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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in psichiatria e psicoterapia

8 December 2020

PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino

di Raffaele Avico

Il Foglio Psichiatrico ha avviato un podcast con lo scopo di creare dei ponti tra realtà psicoterapeutiche/psichiatriche diverse. Lo trovate qui (con interviste a psicoterapeuti/psichiatri dal Belgio, Svizzera, USA). Abbiamo inoltre, sul podcast, condotto un’indagine sulla realtà di Trieste. Trieste è un’eccellenza italiana in termini di modello psichiatrico.

In questo episodio abbiamo intervistato Matteo Respino dal Rush di Chicago:

https://www.spreaker.com/user/ilfogliopsichiatrico/mp3respino

L’intervista a Matteo Respino, psichiatra, è particolarmente utile a uno studente di medicina che immagini di volersi trasferire negli USA per la specializzazione in psichiatria.

Si parla inoltre di clinica e di differenti approcci tra il modello italiano e quello statunitense (aspetto che avevamo già toccato con Fernando Espi Forcen).

Buon ascolto!


Ps tutto il materiale su trauma e dissociazione presente su questo blog è consultabile cliccando sul bottone a inizio pagina (o dal menù a tendina) #TRAUMA.

 

Article by admin / Generale / matteorespino, psichiatria, raffaeleavico

12 December 2019

HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER

di Raffaele Avico

Si parla spesso di cannabis, sostanze psichedeliche e dei possibili effetti nocivi sulla salute di chi ne fruisca.

Uno dei possibili “strascichi” dell’uso di sostanze psichedeliche è rappresentato dai sintomi visivo/dissociativi. In particolare, testimonianze dirette di fruitori riportano effetti dissociativi di derealizzazione e depersonalizzazione. Leggere questa pagina può dare un’idea delle esperienze vissute dai fruitori. Vi si racconta di strascichi simil-dissociativi di lunga durata, fino a un anno, a seguito di utilizzo di “psichedelici”. Il termine scientifico per questa sindrome è HPPD.

Questo articolo pubblicato su Brain Sciences esegue un’analisi della letteratura esistente (46 articoli in tutto) sul tema HPPD, rilevando due livelli di disturbo:

  1. HPPD ti tipo 1, di entità lieve, a prognosi breve (massimo un anno)
  2. HPPD di tipo 2, di entità grave, a prognosi negativa e definito “difficilmente reversibile”

In questo studio vengono descritti alcuni punti centrali del disturbo:

  • EZIOLOGIA: l’ipotesi eziologica dominante al momento, è un danno al Sistema Nervoso Centrale (destruction or dysfunction of cortical serotonergic inhibitory interneurons with gamma-Aminobutyricacid (GABAergic) outputs, implicated in sensory filtering mechanisms of unnecessary stimuli), risultante in un effetto “disinibente”. La mente perderebbe in questo senso il suo “filtro” (il cervello è di per se stesso un filtro, con una certa quantità di stimoli esclusi dalla coscienza per ragioni di adattamento funzionale)
  • SOSTANZE MAGGIORI RESPONSABILI: LSD e cannabis (la cannabis è ascritta alla categoria di sostanze dette “dissociative”, al pari dell’LSD, particolare da non trascurare)
  • FENOMENOLOGIA:
    1)tipo 1: “aura”, lieve senso di distacco, senso di “smarrimento”, depersonalizzazione e derealizzazione sfumati
    2)tipo 2: “aura” grave, acuto senso di distacco, senso di “smarrimento”, depersonalizzazione e derealizzazione acuti
  • SINTOMI VISIVI: qui di seguito riassunti
  • COMORBILITÀ: non rilevante/necessaria all’insorgere di un HPPD (a indicare la natura “isolata” del disturbo, avente dignità di fenomeno psichico a se stante)
  • TRATTAMENTO FARMACOLOGICO: prima linea/seconda linea (vd.articolo)
  • ALTRE TIPOLOGIE DI TRATTAMENTO CONSIDERATE: rTMS (neuromodulazione)

In questo articolo viene sottolineata la natura “rara e imprevedibile” del disturbo.

Viene inoltre notato come uno degli effetti del disturbo sia un’alterata e ingigantita interpretazione di fatti “visivi” altrimenti ritenuti ordinari (In many cases, HPPD may also be explained in terms of a heightened awareness of and concern about ordinary visual phenomena, which is supported by the high rates of anxiety, obsessive-compulsive disorder, hypochondria, and paranoia seen in many patients), il che ci racconta di come, a seguito di un evento percepito come traumatico o altamente disturbante, un soggetto possa diventare “preoccupato” a riguardo dei suoi stessi sensi inaugurando un periodo di auto-osservazione ossessiva, drammatica e spasmodica (come accade a seguito di un singolo attacco di panico, in seguito “sospettato” e rintracciato/interpretato in qualunque sintomo fisico di qualunque entità arrivato a disturbare il soggetto), il che rappresenta una possibile deriva o un pervertimento “ansioso” del disturbo stesso.

Inoltre, viene notato come tra i molteplici trigger di innesco del disturbo, la cannabis rappresenti un elemento ricorrente (Among the innumerable triggers able to precipitate HPPD, prospectively, the use of natural and synthetic cannabinoids appears to be the most frequent). Già molto si sa sul potenziale “psicopatogeno” della cannabis: sembra però che questa conoscenza non si sia ancora trasformata in “consapevolezza”. The Lancet Psychiatry (non La Stampa o la Repubblica che sia) lo ricorda qui con forza.

Infine, viene citato un modello euristico utile a concettualizzare questo disturbo, questo. Qui un approfondimento video.

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30 April 2019

IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI


di Matteo Respino

Come per tutte le terapie, a partire da quelle farmacologiche, anche nel caso delle psicoterapie il portare a termine il percorso iniziato è una componente fondamentale per ottenere dei cambiamenti. Quando una terapia viene interrotta prematuramente si parla di “drop-out”. Più nello specifico, si intende con questo termine quando il paziente interrompe la terapia prima che si sia raggiunta una riduzione dei sintomi sufficiente.

Questo breve pezzo vuole riassumere, per punti, i dati ed i concetti riportati in un articolo di Leichsenring et al. pubblicato quest’anno su World Psychiatry e titolato: “Drop-outs in psychotherapy: a change of perspective”. L’articolo riassume i dati presenti in letteratura che quantificano il fenomeno, le strategie volte a ridurne la frequenza e propone una prospettiva per affrontare costruttivamente questo argomento in ambito sia di ricerca che di clinica. A seguire, riassunti, i dati riportati dagli Autori.

  • Circa il 20% dei pazienti terminano la psicoterapia prematuramente, come risulterebbe da oltre 600 studi clinici, indipendentemente dal tipo di psicoterapia offerta.
  • I pazienti che terminano le terapie prematuramente tendono ad avere peggiori outcome di coloro che le portano a termine.
  • I pazienti che più spesso terminano prematuramente la psicoterapia sono coloro che non stanno ricevendo il trattamento che avrebbero preferito, che ricevono terapie non manualizzate o senza chiari limiti di tempo, coloro in trattamento con psicoterapeuti in training, pazienti giovani e con disturbi di personalità o dell’alimentazione.
  • Le strategie volte a ridurre il fenomeno ruotano soprattutto, ma non solo, attorno al concetto di alleanza terapeutica. Tra queste: impostare fin dall’inizio un processo condiviso con il paziente di decision-making; offrire al paziente tutte le informazioni necessarie ad avere una visione chiara non solo della sua condizione, ma anche del trattamento che sta per affrontare, a partire dalla sua durata; lavorare da subito sulle aspettative del paziente, offrendo una visione realistica (e condivisa) degli obiettivi raggiungibili (“setting goals”); revisionare insieme al paziente cosa è già stato ottenuto in termini di cambiamenti dall’inizio della terapia, e proporre frequenti feedbacks su tali progressi; affrontare resistenze e/o dubbi del paziente fin dalle fasi iniziali; tenere in considerazione le preferenze espresse dal paziente.
  • Il cambio di prospettiva proposto dagli Autori consiste, sostanzialmente, nel passare dal vedere i drop-outs come un fenomeno unicamente negativo, al considerarli come un fenomeno che se adeguatamente studiato potrebbe informarci più nel dettaglio su cosa accade e su quali siano i fattori/gli elementi “non-curativi” durante il processo della psicoterapia.

Article by admin / Aggiornamento / matteorespino, neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

12 April 2019

DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO


di Matteo Respino

In questo pezzo descriviamo brevemente l’approccio di due Autori, entrambi fondamentali nel contesto psicoanalitico, al concetto di disturbo narcisistico. Dalle posizioni differenti di Kohut e di Kernberg circa tale questione nacque una controversia che offre l’occasione di riassumere, in maniera semplice, alcuni degli aspetti fondamentali della psicologia del sé (Kohut) e della teoria delle relazioni oggettuali (Kernberg). Sebbene molto sia stato scritto e detto circa tale diatriba, utilizziamo come riferimento e riassumiamo le idee espresse in un interessante libro chiamato “The Psychoanalytical Model of the Mind” di E. Auchincloss, a proposito di tale questione.

Innanzitutto, entrambi gli Autori concordano nel ritenere il disturbo narcisistico di personalità come caratterizzante individui invidiosi, preoccupati da fantasie di successo o di potere, in costante ricerca di attenzione, che si aspettano di esser visti come speciali o superiori, arroganti e carenti di empatia. Nel contesto della psicologia del sé, il disturbo narcisistico viene concettualizzato come una problematica generata dalla mancata maturazione di qualcosa già presente in età infantile e chiamato “Sé grandioso”. Facciamo un breve passo indietro: il Sé, in generale, sarebbe il nucleo dell’esperienza, ciò che gli fornisce continuità e coesione. Il “Sé grandioso” sarebbe invece una componente del Sé che, tipicamente nell’infanzia, racchiude la spinta dell’individuo all’affermazione, al potere, al riconoscimento. Normalmente, secondo Kohut, il “Sé grandioso” dell’infanzia matura grazie alla validazione offerta, dal caregiver, ai traguardi ed in generale al bisogno di riconoscimento del bambino. Sempre in tale contesto metapsicologico, il disturbo narcisistico sarebbe legato ad una carenza di tale maturazione. Il soggetto cercherebbe pertanto molto intensamente quella validazione che non ha trovato in principio, ed in sua assenza sperimenterebbe una “rabbia narcisistica” legata al tentativo di conservare un senso sufficiente di integrità del Sé. Qui, il ruolo del terapeuta è quello di consentire l’emergere dei bisogni primitivi di validazione del paziente nel contesto della relazione terapeutica. Tale riconoscimento empatico giocherebbe un ruolo importante soprattutto in fase iniziale, mentre la gestione della frustrazione del paziente, inevitabile nelle fasi successive, consentirebbe la maturazione del Sé grandioso.

Kernberg non concettualizza invece il disturbo narcisistico come derivante da un difetto di maturazione del Sé infantile, quanto piuttosto come un disturbo legato all’emergere di una nuova struttura chiamata “Sé grandioso patologico”. In tale ottica il “Sé grandioso patologico” è fondamentalmente una difesa dalla dipendenza. Poiché il soggetto non riesce a integrare aspetti buoni e aspetti cattivi degli oggetti/delle altre persone, quando si trova in una condizione di percepita dipendenza, precipita in una posizione paranoide e di ansia persecutoria. Similmente all’approccio precedente, anche qui il terapeuta è supposto facilitare l’emergere del “Sé grandioso patologico” nel transfert della relazione terapeutica, ma in questo caso il lavoro centrale consisterebbe nell’interpretazione delle difese del paziente dalla dipendenza, nello sforzo di fargli comprendere quanto le sue paure paranoidi dipendano dalla sua stessa aggressività verso gli altri.

Come sottolinea la Auchincloss, nonostante le differenze, l’uso di tali approcci teorici e pratici avviene spesso, ovviamente, in maniera combinata. Ad esempio, un lavoro più orientato empaticamente ai bisogni di validazione del soggetto potrebbe essere molto adeguato inizialmente, quando la fiducia nel terapeuta è ancora da costruire, mentre interventi più interpretativi che confrontino l’aggressività propria del paziente potrebbero essere più adeguati in una fase successiva.

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29 March 2019

DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA


di Raffaele Avico

Quando parliamo di disturbo dissociativo parliamo in realtà di un disturbo polimorfo che presenta diverse definizioni e del quale sembra difficile dare un’immagine univoca. Allo stato attuale, esistono due definizioni principiali, che distinguono la dissociazione propriamente detta, dalla dissociazione strutturale, come riassunto di seguito.

