomi di natura psicologica nella popolazione), e tutti gli altri aspetti, più sfumati, connessi ad altre questioni/tematiche, sempre però collegati in modo diretto al tema “salute mentale”.

É innegabile che chiunque di noi abbia osservato l’evolvere della pandemia e delle misure messe in atto per contenerla in questi due anni, si sarò reso conto che siamo di fronte a un balzo storico, a un “cigno nero” di fronte a cui la Storia ci ha voluti testimoni. Il mondo ha subìto cambiamenti enormi in brevissimo tempo, su molteplici fronti: questo non può non avere delle conseguenze sulla mente di individui, abituati alla relativa stabilità del “prima”. Questa pandemia produrrà un prima e un dopo -come tutti i traumi sanno fare- nella nostra memoria. Ricorderemo per anni i primi mesi del 2020, così come la “seconda ondata”; ci troveremo in bocca e in mente espressioni che fino a pochi mesi fa sarebbe stato inimmaginabile dover imparare: chi avrebbe mai detto che in poco tempo saremmo divenuti familiari con concetti come l’RT, l’indice di trasmissione, il tema del testing e del tracking legato al Coronavirus, la branca medica della virologia in generale? Chi avrebbe immaginato nella sua vita di essere obbligato a rispettare un coprifuoco, entro uno stato di eccezione con diverse restrizioni tipiche di un periodo di guerra, di dover adeguarsi a una “sanitarizzazione” massiva della società, paralizzata al cospetto di un virus?

Partiamo dagli aspetti clinici:

  • come era ovvio aspettarsi, coloro i quali prima del Covid sembravano propendere per uno stile di vita caratterizzato da comportamenti “fobici”, non hanno avuto vita facile. Lo stesso potremmo dire per coloro che facevano del mantenimento di un “ordine pulito”, il proprio goal di vita (soggetti caratterizzati da una strutturazione mentale che potremmo chiamare ossessiva, o sofferenti di varie forme di DOC). La presenza di un virus invisibile potenzialmente pericoloso e di fatto poco conosciuto, scuote alle fondamenta ogni tentativo razionale di controllare la realtà che ci circonda, obbligandoci a un passaggio fondamentale, quello dell introiezione di una quota di fatalismo e di rischio, non accessibile a tutti. Mi sono spesso confrontato con persone che sentivano crescere il senso di allarme nei confronti della realtà esterna e del proprio comportamento finendo per auto-emarginarsi ancora di più di quanto prima già non facessero. Parliamo di un aggravarsi di forme di ritiro sociale e di evitamento, con persone chiuse in casa per mesi, eventualmente con brevi aperture all’esterno con l’approssimarsi dell’inizio della campagna vaccinale a inizio dell’ormai concluso 2021. La possibilità di lavorare da casa -ma questo è un tema molto vasto- può aver in questi casi legittimato comportamenti di auto-reclusione, rendendo socialmente accettabile qualcosa che prima del Covid non lo era. Abbiamo assistito dunque a una fase iniziale in cui chi si isolava già da prima, sembrava alleviato dall’idea che gli “altri” potessero comprendere il suo punto di vista, e in qualche modo legittimato nella propria risposta “difensiva” verso la società all’esterno; il senso di sollievo ha però rappresentato in questi casi solo la parte iniziale di un problema in realtà pregresso e più vasto, che in questo senso ha fatto solo incancrenire situazioni di isolamento sociale sviluppatesi prima dell’inizio della pandemia.
  • In relazione a questo primo punto, mi è spesso capitato di constatare un diffuso disinvestimento da tutto ciò che è esterno, indotto dalle restrizioni sanitarie in un primo tempo, poi cronicizzato in forme sfumate e differenti per ognuno. Quello che intendo dire è che -nel prossimo futuro- non è automatico che la fuoriuscita da una condizione di restrizione sociale, produca un naturale ritornare all’esterno come conseguenza ovvia; molte persone in questi 24 mesi hanno riscoperto l’ambiente di casa loro, guardandolo con occhi diversi, forzati dall’obbligo di farlo, come bambini costretti a non uscire e in grado di rendere il piccolo mondo entro il quale fossero chiusi un luogo nuovo, un teatro di sperimentazione. La casa ha assunto una rappresentazione differente, è passata per qualcuno da essere house a essere home, per dirla in senso psicodinamico è stata oggetto di maggiore attenzione, di maggiore investimento libidico; al ritorno della possibilità di vedere persone ed eventualmente viaggiare, molti individui hanno realizzato quanto fosse mortificata la parte di sé che in altre epoche li avrebbe spinti a esporsi fuori, a uscire dalla propria zona di comfort. Parliamo di una sorta di mortificazione della parte esplorativa, un po’ come effetto post-traumatico, un po’ come conseguenza di un restringimento dei confini della propria realtà operato in modo dapprima coatto, poi in qualche modo attivamente mantenuto tale.
  • un altro problema di questi 24 mesi, indubbiamente, è stato il sonno. L’insonnia è divenuta qualcosa di normale, di endemico; ci sarebbe da chiedersi se già prima non fosse così e se la pandemia non abbia solo fatto uscire allo scoperto alcuni aspetti finora rimasti per così dire nascosti. Le cause dell’insonnia sono le più variegate; quando non dipendono da cause mediche, le cause di origine psicologica vanno ricercate nei problemi correlati alla gestione dello stress. L’insonnia si manifesta quando la mente non conceda un abbandono reale, in presenza di uno stato protratto di allarme o di minaccia percepita. Su questo blog abbiamo più volte parlato di fear response, di post-trauma, di disturbo dell’adattamento; possiamo immaginare l’insonnia come il risultato di una mente che non possa concedersi il lusso di uno stato di ristoro completo nel contesto di un luogo (mentale) non sperimentato come sicuro. Per certi versi è come se il cervello fosse impegnato in una risposta di difesa anche quando non ce ne sarebbe la reale necessità. La risposta di difesa accade in concomitanza con una risposta autonomica del sistema nervoso simpatico, completamente slegato dalla nostra volontà cosciente, al di fuori del nostro controllo. Un sistema nervoso che non può spegnersi ci impedisce di abbandonarci a un sonno ristoratore. A questo punto bisognerebbe aprire il grosso capitolo delle cause di questa ipereccitazione del sistema nervoso; qui è forse più importante sottolineare come in questi ultimi 24 mesi tutti noi si sia stati esposti a continui, dalla mattina alla sera, stimoli potenzialmente traumatici e nocivi per la salute mentale. Non che questo non fosse per certi versi obbligatorio o evitabile; è opportuno però ricordarci quanto negli ultimi due anni le informazioni passate di prima mano attraverso il passaparola, o per via mediatica, siano state per lo più allarmanti. La mente di ognuno di noi si è confrontata per due anni con micro-minacce costanti relative a possibili contagi, all’instabilità del Paese, ai continui cambi di scena difficilmente prevedibili; è più che probabile che questo abbia avuto conseguenze anche sulla qualità del sonno; parliamo di un’insonnia procurata, in realtà, da un problema di adattamento a una realtà percepita come non prevedibile per troppo tempo, un disturbo cioè dell’adattamento (come vedremo nel prossimo punto). La nostra mente ha bisogno di prevedibilità e routines; in assenza di queste, alle prese con situazioni troppo caotiche, tende a sviluppare forme di adattamento di vario tipo, e con diversi livelli di “successo”, lungo un continuum che va dalla paralisi pseudodepressiva (si veda su questo l’esperimento dei cani depressi di Pavlov, apparentemente depressi, in realtà post-traumatizzati), a una condizione di crescita post-traumatica (questo lo vedremo in seguito in questo articolo). Sappiamo che in condizioni di prevedibilità scarsa e trauma, la mente tende per prima cosa ad attivarsi in senso difensivo, per poi in alcuni casi collassare in forme simili-depressive che in realtà sono dei comportamenti di resa. Lo spiega molto bene il modello a cascata che qui abbiamo più volte approfondito
  • collegato a questo punto, il disturbo dell’adattamento. Giovanni Tagliavini ne scrive in questo post pubblicato su questo blog, e ne ha parlato di recente in modo efficace Valerio Rosso. Il punto centrale del disturbo dell’adattamento, è la presenza di micro-stressor diluita nel tempo per un periodo non definibile o non prevedibile. Pensiamo a chi debba convivere con la gestione psicologica di una malattia invalidante, o alla pandemia in atto. Ci troviamo ogni giorno di fronte a possibili cambi di scenario a cui dobbiamo adattarci di volta in volta. Il disturbo dell’adattamento si struttura come una risposta inefficace di fronte a eventi esterni non prevedibili. È la forma più sottile e allo stesso più attuale e importante di risposta post-traumatica. Parliamo non tanto di un singolo evento traumatico in grado di toccare la mente di un individuo creando un prima e un dopo; la cosa difficile in questi casi è creare delle isole di controllo in un contesto esterno percepito come totalmente imprevedibile o pericoloso. Una parte della responsabilità, in questi due anni, abbiamo purtroppo constatato essere da attribuire al lavoro dei media, iatrogeno nei suoi effetti, spinto da interessi economici venduti come “necessità di informare”, in realtà impulsivo e tossico -con ovviamente eccezioni importanti, come il Post o singoli divulgatori come Enrico Bucci, moderati nei toni e poco impulsivo/emotivi.
    Il disturbo dell’adattamento è un adattamento non riuscito a una realtà percepita come non prevedibile, con diverse conseguenze sul piano psicofisico; il senso di impotenza che procura diviene rapidamente somatico, generando spesso un senso di sconforto non raramente confuso con depressione. Parliamo in realtà di un problema di “empowerment” e di gestione dello stress.
  • negli ultimi due anni ci siamo dovuti adattare a diverse restrizioni e cambi di abitudine; adattarci a una regime di costruzione e rinunce, non è stato semplice anche in termini di psicologia della coppia. Sono venuti improvvisamente a mancare i punti di fuga funzionali alla tenuta del “sistema coppia”, gli sfoghi necessari alla tenuta della coppia stessa. Il lockdown ha improvvisamente generato un obbligo di convivenza estremamente ristretta, per lo più a fronte di una realtà esterna allarmante; il clima famigliare ne è stato obbligatoriamente alterato, con conseguenze sui singoli elementi della coppia, e a cascata sui figli.
  • Tornando alla questione post traumatica, c’è da sottolineare il problema di coloro che hanno sperimentato in prima persona un ricovero per Covid, magari in una terapia intensiva. Qui troviamo individui con un PTSD conclamato, netto. Il PTSD inteso in senso più “normale”, rappresenta la risposta a un singolo trauma acuto, arrivato a creare uno spartiacque nella vita di chi lo subisca. Al di là dunque del periodo storico, troviamo qui persone realmente minacciate nella propria sicurezza dal Covid. L’esperienza di un ricovero in una condizione di isolamento sociale, o ancora peggio un’esperienza di intubazione e di fame d’aria, rappresentano esperienze altamente traumatiche in grado di procurare PTSD con tutti i sintomi annessi, anche per molto tempo dopo il loro accadere. Qui lo abbiamo spesso ripetuto: il trauma si produce nella compresenza di immobilità e terrore estremo, due elementi presenti insieme in un’esperienza di ricovero con intubazione da Covid. Su questo si vedano gli studi di Delfina Janiri per approfondire, tra cui questo.

Andando invece sugli aspetti meno evidentemente clinici, quali conseguenze hanno avuto questi 24 mesi sulla mente degli individui? Quali aspetti “sfumati” o poco evidenti hanno invece saputo impattare sulle nostre abitudini, sul nostro stile di vita?

