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Il Foglio Psichiatrico

Blog di divulgazione scientifica, aggiornamento e formazione in Psichiatria e Psicoterapia

3 May 2022

MANAGEMENT DELL’INSONNIA

di Raffaele Avico, Luca Proietti


PREMESSE TEORICHE

  • l’insonnia può avere diverse cause; nel caso in cui tu abbia escluso ragioni mediche, è possibile che un sonno frammentato o difficoltoso dipenda da uno stato di stress protratto, o da uno stato mentale di “sopraffazione”
  • di fronte a una minaccia, la nostra mente si attiva per trovare una soluzione, e con essa il nostro sistema nervoso autonomo simpatico. Quando il sistema nervoso autonomo simpatico è attivato, la mente accelera alla ricerca di soluzioni, il corpo si “prepara all’azione”, il respiro si accorcia; in questo stato mentale, la mente non si abbandona al sonno per una ragione di assenza di senso di sicurezza percepita (qui due approfondimenti su rapporto tra ptsd e insonnia: 1 e 2)
  • osserva la tua vita allo stato presente: è possibile che la tua insonnia derivi da uno scarso senso di padronanza/controllo (mastery): in questo senso potrebbe aiutarti tentare di lavorare sul tuo stile di vita, rendendolo maggiormente regolare/disciplinato, con delle routines che diano una struttura alla tua settimana
  • se hai subìto degli eventi che ritieni essere stati per te traumatici, è possibile che il tuo corpo abbia “accusato il colpo”. Il corpo è il primo a subire gli effetti (tra cui l’insonnia) di uno o più eventi traumatici; ci sono molte evidenze sul fatto che praticare attività sportiva aerobica aiuti il corpo a “dissipare” il trauma; di conseguenza, lavorare sul trauma attraverso l’attività fisica potrà aiutarti nell’insonnia
  • proteggiti dal senso di sovraccarico cognitivo: riduci e migliora la qualità dei tuoi input (qui un approfondimento)

MODALITÁ COMPORTAMENTALI

  • crea un ambiente protetto: il luogo del sonno dovrebbe essere un luogo dedicato al sonno e non ad altre attività
  • evita di usare schermi a luce blu prima di dormire; attiva la suoneria del tuo smartphone, e lascialo in un’altra stanza
  • cerca di tenerti legger* in termini alimentari prima di coricarti; prova con il digiuno intermittente
  • valuta la possibilità di usare una coperta ponderata nel caso in cui tu faccia fatica a distendere il corpo, a sciogliere in nervi
  • ritualizza il sonno: crea routines che predispongano la tua mente a entrare in modalità “sonno” quando si presentino; tenta di rendere confortevole e accogliente il luogo in cui dormi
  • non controllare il momento del sonno; tentare di controllare quello che per sua natura è spontaneo (il ritmo del cuore, il ritmo e la profondità del respiro, lo scivolare nel sonno) lo complica e paradossalmente procura un senso di perdita di controllo. Tenta di accettare i contenuti di pensiero che passano per la tua mente mentre stai tentando di addormentarti, senza volerli cambiare. Accetta tutto ciò che proviene dal tuo corpo senza tentare di controllarlo
  • Se ti accorgi che ti stai auto-imponendo di dormire, prova a cambiare strategia, imponendoti di stare svegli*; insieme a questo, accetta la possibilità che tu possa non dormire
  • per contrastare lo stress, prova ad approcciare la mindfulness attraverso clarity (https://clarityapp.it/)

APPROCCIO FARMACOLOGICO (a cura di Luca Proietti)

Vi sono differenti modi per intervenire farmacologicamente sull’insonnia, in ogni caso il farmaco deve sempre essere utilizzato in seconda battuta rispetto alle indicazioni per l’igiene del sonno.

Altro punto che è fondamentale chiarire è che in quei casi in cui l’insonnia sia secondaria o accompagni un’altra problematica come un disturbo dell’umore (depressione, mania), un disturbo post-traumatico o un disturbo d’ansia la terapia farmacologica dovrà essere primariamente indirizzata verso quella problematica e la terapia del sintomo insonnia potrà essere solo di supporto fino a quando non è stata risolta la problematica principale.

Dal punto di vista neurobiologico i mediatori coinvolti nel sonno sono soprattutto l’ormone Melatonina e differenti neurotrasmettitori quali Acetilcolina, Istamina, Noradrenalina e Dopamina.

La Melatonina è un ormone prodotto dall’Epifisi che è responsabile dell’alternanza dei ritmi circadiani, in particolare l’aumento della Melatonina, che durante la notte favorisce il sonno.

La Melatonina viene prescritta a formulazioni pronte da sola o in associazione con altri principi attivi naturali come la Valeriana per i casi di insonnia iniziale, cioè in chi ha difficoltà ad addormentarsi.

Quando si tratta invece di regolarizzare il ritmo sonno-veglia o vi è un insonnia centrale o terminale, quindi con rispettivi risvegli durante la notte o anticipato la mattina, si preferiscono formulazioni a rilascio prolungato o modificato. Queste formulazioni possono anche essere d’aiuto nel caso di altri disturbi del sonno come le parasonnie.

Gli altri neurotrasmettitori, in particolare Acetilcolina e Istamina, ma anche Dopamina e Noradrenalina, attivano in maniera diffusa la corteccia cerebrale per cui sono responsabili dello stato di veglia, mentre se i loro recettori sono bloccati si ha riduzione dell’attivazione corticale, fino al sonno e alla sedazione. Pertanto, alcuni farmaci di altre categorie come la Mirtazapina (fino a 15 mg) e il Trazodone (fino a 100 mg), farmaci antidepressivi “atipici”, possono essere utilizzati la sera per il loro importante effetto antistaminico che tende a favorire il sonno.

Possono essere utilizzati nel trattamento dell’insonnia anche due antidepressivi Triciclici quali la Trimipramina (fino a 25 mg) e l’Amitriptilina (fino a 10 mg) che bloccano i recettori dell’Istamina e dell’acetilcolina e interagiscono anche con i recettori serotoninergici 5HT2A.