Distinguiamo:

  1. dissociazione come sintomo (dissociazione di stato): l’esperienza del soggetto è caratterizzata da  discontinuità. Si parla in questo caso anche di detachment. Si può percepire che la persona sia con la mente in un altrove fantasticato o in una sorta di assenza; ci si può accorgere di un simile stato mentale “assorbito” osservando gli occhi, sgranati, di un individuo che ne sia colpito. In questi casi si parla di grounding proprio a indicare l’operazione di riportare la persona al dato reale e presente (per esempio chiedendo al soggetto di nominare degli oggetti della stanza). La dissociazione è presente laddove esistano esperienze non ricordate, cose fatte in uno stato di coscienza alterato senza che ve ne sia ricordo (come le fughe dissociative), oppure quando si parla di de-realizzazione o depersonalizzazione. I teorici del continuum (come Ruth Lanius) sostengono esista un gradiente di gravità dei sintomi stessi, partendo da un senso di straniamento nei confronti della realtà, fino al vissuto di depersonalizzazione (visione di sé dall’esterno) e derealizzazione (incredulità sulla realtà). In quest’ottica i sintomi dissociativi sono quindi gli stessi, sempre, ma posseggono livelli di gravità diversi.
  2. Dissociazione strutturale della personalità (dissociazione di tratto): nel contesto di uno sviluppo traumatico viene prodotta una spaccatura in due o più parti, verticale, della personalità. Si parla in questo caso anche di compartimentalizzazione. Una parte prosegue il suo percorso di adattamento al contesto (parte apparentemente normale, o ANP), l’altra, emozionale (emotional part, EP), rimane bloccata al momento del trauma, permanendo dentro i confini della personalità come una parte immobile e nascosta. Questa teorizzazione è quella presente sul libro Fantasmi nel Sè di Onno Van Der Hart, come qui approfondito.

Parliamo quindi di dissociazione come sintomo, oppure di dissociazione come alterazione della struttura della personalità.

In particolare nella concettualizzazione come sintomo della dissociazione, si ha la forte impressione che il soggetto presenti un’alterazione nella continuità dello stato di coscienza, che appare “intermittente”, mutevole nel caso dell’alternarsi di diverse “parti”, oppure corrotto da “assenze” dissociative.

Al di là della definizione unica, molto difficile da raggiungere, molteplici evidenze collegano la comparsa di disturbi di tipo dissociativo a esperienze traumatiche:

“Un vasta e crescente mole di letteratura scientifica indica da circa un secolo che i disturbi e i sintomi dissociativi sono correlati con esperienze traumatiche, in particolar modo quelle di tipo relazionale che avvengono durante l’infanzia e per le quali è stato proposto l’uso dell’espressione trauma dello sviluppo o sviluppo traumatico (Carlson 2009; Herman 1992; Lanius 2010; Liotti e Farina 2011; van der Kolk 2005).”

Leggiamo sul sito dell’AISTED (associazione italiana per lo studio del trauma e della dissociazione) che alcuni segni per riconoscere un’esperienza dissociativa in corso, sono:

  • intrusioni ricorrenti e inspiegabili nel loro funzionamento cosciente e nella propria identità (es voci, azioni, discorsi, pensieri, emozioni, impulsi intrusivi);
  • alterazioni del senso del sè (es: attitudini, preferenze, e sensazione di estraneità nei confronti del proprio corpo e delle proprie azioni);
  • bizzarri cambiamenti della percezione (es: depersonalizzazione o derealizzazione, come sentirsi distaccati dal proprio corpo);
  • sintomi neurologici funzionali intermittenti. Lo stress spesso produce un aggravamento dei sintomi dissociativi rendendoli più evidenti.

Qui un approfondimento.

Article by admin / Formazione / matteorespino, psichiatria, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD

11 February 2019

COSA RENDE LA KETAMINA EFFICACE NEL TRATTAMENTO DELLA DEPRESSIONE? UN PROBLEMA IRRISOLTO

di Matteo Respino

In un interessante editoriale pubblicato a dicembre 2018 sull’American Journal of Psychiatry, dal titolo “Is there really nothing new under the sun? Is low-dose ketamine a fast-acting antidepressant simply because it is an opioid?”, Mark George approfondisce i risultati di alcune recenti ricerche sull’uso della ketamina nel trattamento della depressione maggiore. Numerosi studi hanno mostrato come la ketamina abbia un effetto importante e rapido nel ridurre i livelli di depressione in acuto, offrendosi come potenziale nuovo trattamento per le forme gravi o resistenti (Serafini et al., 2014).

Nonostante tale evidenza, il meccanismo di efficacia della ketamina non è del tutto chiaro. Data l’azione di blocco dei recettori per il glutammato NMDA mediata dalla molecola, un ruolo dell’azione antiglutammatergica risulterebbe l’ipotesi più logica nello spiegare gli effetti della ketamina, ma probabilmente tale meccanismo non è sufficiente a giustificarne gli effetti antidepressivi. Mark George, un esperto di neurostimolazione, approfondisce i risultati di un recente lavoro di Williams et al. (2018) che avrebbe mostrato come l’azione antidepressiva della ketamina sia bloccata dal concomitante utilizzo del naltrexone, un antagonista dei recettori per gli oppiacei. Sostanzialmente, in tale studio si è mostrato come in pazienti depressi l’uso concomitante di naltrexone blocchi nettamente l’efficacia antidepressiva della ketamina, rispetto a un gruppo di controllo placebo + ketamina. L’interpretazione più ovvia di questi risultati è che l’efficacia antidepressiva della ketamina sia mediata quantomeno dal combinato antagonismo di recettori NMDA e agonismo per gli oppiacei. In altre parole, l’effetto antidepressivo di questa nuova molecola potrebbe necessitare l’attivazione del sistema degli oppioidi.

Perché tale scoperta è rilevante? Mark George sostiene vi siano al momento 3 grandi “epidemie” nella psichiatria (riferimento soprattutto a quella americana, ma in certa misura mondiale): depressione, suicidio e dipendenza dagli oppioidi. Si chiede (un poco provocatoriamente) se, anche alla luce dei risultati del lavoro di Williams et al., nel tentativo di risolvere alcune di queste crisi (e.g., depressione) non si rischi di peggiorarne altre (in questo caso, egli fa ovviamente riferimento alla dipendenza da oppiodi). L’Autore sostiene infatti “Should emergency departments that are considering using intravenous ketamine as an antisuicide measure pause, as they may now be making depressed patients opioid addicts?” . Tale provocazione mira a far ragionare sulla cautela che è necessario utilizzare, in quanto la ricerca sui meccanismi d’efficacia della ketamina è lungi dall’essere conclusa.

Il riferimento dell’Autore, ed il suo invito alla cautela, è in particolar modo rivolto alle numerose cliniche per la somministrazione di ketamina che stanno emergendo negli USA. Infine, Mark George, da esperto in ambito di neurostimolazione, ci ricorda che esistono altri trattamenti estremamente efficaci, ed oggi sicuri, per la depressione grave o resistente, come la terapia elettroconvulsivante (di cui abbiamo scritto qui).

Link all’editoriale qui.

Mark GS. Is there really nothing new under the sun? Is low-dose ketamine a fast-acting antidepressant simply because it is an opioid? The American Journal of Psychiatry, 2018.

Serafini G et al. The Role of Ketamine in Treatment-Resistant Depression: A Systematic Review. Curr Neuropharmacol, 2014 Sep; 12(5): 444–461.

Williams N et al. Attenuation of antidepressant effects of ketamine by opioid receptor antagonism. The American Journal of Psychiatry, 2018.

Article by admin / Aggiornamento / matteorespino, neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

2 January 2019

VOCI: VERSO UNA CONSIDERAZIONE TRANSDIAGNOSTICA?

di Raffaele Avico

Alcuni studi hanno comparato le allucinazioni uditive di pazienti con disturbi di natura psicotica, a quelle sperimentate da pazienti provenienti da storie di post-trauma grave, arrivando a interessanti conclusioni. Uno studio di riferimento è questo (Auditory verbal hallucinations and the differential diagnosis of schizophrenia and dissociative disorders: Historical, empirical and clinical perspectives): tra gli autori Dolores Mosquera, che si sta imponendo sulla scena della ricerca in ambito di PTSD e disturbi dissociativi come un riferimento di assoluto spessore e di grande impatto scientifico.

In questo studio, è stato tentato un lavoro di ricapitolazione e review della letteratura inerente alcuni diagnosi specifiche, in relazione al tema “allucinazioni uditive”. Al di là dei quadri psicotici franchi, dove i soggetti sono colpiti da allucinazioni uditive che si manifestano attraverso la presenza di “voci” (ne abbiamo scritto qui), esistono altri quadri diagnostici non afferenti allo “spettro” psicotico all’interno dei quali si osserva la presenza di sintomi di questo tipo, con caratteristiche simili: il disturbo di personalità borderline, disturbi di natura dissociativa (DID: disturbo dissociativo d’identità), il PTSD.

Questo studio ipotizza inoltre una diversa concettualizzazione del sintomo “voci”, visto come SEMPRE proveniente da un disturbo dissociativo originario, e trans-diagnostico alle varie forme di psicopatologia che lo “contengono”. Gli autori propongono in questo senso una lettura dell’“allucinazione uditiva” come di un sintomo di natura dissociativa, con però caratteristiche e potenza differenti a seconda dei diversi quadri.

A

L’articolo in primis distingue due diverse concettualizzazioni di disturbo dissociativo, tra loro in contrasto, usate a volte in modo sovrapposto:

  1. la visione del disturbo dissociativo come un disturbo da disaggregazione (usando i termini originali usati da Janet) della personalità (a seguito di un trauma, la personalità si scinde in due o più parti, che poi proseguono il loro sviluppo in modo parallelo). Questa è la concettualizzazione “narrow” (stretta) del disturbo
  2. la visione del disturbo dissociativo come stato mentale alterato/assorto/assorbito: questo modo di pensare il disturbo dissociativo è una visione definita nell’articolo “broad”, ovvero più ampia, dato che comprende in sé tutte le forme di alterazione della coscienza che si riscontrano nei quadri gravi di post trauma (come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’assorbimento totale di alcune forme eccessive di “daydreaming”).

Quello che è evidente, è che quando si parla di disturbo dissociativo, parliamo sia di una che dell’altra cosa (frammentazione della personalità, ma anche alterazione dello stato della coscienza, la cui continuità e permanenza nel “qui ed ora” diventa “intermittente”).

B

Come secondo aspetto approfondito, gli autori tentano di de-enfatizzare la correlazione tra presenza di voci e disturbi psicotici, portando numerose evidenze letterarie a corroborare la loro tesi. In fase iniziale di concettualizzazione, Bleuler stesso descrisse la malattia mentale -che avrebbe in seguito preso il nome di schiofrenia-, come il risultato di uno “split” che avrebbe scisso la mente, “disunendola”: l’elemento delle “allucinazioni uditive” sarebbe apparso come centrale solo più tardi, con il lavoro di Schneider e i suoi sintomi di primo e secondo rango, divenuti in seguito altamente connotanti la presenza di un disturbo psicotico. Gli autori vogliono mettere in evidenza come il “sentire le voci” sia da intendersi come un sintomo trans-diagnostico, non necessariamente da ascriversi al SOLO quadro di schizofrenia.

C

In più, attraverso il riferimento a questo studio, gli autori sottolineano come usare le caratteristiche stesse delle allucinazioni (per esempio la provenienza esterna o interna) come marker per formulare diagnosi, pare essere un gesto azzardato, dato che pur in differenti quadri clinici, la natura fenomenica del sintomo parrebbe essere la stessa:

  1. la natura del “sintomo voce” nel disturbo psicotico, nel disturbo borderline di personalità e nel PTSD, sembrerebbe essere la stessa, senza distinzioni significative (a recent review of AVH phenomenology, which was not limited to direct comparison studies, likewise concluded that AVH in PTSD and schizophrenia were experienced in quite similar ways)
  2. la fenomenologia invece delle allucinazioni uditive nel disturbo schizofrenico, comparate a quelle osservate nei quadri di disturbi dissociativi gravi (DID), sembrerebbe invece presentare alcune differenze significative: in particolare in coloro che soffrono di DID le voci sembrerebbero variare in maggiore intensità e presenza. Inoltre, nel DID sarebbero maggiormente comuni le voci “bambine” e le voci “mandatorie”, cioè aventi caratteristica di comando

Gli autori in questo articolo usano il sintomo target “voci” per disquisire a proposito della differenza tra schizofrenia, disturbo borderline e disturbo dissociativo dell’identità. Ciò che questo articolo vuole suggerire e che dovrebbe essere tenuto a mente in senso clinico, è che la presenza di voci non necessariamente indica un disturbo psicotico, ma potrebbe essere anche essere letto come il segno di un disturbo di natura dissociativa in atto (likewise, the Schneiderian symptoms of voices conversing and voices commenting are not only not unique to schizophrenia, they are more common in DID).