Proviamo a raggruppare qui alcune osservazioni:

  • la realtà e le abitudini quotidiane hanno subìto negli ultimi due anni profonde trasformazioni; ci siamo abituati a immagini perlomeno inquietanti progressivamente divenute normali: le immagini di una società adattata a un periodo eccezionale, pandemico; mascherine, distanziamento; vedere persone dopo molto tempo e trovarle cambiate, fuoriuscite dal proprio personale percorso di adattamento al periodo pandemico, magari dopo anni. Questo ha un impatto, anche se difficilmente misurabile, in termini di qualità della vita percepita, di minacciosità della realtà esterna.
  • Il fatto che la realtà esterna imponga un adattamento coatto, produce delle reazioni di sovra-compensazione: questo lo spiega molto bene Nassim Taleb nel libro Antifragile. I sistemi complessi (come siamo noi, e come lo è la società) rispondono spesso in modo attivo a uno stressor, iper-compensando e in realtà attivandosi, evolvendo. Taleb la chiama proprietà di antifragilità, un concetto molto simile a quello di crescita post-traumatica. Abbiamo avuto negli ultimi mesi sentore di qualcosa in procinto di accadere, o un senso di “niente sarà più come prima”. Non sappiamo tuttavia -nel momento in cui dovesse calare il senso di urgenza o di paura, o l’adattamento alla realtà pandemica si spingesse troppo in là in termini di tempo- quanto una “reazione positiva” o “antifragile” possa continuare senza lasciare il posto in realtà a un senso di collasso, a un’implosione sia a livello di energie del singolo individuo che in termini di società presa nella sua interezza. Quello che intendo dire è che l’adattamento alla realtà della pandemia ha generato delle difficoltà nella gestione dell’energia individuale, da un lato spingendo le persone a muoversi per compensare, dall’altro svuotandole, con poco equilibrio generale in termini, appunto, di “management” energetico.
  • Un aspetto non troppo dibattuto o osservato, è il senso di precarietà esistenziale. Già prima del Covid il tema “precariato” era dibattuto e se ne parlava spesso a livello sociale; potremmo partire per tracciarne la traiettoria forse dal 2001, con l’evento dell’11 settembre, passando per il 2008 e l’inizio simbolico di un periodo di crisi economica, per arrivare al 2020 e la pandemia. Questi eventi hanno minato alla base diversi assunti che la generazione dei nati negli anni ’80 (che oggi rappresenta -in teoria- la classe dirigente e insieme una nuova leva di genitori) portava con sé, ereditata dalla generazione precedente; alcune convinzioni sono state messe progressivamente in discussione, dall’idea che la laurea portasse un lavoro sicuro nel contesto di una crescita economica infinita, per arrivare a una generale messa in discussione del senso di sicurezza sociale, minato dal terrorismo. Mettiamoci insieme anche il tema emergente della crisi climatica. Tutto questo rientra quotidianamente nei pensieri dei cittadini, parallelamente ai temi prima riportati, connessi alla pandemia, alimentando ulteriormente il senso di allarme.
  • 24 mesi di pandemia hanno coinciso con molto tempo passato in una condizione di reclusione. Per comprendere il vissuto di chi sia obbligato a stare in casa in modo forzato, abbiamo mesi fa approfondito alcuni aspetti della psicologia della carcerazione. Qua è possibile trovare i due articoli. Il tema del senso da attribuire all’esperienza della reclusione (“pur sempre tempo di vita”) così come un certo aiuto ottenuto dalle routines e dall’attività fisica, sono i punti centrali della questione.
  • Uno dei temi più importanti ultimamente, è stata la gestione dell’energia individuale connessa alle abitudini legate allo smart working. Come psicologo clinico mi sono confrontato quotidianamente in questi mesi con molte persone alle prese con un cambio praticamente totale delle abitudini di vita; giornate passate interamente a casa, soprattutto in città, trascorse lavorando e alternando tempo libero a tempo trascorso in rete; il tempo trascorso online è stato ovviamente aumentato dalle restrizioni; le persone si sono ritrovate per molto più tempo quotidianamente esposte a tutto ciò che proveniva dalla propria rete virtuale, compresi i Social. I rischi dell’uso smodato di Social sono sempre più evidenti, sia per lo sviluppo di addiction, che per il rischio di overload cognitivo (ne abbiamo scritto qui), che per il rischio di una radicalizzazione “ricorsiva” del pensiero. Se i software e gli algoritmi sono progettati appositamente per profilare e proporre agli utenti cose che già sanno, al fine di agganciarli con più forza a fini commerciali, è naturale che noi si osservi una radicalizzazione sempre più estrema del pensiero, soprattutto all’interno di certe fasce della popolazione -meno equipaggiate di pensiero critico. Tutto questo è, presa molto alla larga, un rischio per la tenuta sociale.
    Le giornate trascorse online e lavorando hanno creato diversi punti problematici: la reperibilità continua, la difficile separazione vita lavorativa/vita privata, un difficile “time boxing“, l’assenza di privacy durante le ore di lavoro; ultimamente le aziende sembrano aver introdotto maggiore regolamentazione con un più esplicito “diritto alla disconnessione”. È la vita liquida nella sua forma più estrema, senza nessun tipo di struttura o infrastruttura a salvaguardare lo stato mentale di individui in balia di pressioni lavorative rimaste inalterate, quando non aumentate. Dopo due anni osserviamo posizioni diverse, individui che hanno reagito in modo assolutamente personalizzato, in un continuum con da un lato i lavoratori finiti in burn-out, dall’altro gli entusiasti del lavoro da casa, a detta loro maggiormente produttivi e con più tempo per sé, di fatto con meno stress percepito. Tutto questo è arrivato per restare, e lo porteremo nella nostra vita quotidiana anche quando la pandemia sarà conclusa.

Oltre a questi aspetti riguardanti gli individui, è interessante fare alcune osservazioni a riguardo del lavoro da psicoterapeuta.

In questi 24 mesi ho personalmente cambiato ogni abitudine riguardante il lavoro da terapeuta. Dopo due anni mi rendo conto di come il lavoro online si presti a un lavoro di psicoterapia altrettanto efficace, ma di tipo diverso. Il lavoro di psicoterapia online ha regole e modalità diverse; voler rimanere aderenti a una concettualizzazione classica del setting, rischia di farci perdere le possibilità che questa tipologia di lavoro porta con sé.

Nei primi sei mesi del 2020 abbiamo osservato una reticenza ad accettare l’avvento di una tipologia di sedute fatte online, da parte della comunità più ortodossa del gruppo degli psicologi clinici, spesso di derivazione psicoanalitica. Da parecchio tempo la comunità psicoanalitica tenta di mantenere vivo il fuoco sacro del setting freudiano, di fatto chiudendosi a contaminazioni che le sarebbero vitali, visto il suo lento scomparire progressivo a favore di approcci più moderni (anche se non necessariamente più efficaci). In seguito, dopo i primi mesi di pandemia, anche tra questi colleghi sembrò farsi strada l’idea che qualcosa si potesse fare, e che il lavoro di supporto dovesse continuare anche durante la pandemia -anzi, soprattutto durante la pandemia.

Alcune osservazioni sul tema:

  • il lavoro degli psicologi clinici è in questi due anni aumentato in modo vistoso, essendosi moltiplicata la domanda di ascolto da parte delle persone, per lo più rinchiuse in casa. Personalmente collaboro con il Centro Medico Santagostino di Milano, che come qui approfondito ha aumentato in modo esponenziale il lavoro di psicoterapia online, arrivando ad aprile del 2020 a erogare più di 17000 colloqui di psicoterapia mensili (con un’equipe di più di 300 psicoterapeuti); questo ci dà una prima impressione di quanto il lavoro di supporto sia stato necessario, soprattutto in quella fase di emergenza; attualmente, la “curva” delle richieste di terapia sembra crescere in modo continuativo
  • negli ultimi due anni (e in particolare nelle prime fasi della pandemia) sembra esserci stato uno sdoganamento delle tematiche legate alla salute mentale, anche a partire dalle istituzioni, con la conseguenza di avvicinare persone che mai avrebbero pensato di chiedere una consultazione con uno specialista, all’ambiente della psicoterapia. Questo è stato possibile anche grazie ai prezzi calmierati delle piattaforme che hanno cominciato a erogare ed erogano psicoterapia (con costi intorno ai 40 euro -teniamo presente che per una città come Milano i costi superano spesso gli 80€).
  • le piattaforme di psicoterapia (Centro Medico Santagostino, Serenis) hanno popolarizzato la psicoterapia, raccogliendo un bisogno che il sistema sanitario pubblico, al momento, non è in grado di soddisfare, vista la situazione degradata in cui versa, con pochissimi psicologi assunti in Asl e psicoterapie necessariamente brevi (qui un approfodimento su questo).
  • il setting del lavoro dello psicoterapeuta online, è un setting differente dagli altri. Vi sono vantaggi e svantaggi. I vantaggi sono rappresentati dalla comodità di fruizione del servizio e dalla minore intrusività di un incontro mediato dal device tecnologico, che permette un contatto oculare meno diretto, più mediato appunto. Da molte parti è arrivata l’osservazione che una seduta di psicoterapia fatta di fronte a uno schermo, sembri essere stata in grado di favorire la riflessione e la libera associazione, un po’ come quando, dal vivo, si usa un lettino (che evitando il contatto oculare, lascia il paziente in compagnia del suo pensiero, libero di ragionare e associare). Come vantaggio/svantaggio, potremmo indicare la possibilità di evitare di esporre il proprio corpo: non a tutti i pazienti piace, pur rappresentando una fonte di informazione notevole per il terapeuta.
    Questo tipo di colloqui, introducono il terapista all’interno dell’ambiente quotidiano del paziente, come fosse un colloquio a domicilio, riportando il “contesto” del paziente all’interno del lavoro di esplorazione psicoterapica, fornendo insomma informazioni ed elementi in più. Resta da capire quanto in realtà al paziente possa essere di giovamento non staccarsi dal suo ambiente di appartenenza: la psicoterapia dovrebbe rimanere un luogo protetto, “altro”, uno spazio che, per interferire con la vita nella sua quotidianità, dovrebbe essere percepito appunto come un “altrove”, spesso rappresentato dallo studio dello stesso terapeuta.
    In breve, ci sono vantaggi e svantaggi. La psicoterapia online dovrebbe essere considerata un modo della terapia, una modalità di esplicarsi del lavoro del terapeuta, con caratteristiche peculiari, da declinare a seconda del problema portato dal paziente (per esempio un paziente gravemente traumatizzato che necessiti di EMDR, troverebbe più benefici da un percorso effettuato dal vivo). Consideriamo infine i vantaggi generali della comodità fisica, e del minore costo.

ASPETTI CONCLUSIVI

Viste le questioni prima elencate, mi sembra interessante poter aggiungere alcuni punti di riflessione intorno al tema “psicoterapia e salute mentale” relativamente a questo periodo, ormai “eccezionale” da due anni a questa parte:

  • la salute mentale rappresenta un punto centrale della vita di un Paese: la pandemia ce lo ha ricordato, e ce lo ricorderà soprattutto quando l’”iper-compensazione” da evento traumatico avrà lasciato definitivamente il posto alle reazioni simil-depressive, cosa che sta già avvenendo; il fatto che gli organi di governo non colgano come centrale questo aspetto, è purtroppo un segnale nefasto; mi riferisco con questo al taglio del “bonus psicologo”
  • la socialità, la cura della propria salute psicofisica, le sindromi da reclusione, sono aspetti eclatanti di questo periodo, ma non sono gli unici; difficili da “misurare” ma altrettanto importanti, gli aspetti sfumati, la difficoltà di staccare da un lavoro estremamente richiedente, lo stress da iper-reperibilità e il disturbo dell’adattamento, il disinvestimento dall’esplorazione; di questo ci si dovrà occupare centralmente nei prossimi mesi, in termini di salute mentale, oltre ai “macro-temi” del post-trauma e delle generiche “sindromi ansioso-depressive”
  • la cura della comunicazione e del modo in cui viene fatta, è un punto importante; si spera che questa pandemia produca una crescita in questo senso, verso uno stile comunicativo che metta al centro la qualità dell’esperienza del fruitore anche in senso emotivo; l’impressione è che il giornalismo attuale sia sempre più condizionato da logiche di tipo economico, finendo per diventare entertainment: personalmente mi chiedo sempre più di frequente quanto un articolo sia scritto in un certo modo per raccontare il “vero”; o invece non voglia solo vendermi un trigger per un’emozione che mi spinga ad acquistare qualcosa o a reagire di pancia concedendo altro tempo e attenzione alla piattaforma che me lo propone. Per fortuna è in atto anche in questo settore uno sfoltimento in un certo modo “darwiniano”, con testate premiate o meno dal livello di qualità e valore prodotto.

Qui un approfondimento ulteriore.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.

Article by admin / Editoriali / psicotraumatologia, raffaeleavico

22 May 2021

CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI

di Raffaele Avico

Si è svolto il 21 maggio 2021 un convegno online moderato da Il Foglio Psichiatrico, patrocinato dall’associazione Pre.zio.sa di Torino (con la presenza di Maria Peano), che ha visto la partecipazione di alcuni esperti di salute mentale presenti in forme diverse in Rete, intorno al tema “CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA”, sul divario cioè creatosi in questo anno di pandemia tra l’approccio alla salute come corpo e l’approccio alla salute mentale degli individui -grande “elefante nella stanza”.