Un altro farmaco che può essere utilizzato in alternativa a questi è la Quetiapina (fino a 50 mg), un antipsicotico atipico di seconda generazione che a questi dosaggi interagisce principalmente e quasi esclusivamente con i recettori dell’Istamina.

In maniera parziale tutti questi 5 farmaci bloccano anche i recettori alpha della noradrenalina, anch’essi coinvolti nel mantenimento stato di veglia.

É importante che i farmaci vengano utilizzati ai dosaggi indicati, che non sono i loro dosaggi terapeutici abituali, perché aumentando il dosaggio aumentano gli effetti peculiari di ciascun farmaco. L’Amitriptillina, per esempio, salendo di dosaggio esplica il suo potente effetto antidepressivo, così come la Quetiapina quello antipsicotico.

Questi farmaci sono molto utili nel trattamento dell’insonnia centrale e terminale, ma possono essere anche impiegati per l’insonnia iniziale, quando cioè l’insonnia colpisce l’induzione del sonno (l’addormentamento).

In particolare, la formulazione in gocce del Trittico, ad esempio, risulta molto utile in prima battuta e soprattutto se è presente insonnia iniziale, mentre se persiste insonnia terminale o centrale si può passare a una formulazione di Trazodone r.p. in compresse che favorisce il mantenimento del sonno.

Un altro neurotrasmettitore coinvolto nel sonno è il GABA. Il GABA, al contrario degli altri neurotrasmettitori (Acetilcolina, Dopamina, Noradrenalina) inibisce l’attivazione corticale e promuove il sonno. Tra i farmaci che agiscono su questo recettore troviamo le Benzodiazepine.

In generale le Benzodiazepine, siano a breve o lunga emivita (triazolam, lorazepam, delorazepam, lormetazepam, flurazepam, etc.) andrebbero sempre evitate, se non per quei rari casi di insonnia passeggera, per la loro tendenza a dare assuefazione e dipendenza.

Perchè evitare le benzodiazepine?

  • Le benzodiazepine a brevissima emivita come il Triazolam, Lormetazepam, Brotizolam possono aiutare nell’induzione del sonno, ma danno moltissima dipendenza.
  • Le benzodiazepine a più lunga emivita come il Lorazepam o a emivita lunghissima come il Flurazepam andrebbero comunque utilizzate in casi di emergenza e per brevissimo tempo, anche perché tendono a dare tolleranza, dipendenza, e ad alterare l’architettura del sonno.
  • L’Alprazolam, spesso prescritto per l’insonnia, non ha in realtà nessuna indicazione o razionale di utilizzo per questo tipo di problematica.

Esistono infine i cosiddetti Z-Drugs, farmaci come lo Zolpidem, che agiscono sempre sui recettori GABA, che altererebbero meno l’architettura del sonno e darebbero meno dipendenza, anche se dati recenti hanno messo in dubbio questi aspetti. Lo zolpidem e gli Z-Drugs, possono essere utilizzati per la fase di induzione del sonno andando così a sostituire le benzodiazepine a emivita brevissima.

In nessun modo questo testo può sostituire il consulto con un medico, un medico specialista o uno psicologo abilitati alla formazione. Le informazioni fornite infatti sono di carattere generale e  hanno uno scopo puramente informativo e divulgativo e non sostituiscono in alcun modo il parere, la diagnosi o l’intervento del medico o di altri operatori sanitari. Le nozioni e le eventuali informazioni riguardanti procedure e terapie mediche, posologie e/o descrizioni di farmaci o prodotti hanno natura esclusivamente illustrativa e non consentono di acquisire le capacità indispensabili per il loro uso o la realizzazione. Gli autori non si assumono alcuna responsabilità in relazione ai risultati o conseguenze di un qualsiasi utilizzo delle informazioni pubblicate, alla loro accuratezza, adeguatezza, completezza e aggiornamento.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / neuroscienze, psichiatria, psicoanalisi, psicoterapia

7 March 2022

GLI PSICHEDELICI COME STRUMENTO TRANSDIAGNOSTICO DI CURA, IL MODELLO BIPARTITO DELLA SEROTONINA E L’INFLUENZA DELLA PSICOANALISI

di Gjergj Cerri

Il panorama attuale della salute mentale rappresenta un punto di svolta nella storia della psichiatria. Ci troviamo di fronte ad un notevole aumento di persone che soffrono di depressione, con cifre che raggiungono i 300 milioni a livello globale e con quasi 800 000 suicidi commessi ogni anno.

Di farmaci realmente nuovi ed efficaci ce ne sono pochi e per di più, il trattamento psicofarmacologico puro, seppur un metodo molto efficace nel rendere più accessibile a larga scala la cura dei disturbi psichici, rappresenta uno strumento le cui limitazioni sono note. Tra queste ultime si annoverano un range non insignificante di effetti avversi, una modesta efficacia rispetto al placebo in alcuni casi e una fetta della popolazione pari al 20% per la quale questi strumenti non inducono l’outcome desiderato.

Di fronte a questa situazione, sembra intuibile e logica la necessità di uno strumento che non solo riesca ad agire in modo da indurre un benessere a lungo termine agendo a livello etiologico e non solo sintomatologico, ma che riesca per di più a permettere alle persone sane di mantenere una buona salute psichica a lungo termine. Riguardo questi due punti credo sia di fondamentale importanza menzionare il modello di psicopatologia che colloca quest’ultima in uno spettro, agli estremi dei quali c’è la psicopatologia e dall’altro lato la sanità mentale, con tutte le possibili variazioni all’interno. È grazie a questo modello di psicopatologia che possiamo effettivamente usare strumenti che permettano una vera e propria profilassi per le malattie mentali, significativamente carente rispetto alla profilassi delle malattie prettamente “organiche”. Per ricalcare questa necessità, ricordiamo che la WHO già nel 2004 ha evidenziato per la prima volta l’importanza di strumenti simili.
Come abbiamo imparato da questa ultima pandemia, la salute mentale rappresenta un pilastro nella qualità di vita di ciascuno di noi, ma oltre a questo ci ha anche fatto capire quanto rapidamente può evolvere la ricerca delle cure per una malattia una volta riconosciuta la sua etiologia.