ASPETTI CLINICI

L’articolo, infine, si chiude con alcune riflessioni cliniche a riguardo del lavoro da fare con i pazienti uditori di voci:

  1. per prima cosa, è opportuno indagare lo stato mentale del paziente all’epoca dell’esordio del sintomo (la prima voce)
  2. è importante mettere a fuoco il trigger del sintomo: quale stato mentale/emozione, o quale persona in particolare, o ancora quale circostanza o luogo, è in grado di elicitare il sintomo?
  3. Dobbiamo chiederci, insieme col paziente: qual è l’obiettivo del sintomo/voce? Cosa ci vuole dire o dove ci vuole condurre con la sua presenza?
  4. In particolare nei casi di disturbo dissociativo, è frequente un senso di maggiore “alienità” dell’allucinazione uditiva (voci bambine, voci imperative o molto ripetitive): in questi casi va ancor di più suggerito un tentativo di “dialogo” con la voce e un approccio “empatico” (la voce andrebbe considerata non come un sintomo da eliminare, ma qualcosa con cui entrare in relazione)

INDICAZIONE PER I PAZIENTI

In questo articolo vengono fornite alcune indicazioni di massima per pazienti vociferati che debbano imparare in qualche modo a convivere con un sintomo di questo tipo:

  1. é importante che il paziente “si” ascolti senza portare a compimento le indicazioni dettate da una voce imperativa, o senza drammatizzare o prestare attenzione eccessiva al contenuto della voce stessa. Una voce ignorata tenderà a presentarsi con più forza: per questo occorre che le si presti la dovuta attenzione, senza però troppo assecondarla
  2. per quanto riguarda il messaggio portato dalla voce, dobbiamo chiederci che attitudine, la voce, rappresenti (per esempio, un’attitudine protettiva per il sé, un’attitudine invece aggressiva verso gli altri), oppure che parte del sé voglia esprimere; gli autori sottolineano come spesso la funzione ultima di una voce sia “protettiva”. (si veda TABELLA 1)
  3. Il trattamento migliore, per pazienti con voci, è un trattamento mirato a migliorare il rapporto tra la persona stessa e le sue stesse voci: occorre dunque praticare un lavoro di “accettazione”

TABELLA 1

possibili funzioni/goal delle voci (tratto dall’articolo)

Distrustful voices Being alert to possible danger/threats and avoiding further victimization

Blaming voices Internalization of previous negative messages that the voice hearer has received from other people (e.g., caregivers or perpetrators). An attempt to gain control (e.g., ‘‘If I believe it’s my fault then I can live with the hope that the situation may change’’). An attachment to the perpetrator

Aggressive voices These voices can draw attention to possible sources of threat as well as unresolved conflict. In many cases they start as distrustful voices; however, when not heard or listened to they can escalate in their messages. The voice hearer’s own disowned sense of rage and resentment

Submissive voices These voices are often related to learned helplessness, in that the person’s fight system is ineffective and the only perceived possibility is to submit. A belief that submission, compliance and/or not speaking out (e.g., about previous mistreatment) is a way of protecting oneself from further harm

CONCLUSIONI

L’ipotesi che gli autori formulano, in definitiva, è quella di considerare il sintomo “voci” come un aspetto dissociativo ANCHE nei quadri psicotici diagnosticati come “schizofrenia”. Questo è in continuità con l’idea storicamente difesa da Bleuler a riguardo della schizofrenia, considerata come stadio finale di un processo di “splitting” della mente, ovvero di dis-unione. Il sintomo “voci” sarebbe in questo caso trans-diagnostico e indicativo di uno stato di dissociazione in atto nella mente dell’individuo, che si manifesterebbe tuttavia in modi peculiari e differenti nella storia del singolo individuo.

NOTA

Questo video è ben fatto e ne consigliamo la visione:

Article by admin / Formazione / matteorespino, neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicologia, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia, PTSD, raffaeleavico

21 December 2018

DALLA SCUOLA DI NEUROETICA 2018 DI TRIESTE, ALCUNE RIFLESSIONI SUL PROBLEMA ADDICTION

di Raffaele Avico


articolo originariamente apparso sul Psychiatry On Line: qui

Si è conclusa pochi giorni fa la quarta edizione della Scuola di Neuroetica organizzata da Stefano Canali (Psicoattivo), dottore di ricerca presso al SISSA di Trieste. L’occasione ha visto una compresenza di più professionisti provenienti da ambiti di lavoro attigui ma non sovrapponibili, impegnati in un lavoro di focalizzazione sul tema “addiction”.

Il laboratorio di neuroetica promuove un lavoro interdisciplinare che mette insieme più punti di vista: il problema addiction coinvolge infatti più problemi, di ordine diverso, che rendono estremamente difficile rispondere alla domanda su quanto il problema sia da ricondurre a fattori organici, o se viceversa la questione sia connessa ad aspetti “morali” (dipendenti dalla volontà del singolo).

In altre parole, alla base del problema addiction sta un dilemma a riguardo dei moventi del comportamento di dipendenza, dato che:

  1. se l’addiction dipende da un probelma di ordine neurobiologico, o legato a funzioni cognitive che perdono di efficacia (come le funzioni esecutive, inerenti il controllo, mediate dalle parti più evolute del nostro cervello), de-responsabilizziamo il soggetto e focalizziamo il nostro intervento sul ripristino di funzioni andate perdute
  2. se invece abbracciamo l’idea che l’addiction si costituisca come un problema dipendente da una libera scelta del singolo, la “malattia” diventerà diretta conseguenza di una sua scelta (questa visione promuove quindi una lettura “morale” del problema tossicodipendenza, per cui chi sviluppa un disturbo di questo tipo, in qualche modo, lo vuole, o cavalca questa “scelta/modalità” di vita)

Chiunque si approcci al problema addiction, lo farà oscillando tra gli estremi di questi due poli, che spostano il “locus of control” dall’esterno all’interno, e viceversa, a seconda di dove si collochi la responsabilità della nascita del problema stesso (all’eterno o all’interno?).

Ciò che è stato fatto alla scuola di neuroetica, è il tentativo di rispondere, in modo almeno parziale, ad alcune domande connesse a questo dilemma iniziale. Alla docenza si sono alternati ricercatori impegnati da tempo nell’approfondimento di questioni inerenti la dipendenza in tutte le forme, e clinici di lungo corso e con grande esperienza alle spalle (come Paolo Jarre e Augusto Consoli da Torino).

Alcuni aspetti affrontati sono stati:

  • la concettualizzazione del disturbo psichico, sul filo tra visione “deficitaria” del disturbo (visto come disfunzione evolutiva) e invece concettualizzazione normativa (per cui il disturbo deriva dall’essere interpretato come “diverso” da parte del gruppo sociale; pensiamo alla “questione” omosessualità, un tempo interpetato come perversione, oggi ampiamente e giustamente normalizzato e integrato); l’approfndimento è stato condotto dalla dott.ssa Cristina Amoretti, dell’università di Genova
  • aspetti di filosofia della psichiatria, a cura del Prof. Massimo Marraffa (Università Roma 3), in relazione a come è (stato) intepretato e letto il fenomeno dell’addiction
  • la questione del reward (di cui abbiamo scritto qui), e il consenso a proposito dell’intervento, nel produrre il comportamento di addiction, dell’”attore” dopamina, a cura di Gaetano Di Chiara (un suo corposo intervento a proposito dellan neurobiologia della cannabis è disponbile qui)
  • la dipendenza come malattia del controllo volontario, a cura di Stefano Canali, che ha ampiamente affrontato e affronta la questione all’interno della rubrica “ADDIZIONARIO”, che trovate su Psychiatry On Line. Questa lettura ha messo in luce, tra le altre cose, alcune questioni e aspetti laterali inerenti il trattamento della problematica addiction, come alcune formule comportamentali quasi mai sperimentate presso il nostro paese (come il pagare/premiare con piccoli token i traguardi raggiunti da tossicodipendenti astinenti) ma presenti già altrove (per esempio il Regno Unito). Inoltre, è stato sottolineato come alcuni veri e propri bias cognitivi rendano complicato affrontare il problema dipendenza (una miopia verso il futuro, una negazione e un autoinganno rispetto ai danni della propria condotta, come dire: “so che mi sto facendo male, ma continuo”). Il Prof. Canali ha citato inoltre i vantaggi arrecati dal praticare attività sportiva in modo regolare in termini di migliori performance di apprendimento e migliorate funzioni esecutive (per esempio il programma Zero Hour Program, qui descritto)
  • alcuni aspetti inerenti il tabagismo (Prof. Lugoboni di Trieste; qui un testo dal suo gruppo redatto interamente scarcabile)
  • l’importanza di arrivare a un uso regolato di sostanza per pazienti che tentino di raggiungere un’astinenza da sostanze pesanti come eroina o alcol, discussa dal Dott. Jarre di Torino. Jarre ha posto il problema in modo molto concreto, da clinico esperto, portando come obiettivo possibile un uso regolamentato delle sostanze, dietro controllo medico, invece di inseguire una a volte utopica astinenza “totale”. Un lavoro sulla riduzione o regolamentazione del danno si accoda a progetti europei di utilizzo “regolato”, per esempio con sale di assunzione (le “narcosale”) -presenti in Svizzera in pratica ovunque- e appunto l’obiettivo di un utilizzo di sostanze a intervalli sempre più dilazionati.
  • Il Dott. Mauro Cibin, con un occhio al lavoro fatto presso la struttura da lui diretta (Centro Soranzo), ha parlato del concetto di recovery, molto sentito oggi in psichiatria, in particolare esortando a mettere in campo interventi:
    • personalizzati
    • in senso relazionale incentrati su aspetti motivazionali
    • incentrati sul trasferimento di attività spendibili nella vita reale (si veda questo approfondmento sull’empowerment) con funzione capacitante/emancipante

Si è tentato inoltre di promuovere una riflessione integrata attraverso gli interventi singoli di alcuni borsisti che hanno portato brevi talk a riguardo di argomenti specifici: per esempio la questione della dipendenza come forma di autoregolazione emotiva -usando il concetto di teoria della finestra di tolleranza di Daniel Siegel- (Raffaele Avico), la teoria e la pratica della Somatic Experiencing in ambito di problematiche di dipendenza presso una struttura residenziale (Mauro Semenzato), la teoria della embodied cognition (cognizione incarnata) in ambito di ricerca (Alisha Vabba), la concettualizzazione della dipendenza (Giulia Virtù), un approccio fenomenologico al problema di addiction (Sara De Laurentiis), e altri.

Aspetto interessante, la presenza di due avvocati penalisti (Susanna Arcieri e Vasco Jann), portatori di un punto di vista diverso ma molto addentro alla questione addiction in termini pratici: il problema dell’imputabilità di un soggetto, per esempio, affetto da dipendenza cronica e autore di reato, è inestricabilmente collegato a quanto si consideri la malattia addiction come diretta responsabilità del singolo, o invece la si pensi come malattia vera e propria (slegata dalla responsabilità e dal libero arbitrio).

Questo ha consentito il crearsi di un dibattito vivace e intenso nel contesto stimolante della SISSA, e un vivo senso di fermento culturale estremamente coinvolgente e appassionante.

NOTA

Altro importante aspetto messo in luce nel corso dell’incontro, trasversale ai vari interventi, la questione identitaria: se infatti fino a pochi anni fa la tossicomania e l’aderire a uno stile di vita variamente tossicomanico, sembravano rispondere a esigenze di conferma anche identitaria, oggi la questione sembra più complessa- visto anche il diverso stile di consumo e la diversa percezione sociale dell’addiction stessa.