Riassumendo in breve i singoli interventi:

  1. VALERIO ROSSO ha parlato di stile di vita, cambiamenti di abitudine e visione integrata mente/corpo per l’approccio alla salute mentale. Ritiene inoltre debba essere svolto un lavoro di misurazione e valutazione “lenta” dei dati clinici che quest’anno di pandemia ci fornirà, senza inutili sensazionalismi. Emerge come pilastro clinico il concetto di disturbo dell’adattamento (qui per approfondire)
  2. GENNARO ROMAGNOLI ha parlato di Mindfulness e regolazione emotiva mediata da questa pratica. Ha portato molti degli argomenti che tratta nel suo blog e podcast “storico” PSINEL
  3. LUCA PROIETTI ha tentato di chiarire l’importanza di una buona diagnosi differenziale tra disturbi d’ansia e dell’umore e, di nuovo, il disturbo dell’adattamento (qui per approfondire)
  4. MARCO CREPALDI ha ragionato a proposito del tema “hikikomori”, osservando da una prospettiva “sociale” alcuni cambiamenti in atto già presenti prima della pandemia, problematizzando -tra le altre cose- il tema dell’impatto sulla mente degli individui dell’esposizione massiva in senso mediatico a cui siamo sottoposti quotidianamente (qui per approfondire)
  5. BERNARDO PAOLI ha infine portato uno studio di ricerca quantitativa sulla sua esperienza di terapia a distanza nel corso della pandemia (e prima), osservando quanto il lavoro online sia una strada percorribile, sicura ed efficace (ne abbiamo scritto e parlato a fondo qui). Per approfondire il lavoro di Bernardo Paoli

Al di là dei singoli apporti personali, declinati attraverso tematiche “core” per i singoli individui, alcuni punti emersi sono stati:

  1.  il grande elefante della stanza in senso clinico, come prima accennato, è il disturbo dell’adattamento; si è parlato in questo anno di epidemia di depressione, ansia, panico, insonnia, per lo più a sproposito: in realtà la cittadinanza si è confrontata con la necessità di adattarsi a una realtà cangiante, poco prevedibile e percepita come allarmante; l’area clinica è dunque l’area della gestione della stress, del management energetico e dei disturbi post traumatici (tra cui, appunto, il disturbo dell’adattamento)
  2. esiste la necessità -per il prossimo futuro- di migliorare tutto ciò che concerne l’”educazione scientifica”, intesa come comunicazione e divulgazione della scienza ed educazione all’utilizzo delle fonti da parte della cittadinanza, presa nel frullatore di una comunicazione sensazionalistica e impulsiva soprattutto a riguardo del Covid19
  3. la pandemia sembra aver impresso un’accelerata a un processo che socialmente osservavamo già prima del 2020; la pressione costante a uno stile di vita omologato, standard, votato al consumo per lo più solitario, sembra essere stato sospinto agli estremi dalle limitazioni sanitarie accorse negli ultimi mesi; il fenomeno Hikikomori inteso come “assetto mentale” sembra paradigmatico: la percezione di un “dentro sicuro” contrapposto a un “esterno pericoloso” ha trovato terreno fertile negli ultimi mesi, essendosi spostata la comunicazione per lo più su piattaforme digitali, in grado come sappiamo di polarizzare gli individui, radicalizzandoli su posizioni spesso estreme. Questi aspetti di “psicologia sociale” rappresentano elementi sfumati e poco indagabili in senso quantitativo, pur essendo probabilmente il vero elemento centrale che meriterebbe una seria analisi: il rischio sembra essere in fin dei conti la degradazione delle forme più virtuose di relazione sociale. Ci si dovrebbe inoltre interrogare sul potere intossicante dei Social Media, presi nella loro totalità.

L’incontro è visibile qui:


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4 May 2021

Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP)

 
di Sara Di Croce (Psicoterapeuta del Centro Medico Santagostino ) e Raffaele Avico

PREMESSA IMPORTANTE: QUESTO ARTICOLO É STATO PUBBLICATO IN ORIGINALE SUL BLOG LA FINESTRA SULLA MENTE DEL CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO, MILANO, QUI

Dopo un anno di pandemia, cosa rimane della vecchia psicoterapia, e quanto emerge dai colloqui fatti a distanza?

In concomitanza con l’esplosione della pandemia di CoViD-19, il Centro Medico Santagostino di Milano ha dovuto puntare fortemente sulla psicoterapia online, introducendo nel lavoro quotidiano nuove soluzioni, con un forte ripensamento della prassi clinica.

Anche se il nostro centro medico offriva da tempo la possibilità di svolgere una psicoterapia online, infatti, nel 2020 il numero di sedute svolte da remoto ha registrato picchi mai visti.

Abbiamo cercato di sfruttare questa rivoluzione per raccogliere dati utili e capire dove sta andando la pratica clinica psicoterapeutica. Questo approfondimento riassume e racconta i dati presentati dai clinici del Santagostino all’European Digital Conference on Psychology.

In generale, è stato riscontrato un calo delle visite settimanali del 17,4 per cento durante il primo periodo di lockdown (marzo-maggio 2020). Tuttavia, nel complesso è stato possibile mantenere fino al 90 per cento delle visite totali, grazie a un sistema di videoterapia che era già implementato e utilizzato dai nostri psicologi.

Soprattutto per quanto riguarda la psicoterapia, i pazienti hanno dimostrato un rapido adattamento alla videoterapia, favorito dalla paura del contagio e dalla scelta del centro di limitare il più possibile l’attività clinica in presenza per tutelare i dipendenti.

I vissuti dei terapeuti

Attraverso l’utilizzo di questionari self-report è stato rilevato che l’esperienza del terapeuta correla positivamente con la possibilità dei pazienti di accedere alla videoterapia e di trarne giovamento. Al contrario, bassa esperienza del terapeuta, scetticismo o difficoltà di accesso ai device possono rappresentare fattori critici. I dati confermano una buona accettazione della videoterapia (VT) da parte dei pazienti, in modo coerente con quanto riportato in letteratura (Carpenter, Pincus et al., 2018). I dati sono anche in linea con quelli di (Perrin et al. 2020), che descrivono una simile transizione alla VT durante la pandemia di Covid-19 negli Stati Uniti, al Dipartimento di Psicologia della Virginia Commonwealth University.

Il “ritorno al futuro” della pratica clinica

A causa – o forse grazie alla – pandemia, abbiamo assistito a un’accelerazione notevole nel percorso di integrazione tra reale e virtuale, forse di dieci o venti anni.

Come psicoterapeuti del Santagostino ci siamo trovati a dover ridiscutere il “setting clinico” costruendo nel frattempo nuove modalità di lavoro, più snelle anche se forse meno ricche sul piano umano. Ogni settimana abbiamo fatto colloqui con persone chiuse in piccole stanze, o in appartamenti in cui la privacy era molto scarsa. Alcuni si collegavano dal bagno, o dall’automobile, o ancora, da uffici svuotati del personale.

In altre circostanze le persone trovavano isole di privacy durante passeggiate nel circondario, connettendosi in movimento.

A distanza di un anno, al Santagostino le prassi di lavoro inerenti la psicoterapia a distanza sembrano consolidate e la “macchina” organizzativa funzionale e ben rodata.

Può essere utile a chi si trova a lavorare in circostanze simili dare un’occhiata ad alcuni grafici che raccontano l’andamento delle psicoterapie al Santagostino negli ultimi due anni.

Qui sotto abbiamo riassunto i dati più significativi.

Fig. 1 Le visite psicologiche al Santagostino nel periodo gennaio 2019 – gennaio 2021

Nel grafico in figura 1 è possibile notare un andamento crescente delle richieste di psicoterapia al Santagostino, in progressione costante a partire da gennaio 2019.

Marzo 2020 corrisponde a un’impennata delle richieste, che fino a quel momento invece erano cresciute con andamento più regolare.

Fig. 2 Le visite psicologiche riferite alla sola videoterapia al Santagostino nel periodo gennaio 2019 – gennaio 2021

Nell’immagine in figura 2 si osserva una crescita esponenziale delle richieste di videoterapia. Questo dato è contestuale alle restrizioni sanitarie imposte a marzo 2020, che ha comportato una rapida e obbligatoria conversione del lavoro psicoterapico: le terapie in presenza sono state sospese e tramutate – quando possibile – in psicoterapie online.

Scorporando le due tipologie di psicoterapia (dal vivo e online), osserviamo che le psicoterapie online mensili sono passate da meno di 700 a quasi 18000 in soli due mesi (da febbraio ad aprile 2020).

Salute mentale: da tabù ad argomento centrale di discussione

Al di là degli aspetti numerici, abbiamo negli scorsi 12 mesi rilevato la tendenza a un maggior accesso ai servizi di psicologia.

Anche se in modo a volte confuso e incongruo, molte istituzioni hanno messo l’accento sulla necessità di prendersi cura della propria salute mentale.

Nel complesso, abbiamo assistito a uno sdoganamento significativo dell’idea di ricorrere a uno psicologo, facilitata e soprattutto legittimata dal vivere tutti le grandi difficoltà connesse alla pandemia Covid19.

Insieme a questi aspetti, il proliferare di servizi gratuiti e l’apparente semplificazione dell’accesso alle psicoterapie, sembrano aver facilitato l’arrivo di persone con domande di cura poco strutturate. A volte l’impressione è stata quella di trovarsi di fronte ad aspettative “magiche”. Internet ha sostituito totalmente gli spazi aggregativi dedicati all’intrattenimento, alla socialità, al lavoro, e crediamo che questo abbia favorito fantasie di una terapia “senza sforzo”.

Ci sembra necessario dunque fare un resoconto per punti di ciò che per noi ha significato cambiare in modo così radicale le prassi di lavoro, e ragionare sulle nuove forme e modalità di lavoro che abbiamo dovuto adottare nel corso del primo anno di pandemia.

I maggiori cambiamenti nel lavoro clinico

I cambiamenti più significativi che abbiamo osservato nel lavoro clinico riguardano le motivazioni sottostanti la richiesta di accesso.

Andiamo per gradi.

Il setting 

Se prima della pandemia il setting clinico era la stanza d’analisi o di psicoterapia – con le sue poltroncine e/o la scrivania – al suo posto esistono ora schermi e smartphone, auricolari, cuffie bluetooth, IPhone messi in verticale su tavoli di cucina, tra laptop e bottiglie d’acqua.

Se tuttavia i colloqui possono essere svolti, e rappresentare allo stesso modo uno strumento di aiuto psicologico, è forse da ripensare l’ortodossia del setting in sé. Non parliamo più di uno spazio fisico, ma di un assetto relazionale: il setting è prima di tutto una posizione relazionale adottata tra paziente e terapeuta, un modo di ascoltare, costruito dal focalizzare l’attenzione sul paziente in quell’ora di colloquio.

La distruzione dello “spazio differenziato” imposto dalla permanenza forzata in casa – luogo ibrido, sede di tutte le attività del soggetto -, ha imposto un differente criterio di organizzazione delle attività quotidiane, legata alla divisione del tempo in slot. Se l’organizzazione spaziale non è possibile, allora è il tempo a essere reso “spazio”, per mezzo di un artificio cognitivo funzionale ma compensatorio, che permetta una maggiore organizzazione del pensiero.

Decompressione impossibile

Il problema di trovare luoghi di decompressione è diventato primario per diverse persone.In spazi stretti, vissuti in coppia o in famiglia, sono venuti a mancare luoghi di decompressione e apertura. Luoghi pubblici che prima rivestivano questa funzione (bar, palestra, circoli ricreativi) sono divenuti inaccessibili.

Il risultato sembra essere una generalizzata difficoltà a trovare spazi in cui scaricare lo stress e allontanarsi dai problemi.

Invasività e confini

Connesso al punto precedente, la questione dei confini. Confini violati in senso prima di tutto spaziale/ambientale, poi in senso psicologico. Ma anche confini violati in termini di poca differenziazione tra tempo libero e tempo dedicato al lavoro, con un senso di reperibilità continua. Violazioni di confine psichico producono senso di disgregazione, disfacimento identitario, confusione tra i propri pensieri e quelli dell’”altro”, difficoltà a perseguire i propri obiettivi, dispersione di energia.

Difficoltà di regolazione somatica

Con particolare riferimento al sonno, problema dilagante. La pandemia ha alzato il senso di allerta, producendo senso di poca prevedibilità e paura del futuro. Dormire di un sonno peggiore, più frammentato, è stata la naturale conseguenza su scala nazionale. Il Santagostino ha, a proposito di questo, attivato un servizio di presa in carico specifico.

Reperibilità continua

Come prima accennato, la questione della reperibilità continua ha reso più labili i confini tra vita privata e lavorativa. Molte persone nei colloqui clinici hanno riportato con regolarità la percezione di sentire invaso il proprio tempo libero, a causa di mail, messaggi, richieste fuori orario, con una vita privata continuamente “bucata” da questioni professionali ansiogene, anche qui con una dispersione enorme di energia e quote di stress elevate. Non sembra esserci più riparo dalla reperibilità continua, non pagata e frustrante. Questi aspetti sono ben argomentati nel libro Lavorare (da casa) stanca di Nicola Zamperini, curatore dell’interessante blog “Disobbedienze”, così come in Cronofagia di Davide Mazzocchi (che abbiamo recensito qui)

Enclothed cognition

Il concetto di enclothed cognition (letteralmente “cognizione indossata”, a indicare l’impatto del vestiario sulla cognizione) è emerso ragionando sulla necessità di strutturare nuove prassi di lavoro da remoto. Enclothed cognition significa che a volte “è l’abito a fare il monaco”: indossare abiti da lavoro aiuta cioè ad assumere un differente assetto mentale, gestendo meglio l’energia da dedicare al lavoro. Il problema anche qui è formale: avendo il lockdown ridotto il ricorso ad artifici ambientali volti a rendere più produttivi e attivi, serviva (serve, servirà) un espediente mentale per aumentare l’efficienza. Il “come vestirsi” stando in casa per lavorare è uno dei problemi dei liberi professionisti che già prima lavoravano da casa (grafici, architetti, scrittori). Ne parla bene ad esempio Haruki Murakami nel suo Il mestiere dello scrittore. Sulla enclothed cognition si veda questo video. Per approfondire.