Il problema dell’etiologia dei disturbi psichici è stato un argomento controverso e di lunga data, i cui “conflitti” tra gli eminenti dei vari filoni possono aver contribuito all’assenza di una teoria unificante, per quanto questa possa essere altrettanto un tema controverso in ambito di neuroscienze e psichiatria. Quello che sta trasparendo dagli ultimi studi è che gli psichedelici possano rappresentare un ponte tra i vari strati di concezione della mente e della psicopatologia, tra i quali i due più importanti quello biologico e quello psicologico. Ormai lo sappiamo che questa distinzione è di natura arbitraria e non totalmente corretta e che più si va a fondo più questa linea divisoria sbiadisce.

Per di più queste sostanze stanno mostrando efficacia terapeutica in una lunga serie di disturbi psichici, come DCA, autismo, dipendenza, DAG, depressione, ansia e DOC. Tutti questi disturbi sono stati associati ad un’assenza di flessibilità cognitiva e psicologica. I ricercatori stanno cercando di capire i meccanismi grazie ai quali gli psichedelici riescono a svolgere la loro azione terapeutica e le loro scoperte hanno messo in evidenzia alcuni modelli di concezione della mente in alcuni casi, e creato nuovi in altri. I meccanismi sono tanti e diversi, ma il punto fondamentale è la neuroplasticità in senso neurobiologico e la flessibilità in senso psicologico. È grazie a questo fenomeno che si riesce a uscire da pattern di pensiero e di comportamento tipici dei disturbi psichici. Usando la teoria dei sistemi dinamici si può intendere l’azione dei psichedelici come volta ad un appiattimento del panorama energetico della mente e cervello, riducendo l’influenza degli attrattori, ovvero tutti quei moduli cognitivo-comportamentali responsabili delle manifestazioni psicopatologiche. Tutto ciò comporterebbe la riduzione “dell’energia psichica” necessaria per cambiare il modo di pensare e di comportarsi.

Questo meccanismo terapeutico sembra sia correlato al pathway del recettore 5HT2A della serotonina. Secondo il modello bipartito della serotonina, possiamo suddividere le funzioni della serotonina in due grandi pathway, quello del recettore 5HT1A e quello del recettore 5HT2A. In poche parole, il pathway del recettore 5HT1A è responsabile del coping passivo dello stress (tolleranza) mentre quello del recettore 5HT2A è responsabile del coping attivo nel quale si cerca di affrontare ed eliminare la fonte dello stress.

Focalizzandoci brevemente su questo secondo pathway, possiamo dire che sono per appunto questi recettori il target primario degli psichedelici e che grazie a questi viene mediata la neuroplasticità e la flessibilità psicologica.
Il pathway mediato dal recettore 5HT2A sembra essere molto diverso da quello del recettore 5HT1A. Quest’ultimo agisce da isolante di fronte allo stress, aumentandone la tolleranza grazie a una riduzione dell’attività cortico-limbica di fronte agli stimoli negativi, mediata dall’azione inibitoria dei recettori 5HT1A. È questo il pathway sfruttato in ambito terapeutico dagli antidepressivi come gli SSRI.
D’altro canto, abbiamo il pathway del recettore 5HT2A che permette di aprire una finestra di plasticità nella quale la sensibilità agli stimoli sembra essere aumentata e questo rappresenta un meccanismo neutrale, nè nocivo né terapeutico. Grazie all’utilizzo del set e setting giusto, questa sensibilità può essere sfruttata per ricalibrare pattern disfunzionali, portandolo a divenire così un mezzo terapeutico.

Figura 2 Differenze tra i pathway del recettore 5HT1A e 5HT2A

La differenza significativa tra questi due pathway può indicare verso un possibile uso complementare tra i farmaci che agiscono in modo separato su questi due pathway. È stato infatti proposto che un’attivazione combinata del pathway del recettore 5HT1A e 2A possa avere una influenza positiva complementaria a livello affettivo, grazie alla tolleranza allo stress (1A) e la flessibilità psicologica (2A). Questa possibile combinazione è ancora lontana dal focus della ricerca in ambito psichedelico, tenendo conto dell’incombente rischio di sviluppo di una sindrome serotoninergica.
La plasticità può essere interpretata secondo la teoria del cervello entropico di Carhart-Harris come un aumento di entropia, un aumento di disordine evidentemente essenziale per permettere quel flusso di informazioni bottom-up, che permettono a loro volta di modificare pattern irrigiditi (modello REBUS). Secondo questa teoria, sviluppata grazie a indagini di neuroimmagine in pazienti sotto effetto di psichedelici, le variazioni di entropia rappresentano un meccanismo importante per capire la patogenesi di vari disturbi psichici. A bassi livelli entropici predomina la rigidità e abbiamo disturbi come la depressione ed il DOC, mentre ad alti livelli entropici abbiamo quadri psicotici e le esperienze psichedeliche. A bassi livelli di entropia abbiamo una rigidità del controllo top-down che non permette una ricalibrazione costante delle credenze e pattern in base a quello che viene percepito, mentre dal lato opposto abbiamo un’assenza di tale controllo, risultante nella perdita dei principi direttivi e una sovrabbondanza di stimoli sensoriali.