Negli anni ’80/’90 assistemmo al connotarsi in senso politico del fenomeno della tossicodipendenza, inestricabilmente collegato ai mutamenti culturali che sembravano cavalcare l’onda consumistica: nel panorama culturale del boom economico, la tossicodipendenza sembrava prendere la forma di una silente, melanconica e anticapitalistica ribellione al sistema, come una sorta di ritorno del rimosso incarnato in una generazione di tossicodipendenti identificatisi in modo consapevole al ruolo di “reietti” -con però un’identità molto forte e un senso di appartenenza a costumi e luoghi che ancora oggi, in certi luoghi, sopravvive (pensiamo ai SerD come luoghi di ritrovo/aggregazione tra vecchi storici eroinomani, il culto romantico del tossicodipendente come anti-eroe votato alla ricerca di un’intimità perduta e di una connessione più autentica agli altri).

Con il mutare del paradigma culturale, il normalizzarsi e per certi versi lo “sgonfiarsi” dell’ideologia consumistica degli anni a cavallo del 2000, verso il “post” che viviamo oggi, questa ribellione pare oggi aver perso il suo senso, e con esso il senso di appartenenza prima raccontato, in favore di nuove forme identitarie che si inseriscono nelle trame della cultura dell’oggi. Dalla ribellione sociale ottenuta autodistruggendosi, di fatto introvertendo e cavalcando la rabbia degli esclusi, assistiamo oggi al proliferare di nuove forme di consumo, rappresentate da concetti e diktat nuovi, che promuovono estroversione e performance, che meglio si adattano a un contesto di “guerra di tutti” in cui ognuno è solo nel tentativo di emergere dal marasma sociale, con più individualismo, forme di auto-imprenditorialità esasperate e pochi gruppi di appartenenza o culti a cui aderire (a parte, appunto, quello dell’obbligatoria auto-determinazione solitaria)

Per ulteriori approfondimenti: http://neuroetica.sissa.it/

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13 December 2018

CONCETTI GENERALI SUL DEFAULT-MODE NETWORK

di Matteo Respino

In termini generali, utilizzando un definizione “classica” anche se forse un poco datata e certamente riduttiva, con Default-Mode Network (DMN) si intende un sistema di circuiti neurali attivi quando il soggetto non é impegnato nello svolgimento di un task specifico, ovvero quando si è in uno stato di riposo, appunto di “default”. Per approfondire brevemente tale argomento abbiamo deciso di riassumere i concetti elaborati nell’articolo “The brain’s center of gravity: how the default mode network helps us to understand the self” di Davey & Harrison, pubblicato recentemente su World Psychiatry.

Gli Autori descrivono le funzioni del DMN a partire da alcune argomentazioni filosofiche. Più specificamente fanno riferimento – e sposano – una definizione del Sè fornita dal filosofo Daniel Dennett, secondo il quale il Sè potrebbe essere descritto come “the center of narrative gravity”, il centro dell’esperienza soggettiva. Allo stesso tempo gli Autori criticano a Dennett le sue affermazioni sull’impossibilità di localizzare tale “centro di gravità della narrazione” nel contesto di una struttura (o funzione) del Sistema Nervoso Centrale. Vi sarebbero infatti, a questo punto, molti indizi a indicare come l’attività delle regioni cerebrali che chiamiamo DMN siano da collegare a vari aspetti del Sè. A seguire alcuni degli indizi menzionati nell’articolo:

  • Il DMN è attivo quando il soggetto non sta svolgendo attività specifiche in relazione al mondo esterno (external tasks), ma quando piuttosto la sua attenzione si rivolge internamente o semplicemente fluttua (mind wandering). Viceversa, le regioni del DMN mostrano una riduzione di attività quando il soggetto sta svolgendo goal-directed tasks.
  • Diversi esperimenti hanno ad oggi mostrato come le regioni del DMN sostengano attività mentali legate all’elaborazione del Sè come ad esempio la self-reflection, o lo sviluppo di self-directed thoughts, pensieri orientati al Sè. Esempi di questi pensieri, durante i quali le regioni del DMN risultano attive, sono l’autogenerazione di certi attributi: al soggetto può venire richiesto di attribuirsi certe caratteristiche, forzandolo quindi ad un’attività di riflessione su se stesso, o può venire richiesto di pensare a se stessi nel futuro, o nel passato.
  • Le componenti prinicipali del DMN, quella anteriore (corteccia prefrontale mediale) e quella posteriore (cingolo posteriore) collaborano nel generare rappresentazioni rilevanti del Sè. Tali regioni sono tra quelle che mostrano il più alto grado di “connettività globale”: cosa vuol dire? Se immaginiamo le regioni cerebrali come luoghi specifici in una città, tra loro collegati da diverse strade, le aree del DMN sono tra quelle che mostrano il maggior numero di “collegamenti” con altre aree, sono quindi intersezioni assolutamente “centrali” nella mappa del connettoma umano. Tale caratteristica anatomico-funzionale consente che le funzioni sostenute dal DMN siano del più alto livello gerarchico, come appunto la generazione di pensieri legati al Sè, richiedendo l’elaborazione di informazioni provenienti da molte altre regioni cerebrali.

Per ulteriori interessanti approfondimenti, sebbene più tecnici, i lettori possono consultare i numerosi lavori di Jessica Andrews-Hanna sull’argomento. Un altro recentissimo paper di grande interesse sulla connettomica cerebrale e le sue potenzialità, sebbene non strettamente legato al DMN, è “Mapping symptoms to brain networks with the human connectome” di M. Fox pubblicato sul The New England Journal of Medicine.

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20 November 2018

LIMITARE L’USO DEI SOCIAL: GLI EFFETTI BENEFICI SUI LIVELLI DI DEPRESSIONE E DI SOLITUDINE

di Matteo Respino

Un recente articolo pubblicato su The Journal of Social and Clinical Psychology mostra come la riduzione quotidiana dell’uso dei social si accompagni a una riduzione dei livelli di solitudine e di depressione. Sebbene a tutti coloro che usano i social ciò possa apparire intuitivo, sono in realtà pochi gli studi che ad oggi hanno investigato tale relazione.

In più, questo studio è longitudinale e pertanto fornisce indicazioni aggiuntive sul nesso di causalità tra uso dei social e stati affettivi negativi.

Gli Autori hanno studiato 2 gruppi di soggetti, in tutto 143 studenti dell’Università della Pennsylvania. Un gruppo di controllo ha mantenuto costante l’uso dei social media per un periodo di 3 settimane. Il gruppo sperimentale ha invece ridotto l’uso di Facebook, Instagram o Snapchat a non oltre 10 minuti al giorno per lo stesso periodo di tempo. I livelli di ansia, umore, ed altre variabili cliniche sono state valutate all’inizio e poi settimanalmente. I risultati hanno mostrato che da un lato in entrambi i gruppi si sono ridotti i livelli d’ansia (il che potrebbe suggerire un ruolo benefico aspecifico del “self-monitoring”, ovvero del monitoraggio regolare sulle proprie condizioni psico-emotive). Inoltre, nel caso di coloro che hanno ridotto l’uso dei social media si è assistito a una riduzione significativa dei livelli di solitudine e depressione.

Tale studio è interessante ed in linea con la percezione comune (ovvero, che limitare l’uso dei social media possa migliorare le condizioni psichiche di un individuo) ma presenta comunque importanti limiti, quali ad esempio un importante attrition effect, cioè la perdita di soggetti durante lo studio, che ha come conseguenza un campione numericamente molto limitato al follow-up e una capacità limitata di trarre conclusioni definitive su quanto osservato.

Nonostante tali limiti, la rilevanza sociale e clinica dell’argomento trattato ha portato sia l’emittente CNBC sia l’APA (American Psychiatric Association) a pubblicizzare lo studio ed i suoi risultati sulle rispettive pagine online. Lo studio titola “No more FOMO: limiting social media decreases loneliness and depression”.

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2 October 2018

I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS

di Matteo Respino

Il recente approccio allo studio delle malattie mentali chiamato Research Domain Criteria (RDoC), del National Institute of Mental Health (NIMH), si pone come obiettivo di sviluppare nuove modalità di classificazione delle malattie mentali a partire da dimensioni comportamentali osservabili e marker neurobiologici. Per quanto tale approccio sia certamente innovativo e molto promettente, presenta alcuni limiti che è opportuno tenere presente.

Josef Parnas riassume tali limiti in un articolo del 2014, pubblicato su World Psychiatry, che titola “The RDoC program: psychiatry without psyche?” . Ecco una sintesi delle osservazioni proposte dall’Autore:

  • Per quanto l’RDoC in una certa misura miri a superare la “riduzione” operazionalistica effettuata dal processo di diagnosi categoriale del DSM, allo stesso tempo introduce un diverso tipo di riduzionismo – anch’esso considerato dall’Autore come, in sostanza, neurocentrico. Nello specifico, un riduzionismo “type-type” che consiste nell’ identificare “componenti” (o dimensioni) della vita mentale con “componenti” o “tipi” di attività neurale.
  • In un certo senso, operando tale identificazione l’obiettivo implicito (in effetti, nemmeno poi tanto implicito) è quello di superare la (necessità della) fenomenologia descrittiva. L’Autore sostiene che in realtà, per quanto innovativo, anche l’RDoC non consentirà però di superare il cosiddetto explanatory gap, o hard problem of consciousness, ovvero il problema che gli oggetti della psichiatria sono fondamentalmente esperienze soggettive e non “things”, “cose”. [Rimandiamo ad un altro articolo dell’autore sull’argomento]
  • L’Autore sostiene che questo approccio potrebbe avere un effetto controproducente sulla ricerca empirica, poichè l’ipersemplificazione di stampo comportamentale delle dimensioni mentali, in assenza di un adeguato contesto descrittivo dei fenomeni in studio, rischia di “fare di tutta l’erba un fascio” e fondamentalmente di perdere quell’accuratezza che dovrebbe/potrebbe guidare i processi della ricerca empirica.
  • In conclusione l’Autore mette in guardia dal rischio implicito nel perseguire una strada fondata sulla reificazione dell’esperienza soggettiva. Ci potremmo ritrovare con quella che Jaspers definiva una “psichiatria senza psiche”, situazione che metterebbe a rischio l’esistenza stessa della psichiatria in quanto disciplina accademica.

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12 July 2018

“ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg

di Matteo Respino

In questo breve pezzo riassumiamo i contributi di O. Kernberg alla concettualizzazione del lutto, per come descritti nell’articolo “Some Observations on the Process of Mourning”, pubblicato dallo stesso Autore sull’International Journal of Psychoanalysis nel 2010. La tesi principale è che l’elaborazione del lutto, piuttosto che una fase transitoria, sia un processo di modificazione stabile, permanente della struttura di personalità dell’individuo. Link all’articolo.

Il lutto è stato spesso studiato nel contesto di quadri patologici, come ad esempio la depressione maggiore. In medicina, tuttavia, per studiare in maniera appropriata la meccanica di un “processo” è sempre bene focalizzarsi, quantomeno inizialmente, sulla fisiologia piuttosto che sulla patologia, ovvero sulla natura di un fenomeno in condizioni di “normalità”. In questo articolo Kernberg ha approfondito il concetto di lutto nel suo sviluppo più fisiologico, sulla base di numerosi casi clinici da lui osservati. Inoltre, mentre molta letteratura sull’argomento si è focalizzata in passato su altri tipi di lutto (il lutto, ad esempio, del genitore per un bambino o viceversa), in questo caso Kernberg ha investigato le dinamiche del lutto “di coppia”. Il protagonista di questo articolo è pertanto il lutto “normale”, sperimentato da una persona sufficientemente sana, che ha perso il proprio/la propria compagna di vita.

Lasciamo il lutto patologico ad un futuro approfondimento.

In primo luogo Kernberg descrive alcuni casi clinici di persone sufficientemente sane andate incontro alla perdita della persona amata, evidenziando alcune caratteristiche fenomenologiche comuni:

  • la persistenza, a distanza anche di molti anni dalla perdita del compagno, di una relazione fantasmatica con esso; per citare l’Autore: “one man said that, 30 years after her death, he still consulted with his wife whenever it came to important decisions..” oppure “one man felt that […] there was a split between one part of himself that felt alive and one that felt as if he had crossed over into a different world to be with his lost wife”
  • la persistenza, a distanza anche di molti anni dalla perdita del compagno, di vivi sentimenti di dolore che possono emergere improvvisamente, scatenati da stimoli imprevisti, sul fondo di una tristezza “low-tone”, ovvero di lieve intensità, ma cronica e stabile
  • la convinzione che il compagno esista ancora, in qualche realtà altra, un pensiero non necessariamente legato a credenze religiose
  • nella fase acuta del lutto, fenomeni allucinatori o pseudoallucinatori sono molto comuni. Sebbene questi tendano a recedere dopo la fase acuta del lutto, la “conversazione” o “dialogo interiore” con la persona scomparsa persiste nel tempo anche a distanza di molti anni
  • l’identificazione con le componenti dell’altro che ammiriamo e/o ci mancano di più, le quali avranno un grande ruolo nella trasformazione caratterologica che il lutto normale porta con sé, e che spesso aiutano la persona a superare le fasi più critiche/dolorose del lutto stesso.