I problemi psicologici più legati alla pandemia

Lo “stop” pandemico forzato ha avuto ricadute profonde su tutta una serie di pensieri che prima tendevamo a evitare. Di fatto, ci ha obbligati tutti a contattare contenuti mentali scomodi, luttuosi, depressivi. Problemi mai veramente affrontati, conflitti interni mai risolti. La stasi obbligata ha creato un contenitore di pensiero che sembra in un certo senso aver distorto il senso del tempo, con la sensazione di un “limbo”, di un interregno, di una realtà sospesa, con però un aumentato senso di consapevolezza su ciò che prima eravamo.

Quali sono i temi che abbiamo osservato lavorando con persone arrivate al Santagostino in questo primo anno di pandemia Covid? Ecco alcuni spunti.

Ansia sociale

Le persone che prima della pandemia soffrivano di problematiche sociali (fobie sociali e scolastiche per esempio, problemi di ritiro sociale come gli Hikikomori), hanno trovato nella nuova normalità ritirata, una legittimazione e insieme un riconoscimento delle proprie difficoltà psichiche, migliorando vistosamente in termini psicopatologici. Questi individui hanno vissuto le chiusure progressive con senso di controllo e con una relativa serenità: gli “altri” avrebbero finalmente capito come si sta in casa, cosa vuol dire sentire l’isolamento, come si impara a bastare a se stessi.

Regressione

L’intervento del Governo a regolamentare le chiusure e le regole sociali, è stato in grado di promuovere movimenti di regressione psichica. Auto-indursi dei limiti tramite pratiche di rinuncia o auto-disciplina, presuppone una scelta ragionata da parte dell’individuo e la libertà di poter sgarrare alle stesse regole a cui ci si assoggetta. Qui invece parliamo di un limite posto da qualcosa di esterno, come un intervento “genitoriale” radicale eseguito su un bambino impotente.
É un limite in grado di produrre regressione a stati mentali infantili, il più verosimile degli “interventi paterni”. La regressione può produrre senso di castrazione e soffocamento, ma in questo caso sentire la presenza di un limite reale (come il coprifuoco serale) ha avuto un effetto ansiolitico nei soggetti che sembravano in difficoltà nell’amministrare la propria libertà.

Difficoltà nel creare nuove relazioni

Un elemento da non sottovalutare è la problematicità insita nel conoscere persone nuove/intrecciare relazioni di coppia in questo frangente storico. Sono venuti meno i luoghi di normale messa in scena dell’avvio di un rapporto di coppia. Inoltre permane una diffidenza verso gli altri, ereditata nei primi mesi di pandemia. Sarà interessante vedere l’evoluzione e l’esito di questi atteggiamenti quando la pandemia, gradualmente, si concluderà (il distanziamento sociale stesso, la differente prossemica, gesti divenuti automatici come sollevare la mascherina all’incrociare un altro individuo in una strada vuota, gli automatismi legati all’igiene delle mani).

Il tema della buona comunicazione

In ultimo, ma non per importanza, il problema della comunicazione.

Il 2020 ha evidenziato un problema di comunicazione inefficiente, i cui effetti sulla salute mentale dei cittadini sono difficilmente dimostrabili, ma sicuri.

In questi ultimi mesi, la contraddittorietà delle informazioni riguardanti il Covid, i titoli clickbait, informazioni pompate in modo sensazionalistico dalle più autorevoli testate italiane e sottoposte alla nostra attenzione centinaia di volte al giorno, hanno avuto un impatto negativo costante.Il problema della comunicazione di qualità è sempre più attuale.

In questo scenario fosco si elevano poche eccezioni (Il Post) insieme alla categoria dei divulgatori come Roberta Villa, Enrico Bucci, Burioni, Entropy for Life, Biologi per la scienza, in grado di veicolare informazioni chiare e coerenti. Veri fari nella notte in questi ultimi mesi.

QUI IL SITO DEL CENTRO MEDICO SANTAGOSTINO.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA. Qui invece l’area membri/Patreon per sostenere il blog, in cambio di contenuti dedicati (4€/mese)

Article by admin / Editoriali / raffaeleavico

6 January 2021

GIORNALISMO = ENTERTAINMENT

di Raffaele Avico

Diamo benvenuto nel gruppo di lavoro di questo blog a Silvia Bussone e Marco Colamartino.

Il Foglio Psichiatrico ha cercato, dalla sua nascita (2017), di coniugare rigore delle fonti e chiarezza espositiva. Abbiamo mantenuto una politica editoriale chiara, che riprendiamo qui:

  • NO risposte facili a problemi complessi (purtroppo in psichiatria e in psicologia clinica non esistono risposte definitive, diffida da chi te le offre)
  • NO banalizzazioni: chi soffre di disturbi psichiatrici, di qualunque entità, vuole essere preso sul serio
  • NO ad articoli acchiappa-click: quelli li troverai sulle pagine delle testate nazionali 🙂
  • NO ideologie: la nostra è una posizione post-ideologica (se una cosa non funziona, lo ammettiamo)
  • SÍ a un approccio integrato, che metta insieme più discipline, unite per convergere
  • SÍ a un lavoro sulle fonti: i nostri post si fondano su riferimenti ad articoli scientifici estrapolati da riviste autorevoli (Lancet, JAMA Psychiatry, World Psychiatry, riviste con fattore d’impatto scientifico alto).

Il lavoro di Silvia e Marco sarà focalizzato sull’approfondimento di questioni inerenti la neuroscienza, la psicobiologia, la farmacologia, la psicologia comparata, la metodologia della ricerca, adottando uno stile chiaro, sul modello di altri blog/testate che sempre più si stanno distinguendo nel mondo della buona informazione, come il Post o Medical Facts.

Ecco le rispettive presentazioni:

Silvia Bussone, Psicologa, Psicoterapeuta in Formazione, Dottoranda in Psicologia Dinamica, Clinica e della Salute, Esperta in Psicologia Giuridico-Forense.

Salve a tutti e tutte, sono Silvia Bussone, una giovane psicologa appassionata di ricerca clinica con una declinazione psicobiologica. Per coniugare clinica e biologia, ho deciso sin dalla laurea triennale di dedicarmi a lavori di tesi sperimentali che mi potessero formare in ambito psicobiologico, per poi abbracciare la psicologia clinica, con una piccola parentesi in psicologia giuridico-forense durante l’anno di tirocinio.

Al momento sono impegnata in un dottorato di ricerca in psicologia dinamica, clinica e della salute presso la Sapienza, Università di Roma, con un progetto sui correlati psicobiologici di eventi traumatici infantili e successivo rischio psicopatologico.

Dal momento che credo fortemente che la formazione di uno psicologo debba essere più comprensiva ed esaustiva possibile, sono anche psicoterapeuta in formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T. Beck di Roma, grazie al quale collaboro occasionalmente col servizio per le dipendenze patologiche di una delle ASL romane.

Sono appassionata di scrittura, lettura e mi tengo continuamente aggiornata sulle ultime tendenze in campo neuroscientifico, in particolare sul trauma, o sui meccanismi biologici alla base delle relazioni e/o dell’attaccamento. Apprezzo molto anche i diversi orientamenti delle psicoterapie e lo scambio con i professionisti del settore, dai quali mi piace prendere spunti di riflessione per la mia pratica professionale.

Marco Colamartino, Psicologo, Dottore di Ricerca in Neuroscienze del Comportamento (Psicobiologia e Psicofarmacologia), Psicoterapeuta in formazione.

Marco Colamartino, psicologo formato all’Università “La Sapienza” di Roma. Sin dall’inizio della mia carriera universitaria ho voluto scegliere un percorso che aderisse alla mia passione principale: la psicobiologia e le neuroscienze, materie che mi appassionavano sin dalle scuole superiori. Ho conseguito la laurea triennale in Psicologia Cognitiva e la laurea specialistica in Neuroscienze Cognitive e Riabilitazione Psicologica. La laurea specialistica mi ha offerto la possibilità di applicarmi in campo psicobiologico e di lavorare ad una tesi sperimentale per circa un anno e mezzo; grazie a questa esperienza, ho iniziato a lavorare su un modello murino di ritardo mentale (fenilchetonuria) e su eventuali terapie farmacologiche che potessero risolverne i deficit biologici e comportamentali. Successivamente ho conseguito il dottorato di ricerca, grazie al quale ho approfondito le mie conoscenze in campo psicobiologico e psicofarmacologico a livello preclinico.

Terminato il dottorato, ho sentito il bisogno di integrare lo studio della psicologia clinica alla mia formazione ed ho iniziato la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso l’Istituto A.T Beck di Roma che attualmente sto svolgendo. Grazie a questo nuovo percorso, ho svolto attività di tirocinio nel dipartimento di Neuropsichiatria Infantile in una delle ASL romane.

Oltre alla psicobiologia e alle neuroscienze, che rimangono i miei interessi principali, grazie alla scuola di specializzazione mi sono appassionato a moltissimi argomenti come il trauma, i meccanismi dissociativi, ma anche ad alcuni tipi di disturbi (es: alimentari) che miro ad approfondire nel corso dei miei studi.

Questi anni di formazione in psicologia mi hanno portato, oltre che a confermare la mia passione, anche alla consapevolezza che la qualità di un professionista derivi non solo dalla sua preparazione e dalla sua esperienza, ma anche dalla sua apertura mentale e da quanto è disposto a confrontarsi in maniera collaborativa con gli altri colleghi. Credo che il confronto, l’integrazione e la divulgazione siano degli aspetti base, che non possono mancare all’interno della nostra professione.

Di recente abbiamo tutti assistito a un generale impoverimento e perdita di credibilità di testate che, fino a pochi anni fa, conservavano un’assoluta autorevolezza in senso giornalistico.

In questi ultimi mesi, la contraddittorietà delle informazioni riguardanti il Covid, i titoli clickbait, un’informazione impazzita e schizogena, ha impattato sulla nostra coscienza pressoché costantemente.

L’Italia si è specchiata sullo schermo degli smartphone controllati compulsivamente, uscendone a pezzi in senso psicopatologico. Titoli spazzatura, informazioni pompate in modo sensazionalistico dalle più autorevoli testate italiane sottoposte alla nostra attenzione centinaia di volte al giorno, a ogni scrollata compulsiva dello smartphone. L’additività e il potere dipendentogeno dei Social, hanno fatto il resto.

Alcune domande che è lecito farsi:

  1. le politiche editoriali dei giornali a cui prima si è accennato, stanno degradando la credibilità delle suddette testate, causando allontamenti di lettori e perdita di  abbonamenti, cosa che alimenterà l’ulteriore rilancio verso il baratro. É possibile che la cosa non sia stata compresa dai redattori? É il più semplice dei circoli viziosi
  2. Come reagisce un cervello sottoposto a informazioni incoerenti e contraddittorie su tematiche vitali per il soggetto, che riguardano la sua salute? Lo osserviamo: paralizzandosi di terrore e sviluppando un disturbo dell’adattamento
  3. come è possibile che nella redazioni delle maggiori testate italiane, non sia presente un comparto di giornalisti scientifici che sappiano mettere in piedi un’informazione di qualità, coerente e unitaria (su temi legati alla pandemia, in questo caso)?

Il problema della comunicazione di qualità è sempre più attuale.

In questo scenario da incubo si elevano, come dicevamo, poche eccezioni (Il Post) insieme alla categoria dei divulgatori: singoli individui (Enrico Bucci, Burioni, Entropy for Life, Biologi per la scienza) in grado di veicolare informazioni chiare e coerenti. Veri fari nella notte in questi ultimi mesi. Ringraziamo loro se conserviamo ancora un po’ di sanità mentale: almeno per le questioni scientifiche o che riguardino la salute degli individui, è auspicabile che la palla passi -per il futuro- ai divulgatori scientifici.

Article by admin / Editoriali / psicoanalisi, psicologia, psicoterapia

28 December 2020

PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum)

 

di Raffaele Avico

Qualche tempo fa, ho avuto la possibilità di visitare la città/struttura psichiatrica di Geel, a pochi chilometri da Bruxelles, in Belgio. Geel è conosciuta in ambito psichiatrico perché ospita un progetto antico (che va avanti da centinaia di anni) di inserimento di malati psichiatrici all’interno di famiglie cosiddette normali, chiamate “foster families”.

Sceso dal treno a Geel, chiedo consiglio a un passante a riguardo del Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum, dato che su Internet è pubblicizzato poco e si trova altrettanto poco materiale foto/video a riguardo. Vengo indirizzato verso una struttura poco distante dal centro (cosa di per sè inusuale, dato che soprattutto in passato agli ospedali psichiatrici veniva destinata una collocazione al di fuori del centro abitato per ragioni di sicurezza/igiene sociale), chiamata dal passante “Sano Clinic”.

La raggiungo e mi trovo immerso in un vero e proprio villaggio collegato da sentieri interni e caratterizzato dalla presenza di case indipendenti, strutture cubiche di legno con grandi finestre da cui si vedono gli interni ed edifici più simili ai moderni ospedali. Faccio una prima ricognizione e noto che, visti dall’esterno, gli ambienti interni sono puliti e arredati in modo semplice; osservo inoltre la presenza di pazienti di varie età in locali diversi.