Non è questa la prima volta in cui si accenna la presenza di una parte della psiche contenente immagini, percezioni e pensieri apparentemente disordinati e di un’altra parte della psiche responsabile del controllo funzionale della prima. Fu Freud grazie ai suoi processi primari e secondari a dare via a questo modello. Secondo lui i processi primari erano caratterizzati da materiale psichico disordinato, vago e simbolico mentre quelli secondari erano caratterizzati da ordine, precisione e controllo razionale. Per rendere tutto ciò più intuibile, questo processo secondario era secondo lui una responsabilità dell’ego che conteneva e metteva ordine in tutti i processi secondari. Da riconoscere alla psicanalisi in ambito psichedelico è anche il concetto dei meccanismi di difesa come principale spiegazione dei disturbi psichici, implicando la presenza di un core disfunzionale transdiagnostico che viene manifestato in vari modi a seconda di fattori predisponenti biologici, sociali e psicologici.
Riassumendo, siamo di fronte ad un panorama mentale globale che necessita più che mai di strumenti che riescano ad agire a livello etiologico nei soggetti malati e che riescano ad agire da prevenzione primaria nella parte restante della popolazione. Il core etiologico di tanti disturbi sembra essere l’assenza di plasticità e gli psichedelici rappresentano uno strumento la cui efficacia è attribuibile all’aumento di quest’ultima. Grazie al modello bipartito della serotonina possiamo capire meglio il meccanismo d’azione di questi strumenti e riuscire a trovare il metodo migliore nella somministrazione di questo tipo di terapia e capire le possibili interazioni e complementarietà con altri farmaci che agiscono sui circuiti serotoninergici. I vari modelli di concezione della mente approfonditi grazie agli studi con queste sostanze ci permetteranno, per quanto possibile, di avvicinarci alla Grand Unified Theory della mente, rendendo gli psichedelici la prossima pietra miliare nella storia della psichiatria.

Qui di seguito alcune risorse per approfondire, su questo blog e altrove, il tema “psichedelici”:

  • MDMA PER IL POST-TRAUMA: BEN SESSA E ALTRI RIFERIMENTI IN RETE
  • MDMA PER IL TRAUMA: VIDEOINTERVISTA A ELLIOT MARSEILLE (A CURA DI JONAS DI GREGORIO)
  • VERSO L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL PTSD
  • RUBRICA: TERAPIE PSICHEDELICHE
  • PODCAST: TERAPIE PSICHEDELICHE
  • PODCAST: ILLUMINISMO PSICHEDELICO

Inoltre:

Bibliografia:
Carhart-Harris, R. L., & Nutt, D. J. (2017). Serotonin and brain function: a tale of two receptors. Journal of psychopharmacology (Oxford, England), 31(9), 1091–1120. https://doi.org/10.1177/ 0269881117725915
očárová, R., Horáček, J., & Carhart-Harris, R. (2021). Does Psychedelic Therapy Have a Transdiagnostic Action and Prophylactic Potential?. Frontiers in psychiatry, 12, 661233. https://doi.org/10.3389/ fpsyt.2021.661233
S. Parker Singleton, Andrea I. Luppi, Robin L. Carhart-Harris, Josephine Cruzat, Leor Roseman, Gustavo Deco, Morten L. Kringelbach, Emmanuel A. Stamatakis, Amy Kuceyeski (2021) Psychedelics Flatten the brain’s energy landscape: evidence from receptor-informed network control theory, bioRxiv 2021.05.14.444193;
https://doi.org/10.1101/ 2021.05.14.444193
Swanson L. R. (2018). Unifying Theories of Psychedelic Drug Effects. Frontiers in pharmacology, 9, 172. https://doi.org/10.3389/ fphar.2018.00172

Article by admin / Formazione / neuroscienze, psichiatria, psicologia, psicotraumatologia

17 January 2022

LE TEORIE BOTTOM-UP NELLA PSICOTERAPIA DEL POST-TRAUMA (di Antonio Onofri e Giovanni Liotti)

di Antonio Onofri, Giovanni Liotti

PREMESSA #1: questo articolo è tratto dai volumi Cecilia La Rosa e Antonio Onofri (a cura di): Dal basso in alto (e ritorno). Nuovi approcci bottom-up: terapia cognitiva, corpo, EMDR, ApertaMenteWeb, Roma 2017 e da Antonio Onofri e Cecilia La Rosa (a cura di): Il corpo nell’EMDR. Dal basso in alto (e ritorno): casi clinici. ApertaMenteWeb, Roma 2021. Per gentile concessione di www.ApertaMenteWeb.com

PREMESSA #2: su questo blog abbiamo diffusamente parlato di sindromi post traumatiche e teorie bottom-up: il materiale riguardante le sindromi post-traumatiche è consultabile qui

Le emozioni e i processi primari e secondari secondo Panksepp

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una trasformazione del modello generale con il quale le moderne neuroscienze che studiano i processi emozionali negli animali e negli esseri umani considerano l’evoluzione della mente. Sempre maggiore attenzione viene prestata all’idea che lo sviluppo evoluzionistico proceda “dal basso verso l’alto” (bottom- up) secondo una concezione gerarchica dell’organizzazione cerebrale in maniera almeno complementare all’evoluzione del controllo “dall’alto verso il basso” esercitato dalle strutture cerebrali superiori su quelle inferiori (Panksepp e Biven 2012).

Una tale visione – e i dati offerti dalla ricerca scientifica – sembrerebbe confermare alcune antiche intuizioni sulle interazioni mente-corpo e suggerire l’abbandono di ogni rigida dicotomia tra lo studio delle malattie fisiche e quello dei disturbi emotivi. Le nuove prospettive bottom-up, che questo volume si ripropone di illustrare e descrivere, sembrano infatti ribaltare la concezione interpretativa, valutativa e quindi prettamente cognitiva delle emozioni, almeno per quanto riguarda quei processi emotivi che Panksepp e Biven (2012) considerano primari, ancestrali, quasi – istintuali e localizzati nel cervello più antico, strettamente connessi a funzioni di sopravvivenza (e riproduzione). Proprio questi processi emozionali primari, del resto, sembrano prendere il sopravvento in non poche condizioni psicopatologiche. “Quando gli affetti hanno la meglio, la cura della parola è destinata a fallire in quanto il metodo interpretativo, lo strumento psicoterapeutico cardine, può essere spesso inefficace nei confronti delle nostre passioni primitive.” (Panksepp 2012). Se è vero infatti che come esseri umani possediamo espansioni cerebrali di livello superiore che ci permettono di pensare in maniera approfondita e di riflettere sulla nostra natura, per molte persone in molte condizioni, e per molti pazienti che presentano disturbi psichiatrici, le emozioni non appaiono certo sotto il controllo completo della mente superiore. Tanto che proprio tale osservazione rende spesso necessario il ricorso alle terapie farmacologiche, più in grado – anche se certamente in maniera ancora molto grossolana – di arrivare a questi processi emotivi “più bassi”.