Sul lutto è stato scritto molto e qui l’Autore fa soprattutto riferimento, in ambito psicoanalitico, al lavoro di Freud in Lutto e Malinconia e a Melanie Klein con la sua descrizione di come il lutto riattivi, nel soggetto in grado di tollerarla senza regredire, la posizione depressiva.

Circa il lavoro di Freud, Kernberg ci dice che sì, è vero, avviene un processo di identificazione dell’oggetto perduto, ovvero di “modificazione della rappresentazione del Sé sotto l’influenza della rappresentazione dell’altro”. L’Autore fa però un passo in avanti, sostenendo che tale processo di identificazione è solo l’inizio di una relazione oggettuale interiore tra le due rappresentazioni del Sé che si manterranno in dialogo costante. Non solo. La natura “dolorosa” di questo processo deriverebbe proprio dalla compresenza di un’assenza reale e di una relazione oggettuale sentita come assolutamente viva.

Per quanto riguarda il lavoro della Klein, Kernberg in questo articolo enfatizza soprattutto, a partire dal concetto di posizione depressiva riattivata, il ruolo del rimorso e della conseguente riparazione. Secondo l’Autore, nel corso del lutto normale si crea un potente spinta riparativa a partire da sentimenti “sani” di colpa, come l’idea/la sensazione di non aver fatto abbastanza o di aver perso delle opportunità di condivisione. Tale sentimenti (di nuovo, in condizione di normalità) producono una potente riparazione nella forma dell’interiorizzazione di nuovi valori: avviene quindi un cambiamento strutturale del super-io.

L’Autore sostiene: “there is a growth of the motivation and capacity to relate daily life with ethical aspiration and meanings” ovvero “c’è una crescita della motivazione e della capacità di mettere in relazione la vita quotidiana a significati e aspirazioni etiche”.

In conclusione, l’Autore sostiene che il lutto normale non si limita ad essere una fase transitoria di elaborazione, della durata “classica” di 6 mesi-1 anno, ma produce piuttosto una modificazione permanente delle strutture caratterologiche dell’individuo attraverso il mantenimento di una relazione interiore con l’oggetto, l’interiorizzazione dei suoi sogni/aspettative, nonché di componenti etiche derivate dalla sua scala di valori. Nel complesso, sostiene Kernberg, un lutto normale esita in un rafforzamento della ricerca spirituale e della capacità individuale di amare.

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11 June 2018

BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO

di Matteo Respino

In questo breve report facciamo il punto su alcuni concetti chiave riguardanti la dimensione non solo umana, ma anche clinica, della solitudine. Ci baseremo preminentemente sul lavoro e le pubblicazioni del Center for Cognitive and Social Neuroscience di Chicago, diretto fino a poco tempo fa da JT Cacioppo, eminente scienziato recentemente mancato, che con il suo lavoro ha contribuito ad enormi passi avanti nel campo delle neuroscienze sociali.

Prima di tutto occorre sottolineare come la solitudine sia un argomento, al confine tra scienze sociali, umane e neuroscienze, dalle grandissime potenzialità. Non solo si tratta di una condizione esistenziale che tutti attraversiamo, ma dal punto di visto scientifico il suo studio richiede tanto l’immergersi in aspetto evoluzionistici, biologici, quanto l’approfondimento di dimensioni sociologiche, culturali, etniche, linguistiche. La sua rilevanza ed il suo impatto sono ben descritti dallo stesso Cacioppo nella prima parte di uno dei suoi ultimissimi lavori, The growing problem of loneliness, pubblicato su The Lancet a inizio 2018 (link pubmed all’articolo: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/29407030 ).

“Immaginate una condizione che rende una persona depressa, irritabile e concentrata su di sé, e che allo stesso tempo si associa ad un incremento del rischio di morte prematura del 26%. Immaginate poi che nei paesi industrializzati circa un terzo della popolazione soffre di questa condizione, una persona su 12 che ne soffre in forma severa, e che questi tassi sono in aumento. Reddito, educazione, sesso ed etnia non sono fattori di protezione. Questa condizione è contagiosa e non riguarda un particolare gruppo di individui vulnerabili, quanto piuttosto si manifesta in persone e situazioni ordinarie. Questa condizione esiste: la solitudine”.

Vi sarebbe molto da scrivere in merito, e qui di seguito offriamo solo alcuni spunti orientativi.

Per approfondimenti, oltre all’articolo sopra citato, suggeriamo la revisione della letteratura “Toward a Neurology of Loneliness” (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/?term=toward+a+neurology+of+loneliness ) e soprattutto il magnifico Ted Talk, da non perdere assolutamente, dello stesso Cacioppo  :

  • La solitudine è una condizione in crescita. Lo U.S. Census Bureau dice che al 2010 gli americani che vivono da soli erano 30 milioni. Nel 2050 saranno tra i 43 e i 57 milioni. Sempre più individui, nel mondo occidentale, ne soffrono, ma non ne parlano. Perché?
  • La solitudine è fortemente stigmatizzata. Come spiegato da Cacioppo nel suo Ted Talk, “sentirsi soli” è ancora oggi considerato il corrispettivo psicologico dell’essere dei “falliti” dal punto di vista sociale.
  • La solitudine non corrisponde all’introversione del carattere, alla depressione come forma clinica o all’isolamento sociale oggettivo. Si tratta di figure cliniche differenti.
  • La solitudine si avvicina invece di più all’isolamento sociale “percepito”. Insomma, non importa che tu sia realmente circondato da persone o viceversa isolato: ciò che induce questo stato soggettivo è sempre la percezione di alienazione dal contesto sociale, indipendentemente da quante persone si ha attorno.  Non solo l’isolamento reale è in crescita, ma anche quello percepito: il 40% degli anziani negli USA si percepisce socialmente isolato (Perissinotto, 2012).
  • La solitudine uccide. L’aumento di mortalità per solitudine è circa 2 volte maggiore quello indotto dall’obesità e 4 volte maggiore quello indotto dall’inquinamento dell’aria (Holt-Lunstad, 2010) (N.B.: questi sono dati che, come medico, credo siano veramente impressionanti).
  • Come uccide, la solitudine? Una prima, storica ipotesi è stata quella del “controllo sociale” (social control hypothesis). Secondo tale teoria il contesto sociale spingerebbe l’individuo, attraverso influenze esplicite e/o obblighi interiorizzati, a pratiche quotidiane maggiormente salutari, favorendone indirettamente una più lunga sopravvivenza. Un esempio tipico di questo meccanismo è, ad esempio, l’osservazione che l’essere sposati si associa ad una maggiore probabilità di praticare esercizio fisico (Pettee, 2006). Il focus su questa ipotesi ha portato però, per un certo tempo, a dare troppo peso alle relazioni sociali effettive e a scotomizzare gli elementi/modelli neurobiologici della solitudine. Molta letteratura ha ormai infatti mostrato come la teoria del controllo sociale sia solo parzialmente in grado di spiegare gli effetti nefasti della solitudine sulla salute (aumento di mortalità), i quali sembrano legati all’isolamento sociale percepito, un effetto che va al di là dell’isolamento sociale oggettivo.
  • Anche se, in merito a come l’isolamento sociale percepito modifichi la biologia del nostro cervello ed aumenti la mortalità, una risposta certa/un modello descrittivo completo ancora non esista, esistono molte evidenze di come la solitudine produca effetti biologicamente rilevanti, come aumento dell’aggressività, declino cognitivo, aumento del picco cortisolemico mattutino, un’anomala frammentazione del sonno (Cacioppo, 2016), un’alterazione del funzionamento delle reti neurali cerebrali (Wong, 2016).
  • Nel complesso il modello attuale sembra quindi sostenere che la condizione di isolamento sociale percepito induca uno “stato cerebrale” caratterizzato da una maggiore attivazione di quei sistemi di valenza negativa, di risposta allo stress, di attesa ipervigile a possibili minacce, che condizionerebbe in maniera incredibilmente negativa gli outcome di salute reale degli individui.

Mi piace concludere questo breve report citando di nuovo il grande Cacioppo, uno scienziato che mancherà immensamente alla nostra comunità.

“Concludendo, sia in termini ontogenici che filogenici, i membri di questa specie hanno bisogno dell’aiuto e della compagnia di altri per sopravvivere e per prosperare […]”

BIBLIOGRAFIA

Cacippo et al. The growing problem of loneliness. Lancet. 2018 Feb 3;391(10119):426

Cacioppo et al. Toward a neurology of loneliness. Psychol Bull. 2014 Nov;140(6):1464-504

Holt-Lunstad et al. Social Relationships and Mortality Risk: A Meta-analytic Review PLoS Med. 2010 Jul; 7(7): e1000316

Perissinotto et al. Loneliness in older persons: a predictor of functional decline and death. Arch Intern Med. 2012 Jul 23;172(14):1078-83

Pettee et al. Influence of marital status on physical activity levels among older adults. Med Sci Sports Exerc. 2006 Mar;38(3):541-6.

Wong et al. Loneliness in late-life depression: structural and functional connectivity during affective processing. Psychol Med. 2016 Sep;46(12):2485-99.

 

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17 May 2018

BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK

di Matteo Respino

PREMESSA: UN ACCENNO SUL RUOLO DELLA STIMOLAZIONE CEREBRALE, OGGI.

Questo weekend sono stato al congresso internazionale della Society of Biological Psychiatry, tenutosi a New York. Ho notato la presenza di molti interventi sulla stimolazione magnetica transcranica, specialmente in un simposio, di grande successo, che titolava “Bridging the gap of causality in psychiatry”: nel contesto della psichiatria sembra oggi fare la ricomparsa la stimolazione cerebrale, nella forma della stimolazione magnetica transcranica, come forma di terapia fisica dei disturbi mentali. Come suggerito dal titolo del simposio, l’interesse crescente attorno a questo tema deriva sia dalle potenzialità terapeutiche di questo strumento, sia dalla possibilità che esso offre di testare “meccanismi causali” di certi stati affettivi attraverso la modulazione downstream di specifici circuiti cerebrali. Questo solo per sostenere come si assista, e a mio parere si assisterà sempre più, ad un ritorno alle terapie fisiche in psichiatria, con particolare riferimento alle terapie di stimolazione cerebrale.

In psichiatria, la terapia fisica per eccellenza, o quantomeno quella paradigmatica, è l’elettroshock.

La terapia elettroconvulsivante (ECT), comunemente nota come “elettroshock”, è un esempio abbastanza unico di come a volte, per complesse motivazioni storiche, culturali, linguistiche, la comunicazione tra il mondo scientifico della medicina (clinica e ricerca) e quello dell’opinione pubblica possa andare storta. Per una lettura un po’ datata ma approfondita, e sulla quale si basa questo breve report “storico”, consiglio l’articolo “The History of ECT: Unsolved Mysteries”, pubblicato nel 2004 su Psychiatric Times da Edward Shorter, professore di storia della medicina e di psichiatria a Toronto.

L’ECT è una terapia efficace. Le evidenze in questo senso sono molto numerose. Le linee guida inglesi Maudsley Prescribing Guidelines indicano ad esempio l’ECT come una delle terapie di prima scelta per la depressione refrattaria ai trattamenti, basandosi sui risultati di diversi trials clinici. Nell’articolo di Ross et al. Cost-effectiveness of Electroconvulsive Therapy for Treatment-Resistant Depression in the United States, pubblicato quest’anno su JAMA Psychiatry, gli Autori descrivono come, oltre ad essere significativamente più efficace della terapia farmacologica e della psicoterapia (50-60% dei pazienti depressi raggiungono una remissione rapida dopo la terapia rispetto al 10-40% di coloro che sono trattati con farmaci/psicoterapia), utilizzare l’ECT come prima linea di trattamento della “depressione resistente” (fallimento di due farmaci adeguati per dose e tempo di somministrazione) sarebbe la soluzione migliore in termini di “costo-efficacia”, ovvero di sostenibilità economica a livello di sistema.