In prossimità di una delle strutture noto la presenza di camere singole in cui vedo alcuni degenti intenti a compiere attività quotidiane: fin qui niente di particolarmente nuovo, eccezion fatta per il grado di pulizia e ordine dei locali, che non sono abituato a vedere in Italia.

Noto infine pazienti che lavorano nelle aree verdi circostanti le case; ci sono anche laboratori di falegnameria molto organizzati (con macchinari funzionanti, etc.) in cui presumo vengano fatte attività di preparazione al lavoro, o in cui vengano insegnate attività artigianali.

Cerco qualcuno a cui chiedere maggiori informazioni e vengo indirizzato ad una persona che si trova in un altro edificio: qui entro e trovo un help-desk con una ragazza a cui chiedo, se possibile, di poter avere alcune informazioni in più a riguardo del progetto. Dopo avermi fatto attendere alcuni minuti, la receptionist mi indirizza a una terza persona che a sua detta mi concederà mezz’ora per illustrarmi le caratteristiche principali del progetto.

Qui mi accoglie il Dott. Wilfried Bogaerts, psicoterapeuta della clinica, che mi conduce nel suo studio e con cui avrò al fortuna di poter intrattenere un colloquio vero e proprio a riguardo del progetto di Geel. Al mio presentarmi e raccontando della situazione attuale della psichiatria italiana, di ciò che faccio e della città da cui provengo (Torino), mi stupisco nel constatare che il terapeuta sia a conoscenza del progetto I.E.S.A., di fatto una copia del progetto belga che mi trovo a visitare, attivato sul territorio dell’ASLTO3, e che conosca addirittura il nome dello psicologo che per primo lo importò nel nostro Paese (Dott. Aluffi).

Gli porgo delle domande specifiche a riguardo del progetto e si dimostra molto disponibile a spiegarmi in che modo il progetto si è evoluto nel tempo.

Le risposte da lui datemi potrebbero essere sintetizzate come segue:

  • il progetto di Geel è antichissimo: la leggenda narra che già dal 1300 a Geel fosse sorta una comunità di accoglienza per malati mentali (in seguito a un evento scatenante), e che nel tempo il tutto avesse assunto proporzioni sempre più importanti fino ad arrivare, alla fine dell’800, a contare un totale di 3000 malati psichici ospiti delle famiglie del paese, che contava in tutto 20000 persone. 3000 pazienti psichiatrici per 20000 persone: un numero elevatissimo. Il Dott. Bogaerts mi racconta di come all’inizio il progetto fosse stato spinto e promosso dai preti e dagli organi clericali del luogo (Wikipedia cita il caso del padre di Vincent Van Gogh, che in una lettera al fratello di Vincent Theo, esprime il suo desiderio di mandare Vincent a Geel affinché venga preso in carico dalla comunità di accoglienza)
  • con il progressivo affermarsi della scienza psichiatrica la gestione della malattia mentale migra entro il dominio della scienza medica, ma la modalità rimane sempre la stessa: le famiglie del paese accolgono i malati mentali introducendoli a uno stile di vita più “normalizzato” e famigliare
  • nel tempo il numero dei pazienti si abbassa e il servizio viene organizzato in modo più strutturato: al momento attuale a Geel si contano 300 pazienti ospitati dentro 300 famiglie, con gradi diversi di autonomia e con diagnosi diverse

Mi spiega quindi le tappe principali della presa in carico di un paziente all’interno del progetto:

  • i pazienti vengono in un primo momento presi in carico dalla struttura centrale (l’ospedale/villaggio in cui mi trovo) e in un secondo momento, se e quando ritenuti idonei, vengono indirizzati alla “foster family” che si è resa disponile all’accoglienza. Qui la persona viene inserita/o e si struttura per lei/lui un percorso di inserimento con grandi diversi di autonomia. Il dott. Bogaerts mi spiega come il grado di autonomia e la quantità di tempo di permanenza settimanale all’interno della famiglia, varino da caso a caso: molto dipende dalla gravità dei sintomi del paziente e da quanto a questo/a giovi il permanere all’interno di un contesto strettamente famigliare. Non per tutti, mi spiega infatti, sembra essere d’aiuto l’essere circondati da un ambiente ristretto come quello famigliare: alcuni tipi di pazienti lo patiscono, sembrano necessitare di più spazio e meno controllo
  • a proposito di questo, viene creato un profilo personalizzato per ogni paziente, a seconda anche di quali siano i mezzi della “foster family” ospitante: esistono infatti famiglie che ricevono in casa il paziente introducendolo/a negli spazi di vita comuni a tutti i membri (camere da letto, cucina, etc.), altre che invece hanno costruito una dependance in un cui ricevere l’ospite, concedendogli quindi maggiori autonomie nel muoversi “in famiglia”
  • è variabile inoltre il numero di giorni che il paziente dovrà passare con la famiglia: alcuni vi trascorrono solo una parte della settimana, dedicando gli altri giorni alla famiglia di origine (quando presente) o permanendo all’interno della struttura “madre”; altri potranno trascorrervi anche solo due giorni a settimana, in una sorta di affidamento (diurno e notturno insieme)
  • alla mia domanda sui quadri diagnostici presenti all’interno del progetto, il Dott. Bogaerts si dimostra totalmente indifferente alla necessità di categorizzare i disturbi del soggetto, facendomi osservare come a suo modo di vedere sia più una necessità del curante – quella di parlare di una specifica categoria diagnostica- che non del paziente. Parole come schizofrenia, disturbo dello spettro autistico, etc., perdono di senso di fronte a un progetto di reinserimento sociale che mantenga uno sguardo particolareggiato e ritagliato intorno alla personalità del paziente. Questo non esclude tuttavia che al paziente sia assegnato un piano di cura e di reinserimento che tenga conto della sue difficoltà e necessità
  • Infine, il Dott. Bogaerts mi spiega di come all’interno del progetto siano presenti anche alcuni bambini affidati a famiglie ospitanti (al momento attuale, circa una decina), e mi dà un’idea di quali possano essere i futuri sviluppi del progetto (la sua diffusione anche ai territori circostanti, e l’aumento del numero di pazienti presi in carico)

ALCUNE RIFLESSIONI

Quello che mi colpisce è innanzitutto l’apertura all’esterno del progetto: la facilità che ho trovato nell’ottenere un colloquio con un terapeuta in servizio all’interno della struttura, la distanza ravvicinata dei luoghi di cura con il centro cittadino e la visibilità in sé data ai pazienti, non nascosti/negletti ma esposti e osservabili.

É chiaro come il progetto sposi un’ideologia clinica fortemente orientata: si tratta cioè di cambiare la percezione che la società ha della malattia mentale, allargando la coscienza collettiva (in modo che essa possa abbracciare -contemplandola- l’esistenza e la natura della patologia psichiatrica) e di ridurre lo stigma nei confronti del malato mentale.

Inoltre si dà spazio e ci si concentra sulle risorse residue del paziente (sempre esistenti, come ci ricorda Vigotskij): questo avviene affidandogli responsabilità e autonomie reali perché calate nel contesto del territorio (e non create artificialmente nella bolla di una struttura chiusa e autarchica). Si fa cioè un lavoro di empowerment e di assegnazione di competenze civili a pazienti che di solito se ne vedono progressivamente, e quasi inesorabilmente, deprivati (chi lavora in ambito di salute mentale osserva questo fenomeno tutti i giorni).

Questo livello di intervento (territoriale/di reinserimento) viene ovviamente integrato a un approccio farmacologico e psicoterapeutico rendendo più “completo” e integrato, in un certo senso, l’approccio al sintomo e alle difficoltà del paziente, con risultati migliori in termini di qualità di vita e integrità psichica.

Colpisce poi la poca risonanza data a un fenomeno del genere in Italia (incluso il progetto IESA), segno di come avanguardie cliniche simili necessitino di essere spinte e copiate da modelli come quello di Geel, e maggiormente diffuse.

In Italia il modello di Geel è stato per primo adottato a Collegno (Torino) da parte del Dott. Aluffi e dagli operatori dell’ASLTO3 ; esiste inoltre una piccola realtà nel modenese chiamata “Rosa Bianca” e altre Asl che sul territorio italiano si sono mobilitate in questa direzione.

Il servizio IESA (acronimo con cui è stato chiamato il progetto, che sta per “Inserimento Etero-familiare Supportato di Adulti sofferenti di disturbi psichici”) permette di pagare le famiglie ospitanti: sul territorio di Torino alla “foster familiy” viene elargito un bonus di 1100 euro mensili -con variazioni-, che saranno in ogni caso meno rispetto a quanto costerebbe allo Stato collocare il paziente all’interno di una struttura riabilitativa.

Seguendo questo disegno di “politica clinica”, è facile osservare come possano essere avvicinati due bacini di utenza che necessitano -entrambi- di un supporto: la famiglia ospitante, che si avvantaggia di un apporto affettivo -ma anche economico- extra, e l’utente psichiatrico che in essa trova un nuovo contesto di crescita personale e di presenza affettiva; il tutto coordinato da operatori preposti e formati al progetto.

APPROFONDIMENTI

  • il sito del centro

 

Article by admin / Editoriali / psicologia, psicotraumatologia, raffaeleavico

21 October 2020

LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO


di Raffaele Avico


PREMESSA

Questa intervista a Lorena Ferrero ha l’obiettivo di sensibilizzare rispetto a un tema circoscritto, ma importante: il futuro pensionistico e previdenziale del popolo degli psicologi italiani. É in particolare rivolta a liberi professionisti psicologi o psicoterapeuti sopra ai 30 anni di età, impegnati nella lotta per la conquista di un proprio spazio professionale, che vogliano gettare un occhio al proprio futuro in termini, appunto, di previdenza. Ne emerge un quadro fosco, in cui sembra necessario da subito puntare a differenziare, per il singolo professionista, le entrate economiche -all’insegna del metodo 1+1+1+1+1+1-, sganciati dall’idea -almeno al momento- di trovare una qualche forma di supporto attivo da parte degli enti previdenziali.

Gentile Lorena, ci dai una descrizione del tuo lavoro e di chi sei?

Sono una psicologa e psicoterapeuta piemontese, libera professionista, con un’attività lavorativa molto diversificata: oltre all’attività privata in studio sono professoressa invitata dell’Istituto Universitario Salesiano Rebaudengo di Torino; mi occupo inoltre di orientamento e politiche attive del lavoro. Psicologa scolastica e consulente tecnico di parte in perizie e CTU. Iscritta all’Albo degli esperti e dei collaboratori dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (AGENAS) e formatrice corsi ECM. In passato docente a contratto presso il Dipartimento di Psicologia di UNITO, esperta presso il Tribunale di Sorveglianza di Torino e consulente di un servizio pubblico sulle dipendenze. Ho collaborato con un’associazione di psicoterapia sociale, seguito la progettazione su bandi di finanziamento e ho lavorato come psicologa nei Centri di Accoglienza Straordinaria per migranti.

Gentile Lorena, come giudichi la situazione attuale italiana degli psicologi? Ci dai una fotografia sommaria dello stato di salute della categoria psicologi e psicoterapeuti?

Direi che come categoria stiamo male: c’è una richiesta del mercato del lavoro inferiore all’offerta degli psicologi, pubblica e privata, mancando un accesso programmato a livello nazionale all’Università come per le altre figure sanitarie. Siamo infatti una professione SANITARIA, più sulla carta che nella realtà. C’è BISOGNO di PSICOLOGI nel Servizio Pubblico, richiesta da parte dei cittadini, a cui spesso non si risponde perché mancano le risorse (la rete pubblica normalmente riesce a coprire mediamente solo il 25% dei bisogni psicologici previsti dai Livelli Essenziali di Assistenza anche attraverso gli specializzandi, che prestano gratuitamente la loro opera durante la formazione), quella che è bassa è la DOMANDA da parte della Sanità Pubblica, cioè vengono fatti pochi bandi e non vengono sostituiti i colleghi che vanno in pensione. Nel contempo non vengono forniti ai cittadini BONUS o attivate CONVENZIONI che consentano alle fasce deboli della popolazione di accedere al sostegno ed alle cure rivolgendosi direttamente agli psicologi liberi professionisti. Gli psicologi del lavoro e organizzazioni stanno un pochino meglio: una maggior richiesta della loro figura, però spesso le aziende preferiscono i coach anche con formazione non psicologica, questo dovrebbe farci nascere delle domande sul nostro percorso di studi forse non così professionalizzante.

Gentile Lorena, parlaci di previdenza e di pensione; recentemente hai avviato una polemica vivace sulle pensioni degli psicologi. Facendo un calcolo sommario, uno psicologo libero professionista di 30 anni, per avere una pensione di 1000€ al mese, dovrà smettere di lavorare a 70 anni avendo dichiarato ogni singolo mese più di 3000€. È così? Equivale a dire che una maggioranza dei professionisti avrà pensioni da fame.