Sembra riemergere, nelle sopra menzionate considerazioni, una concezione decisamente gerarchica non solo del cervello, ma anche delle stesse emozioni. Per esempio, Panksepp e Biven (2012) leggono le risposte emozionali quasi – istintive in termini di esperienze psicologiche di processo primario, che in un secondo momento si unirebbero a una varietà di meccanismi di memoria e apprendimento chiamati processi secondari del cervello. I processi mentali di ordine ancora superiore, al vertice dell’attività cerebrale, son quelli che permettono di riflettere sui dati dell’esperienza e dell’apprendimento e vengono chiamati processi terziari. Secondo una tale visione, né le abilità cognitive, né la capacità di pensare in termini verbali sono considerate condizioni necessarie per una coscienza di tipo affettivo. “Nel sentire i nostri stati affettivi – sono ancora Panksepp e Biven che scrivono – non abbiamo bisogno di sapere che cosa stiamo sentendo. In altre parole, i sentimenti emotivi di processo primario sono affetti grezzi che prendono automaticamente decisioni importanti per noi”. Le reazioni corporee, sia di tipo viscerale sia motorie, sembrano in grado di influenzare – e spesso rafforzare – le stesse esperienze emotive primarie. Nel costituirsi e nell’esprimersi delle emozioni sembra dunque imprescindibile la considerazione di aspetti gerarchici della struttura e delle funzioni del cervello/mente.

La concezione gerarchica del cervello secondo J.H.Jackson

Una prima compiuta concezione gerarchica delle strutture e funzioni del cervello/mente, formulata in accordo con l’allora nascente pensiero evoluzionistico, è legata al nome di John Hughlings Jackson (per un’antologia degli scritti di Jackson, vedi Taylor 1958). Una breve sintesi della teoria di Jackson può essere utile per cogliere alcuni aspetti cruciali della sua concezione gerarchica, che mai ha cessato di influenzare neurologia e psichiatria (Franz e Gillett 2011).

Le applicazioni del pensiero di Darwin allo studio del cervello/mente, precedenti all’opera di Jackson, sostenevano che le strutture cerebrali di specie evoluzionisticamente più antiche venissero sostituite da nuove strutture nel corso dell’evoluzione di specie più recenti. Jackson sostenne, al contrario, che le strutture più evoluzionisticamente recenti del cervello si stratificano su una base costituita dalle strutture più antiche, le quali dunque permangono, con mutamenti soltanto secondari e limitati, nel nevrasse di specie più recenti. Secondo Jackson, le funzioni delle strutture cerebrali più antiche vengono rappresentate di nuovo nelle reti neurali più recenti (neostrutture), le quali così permettono forme di elaborazione dell’informazione più articolate e flessibili. Non solo le strutture neurali più evoluzionisticamente antiche non scompaiono dai cervelli delle specie più recenti, ma esse continuano a elaborare input informativi dai quali dipendono le funzioni delle neostrutture. Di grande importanza è anche l’idea Jacksoniana che le strutture evoluzionisticamente recenti esercitino funzioni di controllo e inibizione su quelle più arcaiche. Infine, le strutture più recenti sarebbero anche le più sensibili a “dissolversi” (dissolution o de-evolution, nella terminologia di Jackson), in modo contingente, di fronte a influenze ambientali patogene. Le manifestazioni conseguenti alla dissoluzione delle funzioni cerebrali superiori (evoluzionisticamente recenti) sarebbero espressione dell’attività delle funzioni inferiori (evoluzionisticamente più antiche) che, non più controllate e rese flessibili dalle superiori, appaiono come automatismi sregolati (Jackson 1884/1958).

Le concezioni evoluzionistiche di Jackson si sono rivelate influenti in psicopatologia per oltre un secolo, e lo sono ancora. Per esempio, il concetto di dissoluzione è stato usato recentemente per comprendere le risposte dissociative ai traumi psicologici (Farina et al. 2015; Meares 1999, 2012) e – classicamente – per distinguere, nella schizofrenia, i sintomi positivi da quelli negativi (Berrios 1985). Tutte queste influenze sulla psicopatologia del pensiero di Jackson sono riconducibili all’attenta considerazione, da parte del neurologo inglese, dell’intreccio continuo di processi che vanno dal basso verso l’alto (bottom-up) e – ricorsivamente – dall’alto verso il basso (top-down) nel complesso sistema gerarchico che l’evoluzione avrebbe progressivamente selezionato nel “costruire” il cervello/mente umano.

L’attività mentale secondo Pierre Janet e Sigmund Freud

Continuando a rivolgere la nostra attenzione alle radici storiche della moderna psicotraumatologia, appare interessante ricordare come una delle principali critiche rivolte da Pierre Janet alla teoria di Freud, riguardante la concezione dei rapporti fra attività mentali coscienti e sub-coscienti (o inconsce, nella teoria psicoanalitica) potrebbe essere meglio apprezzata, nel linguaggio delle neuroscienze contemporanee, proprio considerando la diversa attenzione prestata da parte dei due Autori ai processi top-down e bottom-up. Janet riteneva, nell’ipotizzare la genesi della dissociazione post-traumatica, che si trattasse soprattutto di un processo bottom-up procedente dai livelli inferiori della mente e del cervello verso i livelli superiori (autocoscienza e neocorteccia). Freud, invece, si mostrava più interessato, nella sua teoria psicopatologica, a descrivere i meccanismi che avanzerebbero in senso inverso, top-down (Liotti e Farina 2013). Per Freud erano infatti i livelli superiori della mente, connessi alle funzioni dell’Io, a mettere in atto l’esclusione difensiva dall’auto-coscienza delle emozioni e degli altri contenuti mentali disturbanti, che venivano così a collocarsi in un livello inferiore, inconscio, di attività mentale (Liotti 2014).