Allora perché non si utilizza? Perché molti clinici, per non parlare dei pazienti e famigliari, considererebbero tale opzione “eccessivamente aggressiva” o semplicemente ne diffiderebbero a priori? Una visione storica ci aiuterà a capirlo. Inoltre, per un approfondimento di quelli che sono i 5 principali “pregiudizi” sull’elettroshock consiglio caldamente di consultare l’articolo del nostro collega, psichiatra e blogger Valerio Rosso alla pagina https://www.valeriorosso.com/2016/08/17/elettroshock-in-psichiatria/

BREVE STORIA DELL’ECT

Precedenti

La storia dell’ECT rientra nell’ambito delle cosiddette “terapie fisiche in psichiatria”. Il “modello” di questi trattamenti, d’ispirazione per il successivo sviluppo dell’ECT, fu l’induzione di febbre malarica per il trattamento della neurosifilide, inventato dallo psichiatra viennese Wagner von Jauregg. L’antenato dell’ECT, che risale al 1934, è stata la terapia “convulsivante” indotta da molecole come il Cardiazolo (Metrazolo in USA). Lo psichiatra Ladislas von Meduna, infatti, ipotizzò che schizofrenia ed epilessia fossero patologie in reciproco antagonismo, e che pertanto il favorire convulsioni (come quelle presenti in crisi epilettiche) potesse contrastare lo sviluppo schizofrenico.

La nascita, la diffusione e il declino dell’ECT

Poco dopo, nel 1938, lo psichiatra italiano Ugo Cerletti sperimentò con successo l’effetto dell’applicazione di corrente elettrica diretta al cervello: le pubblicazioni di Cerletti (e Bini) ebbero un impatto di grandissima rilevanza anche oltre oceano e dopo pochissimi anni l’ECT si diffuse negli USA. Già nel 1941, da Harvard, provenne il primo manuale titolato “Shock Treatment in Psychiatry: a Manual”, seguito da molti altri testi simili, a testimoniare la diffusione dello strumento.

Stando a quanto sostenuto dallo psichiatra e storico E. Shorter, in quegli anni l’ECT era già stato utilizzato ampliamente dall’esercito USA nella seconda guerra mondiale, e negli anni ’50 era ormai un trattamento standard per i pazienti depressi ricoverati in ospedale. Poi, tutto a un tratto, dagli anni ’60 agli anni ’80 l’ECT sostanzialmente svanì dai programmi di training per psichiatri in USA (N.B.: in Italia, ancora oggi, gli specializzandi in psichiatria non ricevono, di base, una formazione specifica in ECT – data anche la scarsità di centri che lo praticano). Giustamente, Shorter si chiede “why this sudden disappearance of a safe and effective therapy occurred is one the riddles of the history of psychiatry” e prova a chiarire il ruolo di alcuni fattori. Ecco cosa sostiene:

  • In quegli anni, l’opposizione all’elettroshock delle case farmaceutiche era mite se confrontata a quello che sarebbe stata in futuro. Ad esempio, Paul Jansenn (sì, proprio lui, quello della Jansenn) sosteneva apertamente la superiorità dell’ECT nel trattamento delle depressioni rispetto ai farmaci triciclici. Pertanto, l’opposizione (blanda) delle case farmaceutiche non può essere considerata come un fattore determinante, in quel contesto, per la virtuale scomparsa dell’ECT.
  • Allo stesso modo la psicoanalisi, all’epoca imperante nel contesto accademico della psichiatria, non si mostrava apertamente ostile all’ECT. Anzi, Shorter sostiene come negli anni ’50 molti psicoanalisti fossero positivi all’idea di combinare ECT e talking therapy.
  • Il fattore incriminato è stata invece la contro-cultura degli anni ’60, ostile alla psichiatria in genere e specialmente all’ECT, la cui diffusione popolare sarebbe stata favorita da eventi culturali di massa come l’uscita del film One Flew Over the Cuckoo’s Nest (Qualcuno volò sul nido del cuculo) di Milos Forman, ispirato dal libro di Ken Kesey, che ebbe un grande impatto sull’opinione pubblica. In parallelo, legislazioni contro l’ECT vennero approvate in alcuni stati dell’unione, e l’APA (American Psychiatric Association) non forniva che debolissime, se non nulle, voci di sostegno alla procedura.

Una lenta, lentissima ripresa

Un nuovo punto di svolta si ebbe grazie al lavoro di Max Fink, che nel 1979 pubblicava dati sulla maggiore efficacia dell’ECT rispetto agli antidepressivi. Sull’onda di questi nuovi dati sull’efficacia dell’elettroshock (efficacia di cui, nel loro intimo, tutti gli psichiatri erano già a conoscenza), nel 1985, su JAMA, una consensus conference sull’argomento scriveva che “not a single controlled study has shown another form of treatment to be superior to ECT in short-term treatment of severe depression”. Ma nonostante tali endorsements l’ECT ha purtroppo mantenuto, nel tempo, quella “fama” costruita dall’onda della cultura antipsichiatrica, e di cui fatica ancora oggi a liberarsi. Per tornare all’articolo di Ross e colleghi, gli stessi Autori si chiedono per quale motivo l’ECT rimanga una risorsa tanto eccezionale quanto eccezionalmente sottoutilizzata.

A mio parere non vi sono solo le barriere pregiudiziali della popolazione (per le quali, di nuovo, vi rimando calorosamente all’articolo di Valerio Rosso) ma vi è scarsa informazione sui suoi benefici anche tra i professionisti della salute mentale, che continuano a mantenere una visione più cinematografica che reale della procedura ed ancora oggi, per tante ragioni (alcune, a onor del vero, molto pragmatiche), “resistono” all’invio dei pazienti che si gioverebbero dell’ECT. Come citato da Shorter, Fink stesso parlava di “depressione non adeguatamente trattata” in luogo di “depressione resistente”, proprio per queste barriere al trattamento presenti negli stessi operatori. Nella mia breve e recente esperienza, oggi la situazione è quasi invariata. Negli USA, rispetto all’Italia, l’utilizzo dell’ECT è molto più diffuso, e il pregiudizio ad esso associato molto minore. Nel bel paese invece la congiuntura di una forte eredità antipsichiatrica e di pochi (eroici) centri attrezzati all’uso dell’ECT rende la (pre)disposizione di professionisti e pazienti ad affrontare questa terapia alquanto scarsa rispetto alle sue potenzialità.

Vorrei concludere citando direttamente E. Shorter nella parte finale del suo bell’articolo, che risale al 2004 ma che a me sembra ancora assolutamente valido, a distanza di 15 anni.

“[…] la psichiatria rimane infusa di quell tipo particolare di paure e pregiudizi che altre specialità mediche sono capaci di isolare con il muro della medicina basata sulle evidenze. La realtà è che la nostra cultura teme ancora la terapia elettroconvulsivante, esattamente così come alcuni temono ancora le vaccinazioni. I clinici sono ancora riluttanti a raccomandarne l’uso, talvolta per evitare di insospettire/indispettire il paziente e compromttere l’alleanza terapeutica.

In ogni caso, qui non si tratta di lenire dolori reumatici. Stiamo piuttosto parlando di malattie che mettono a rischio la sopravvivenza delle persone, come le forme gravi di depressione melanocolica, la mania e la catatonia. Un trattamento di provata efficacia è disponibile. La follia è non usare tutte le risorse a disposizione della medicina scientifica.”

 

BIBLIOGRAFIA

The Maudsley Prescribing Guidelines, 12th Edition, Wiley Blackwell Editor

Ross, EL et al. Cost-effectiveness of Electroconvulsive Therapy for Treatment-Resistant Depression in the United States. JAMA Psychiatry. Published online May 9, 2018. doi:10.1001/jamapsychiatry.2018.0768

https://jamanetwork.com/journals/jamapsychiatry/fullarticle/2680312

Shorter, E. The History of ECT: Unsolved Mysteries. Psychiatric Times. Febr 1st 2004

 

 

Article by admin / Editoriali / matteorespino, neuroscienze, psichiatria, psicoterapia, psicoterapiacognitivocomportamentale, psicotraumatologia

30 April 2018

L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana

di Matteo Respino

L’articolo “The evolution of distrubuted association networks in the human brain”, i cui contenuti sono qui sintetizzati, è stato pubblicato nel 2013 sulla rivista Trends in Cognitive Sciences. Gli Autori, Randy Buckner e Fenna Krienen, sono noti scienziati che lavorano nel dipartimento di psicologia della Harvard University. Link all’articolo via PubMed: https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/24210963

Vi siete mai chiesti, nello specifico, cosa rende il cervello di noi umani capace di pensare nel modo in cui pensiamo? Cosa ci rende capaci, rispetto ad ogni altra creatura nel mondo animale, di tale potenza cognitiva? Una risposta che sia allo stesso tempo definitiva, certa, specifica e unica non esiste, quantomeno non al momento attuale. Esistono però numerose evidenze circa il fatto che alcuni aspetti della cognizione umana siano legati all’attività di aree cerebrali chiamate “associative”, che sostanzialmente svolgono la funzione di integrare informazioni provenienti da altre aree cerebrali.

Per capirsi, il nostro cervello è composto da diverse aree, alcune di esse sono “le prime” a ricevere informazioni (inputs) dalla periferia, ad esempio la corteccia visiva primaria. Altre sono “le ultime”, quelle che ricevono i “dati elaborati”, e sono infatti quelle che inviano gli outputs (i comandi finali) ai nostri organi periferici (ad esempio, la corteccia motoria primaria che fornisce i comandi finali su come muoversi nello spazio). Ecco, in mezzo a questi due estremi si trovano aree in cui le informazioni provenienti da diversi sistemi sensoriali (da tanti inputs diversi) vengono elaborate con un grado di complessità crescente. Si parla in questo caso di “aree associative”.

Lo sviluppo del cervello umano

Il cervello umano possiede circa 86 miliardi di neuroni ed un’immensa potenza computazionale (pensate al numero, quasi inimmaginabile, di connessioni tra questi neuroni). Non è stato sempre così. Noi umani siamo passati relativamente in fretta, in poche centinaia di migliaia di anni, dall’uso di strumenti banalissimi alla soglia dell’intelligenza artificiale. Questo sviluppo di abilità “cognitive”, in proporzione rapidissimo, si spiega quantomeno in parte con l’evoluzione altrettanto rapida dell’anatomia del nostro cervello. Si è trattato di uno sviluppo esponenziale, “in crescendo”: per passare dal volume cerebrale dei nostri antenati mammiferi più antichi al volume cerebrale dell’Homo Erectus ci sono voluti 6 milioni di anni, ma solo un ulteriore milione è quello che separa noi, oggi, dal suddetto Homo Erectus, e noi possediamo un cervello che è sostanzialmente due volte più grande. Ricapitolando, su un totale di 7 milioni di anni di sviluppo, il grosso della crescita del nostro cervello è avvenuto nell’ultimo settimo, quando tale volume è raddoppiato. Si tratta solo di una questione di volume? Ovviamente no. Se così fosse, le balene sarebbero molto più intelligenti di noi. Altri fattori sono ad esempio:

  1. il volume cerebrale in rapporto alla dimensione corporea (anche chiamato il “quoziente di encefalizzazione”)

  2. la densità neuronale (quanti neuroni per unità di volume cerebrale).

Ad esempio, uno scimpanzè ha un volume cerebrale molto inferiore di una balena, ma un maggiore quozione di encefalizzazione ed una maggiore densità neuronale: nel complesso lo scimpanzè possiede un maggior numero di neuroni ed una maggiore “potenza computazionale” di una balena.

Come sottolineato dagli Autori, è verosimile che alcuni eventi genetici “chiave” (in termini evoluzionistici) siano stati coinvolti in questo rapido sviluppo. Di fatto, in confronto ai nostri antenati, nei mammiferi più evoluti (quindi anche e soprattutto in noi umani) avviene che lo sviluppo embrionale delle cellule cerebrali si “allunghi” su un maggiore raggio temporale, e pertanto quelle cellule che saranno i nostri neuroni hanno più tempo a disposizione per replicare, aumentando di numero, e per organizzarsi in strutture più complesse.