Purtroppo la questione pensionistica degli psicologi liberi professionisti è una bomba sociale ad orologeria, che esploderà: occorre porsi il problema oggi come categoria ed interrogarsi sulle possibili soluzioni da mettere in campo a livello ENPAP, come cassa privata, e le richieste da portare a livello governativo. A 65 anni inizia l’erogazione della pensione ENPAP, se si continua l’attività privata nel contempo si versano ancora i contributi. Per arrivare ad una pensione mensile di 1.000 euro netti, occorre a 65 anni aver accumulato un montante di 250.000 euro di contributi. Attualmente le pensioni medie erogate si aggirano sui 180 euro mensili, con punte minime fino a 30 euro al mese. Previdenza&Solidarietà, la lista con cui mi candido nel CIG Nord alle prossime elezioni ENPAP, si impegna a lavorare per introdurre una pensione minima di 520 euro al mese. Si può fare, gli strumenti finanziari ci sono. Ora bisogna iniziare a lavorarci. Le pensioni basse nel sistema contributivo derivano, in gran parte, dalla bassa entità del montante nei primi 5/10 anni di attività professionale. Previdenza&Solidarietà si impegna a esplorare l’introduzione del “prestito d’onore” a valere sui montanti contributivi, a favore delle colleghe e dei colleghi più giovani. Partire con un montante di una certa consistenza garantisce nel tempo una pensione dignitosa.

Gentile Lorena, dove sono collocati, allo stato attuale, gli psicologi? Dove lavoravano, dove lavorano e dove lavoreranno?

Do alcuni dati. Siamo circa 120.000 iscritti all’Ordine in Italia, mentre solo 65.000 sono gli iscritti all’ENPAP. Quindi sembrerebbe che molti colleghi in realtà non lavorino come psicologi. Solo il solo il 20% degli psicologi, come psicoterapeuti, risulta attualmente invece operante in modo strutturato o in regime di convenzione all’interno del Sistema Sanitario Nazionale, pur essendo professione sanitaria. Quando siamo nati come professione il bacino del lavoro nel pubblico era naturale e senza ostacoli per chi non sceglieva la libera professione come interesse. Ad oggi i risultanti 80% degli iscritti all’Ordine dovrebbero distribuirsi tra liberi professionisti che spesso come la sottoscritta sono trasversali a più ambiti: clinico, forense, scolastico, lavoro e organizzazioni, migranti, sport, neuropsicologico e riabilitazione, disabilità e cronicità, anziani e RSA, ricerca e Università, e chi svolge mansioni come dipendenti che non richiedono l’iscrizione all’Albo degli psicologi, pur rimanendo iscritti per scelta personale, quali insegnanti di ruolo, precari, compresa la messa a disposizione ed educatori.  Cosa ci riserva il futuro lavorativamente parlando francamente non lo so, al di là che se non viene istituito il numero nazionale programmato di accesso all’Università i più giovani saranno destinati principalmente ad una prospettiva di sottoccupazione o riconversione ad altri ambiti professionali, come parzialmente sta già accadendo, vedasi i bassi redditi dei neopsicologi.

Gentile Lorena, quali soluzioni intravedi? Distingui le soluzioni dall’alto, da quelle dal basso: cosa chiedere agli organi istituzionali, e cosa consigliare a un giovane collega? É chiaro che un professionista, a meno che non sappia differenziare o reinventarsi, impiegherà molto tempo prima di riuscire a camminare con le sue sole gambe, versando nel frattempo troppo poco.

Le soluzioni dall’alto e dal basso dovrebbero essere entrambe guidate da una logica di CATEGORIA: appartenenza, comunione di intenti, partecipazione attiva. Come tradursi nei comportamenti e azioni? Gli Organi Istituzionali, che ci rappresentano, CNOP, Ordini regionali e provinciali, ENPAP, si auspica, si muovano in sinergia. In particolare sono il CNOP a livello nazionale e gli Ordini a livello locale che dovrebbero impegnarsi per lo sviluppo professionale degli psicologi: assumendo anche posizioni ferme. Faccio un esempio: nell’emergenza Covid-19 sono stati previsti gli psicologi nelle USCA, al momento però non ci sono stati bandi al riguardo e nel contempo il Ministero della Salute aveva chiesto il contributo volontario e gratuito al numero verde di supporto psicologico, nel caso specifico il CNOP, a mio avviso avrebbe dovuto ostacolare questa iniziativa. I giovani colleghi avrebbero necessità di un orientamento all’uscita del percorso universitario rispetto alle opportunità reali e potenziali. Un’idea che mi piacerebbe implementare, lo si può fare però solo a livello di Ordine, è un progetto di mentoring tra liberi professionisti old e junior, come scambio intergenerazionale. Intanto il neopsicologo sia curioso e si informi per costruire il suo presente e futuro, si costruisca un proprio progetto professionale.

Gentile Lorena, hai indicazioni su libri o blog che ci aiutino a farci un’idea più reale dello stato delle cose?

A livello nazionale consiglio il blog del collega Rolando Ciofi una finestra sul mondo della psicologia, tendenze, sviluppi e criticità. In regione Piemonte ho cercato di creare con il gruppo Informazioni per gli Psicologi del Piemonte una comunità viva ed interattiva, che dibatte di temi locali e nazionali, opportunità lavorative e formative: operazione riuscita con la collaborazione degli oltre 3.000 membri su Facebook.

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28 September 2020

FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix

di Raffaele Avico


Perchè guardare, su Netflix, The Social Dilemma?

The Social Dilemma è un documentario che intreccia due filoni di narrazione: contiene in sè sia una parte di documentario con interviste a ex programmatori/informatici di Facebook, Pinterest, Google, quindi direttamente coinvolti nella stessa nascita di questi social media, sia una parte più narrativa con la storia di un ragazzo “pilotato”, “radicalizzato” dai social media.

Il messaggio che ne è esce è chiaro: “we have to“, “dobbiamo” cambiare qualcosa nel modo di fruire dei Social, visto che questi stessi Social sembrano sempre più programmati per “pilotarci” in senso comportamentale a fini sia commerciali, che politici. Tutto questo, sfruttando meccanismi paleopsicologici, atavici, come l’induzione di panico, o la gratificazione mediata da dopamina.

Vedere questo documentario consente una presa di consapevolezza, per tentare di mettere in atto comportamenti di “difesa”.

É stato osservato come, ogni qualvolta all’interno del mercato tecnologico venga inserito un nuovo strumento, le persone assumano due posizioni stereotipiche che vedono da una parte gli entusiasti/ottimisti, dall’altra i catastrofisti/luddisti. Spesso il tutto prende una connotazione politica, a seconda che si decida di appoggiare o meno una posizione “liberale”, con l’individuo più o meno responsabile di sè nella società del consumo. In questi ultimi anni, con la nascita dei Social Network, sembra essersi riproposta la stessa dinamica: da una parte gli entusiasti, dall’altra gli scettici/catastrofisti/reazionari. Nelle discussioni accademiche -o anche cliniche- si arriva a una conclusione che è sempre la stessa: sarà necessario, nel tempo, normalizzare l’uso dei social attraverso un’educazione al buon uso: questo però ha come presupposto e assunto fondamentale il fatto che la responsabilità dell’uso di uno strumento di così forte impatto -Facebook o qualunque altro social, come Tik Tok- dipenda esclusivamente dal singolo cittadino. Il problema, in questi termini, non sarebbero tanto Facebook nè TikTok in sé, quanto l’uso che se ne fa. Così come si fa con un bambino che viene educato al buon consumo del cibo, si tratterebbe di fornire al cittadino gli strumenti per difendersi dai rischi dei social media/Facebook, cosicchè in autonomia possa auto-limitarsi, imparare a controllarsi.

Spostiamo per un attimo la questione e allarghiamola, confrontando il problema dell’uso dei Social con la questione sull’uso improprio di armi dove queste siano di facile accesso. Oppure proviamo a metterlo a paragone con il problema del gioco d’azzardo, il gambling. Il problema diviene subito prettamente politico e ruota intorno alla questione se lo Stato debba impegnarsi o meno per proteggere la cittadinanza da sé stessa, cioè dai propri impulsi più basici (rabbia, paura dell’ignoto, questioni di tipo territoriale).

Se assumiamo che la cittadinanza abbia pieno controllo di sé e dei propri impulsi, facciamo forse un errore di sopravvalutazione delle risorse degli individui: il problema del gambling in Italia, o la questione dell’uso di armi negli USA, per esempio, hanno sollevato la questione sul libero accesso alle “fonti” (slot-machines, armi), soprattutto quando ad accedervi siano persone con difficoltà sociali, magari provenienti da contesti a rischio. Se ci arrendiamo al fatto che i cittadini non sempre siano in grado, da soli, di controllare i propri impulsi -razionalizzandoli, “sublimandoli” o “intellettualizzandoli”-, l’utilizzo di social come Facebook, Instagram o TikTok non diviene più solamente una questione di libertà e controllo individuale, divenendo un problema politico nel senso più ampio del termine, ovvero di “gestione della collettività” che dovrebbe essere in particolar modo considerato in relazione alla cittadinanza con meno risorse personali, ovvero ai soggetti più deboli.

I PIANI DEL RISCHIO

Come si osserverà a seguito della visione di The Social Dilemma, la natura controversa di strumenti come TikTok o Facebook (Facebook viene descritto come particolarmente nefasto in quanto a strumento di comunicazione: sappiamo tra l’altro che è ormai in pieno declino, soprattutto tra i più giovani) ha quindi piani diversi che riguardano:

  1. la questione della dipendenza e dell’accesso a uno strumento estremamente dipendentogeno (cioè in grado di provocare assuefazione e grande dipendenza): c’è da chiedersi quanto la persona sia realmente libera di controllare i propri impulsi, generati su bisogni altrettanto basici, come l’appartenere, o il sedurre. Se rispondiamo a questa domanda (quanto la cittadinanza è in grado di padroneggiare i propri impulsi?), su cui non possiamo essere neutrali e su cui è importante interrogarci, dobbiamo per forza di cose schierarci a favore o contro, di fatto assumendo una posizione educativa, come un genitore fa istintivamente, per esempio, ogni qualvolta al figlio di 5 anni venga messo in mano un tablet o un device tecnologico. L’istinto che muove un padre a proteggere il figlio dall’uso di uno strumento come Internet -e i Social- dovrebbe farci riflettere su quanto tutti noi ci si renda conto, anche se ingenuamente, di quali pericoli di assuefazione e dipendenza rechi con sé uno strumento come Facebook, o qualunque altro social. Come sappiamo, la dipendenza si crea dove c’è gratificazione.
  2. In senso più sociale e interpersonale, l’assenza di moderatori conduce, come osserviamo tutti i giorni, a una libertà di parola totale con le conseguenze inevitabili di un “aprire le gabbie”: pensiamo per esempio al revenge-porn, o al cyber-bullismo (che da virtuale diviene paurosamente incarnato e reale). In questo caso Facebook -ma anche gli altri social- sono un’agorà virtuale in cui vale tutto, all’interno della quale permettiamo ai nostri avatar di confrontarsi in modo spietato, salvo poi accorgerci che questi stessi avatar qualcosa di noi hanno e che le parole hanno un loro peso, che rimane anche una volta spento lo schermo. Raffaele Alberto Ventura ne parla nel suo “La guerra di tutti” a proposito dell’effetto “mimesi”, ovvero quando lo spettacolare deborda nel reale, contaminandolo.
  3. Al di là del problema dell’uso dipendentogeno dei Social e in particolar modo di Facebook, la discussione a proposito della qualità dell’informazione ha messo al centro dell’attenzione un ulteriore piano di pericolo, questa volta a proposito dei contenuti e in particolare a riguardo delle bolle informative e delle fake news. Queste ultime sono da interpretarsi come operazioni, strumenti di marketing (un giornalista, in accordo con la redazione per cui lavora, modifica a piacimento la notizia al fine di renderla più appetibile al grande pubblico, al fine di conquistare più audience, e quindi più click e più soldi): niente di nuovo in termini di media. Giornalismo ed entertainement si confondono. Quello che però appare come un fenomeno relativamente nuovo è quello appunto delle bolle informatiche, questione che va pensata a partire dal tema ormai noto, più ampio, di come sono manipolati i contenuti dei Social e dei motori di ricerca che usiamo quotidianamente a fini commerciali. Esistono, come sappiamo, algoritmi e software che, dopo aver tracciato un profilo di ciò che siamo a livello di consumatori web, ci propongono risultati e avvertimenti pubblicitari che si confanno al nostro gusto, a fini sempre di (web) marketing. Questo rende la nostra conoscenza ricorsiva, mai veramente aperta a ciò che è diverso dal nostro gusto personale. In questo senso si parla di “bolla informativa”: immaginiamo un bozzolo di risultati Google e advertisement Facebook che ci avviluppa costruito a nostra immagine e somiglianza e pensato per far sì che noi ci si avvicini a ciò che si confà ai nostri gusti. É facile capire quanto questo precluda uno sguardo più ampio sulla realtà e quanto rappresenti una minaccia alla democrazia mediatica (questo aspetto è forse il più evidenziato da The Social Dilemma)

Su queste tematiche diversi soggetti, in rete, stanno tentando un lavoro di prevenzione, come Tlon (qui un intervento molto lungo e denso sul libro “Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social” di Jaron Lanier), o alcuni youtuber come Federico Pistono.