Janet affermava che i processi più alti della coscienza umana, cioè quelli più caratterizzati dall’esercizio attivo della volontà e della libertà, si pongono al vertice di una gerarchia di sistemi mentali e cerebrali i cui livelli inferiori risulterebbero di fatto automatici (parlava infatti di automatismi psicologici, Janet 1898). I livelli superiori, che richiedono un’elevata quantità di tensione psicologica (come Janet chiamava l’energia mentale) subirebbero, in altre parole, l’influenza disaggregante dei livelli inferiori, automatici, sottoposti al trauma. Gli effetti di questo fenomeno sarebbero l’esaurimento di quella tensione psicologica necessaria per un efficace funzionamento dell’autocoscienza, e di conseguenza un funzionamento mentale privo di coscienza riflessiva (sub-cosciente), con la comparsa dei diversi automatismi psicologici tipici dei sintomi dissociativi post-traumatici. In altre parole, secondo Janet, i processi mentali legati a memorie traumatiche farebbero emergere gli automatismi mentali normalmente celati dalle funzioni caratterizzanti la coscienza integra cui Janet (1907) attribuiva quelle attività che denominava come sintesi personale (coscienza piena dell’Io), funzione di realtà e presentificazione (in sostanza, la capacità di distinguere il passato dal presente e l’immaginazione dalla realtà).

Riassumendo al massimo, potremmo dire che secondo il sistema gerarchico delle funzioni di coscienza proposto da Janet, la funzione di realtà e la presentificazione costituiscano i livelli superiori, la sintesi personale un livello intermedio, e gli automatismi sub-coscienti i livelli inferiori. L’eccesso di tensione psicologica nei livelli inferiori della gerarchia (di cui l’esempio prototipico sono le emozioni veementi attivate dalle memorie traumatiche) porterebbe così all’esaurimento della tensione anche nei livelli superiori, e quindi all’emergere degli automatismi in uno stato soggettivo di coscienza alterata. Ecco emergere chiaramente, da questa sintesi, l’importanza che Janet attribuiva ai processi bottom-up nella genesi della sintomatologia post- traumatica.

Freud, invece, sottolineava come fossero le funzioni dell’Io a generare le influenze patogene, attraverso l’esclusione difensiva dalla coscienza di impulsi ed emozioni e la formazione dell’Inconscio proprio come conseguenza della rimozione, privilegiando così i processi top-down nello spiegare l’origine dei sintomi (sia quelli legati a memorie di eventi traumatici sia quelli più generali legati a conflitti interiori fra le esigenze dell’Es e quelle del Super-Io).

Il sistema di difesa secondo Stephen Porges

Le ricerche e le teorie attuali proposte dalla psicofisiologia – e applicabili al campo di studi ormai comunemente denominato come psicotraumatologia – sembrerebbero accordarsi maggiormente con la prospettiva di Janet rispetto a quella di Freud. Tra i contributi più importanti della psicofisiologia a questo riguardo citiamo la teoria polivagale (Porges 2011), secondo la quale le reazioni dell’organismo di fronte a eventi che ne minacciano la vita o l’integrità sono regolate da un sistema neurobiologico localizzato nel tronco encefalico che coinvolge le strutture del sistema nervoso vegetativo, e cioè da un lato la rete neurale centrale che controlla il sistema ortosimpatico e dall’altro il nucleo del vago (parasimpatico) con la sua bipartizione (i complessi vagali dorsale e ventrale) (per le implicazioni cliniche della teoria polivagale cfr. anche il capitolo 7, di Gabriella Giovannozzi , in questo stesso volume).

Le ricerche che utilizzano la teoria polivagale suggeriscono che l’attivazione del sistema di difesa dai pericoli ambientali, durante l’esposizione a un evento traumatico e probabilmente anche durante la sua rievocazione nella memoria, potrebbe influenzare proprio “dal basso in alto” le strutture e le funzioni cerebrali superiori (proponendo quindi una visione concorde con quella proposta da Janet) più di quanto queste ultime influenzino il sistema di difesa. Si spiegherebbero forse così, cioè con un’azione bottom-up esercitata dal sistema di difesa dai pericoli ambientali, anche l’ipometabolismo della corteccia frontale durante la rievocazione di memorie traumatiche e l’utilità di molti approcci terapeutici come quelli descritti nei diversi capitoli di questo volume (dall’EMDR, alla mindfulness, alla terapia sensomotoria etc.) che utilizzano grandemente i processi bottom-up, e non solo top-down, nella psicoterapia soprattutto delle reazioni post-traumatiche complesse caratterizzate da quote importanti di dissociazione. In altre parole, l’attivazione del sistema di difesa dai pericoli ambientali – localizzato nel tronco encefalico – eserciterebbe da un lato profondi effetti sull’esperienza corporea (mediata dall’ortosimpatico e dal parasimpatico) e dall’altra genererebbe quella particolare percezione e coscienza di sé – di tipo dissociativo – che si accompagna alle suddette disfunzioni corticali.

Anche queste nuove acquisizioni sembrerebbero confermare l’idea di Janet, secondo il quale la risposta disfunzionale al trauma psicologico, una volta che si sia in presenza di una particolare vulnerabilità del Sistema Nervoso, sia sostanzialmente l’effetto della cosiddetta emozione veemente (che potremmo considerare in sostanza come un’emozione primaria di eccezionale intensità, se preferissimo utilizzare il più moderno linguaggio di Panksepp) sulle funzioni mentali superiori della coscienza. La risposta patologica al trauma psicologico, in altre parole, andrebbe considerata, secondo Janet, come un deficit funzionale della coscienza causato direttamente dalla memoria traumatica. Tale visione diverge profondamente dalla proposta freudiana, secondo il quale la patologia post-traumatica sarebbe invece l’effetto di un’attività difensiva da parte dell’Io, volta a escludere dalla coscienza emozioni e rappresentazioni avvertite come inaccettabili.