Veniamo quindi a tale organizzazione, ponendoci una semplice quanto fascinosa domanda: le aree cerebrali si sono sviluppate allo stesso modo, o alcune più di altre? La risposta, non così sorprendente a questo punto, è che lo sviluppo anatomico del cervello umano ha riguardato primariamente la “corteccia associativa” citata all’inizio.

Lo sviluppo della corteccia associativa

Sull’onda di quanto appena scritto, ciò che caratterizza la corteccia cerebrale umana è di presentare uno sviluppo abnorme delle “aree associative”. Se immaginassimo un albero dell’evoluzione della corteccia cerebrale nei mammiferi, fino ad arrivare a quella umana ai rami più alti, osserveremmo come la corteccia “associativa” aumenta costantemente di volume, di specie in specie, fino a raggiungere il massimo grado di sviluppo negli umani. Viceversa, le nostre aree più semplici, come quelle motorie (che inviano comandi) o sensoriali (che ricevono informazioni), non sono poi tanto diverse da quelle di altre specie.

Una risposta al “perché”, o al “come”, le aree associative si siano sviluppate maggiormente delle altre non è ancora stata trovata. Un’ulteriore domanda, particolarmente interessante, è se le aree associative siano semplicemente aumentate di volume rispetto alle altre o nel tempo abbiano acquisito nuove, speciali proprietà. Tale domanda interroga un’altra questione radicale: la cognizione umana deriva da un semplice “potenziamento” della capacità computazionale presente in strutture più primitive? In altre parole, si tratta di una questione “quantitativa” per cui “più neuroni = più pensiero = essere umani”? O deriva piuttosto dallo sviluppo di qualcosa di nuovo, qualitativamente diverso in termini di struttura e funzione, che renderebbe quindi anche il nostro pensiero “qualitativamente diverso”? Il nostro cervello, a livello delle aree associative, ha in effetti visto sviluppo di qualcosa di nuovo: le reti neurali non-canoniche, il “miracolo” su cui si fonda la nostra capacità pensare.

Reti neurali “non-canoniche”

Premessa: le aree cerebrali ed i neuroni al loro interno, anche se posti a grande distanza, comunicano tra loro attraverso i “cavi elettrici” del cervello, i cosiddetti assoni neurali, che si organizzano i “fasci di sostanza bianca”. Questo rende il cervello un intrigo infinitamente complesso di “reti neurali” intersecate tra loro, che oggi si possono studiare attraverso tecniche specifiche di risonanza magnetica. Evidenze provenienti da questo contesto ci dicono che la corteccia cerebrale si organizza in molteplici “reti neurali” o “network cerebrali”: insiemi di aree cerebrali, anche distanti tra loro, che tendono ad attivarsi in sincronia. Come si organizzano queste rete neurali? Come si “passano le informazioni”? Con quale gerarchia? Sulla base di quali principi? Domande complesse che oltrepassano lo scopo di questo articolo. Ciò che ci è utile sapere ora è che, in generale, negli umani osserviamo la compresenza di reti neurali “non-canoniche” e di reti neurali “canoniche”. Cerchiamo di capire di cosa parliamo.

La corteccia animale è dominata da “reti neurali canoniche”. Anche alcune parti della nostra corteccia sono organizzare in tal modo, ad esempio le aree della corteccia coinvolte nell’elaborazione dello stimolo visivo. Ecco un esempio di rete neurale canonica che può aiutare a capire il concetto: lo stimolo visivo di un pericolo viene percepito nell’area visiva A, passato alla successiva area B, elaborato in serie nelle aree C e D (ed in nessun’altra possibile area, non c’è variazione) ed infine una risposta motoria fuga viene inviata dall’area E agli organi periferici che ci consentono in effetti di fuggire.

Una rete neurale canonica è una rete di elaborazione dei dati con limitata flessibilità, organizzata secondo principi gerarchici rigidi, “lineari”, in cui l’informazione viene elaborata “in serie” secondo fasi prestabilite. Tale tipo di rete presenta questi limiti poiché è “costretta” anatomicamente ad aree non associative. Sono reti tethered, ovvero “costrette”, “legate”.

Viceversa, una rete neurale non-canonica, come le reti che si costituiscono nelle aree associative, ha maggiore flessibilità, una gerarchia indefinita, si organizza “in parallelo” o “circolarmente” attraverso circuiti rientranti, e così riverbera l’informazione quanto necessario alla sua processazione e allo sviluppo di capacità mentali superiori (umane). Sono reti untethered (“slegate”, poiché si fondano sulla corteccia di tipo associativo). Difficile come concetto? Pensate a quando una serie di stimoli provenienti dall’ambiente producono in voi una certa sensazione, come qualcosa che non va, ma non inducono immediatamente una reazione di fuga. Piuttosto, in quel contesto (una festa, una lezione, a casa in famiglia) comincerete a pensare, pensare e ancora pensare. Cercherete di capire qual è il problema, di identificarlo e poi di risolverlo più o meno logicamente. Nel frattempo, integrerete questi processi con la memoria di situazioni passate simili, e automaticamente sarete influenzati a scegliere una cosa o un’altra anche sulla base della vostra esperienza. Inoltre, penserete a voi stessi nel futuro, a come vorreste uscire da quella situazione. Tutto ciò avviene contemporaneamente grazie a molti processi neurali che avvengono in parallelo all’interno di tali reti neurali non-canoniche.

In sostanza, le reti neurali non-canoniche sono strutturalmente “adeguate” a sostenere la cognizione umana nella sua forma più alta, ovvero quella di una internal mentation, la capacità di “pensarsi”.

Conclusione: l’ipotesi del tethering

Tale ipotesi, avanzata dagli Autori, riassume sostanzialmente quanto detto finora integrandolo in un’ipotesi specifica che si può riassumere come segue:

in seguito a uno sviluppo evoluzionistico massivo della corteccia associativa, la maggior parte della corteccia cerebrale umana non sarebbe più “costretta” a seguire le gerarchie sensori-motorie. Piuttosto, in virtù della struttura di tale “nuova” corteccia, si svilupperebbe invece una vasta attività intermedia (tra i segnali in ingresso e quelli in uscita) con caratteristiche di riverbero circolare del segnale, sulle cui proprietà si fonderebbe l’unicità della cognizione umana.

D’obbligo usare il condizionale poiché, per quanto verosimile e per quanto accertati siano molti dei suoi assunti, si parla di una “teoria complessiva” che in quanto tale, pur fornendo una cornice utile in cui comprendere lo sviluppo della cognizione, è ancora in attesa di conferme o disconferme.