“WE HAVE TO”

Così come è accaduto nei decenni scorsi per le operazioni giganti di prevenzione ai rischi connessi al mondo del tabacco (ci sono voluti decenni), ciò che va fatto è prendere coscienza in pieno dei rischi di questo strumento, per poi (tentare di) abbandonarlo come si fa con una cattiva abitudine (chi progressivamente, chi operando un taglio netto). I soggetti più a rischio, come evidenzia The Social Dilemma, sono coloro i quali possiedono meno strumenti protettivi in termini di rischio di dipendenza e manipolabilità (i bambini, adolescenti con funzioni esecutive deboli -più predisposti a sviluppare addiction-, i deprivati, le persone con meno rete sociale o pochi familiari di supporto, in generale i fragili): Facebook, insieme agli altri Social, li troverà pronti e affamati.

É probabile che su questo l’opinione pubblica dovrà fare alcuni step, con lo stesso iter che già osservammo per altri oggetti di dipendenza nei decenni scorsi: novità, “coolness”, assenza di consapevolezza, prodromi (fase in cui siamo ora), sintomi, presa di coscienza, diagnosi, problematizzazione e infine (ri)posizionamento.

Siamo solo all’inizio.


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15 September 2020

IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura”

di Raffaele Avico, Gianluca D’Amico


INTRODUZIONE

Basaglia diceva che è necessario, in qualsiasi opera di cambiamento sociale, essere dei buoni inventori e dei buoni narratori. Si tratta dell’annosa questione della relazione tra teoria e pratica. È sufficiente ragionare e ragionare insieme per cambiare la realtà oppure è sufficiente tuffarcisi dentro alla realtà per cambiare, per sentirne la puzza, per attraversarne le contraddizioni?

È chiaro come entrambi i momenti siano strettamente necessari, ma la questione di fondo è come decliniamo il rapporto tra questi due momenti. Basaglia, nella sue due anime da grande psicopatologo e da grande distruttore di vecchie istituzioni e di inventore di nuove istituzioni (costruite con l’intenzione di distruggerle all’infinito per crearne sempre di nuove), ci insegna che il nostro fine di operatori della salute mentale non è tanto quello di vincere e quindi di raggiungere un determinato obbiettivo che ci eravamo prefissi a scapito di altri che la pensano diversamente da noi, ma piuttosto è quello di convincere: di dimostrare che un altro modo di stare con l’Altro è possibile, che possiamo inventarci altri modi di costruire la salute delle persone, con le persone.

Aprire le pratiche e la teoria a possibilità diverse, fare un passo indietro e di lato rispetto al si-fa-così-perchè-si-è-sempre-fatto-così; fare epochè, che semplicemente significa mettersi in discussione, farsi travolgere, di fronte all’Altro, dal dubbio, farci assediare dal nostro balbettio, prendere distanze e tempo al fine di costruire, sempre con l’altro, un modo diverso di fare salute.

Dicevamo, non ci interessa il fine, non ci interessa raggiungere uno standard migliore (qualsiasi cosa significhi) nei nostri servizi di salute mentale; da qui il mio personale dubbio sull’utilizzo del termine “modello”. Nella mia testa un modello (seppur in scienza e coscienza) ha le caratteristiche della completezza e della compiutezza ed è per questo che mi restituisce un’idea di staticità.

Esiste un modello triestino? Le Microaree rappresentano il modello triestino? Non lo so e pare (per fortuna) che nemmeno chi ci lavora abbia le risposte a quelle domande.

Mi pare, al netto dell’ambiguità del termine “modello”, che le Microaree abitino a pieno le contraddizioni del territorio triestino e che non si siano fatte travolgere (questo lo intuisco dalle parole degli operatori) dalla smania di dover tutto codificare, tutto matematizzare e tutto staticizzare. Mi pare che il progetto delle Microaree incarni quello spirito di eterna innovazione e invenzione che portò ad una legge stupenda che è la legge 180 del 1978; mi pare che gli operatori che hanno inventato e ragionato queste istituzioni oscillino elegantemente e con consapevolezza tra il desiderio di reinventare e reinventarsi continuamente e il desiderio (il pericolo) di aver raggiunto, una volta per tutte, il modo migliore per fare salute mentale -un modello appunto. (G.D.)


LE MICROAREE: INTERVISTA A MARIAGRAZIA COGLIATI DEZZA

Con i colleghi e amici di Psicologia fenomenologica abbiamo voluto approfondire il modello triestino (cosa lo differenzia dal restante territorio italiano, in termini di presa in carico di persone in difficoltà -e in particolare utenti psichiatrici?).

Il nostro podcast ha l’obiettivo di creare dei confronti tra modelli di gestione e presa in carico, tra paesi diversi (Italia vs Belgio, per esempio, o Italia vs Svizzera). In questo caso abbiamo fatto un’eccezione, decidendo di addentrarci meglio nel lavoro dell’area di Trieste.

A questo fine abbiamo intervistato Maria Grazia Cogliati Dezza, psichiatra, curatrice del libro La città che cura, che abbiamo qui recensito, ex dirigente dell’azienda sanitaria triestina e promotrice del progetto Microaree, su cui l’intervista si è focalizzata.

Le microaree sono una realtà unica in Italia: nascono nel 2004/2005, in ragione della necessità di copertura sociosanitaria di alcune zone della città di Trieste altamente sofferenti e segnate da profonde diseguaglianze interne. Come si ascolta nell’intervista, le microaree nacquero dal convergere degli intenti di 3 enti territoriali, uniti in nome di una medicina (più) territoriale:

  1. azienda sanitaria locale
  2. comune di Trieste
  3. ATER di Trieste (ente per l’assegnazione delle case popolari della città)

..con dieci obiettivi iniziali:

  1. Realizzare il massimo di conoscenza sui problemi di salute delle persone residenti nelle Microaree.
  2. Ottimizzare gli interventi per la permanenza nel proprio domicilio ove ottenere tutta l’assistenza necessaria (e contrastare l’istituzionalizzazione)
  3. Elevare l’appropriatezza nell’uso di farmaci.
  4. Elevare l’appropriatezza per prestazioni diagnostiche.
  5. Elevare l’appropriatezza per prestazioni terapeutiche (curative e riabilitative).
  6. Promuovere iniziative di auto-aiuto ed etero-aiuto da parte di non professionali (costruire comunità).
  7. Promuovere la collaborazione di enti, associazioni e organismi profit e no profit per elevare il ben-essere della popolazione di riferimento (mappatura e sviluppo).
  8. Realizzare un ottimale coordinamento fra servizi diversi che agiscono sullo stesso individuo singolo o sulla famiglia.
  9. Promuovere equità nell’accesso alle prestazioni (più qualità per cittadini più vulnerabili).
  10. Elevare il livello di qualità della vita quotidiana di persone a più alta fragilità (per una vita attiva ed indipendente).

Per dare forma al progetto, nato nell’idea iniziale di sviluppare comunità, vennero create delle sedi dedicate (portierati sociali) coordinate da un referente dissociato dell’azienda sanitaria (spesso un infermiere), che sarebbero state frequentate in seguito da utenti di varia estrazione (ex tossicodipendenti, utenti psichiatrici, utenti “sociali”, anziani del luogo, bambini) ma strettamente legati al luogo.

Ogni microarea, infatti (allo stato attuale ne esistono 17), risponde a un bacino di cittadini specifico: la sua giurisdizione, o la sua copertura, si rivolge a un numero limitato di persone, che abitano quella parte di città.

Qui l’intervista:


IL DOCUMENTARIO “LA CITTÁ CHE CURA”

Già qui avevamo scritto a proposito del libro la città che cura, a proposito del concetto di microaree di Trieste.

Il film/documentario che su quel libro è stato costruito e diffuso, la cui regia è di Erika Rossi, intreccia due filoni narrativi distinti: l’attività di Monica (operatrice di una microarea di Trieste) sul territorio, impegnata a seguire diversi soggetti colpiti da diverse problematiche tali da necessitare un monitoraggio continuo fatto in modo domiciliare, e lo svolgersi di un’equipe di lavoro proprio tra operatori delle microaree, che discutono a proposito del loro stesso lavoro.

Va chiarito che il modello per microaree è unico in tutta Europa, come specificato a fine film, se non del mondo. Il modello triestino è per questo riconosciuto a livello internazionale come “punta di diamante” tra i modelli psichiatrici diffusi, che in Italia diremmo ispirati al lavoro di Basaglia verso una psichiatria maggiormente democratica.

Vediamo per punti quali sono gli aspetti salienti del modello triestino e cosa emerge dalla visione del film:

  • il lavoro di Monica non è solo quello di presiedere e aprire il portierato sociale (o microarea) del quartiere in cui lavora a Trieste: il suo lavoro è un lavoro domiciliare in senso reale, con visite fatte quotidianamente a casa di pazienti in carico a diversi servizi (dai CSM ai Sert) che in altro modo non sarebbero stati tenuti in carico, probabilmente destinati a “scomparire” agli occhi dei servizi
  • quello che si osserva è un luogo, quello della microarea, in cui convergono diversi tipi di utenti di provenienza differente: è quindi, la microarea, un luogo ibrido e aperto a persone anziane e magari sole, ex tossicodipendenti, pazienti psichiatrici, bambini
  • la microarea, come questa intervista fatta a Roberta Balestra (ex dirigente SerD Trieste) per il nostro podcast ben chiarisce, è un luogo di ascolto, un luogo di ricezione dei bisogni del quartiere, un anello tra il territorio e l’ASL, destinato a introdursi in modo capillare nelle pieghe di un tessuto sociale complesso come quello dei quartieri difficili di Trieste. La     microarea si costituisce in questo modo come l’ultimo passaggio di una filiera sanitaria, una catena di servizi che va dall’ospedale all’abitazione di un potenziale utente;
  • viene evidenziato in un passaggio del film, durante la riunione di equipe tra operatori delle microaree, come il modello stesso spesso sia difficilmente sintetizzabile, rappresentabile e narrabile. Di fatto, al momento, è un modello non conosciuto e soprattutto poco riconosciuto, a rischio di essere, come sottolinea un operatore ripreso nel film, “inchiodato” da statistiche e numeri in grado di, così, farlo “morire”. Si tratta di un modello che fornisce assistenza particolareggiata e presenza costante degli operatori in quartieri e zone che altrimenti non sarebbero raggiunti dai servizi territoriali.
  • L’operatore (lo si osserva dal lavoro di Monica nel film) si costituisce come figura ibrida, ausiliaria del soggetto, in grado di aiutare il paziente su più livelli, un po’ come fa un operatore di comunità residenziale, ma sul territorio; di fatto le ASL erogano anche altrove, non solo a Trieste, assistenza domiciliare: la differenza del modello triestino è appunto la presenza di luoghi in cui gli stessi bisogni vengono meglio intercettati e presi in carico in modo più puntuale

Quali sono dunque i punti di forza del modello triestino?

Abbiamo attraverso il Podcast de Il Foglio Psichiatrico iniziato un lavoro di raffronto dialettico tra modelli di presa in carico psichiatrica in paesi diversi. Per ora, abbiamo intervistato psichiatri provenienti da contesti molto diversi (Belgio, USA, Svizzera): il nostro obiettivo è valutare il modello italiano in confronto con i modelli stranieri, per capirne le caratteristiche e le aree di miglioramento.

Quello che sembra emergere è una sostanziale sovrapposizione per quanto riguarda ciò che avviene all’interno degli ospedali: qui, si lavora, bene o male, allineati su linee guida generali e senza  differenze sostanziali. La differenza, così sembra, la fa il territorio, quello che avviene nel momento in cui un paziente venga dimesso dall’ospedale e ritorni a casa, le modalità insomma del suo inserimento.

Troviamo qui molteplici differenze, a seconda del grado di territorializzazione della presa in carico psichiatrica di un determinato soggetto.

Il modello triestino non si limita in questo senso a predisporre un certo numero di colloqui, per esempio, di psicoterapia, da effettuare da parte del paziente quando questi sia tornato a casa, per un certo periodo, così da monitorare la situazione ed effettuare costanti follow-up.

Qui l’idea (e da qui il titolo del film documentario, La città che cura) è costruire un apparato infrastrutturale pervasivo, realmente presente, realmente supportivo, al fianco delle persone, restituendo così l’individuo alla sua comunità, nell’idea di una più utile domiciliarizzazione dei servizi.

Un aspetto che emerge dall’intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza, è la volontà da parte dei promotori del progetto di mettere insieme una filiera di servizi “forte”, che riuscisse a produrre un miglior livello di assistenza sul territorio per pazienti psichiatrici, così limitando le cronicizzazioni (quello che chiamamiamo lungodegenze, spesso inevitabili -pi che altro per mancanza di alternative); la forza di questi stessi servizi, Cogliati Dezza sottolinea, consta di un’attenzione particolare ai luoghi stessi in cui questi servizi vengono erogati (con sedi “dignitose”), una maggiore copertura in termini di orario (ricordiamo che a Trieste i CSM sono aperti 7 giorni su 7 e contengono posti letto per effettuare ricoveri brevi -fino a 7 giorni), un generale ripensamento dell’idea di “fare salute” mettendo al centro il paziente nel “suo” ambiente.

