di Raffaele Avico, Emiliano Toso
Abbiamo ultimamente pubblicato su questo blog alcuni post a tema esposizione e disturbi di ansia/panico, che linkiamo in fondo.
L’esposizione (o terapia espositiva) è uno strumento psicoterapeutico pensato per chi soffre di problemi inerenti la paura (fobie, disturbo di panico, ptsd, DOC) ma anche per numerose altre condizioni cliniche di interesse generalmente medico (ad esempio nel dolore cronico e nell’obesità).
Il razionale che ha sorretto fino a poco tempo fa la terapia espositiva, era l’abituazione: l’idea era che esporsi in modo graduale allo stimolo fobico (per esempio in chi soffrisse appunto di fobie, ma anche per i pazienti con un disturbo di panico che volessero contrastare le loro naturali tendenze all’evitamento), producesse una reazione di abituazione e quindi di estinzione delle risposte di allarme. L’idea era quindi quella di costruire una piramide gerarchica di stimoli fobici da usare come guida per esporsi, in un processo di lavoro chiamato desensibilizzazione sistematica: si trattava di partire dalla più innocua di queste paure, da usare come oggetto di esposizione; quando ci si fosse “desensibilizzati” a proposito di quello stesso stimolo, si sarebbe passati al livello superiore della piramide, e così verso gli stimoli maggiormente disturbanti fino a “desensibilizzarsi” su tutto, estinguendo la paura. Problema: non funziona. Come osserva Emiliano Toso in questa intervista, la risposta di allarme ritorna anche dopo un processo di desensibilizzazione sistematica.
Gli studi a riguardo della terapia espositiva sono andati avanti, producendo un progressivo cambio di paradigma che abbiamo nei post precedenti illustrato, verso la concettualizzazione del più attuale paradigma inibitorio; si tratterebbe cioè non tanto di abituare il cervello a confrontarsi con stimoli fobici di sempre maggiore intensità, quanto di spiazzarlo attraverso un processo di aspettative di volta in volta deluse (mi espongo a qualcosa per cui temo una risposta fobica e di forte allarme, e questo poi non succede), attraverso la creazione di memorie inibitorie, “precedenti positivi” in grado di affiancarsi alle memorie problematiche, così facendo inibendo la risposta di paura e allarme.
Abbiamo fatto un’intervista su queste tematiche a Emiliano Toso e a Massimo Agnoletti, qui di seguito reperibile:
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Da questa intervista, alcuni spunti da tenere a mente sono (fig. 1):
- Le più recenti ricerche a proposito della terapia espositiva, si basano su studi di neuroscienze: tentare di creare risposte inibitorie che riescano a “competere” con quelle problematiche, implica fare i conti con molti fattori collaterali in grado di aiutare quello stesso processo di creazione, per esempio il momento della giornata in cui fare l’esposizione, la qualità del sonno, lo stato del microbiota;
- Il cervello non va “abituato”, ma “spiazzato”/deluso nelle aspettative negative, variando di volta in volta il contesto spazio/tempo;
- Ogni violazione della aspettative, rinforzante già di per sé, va rinforzata ulteriormente rendendola ancor più gratificante;
- Al fine di favorire la formazione, il consolidamento ed il recupero dell’apprendimento inibitorio occorre considerare e coltivare anche aspetti quali la qualità del sonno, l’attività fisica aerobica, l’alimentazione, il benessere intestinale, la gestione dello stress.
Gli altri post sull’esposizione:
- LE FRONTIERE DELLA TERAPIA ESPOSITIVA. INTERVISTA A EMILIANO TOSO
- TERAPIA ESPOSITIVA: INTERVISTA A EMILIANO TOSO (PARTE SECONDA)
- TERAPIA ESPOSITIVA (IN PODCAST)
- VERSO UNA TERAPIA ESPOSITIVA DI PRECISIONE: PREFAZIONE
- SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE
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