Sullo stesso tema, infatti, Janet – parlando delle sue prime osservazioni cliniche (precedenti al 1894) -scriveva: “… il ricordo traumatico non poteva essere espresso durante la veglia e si presentava solo in condizioni particolari in un altro stato psicologico … [uno stato] … di modificazione della coscienza che avevo cercato di descrivere … come subcoscienza per disgregazione [désagrégation] … Questa dissociazione … mi sembrava in relazione con l’esaurimento provocato da cause diverse e in particolare dall’emozione.” (Janet 1923, tr. it. p. 37). Janet, nel contrapporre la propria prospettiva a quella di Freud, usava le seguenti parole: “il Dr Sigmund Freud … considerò come una rimozione quel che io attribuivo a un restringimento della coscienza … ma soprattutto trasformò un’osservazione clinica e un procedimento terapeutico con indicazioni precise e limitate in uno smisurato sistema di filosofia medica.” (Janet 1923, tr. it. p. 38).

La differenza fra l’idea che in persone particolarmente vulnerabili la coscienza possa subire più o meno passivamente una sorta di “esaurimento”, cioè un patologico restringimento delle sue attività (il “sub-cosciente” secondo Janet), come effetto di eventi o di ricordi traumatici, e l’idea secondo la quale si tratti invece di un’attiva operazione mentale di tipo prettamente difensivo nella genesi della dissociazione post-traumatica, appare ancora più chiara se si confrontano le seguenti parole di Freud con quelle appena citate di Janet: “… mi è più volte riuscito di dimostrare che la scissione del contenuto di coscienza è la conseguenza di un atto di volontà del malato, e che cioè essa è indotta da uno sforzo di volontà la cui motivazione è comunque rintracciabile.” (Freud 1894, tr. it. 1968, p. 121).

Liotti (2014) ricorda come la teoria secondo la quale la dissociazione post-traumatica sia una difesa dal dolore mentale (nel senso di un’operazione psichica in qualche modo voluta, anche se inconscia) è stata certamente predominante nel campo della psicotraumatologia, anche oltre l’ambiente psicodinamico. Tuttavia, anche in ambito psicoanalitico sono state espresse alcune importanti perplessità su questa teoria, sia indirettamente (Lyons-Ruth 2008) sia direttamente (Howell 2011, 35-36; Meares 2012, 139-147), su basi sia cliniche sia di ricerca.. Tali perplessità hanno portato ormai diversi psicoanalisti a riflettere sulla possibilità che esista un importante aspetto della dissociazione post-traumatica non inquadrabile come attivamente difensivo, bensì automatico, proprio come riteneva Janet, che almeno si affiancherebbe a quello più tipicamente difensivo ipotizzato da Freud (vedi, per esempio, Craparo 2013). In ambito non psicoanalitico, invece, prospettive teoriche e terapeutiche fondate esplicitamente sulle tesi di Janet molto di più che su quelle di Freud sono facilmente reperibili anche in italiano (solo per citarne alcuni, Liotti e Farina 2011; Ogden, Pain, Fisher 2006a; van der Hart, Nijenhuis, Steele 2006).

I contributi della psicologia sperimentale

Come abbiamo già detto, i risultati di un ormai significativo numero di ricerche sperimentali, sia nell’ambito della psicologia generale, sia delle neuroscienze, sembrano convergere nell’affermare la sostenibilità (se non altro parziale) della tesi janetiana sulla natura primaria – cioè non secondaria a una “volontà” difensiva nel senso inteso da Freud – del restringimento del campo di coscienza come risposta a un trauma psicologico. A tale proposito, possiamo ricordare come l’esperimento effettuato da Horowitz e Telch (2007) abbia fornito risultati sostanzialmente incompatibili con l’idea che gli stati dissociativi (equivalenti al restringimento del campo di coscienza o al sub- cosciente della terminologia janetiana) possano ricoprire una valenza

protettiva nei confronti di esperienze dolorose. I partecipanti all’esperimento di Horowitz e Telch, ai quali veniva indotto uno stato dissociativo mediante una stimolazione pulsante audio-visiva, riportavano una maggiore risposta dolorosa durante l’immersione della mano in acqua ghiacciata rispetto a quelli in uno stato di coscienza più usuale: un risultato assolutamente in contrasto con l’ipotesi che la dissociazione funga da protezione dal dolore. L’unico modo per conciliare questo tipo di risultati con quelli provenienti da altri studi sperimentali, che invece mostrerebbero una certa correlazione fra stati mentali dissociativi e analgesia, consiste nel ricorrere nuovamente a quanto andiamo scoprendo relativamente al sistema cerebrale deputato a gestire le minacce ambientali e il dolore conseguenti a un trauma (Porges 2011). Tale sistema sembrerebbe infatti operare oscillando alternativamente fra una iperattivazione neurovegetativa (l’hyperarousal mediato dall’ortosimpatico), come nell’esperimento di Horowits e Telch, che può amplificare la paura e il dolore, e una ipoattivazione (l’hypoarousal mediato dal vago) che invece può essere correlata all’ottundimento del sensorio e pertanto a una certa analgesia. Entrambe queste modalità operative comportano quel che Janet avrebbe chiamato restringimento del campo di coscienza e abbassamento del livello mentale (Janet 2016).

Possiamo ormai disporre di un certo numero di ricerche, provenienti dal campo di studio delle neuroscienze, che sembrerebbero confermare l’idea che vi sia un diretto e passivo abbassamento del livello mentale generale, più che un’attività difensiva intrapsichica, come risposta a traumi o a ricordi traumatici (per una rassegna, vedi Liotti e Farina 2013). Diversi studi sperimentali hanno infatti mostrato un ipometabolismo, come conseguenza dell’attivazione di ricordi traumatici, nelle stesse zone della corteccia cerebrale deputate sia ad azioni che comportano attivi “sforzi di volontà” da parte dell’Io (secondo la visione di Freud), sia alle funzioni mentali superiori della coscienza. Pertanto, un tale ipometabolismo sembra corrispondere di più alla visione janetiana di un restringimento del campo di coscienza e di un abbassamento del livello mentale generale che non all’idea freudiana di un motivato “sforzo di volontà”, seppur inconscio (Liotti e Farina 2013): come potrebbe infatti uno sforzo di volontà corrispondere a un ipometabolismo proprio in quelle zone corticali del cervello che dovrebbero essere più impegnate negli atti di volontà?