Anche per questo, il modello triestino può essere annoverato tra gli strumenti reificati, tra le idee “messe a terra” a partire dall’impulso teorico di Basaglia, insieme ad altre buone pratiche come il reinserimento eterofamiliare assistito (IESA), qui descritto, presente invece in tutta Italia.


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.

 

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2 May 2020

RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI


di Raffaele Avico

Psychiatry On Line compie, questo maggio, 25 anni: al suo interno conta più di 8400 pezzi scritti e più di 1800 video a tema psichiatria, psicoterapia, psicologia clinica e neuroscienze. La maggior parte degli accessi al sito di Psychiatry On Line, avviene via Google, tramite parole chiave a tema salute mentale, psicoterapia o psichiatria in generale. L’homepage del sito (che quest’anno verrà rinnovata, insieme al sito stesso), tuttavia, pubblica ogni giorno articoli inediti a opera di tanti operatori della salute mentale da tutta Italia, impegnati con la redazione in un “lavoro culturale” senza scopo di lucro a tema “psy” a partire dal 1995.

L’archivio video rappresenta, è bene ricordarlo, una risorsa per portata e quantità di contenuti senza eguali al mondo. Non esiste nessun altro contenitore che accorpi così tanto materiale in ambito di psichiatria e psicologia: l’archivio video spazia da interventi ripresi nel corso di conferenze, a interviste mirate, a rubriche individuali di grande interesse culturale a tema salute mentale. Vi si trovano interviste e speech ai più autorevoli rappresentanti del movimento psichiatrico e della psicologia clinica degli ultimi 20 anni, oltre che a ospiti di eccezione come Otto Kernberg, Antonio Damasio, Liliana Cavani.

Alcuni filoni o rubriche da riscoprire, sono:

  • il lavoro di approfondimento dell’opera di Jacques Lacan nelle parole di Antonio Di Ciaccia, uno dei più importanti lacanisti in Italia (tra l’altro al momento impegnato nella realizzazione di una serie proprio su Lacan )
  • le interviste a Eugenio Borgna
  • gli interventi di Vittorio Gallese (neuroni specchio)
  • un’intervista in tre parti a Giovanni Abbate Daga (disturbi alimentari)
  • gli approfondimenti di Jacco Seikkula sull’Open Dialogue
  • l’enorme playlist di video per l’evento genovese organizzato per il quarantesimo anno dalla legge Basaglia (180×40)
  • lo speciale Otto Kernberg
  • l’intervista a Benedetto Farina su “Sviluppi Traumatici” (trauma)
  • il vocabolario psicoanalitico di Franco de Masi (più di 120 video su parole/concetti chiave del corpus teorico psicoanalitico)
  • molteplici riprese di interi convegni SIP e SOPSI

Qui l’archivio delle Playlist create.

Ma Psychiatry on line è ancora, ovviamente, un archivio di più 8000 di testi raccolti in più di 25 anni. Per esempio (scelti da Francesco Bollorino):

  1. LETTERA A UN GIOVANE SPECIALIZZANDO IN PSICHIATRIA di Gilberto Dipetta
  2. VENGO A PRENDERTI IN DIREZIONE DEL SOLE di Maria Ferretti
  3. Una favola psichiatrica di Antonio Alberto Semi
  4. L‘AFFAIRE MILLER VERSUS RECALCATI. Intervista a Sarantis Thanopulos di Francesco Bollorino

Questa sera stessa (sabato 2 maggio 2020), inoltre, alle 20:30 verrà svolto un seminario online sul Canale Youtube della Rivista, su tema “salute mentale e coronavirus”. Qui la presentazione:

NOTA BENE: se ti interessano la psicotraumatologia, la clinica del trauma e le avanguardie di ricerca, abbiamo attivato un Patreon per fornire contenuti mensili su queste tematiche. Trovi qui i nostri reward!

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31 March 2020

10 ANNI DI E.J.O.P: DOVE SIAMO?


di Raffaele Avico

Questo editoriale pubblicato sull’European Journal of Psychotraumatology per i 10 anni dalla sua fondazione come rivista, vuole rispondere alle domande, molto semplici:

  1. dove eravamo nel 2010?
  2. cosa abbiamo fatto in questi 10 anni?
  3. quali sono i vuoti di conoscenza, ancora, da riempire?

L’articolo parte con una serie di valutazioni a riguardo degli aspetti genetici inerenti il PTSD, osservando come l’avvento dei big data potrà in futuro contribuire a meglio chiarire la questione.  A proposito di questo, recenti meta-analisi, molto ampie, paragonano il PTSD ad altri disturbi chiedendosi se la patogenesi del PTSD debba considerarsi solamente di natura sociale (con un PTSD generato solo da cattive esperienza collegate all’ambiente), o se esistano dei fattori predisponenti a livello genetico (nella fattispecie, questa seconda ipotesi viene maggiormente considerata plausibile). A livello sia di prevalenza tra persone colpite da trauma che di ereditarietà genetica, il PTSD viene nella metanalisi pubblicata su Nature prima citata paragonato alla depressione maggiore (“PTSD is similar to major depression in both prevalence (among trauma-exposed persons) and in heritability”).

L’articolo prosegue ragionando su ciò che è stato scoperto, negli ultimi 10 anni, a livello di neurobiologia del PTSD.

Una delle ipotesi dominanti e centrale, sembra essere relativa a un’alterazione delle strutture profonde del cervello “difensivo” (amigdala), associata a una scarsa o difettosa modulazione della stessa da parte del “freno” della corteccia prefrontale (gli studi di Ruth Lanius hanno approfondito a fondo questi aspetti). Questa ipotesi è però basata sul modello che vede il PTSD come un disturbo di alterazione dei processi legati alla paura, mentre numerosi studi negli ultimi dieci anni hanno messo in luce come sia necessario andare oltre questo modello. L’ipotesi proposta dagli autori riguarda una generale disregolazione di tutta l’espressione emotiva, declinata nelle diverse emozioni (quindi non solo la paura, ma anche rabbia, colpa e vergogna), a seguito dell’esperienza traumatica. Inoltre, l’articolo esprime l’urgenza” di annettere alla ricerca in ambito neurobiologico riguardante il trauma, le regioni sottocorticali e troncoencefaliche, come molteplici autori sottolineano.

Gli autori dell’editoriale, sintetizzano quindi alcuni aspetti desunti da 10 anni di articoli sul trauma pubblicati sulla loro rivista (che, ricordiamo, è totalmente open access):

  • la frequenza di aspetti traumatici, e in generale la presenza di trauma, sembra essere largamente sottovalutata, con una frequenza di PTSD -vissuto almeno una volta nella vita- tra la popolazione generale molto più alta di quanto si pensi (circa il 70%)
  • le conseguenza di un trauma vissuto in infanzia permangono anche nella vita adulta, su differenti piani. Questo è certo. La ricerca ha ancora molto da studiare però a riguardo delle traiettorie in termini di possibili conseguenze su altre aree esperienziali, e in senso intergenerazionale:

“What we do not know is how the neurobiological (Lanius & Olff, 2017), psychological (Baekkelund, Frewen, Lanius, Ottesen Berg, & Arnevik, 2018; Schafer, Becker, King, Horsch, & Michael, 2019), affective (Strøm, Aakvaag, Birkeland, Felix, & Thoresen, 2018), and relational (Heeke, Kampisiou, Niemeyer, & Knaevelsrud, 2019; van Dijke, Hopman, & Ford, 2018) alterations associated with different forms, durations, and structures (Armour, Fried, & Olff, 2017; Murphy, Elklit, Dokkedahl, & Shevlin, 2018) of psychotrauma exposure (and re-exposure) emerge and take different courses or trajectories across the lifespan – and across generations (Burnette & Cannon, 2014; Crombach & Bambonye, 2015; Schick, Morina, Klaghofer, Schnyder, & Muller, 2013).”

  • l’emergere di un PTSD di massa, o l’avvento di un trauma di massa possono al giorno d’oggi giovarsi -per così dire- di strumenti tecnologici, con potenziali  benefici (ma anche danni) per la popolazione. Tra tutti, i Social media, potenzialmente in grado di fotografare l’impatto di un evento, o di propagarne, paradossalmente, la portata traumatica.
  • esiste negli ultimi anni una maggiore attenzione alla psicotraumatologia dell’emigrazione, con aspetti peculiari e forme di intervento mirate (citata la Tf-CBT, ovvero la psicoterapia cognitivo-comportamentale trauma-focused, incentrata sul modello trifasico qui descritto e la narrative exposure therapy (NET; Lely, Smid, Jongedijk, Knipscheer, & Kleber, 2019)
  • si delinea sempre più la distinzione tra PTSD, PTSD complex e PTSD con sintomi dissociativi, anche grazie agli aggiornamenti relativi ai criteri diagnostici introdotti dal DSM-5 e dal ICD-11.
  • per quanto riguarda la psicoterapia, lo strumento da mettere i n campo, in prima linea, è la psicoterapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, insieme all’EMDR. Questo lo sostiene la psicotraumatologia mondiale: “On the basis of comprehensive meta-analyses, recent national and international clinical guidelines have recommended several trauma-focused cognitive behavioural treatment programmes and EMDR as first-line treatments for PTSD”.
  • In senso psicofarmacologico, viene osservato come il razionale “prossimo futuro” di intervento, sia l’utilizzo di farmaci in maniera breve e mirata al fine di facilitare i processi di elaborazione della memoria durante le sessioni di psicoterapia. Questo passaggio risulta importante se consideriamo come nel 2010 (gli autori riportano) l’intervento farmacologico sembrasse ridursi alla combinazione SSRI/SNRI, ora non più proposta per il PTSD. Gli autori osservano come vi sia allo stato attuale un tentativo di integrare in modo più intelligente il farmaco al lavoro di psicoterapia, quest’ultimo da considerarsi come IL lavoro da effettuare, in prima battuta, dovunque vi sia uno stress post-traumatico. È probabile che il futuro della terapia con il PTSD preveda sempre di più un lavoro di psicoterapia trauma-focused, con il supporto del farmaco come “facilitatore” della psicoterapia stessa (si pensi alla psicoterapia supportata dall’uso di MDMA)
  • a riguardo delle nuove tecnologie, vengono citate nuove forme di intervento sensomotorio combinato a uso di dispositivi di realtà virtuale/immersiva (come il progetto 3MRD), così come il tentativo di creare “fenotipi” usando strumenti digitali (per fare assessment, si potrebbe idealmente valutare un uso “differente” di un telefono da parte di un soggetto colpito o meno da PTSD)
  • per quanto riguarda i modelli conoscitivi usati per meglio inquadrare il fenomeno stress post-traumatico, gli autori citano il network model di Borsboom, anche in relazione al PTSD. Viene sottolineato come un modello incentrato sulla causalità circolare, potrebbe aiutare a meglio comprendere (pur con limitazioni) la fenomenologia del disturbo, e le diverse ripercussioni dello stress post-traumatico sulla vita di un individuo (pensiamo per esempio alle conseguenze sul sonno del PTSD, in grado di peggiorare ricorsivamente il PTSD stesso, insieme causando ricadute depressive, e così via). Viene citato il machine learning per compiere indagini epidemiologiche in grado di fornire una sorta di identikit ideale del paziente potenzialmente vittima di PTSD e per identificare i predittori di una buona risposta ai trattamenti

Gli autori concludono raccomandando progetti di respiro globale (https://www.global-psychotrauma.net/about), auspicando migliori analisi epidemiologiche che si giovino di nuove tecnologie incentrate anche sui big data e portate avanti da gruppi di ricerca multidisciplinari. Vengono inoltre auspicate pubblicazioni “open access” in modo da poter garantire ampia diffusione dei risultati delle ricerche ed avere quindi maggiore influenza su i policymakers.

Article by admin / Editoriali, Generale / neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

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  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
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  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
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  • SULL’IMMOBILITÀ TONICA NEGLI ANIMALI. Alcuni spunti da “IPNOSI ANIMALE, IMMOBILITÁ TONICA E BASI BIOLOGICHE DI TRAUMA E DISSOCIAZIONE” 30 April 2020
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  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
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  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
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  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA? 19 March 2019
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  • LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE 20 November 2018
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  • PILLOLE DI EMPOWERMENT 9 November 2018
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  • IL CAFFÈ CI PROTEGGE DALL’ALZHEIMER? 30 October 2018
  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI? 23 October 2018
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel 19 October 2018
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE 16 October 2018
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit 9 October 2018
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche? 4 October 2018
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  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO 22 June 2018
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO 18 June 2018
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  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI? 31 May 2018
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  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE 24 May 2018
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ 21 May 2018
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK 17 May 2018
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  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico) 9 May 2018
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE 6 May 2018

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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