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  • INTERVISTA A SIMONE CHELI (ASSOCIAZIONE TAGES ONLUS) 25 November 2021
  • TRAUMA: IMPOSTAZIONE DEL PIANO DI CURA E PRIMO COLLOQUIO 16 November 2021
  • TEORIA POLIVAGALE E LAVORO CON I BAMBINI 9 November 2021
  • INTRODUZIONE A BYUNG-CHUL HAN: IL PROFUMO DEL TEMPO 3 November 2021
  • IT (STEPHEN KING) 27 October 2021
  • JUDITH LEWIS HERMAN: “GUARIRE DAL TRAUMA” 22 October 2021
  • ANCORA SU PIERRE JANET 15 October 2021
  • PSICONUTRIZIONE: IL LAVORO DI FELICE JACKA 3 October 2021
  • MEGLIO MALE ACCOMPAGNATI CHE SOLI: LE STRATEGIE DI CONTROLLO IN INFANZIA (PTSDc) 30 September 2021
  • OVERLOAD COGNITIVO ED ECOLOGIA MENTALE 21 September 2021
  • UN LUOGO SICURO 17 September 2021
  • 3MDR: UNO STRUMENTO SPERIMENTALE PER COMBATTERE IL PTSD 13 September 2021
  • UN LIBRO PER L’ESTATE: “COME ANNOIARSI MEGLIO” DI PIETRO MINTO 6 August 2021
  • “I fondamenti emotivi della personalità”, JAAK PANKSEPP: TAKEAWAYS E RECENSIONE 3 August 2021
  • LIFESTYLE PSYCHIATRY 28 July 2021
  • LE DIVERSE FORME DI SINTOMO DISSOCIATIVO 26 July 2021
  • PRIMO LEVI, LA CARCERAZIONE E IL TRAUMA 19 July 2021
  • “IL PICCOLO PARANOICO” DI BERNARDO PAOLI. PARANOIA, AMBIVALENZA E MODELLO STRATEGICO 14 July 2021
  • RECENSIONE PER PUNTI DI “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE” 8 July 2021
  • I VIRUS: IL LORO RUOLO NELLE MALATTIE NEURODEGENERATIVE 7 July 2021
  • LA PLUSDOTAZIONE SPIEGATA IN BREVE 1 July 2021
  • COS’É LA COGNITIVE PROCESSING THERAPY? 24 June 2021
  • SULLA TERAPIA ESPOSITIVA PER I DISTURBI FOBICI: IL MODELLO DI APPRENDIMENTO INIBITORIO DI MICHELLE CRASKE 19 June 2021
  • É USCITO IL SECONDO EBOOK PRODOTTO DA AISTED 15 June 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche -con il blog Psicologia Fenomenologica. 7 June 2021
  • PSICHIATRIA DI COMUNITÁ: LA SCELTA DI UN METODO 31 May 2021
  • PTSD E SPAZIO PERIPERSONALE: DA UN ARTICOLO DI DANIELA RABELLINO ET AL. 26 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO ONLINE CON VALERIO ROSSO, MARCO CREPALDI, LUCA PROIETTI, BERNARDO PAOLI, GENNARO ROMAGNOLI 22 May 2021
  • MDMA PER IL PTSD: NUOVE EVIDENZE 21 May 2021
  • MAP (MULTIPLE ACCESS PSYCHOTHERAPY): IL MODELLO DI PSICOTERAPIA AD APPROCCI COMBINATI CON ACCESSO MULTIPLO DI FABIO VEGLIA 18 May 2021
  • CURANDO IL CORPO ABBIAMO PERSO LA TESTA: UN CONVEGNO GRATUITO ONLINE (21 MAGGIO) 13 May 2021
  • BALBUZIE: COME USCIRNE (il metodo PSICODIZIONE) 10 May 2021
  • PANICO: INTERVISTA AD ANDREA IENGO (PANICO.HELP) 7 May 2021
  • Psicologia digitale e pandemia COVID19: il report del Centro Medico Santagostino di Milano dall’European Conference on Digital Psychology (ECDP) 4 May 2021
  • SOLCARE IL MARE ALL’INSAPUTA DEL CIELO. Liberalizzare come terapia: il problema dell’autocontrollo in clinica 30 April 2021
  • IL PODCAST DE “IL FOGLIO PSICHIATRICO” 25 April 2021
  • La psicologia fenomenologica nelle comunità terapeutiche 25 April 2021
  • 3 STRUMENTI CONTRO IL TRAUMA (IN BREVE): TAVOLA DISSOCIATIVA, DISSOCIAZIONE VK E CAMBIO DI STORIA 23 April 2021
  • IL MALADAPTIVE DAYDREAMING SPIEGATO PER PUNTI 17 April 2021
  • UN VIDEO PER CAPIRE LA DISSOCIAZIONE 12 April 2021
  • CORRELATI MORFOLOGICI E FUNZIONALI DELL’EMDR: UNA PANORAMICA SULLA NEUROBIOLOGIA DEL TRATTAMENTO DEL PTSD 4 April 2021
  • TRAUMA E DISSOCIAZIONE IN ETÁ EVOLUTIVA: (VIDEO)INTERVISTA AD ANNALISA DI LUCA 1 April 2021
  • GLI EFFETTI POLARIZZANTI DELLA BOLLA INFORMATIVA. INTERVISTA A NICOLA ZAMPERINI DEL BLOG “DISOBBEDIENZE” 30 March 2021
  • SVILUPPARE IL PENSIERO LATERALE (EDWARD DE BONO) – RECENSIONE 24 March 2021
  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE 22 March 2021
  • 8 LIBRI FONDAMENTALI SU TRAUMA E DISSOCIAZIONE 14 March 2021
  • VIDEOINTERVISTA A CATERINA BOSSA: LAVORARE CON IL TRAUMA 7 March 2021
  • PRIMO SOCCORSO PSICOLOGICO E INTERVENTO PERI-TRAUMATICO: IL LAVORO DI ALAIN BRUNET ED ESSAM DAOD 2 March 2021
  • “SHARED LIVES” NEL REGNO UNITO: FORME DI PSICHIATRIA D’AVANGUARDIA 25 February 2021
  • IL TRAUMA (PTSD) NEGLI ANIMALI (PARTE 1) 21 February 2021
  • FLOW: una definizione 15 February 2021
  • NEUROBIOLOGIA DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO (PTSD) 8 February 2021
  • PSICOLOGIA DELLA CARCERAZIONE (SECONDA PARTE): FINE PENA MAI 3 February 2021
  • INTERVISTA A COSTANZO FRAU: DISSOCIAZIONE, TRAUMA, CLINICA 1 February 2021
  • LO SPETTRO IMPULSIVO COMPULSIVO. I DISTURBI OSSESSIVO COMPULSIVI SONO DISTURBI DA ADDICTION? 25 January 2021
  • ANATOMIA DEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO (E PSICOTERAPIA) 15 January 2021
  • LA STRANGE SITUATION IN BREVE e IL TRAUMA COMPLESSO 11 January 2021
  • GIORNALISMO = ENTERTAINMENT 6 January 2021
  • SIMBOLIZZARE IL TRAUMA: IL RUOLO DELL’ATTO ARTISTICO 2 January 2021
  • PSICHIATRIA: IL MODELLO DE-ISTITUZIONALIZZANTE DI GEEL, BELGIO (The Openbaar Psychiatrisch Zorgcentrum) 28 December 2020
  • STABILIZZARE I SINTOMI POST TRAUMATICI: ALCUNI ASPETTI PRATICI 18 December 2020
  • Psicoterapia breve strategica del Disturbo ossessivo compulsivo (DOC). Intervista ad Andrea Vallarino e Luca Proietti 14 December 2020
  • CRONOFAGIA DI DAVIDE MAZZOCCO: CONTRO IL FURTO DEL TEMPO 10 December 2020
  • PODCAST: SPECIALIZZAZIONE IN PSICHIATRIA E CLINICA A CHICAGO, con Matteo Respino 8 December 2020
  • COME GESTIRE UNA DIPENDENZA? 4 PIANI DI INTERVENTO 3 December 2020
  • INTRODUZIONE A JAAK PANKSEPP 28 November 2020
  • INTERVISTA A DANIELA RABELLINO: LAVORARE CON RUTH LANIUS E NEUROBIOLOGIA DEL TRAUMA 20 November 2020
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO) 16 November 2020
  • PSICHIATRIA E CINEMA: I CINQUE MUST-SEE (a cura di Laura Salvai, Psychofilm) 12 November 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: una definizione e alcuni link di approfondimento 7 November 2020
  • SCOPRIRE IL FOREST BATHING 2 November 2020
  • IL TRAUMA COME APPRENDIMENTO A PROVA SINGOLA (ONE TRIAL LEARNING) 28 October 2020
  • IL PANICO COME ROTTURA (RAPPRESENTATA) DI UN ATTACCAMENTO? da un articolo di Francesetti et al. 24 October 2020
  • LE PENSIONI DEGLI PSICOLOGI: INTERVISTA A LORENA FERRERO 21 October 2020
  • INTERVISTA A JONAS DI GREGORIO: IL RINASCIMENTO PSICHEDELICO 18 October 2020
  • IL RITORNO (MASOCHISTICO?) AL TRAUMA. Intervista a Rossella Valdrè 13 October 2020
  • ASCESA E CADUTA DEI COMPETENTI: RADICAL CHOC DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 6 October 2020
  • L’EMDR: QUANDO USARLO E CON QUALI DISTURBI 30 September 2020
  • FACEBOOK IS THE NEW TOBACCO. Perchè guardare “The Social Dilemma” su Netflix 28 September 2020
  • SPORT, RILASSAMENTO, PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA: oltre la parola per lo stress post traumatico 21 September 2020
  • IL MODELLO TRIESTINO, UN’ECCELLENZA ITALIANA. Intervista a Maria Grazia Cogliati Dezza e recensione del docufilm “La città che cura” 15 September 2020
  • IL RITORNO DEL RIMOSSO. Videointervista a Luigi Chiriatti su tarantismo e neotarantismo 10 September 2020
  • FARE PSICOTERAPIA VIAGGIANDO: VIDEOINTERVISTA A BERNARDO PAOLI 2 September 2020
  • SUL MERCATO DELLA DOPAMINA: INTERVISTA A VALERIO ROSSO 31 August 2020
  • TARANTISMO: 9 LINK UTILI 27 August 2020
  • FRANCESCO DE RAHO SUL TARANTISMO, tra superstizione e scienza 26 August 2020
  • ATTACCHI DI PANICO: IL MODELLO SUL CONTROLLO 7 August 2020
  • SHELL SHOCK E PRIMA GUERRA MONDIALE: APPORTI VIDEO 31 July 2020
  • LA LUNA, I FALÒ, ANGUILLA: un romanzo sulla melanconia 27 July 2020
  • VIDEOINTERVISTA A FERNANDO ESPI FORCEN: LAVORARE COME PSICHIATRA A CHICAGO 20 July 2020
  • ALCUNI ESTRATTI DALLA RUBRICA “GROUNDING” (PDF) 14 July 2020
  • STRESS POST TRAUMATICO: IL MODELLO A CASCATA. Da un articolo di Ruth Lanius 10 July 2020
  • OTTO KERNBERG SUGLI OBIETTIVI DI UNA PSICOANALISI: DA UNA VIDEOINTERVISTA 3 July 2020
  • SONNO, STRESS E TRAUMA 27 June 2020
  • Il SAFE AND SOUND PROTOCOL, UNO STRUMENTO REGOLATIVO. Videointervista a GABRIELE EINAUDI 23 June 2020
  • IL CONTROLLO CHE FA PERDERE IL CONTROLLO: UNA VIDEOINTERVISTA AD ANDREA VALLARINO SUL DISTURBO DI PANICO 11 June 2020
  • STRESS, RESILIENZA, ADATTAMENTO, TRAUMA – Alcune definizioni per creare una mappa clinicamente efficace 5 June 2020
  • DA “LA GUIDA ALLA TEORIA POLIVAGALE”: COS’É LA NEUROCEZIONE 3 June 2020
  • AUTO-TRADIRSI. UNA DEFINIZIONE DI MORAL INJURY 28 May 2020
  • BASAGLIA RACCONTA IL COVID 26 May 2020
  • FONDAMENTI DI PSICOTERAPIA: LA FINESTRA DI TOLLERANZA DI DANIEL SIEGEL 20 May 2020
  • L’EBOOK AISTED: “AFFRONTARE IL TRAUMA PSICHICO: il post-emergenza.” 18 May 2020
  • NOI, ESSERI UMANI POST- PANDEMICI 14 May 2020
  • PUNTI A FAVORE E PUNTI CONTRO “CHANGE” di P. Watzlawick, J.H. Weakland e R. Fisch 9 May 2020
  • APPORTI VIDEO SUL TARANTISMO – PARTE 2 4 May 2020
  • RISCOPRIRE L’ARCHIVIO (VIDEO) DI PSYCHIATRY ON LINE PER I SUOI 25 ANNI 2 May 2020
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  • FOBIE SPECIFICHE IN BREVE 25 April 2020
  • JEAN PIAGET E LA SHARING ECONOMY 25 April 2020
  • LO STATO DELL’ARTE INTORNO ALLA DIMENSIONE SOCIALE DELLA MEMORIA: SUL MODO IN CUI SI E’ ARRIVATI ALLA CREAZIONE DEL CONCETTO DI RICORDO CONGIUNTO E SU QUANTO LA VITA RELAZIONALE INFLUENZI I PROCESSI DI SVILUPPO DELLA MEMORIA 25 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.3 – MODELLO ITALIANO E MODELLO BELGA A CONFRONTO, CON GIOVANNA JANNUZZI! 22 April 2020
  • RISCOPRIRE PIERRE JANET: PERCHÉ ANDREBBE LETTO DA CHIUNQUE SI OCCUPI DI TRAUMA? 21 April 2020
  • AGGIUNGERE LEGNA PER SPEGNERE IL FUOCO. TERAPIA BREVE STRATEGICA E DISTURBI FOBICI 17 April 2020
  • INTERVISTA A NICOLÓ TERMINIO: L’UOMO SENZA INCONSCIO 13 April 2020
  • TORNARE ALLE FONTI. COME LEGGERE IN MODO CRITICO UN PAPER SCIENTIFICO PT.3 10 April 2020
  • IL PODCAST DE IL FOGLIO PSICHIATRICO EP.2 – MODELLO ITALIANO E MODELLO SVIZZERO A CONFRONTO, CON OMAR TIMOTHY KHACHOUF! 6 April 2020
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  • LA COLPA NEL DOC: LA MENTE OSSESSIVA DI FRANCESCO MANCINI 12 March 2020
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  • PREFAZIONE DI “PTSD: CHE FARE?”, a cura di Alessia Tomba 5 March 2020
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  • TEORIA DEI SISTEMI COMPLESSI E PSICOPATOLOGIA: DENNY BORSBOOM 17 January 2020
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  • IMPATTO DELL’ESERCIZIO FISICO SUL PTSD: UNA REVIEW E UN PROGRAMMA DI ALLENAMENTO 30 December 2019
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI GIULIO TONONI 27 December 2019
  • THOMAS INSEL: FENOTIPI DIGITALI IN PSICHIATRIA 19 December 2019
  • HPPD: HALLUCINOGEN PERCEPTION PERSISTING DISORDER 12 December 2019
  • SU “LA DIMENSIONE INTERPERSONALE DELLA COSCIENZA” 24 November 2019
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  • PROCHASKA, DICLEMENTE, ADDICTION E NEURO-ETICA 24 September 2019
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  • MEMORIA, COSCIENZA, CORPO: TRE AREE DI IMPATTO DEL PTSD 13 September 2019
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  • IMMAGINI DEL TARANTISMO: CHIARA SAMUGHEO 14 August 2019
  • “LA CITTÀ CHE CURA”: COSA SONO LE MICROAREE DI TRIESTE? 8 August 2019
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  • IL LAVORO DI CARLA RICCI SUL FENOMENO HIKIKOMORI 24 July 2019
  • QUALI FONTI USARE IN AMBITO DI PSICHIATRIA E PSICOLOGIA CLINICA? 16 July 2019
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  • DEEP BRAIN REORIENTING – IN CHE MODO CONTRIBUISCE AL TRATTAMENTO DEI TRAUMI? 6 June 2019
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  • ALCUNI SPUNTI DA “LA GUERRA DI TUTTI” DI RAFFAELE ALBERTO VENTURA 28 May 2019
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  • L’IMPORTANZA DEGLI SPAZI DI ELABORAZIONE E IL “DEFAULT MODE” 18 May 2019
  • LA PEDAGOGIA STEINER-WALDORF PER PUNTI 14 May 2019
  • SOSTANZE PSICOTROPE E INDUSTRIA DEL MASSACRO: LA MODERNA CORSA AGLI ARMAMENTI FARMACOLOGICI 7 May 2019
  • MENO CONTENUTO, PIÙ PROCESSI. NUOVE LINEE DI PENSIERO IN AMBITO DI PSICOTERAPIA 3 May 2019
  • IL PROBLEMA DEL DROP-OUT IN PSICOTERAPIA RIASSUNTO DA LEICHSENRING E COLLEGHI 30 April 2019
  • SUL REHEARSAL 15 April 2019
  • DUE PROSPETTIVE PSICOANALITICHE SUL NARCISISMO 12 April 2019
  • TERAPIA ESPOSITIVA IN REALTÀ VIRTUALE PER IL TRATTAMENTO DEI DISTURBI D’ANSIA: META-ANALISI DI STUDI RANDOMIZZATI 3 April 2019
  • DISSOCIAZIONE: COSA SIGNIFICA 29 March 2019
  • IVAN PAVLOV SUL PTSD: LA VICENDA DEI “CANI DEPRESSI” 26 March 2019
  • A PROPOSITO DI POST VERITÀ 22 March 2019
  • TARANTISMO COME PSICOTERAPIA SENSOMOTORIA? 19 March 2019
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  • LA FORMA DELL’ISTITUZIONE MANICOMIALE: L’ARCHITETTURA DELLA PSICHIATRIA 8 March 2019
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  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO 11 June 2018
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  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI 4 June 2018
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  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE 24 May 2018
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ 21 May 2018
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK 17 May 2018
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI 15 May 2018
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico) 9 May 2018
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE 6 May 2018
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana 30 April 2018
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017 26 April 2018

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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