Considerazioni analoghe, relative alla compatibilità tra le tesi di Janet e i risultati delle neuroscienze sperimentali, potrebbero essere avanzate a proposito dei dati provenienti da quelle ricerche che utilizzano, in condizioni patologiche connesse alla dissociazione post-traumatica, la rilevazione dell’attività bioelettrica della corteccia cerebrale al posto dell’indagine di variabili metaboliche. Una di queste ricerche dimostra, attraverso la rilevazione dei potenziali evocati, un deficit nella “sintesi” dell’onda P300, che si presenta normalmente unitaria (Meares 2012), e che invece non riuscirebbe a raggiungere la “sintesi” nelle patologie post-traumatiche, restando quindi sdoppiata nelle sue due componenti (una prevalentemente frontale e una seconda prevalentemente parietale).

In conclusione, ecco quindi che appare se non altro ragionevole affiancare, al tradizionale studio dei processi mentali e degli interventi clinici ascrivibile al campo denominabile come top-down, anche l’indagine dei fenomeni mentali bottom-up e – parallelamente – degli strumenti terapeutici in grado di facilitare cambiamenti “dal basso in alto” delle funzioni mentali di ordine superiore. E’ proprio questo tema che i curatori del presente volume, attraverso i diversi contributi presentati, hanno voluto indagare.


NB Sul blog sono presenti alcuni “serpenti di articoli” inerenti disturbi specifici. Dal menù è possibile aggregarli intorno a 4 tematiche: il disturbo ossessivo compulsivo (#DOC), il disturbo di panico (#PANICO), il disturbo da stress post traumatico (#PTSD) e le recensioni di libri (#RECENSIONI)

Article by admin / Formazione / neuroscienze, psicotraumatologia, PTSD

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  • PER AVERE UNA BUONA AUTISTIMA, OCCORRE ESSERE NARCISISTI?
  • LA MENTE ADOLESCENTE di Daniel Siegel
  • TALVOLTA È LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI – IMPLICAZIONI PRATICHE
  • Costruire un profilo psicologico a partire dal tuo account Facebook? La scienza dietro alla vittoria di Trump e al fenomeno Brexit
  • L’effetto placebo nel Morbo di Parkinson. È possibile modificare l’attività neuronale partendo dalla psiche?
  • I LIMITI DELL’APPROCCIO RDoC secondo PARNAS
  • COME IL RICORDO DEL TRAUMA INTERROMPE IL PRESENTE?
  • SISTEMI MOTIVAZIONALI INTERPERSONALI E TEMI DI VITA. Riflessioni intorno a “Life Themes and Interpersonal Motivational Systems in the Narrative Self-construction” di Fabio Veglia e Giulia di Fini
  • IL SOTTOTIPO “DISSOCIATIVO” DEL PTSD. UNO STUDIO DI RUTH LANIUS e collaboratori
  • “ALCUNE OSSERVAZIONI SUL PROCESSO DEL LUTTO” di Otto Kernberg
  • INTRODUZIONE ALLA MOVIOLA DI VITTORIO GUIDANO
  • INTRODUZIONE AL LAVORO DI DANIEL SIEGEL
  • DALL’ADHD AL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ: IL RUOLO DEI TRATTI CALLOUS-UNEMOTIONAL
  • UNO STUDIO SUI CORRELATI BIOLOGICI DELL’EMDR TRAMITE EEG
  • MULTUM IN PARVO: “IL MONDO NELLA MENTE” DI MARIO GALZIGNA
  • L’EFFETTO PLACEBO COME PARADIGMA PER DIMOSTRARE SCIENTIFICAMENTE GLI EFFETTI DELLA COMUNICAZIONE, DELLA RELAZIONE E DEL CONTESTO
  • PERCHÈ L’EFFETTO PLACEBO SEMBRA ESSERE PIÙ DEBOLE NEL DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO: UN APPROFONDIMENTO
  • BREVE REPORT SUL CONCETTO CLINICO DI SOLITUDINE E SUL MAGNIFICO LAVORO DI JT CACIOPPO
  • SULL’USO DEGLI PSICHEDELICI IN PSICHIATRIA: L’MDMA NEL TRATTAMENTO DEL DISTURBO POST-TRAUMATICO
  • LA LENTE PSICOTRAUMATOLOGICA: GLI ASSUNTI EPISTEMOLOGICI
  • PREVENIRE LE RECIDIVE DEPRESSIVE: FARMACOTERAPIA, PSICOTERAPIA O ENTRAMBI?
  • YOUTH IN ICELAND E IL COMUNE DI SANTA SEVERINA IN CALABRIA
  • FILTRO AFFETTIVO DI KRASHEN: IL RUOLO DELL’AFFETTIVITÀ NELL’IMPARARE
  • DIFFIDATE DELLA VOSTRA RAGIONE: LA PATOLOGIA OSSESSIVA COME ESASPERAZIONE DELLA RAZIONALITÀ
  • BREVE STORIA DELL’ELETTROSHOCK
  • TALVOLTA É LA RASSEGNAZIONE DEL TERAPEUTA A RENDERE RESISTENTE LA DEPRESSIONE NEI DISTURBI NEURODEGENERATIVI
  • LO STATO DELL’ARTE SUGLI EFFETTI DELL’ATTIVITÀ FISICA NEL PTSD (disturbo da stress post-traumatico)
  • DIPENDENZA DA INTERNET: IL RITORNO COMPULSIVO ON-LINE
  • L’EVOLUZIONE DELLE RETI NEURALI ASSOCIATIVE NEL CERVELLO UMANO: report sullo sviluppo della teoria del “tethering”, ovvero di come l’evoluzione di reti neurali distribuite, coinvolgenti le aree cerebrali associative, abbia sostenuto lo sviluppo della cognizione umana
  • COMMENTO A “PSICOPILLOLE – Per un uso etico e strategico dei farmaci” di A. Caputo e R. Milanese, 2017
  • L’ERGONOMIA COGNITIVA NEL METODO DI MARIA MONTESSORI
  • SUL COSTRUTTIVISMO: PERCHÉ LA SCIENZA DEVE RICERCARE L’UTILE. Un estratto da Terapia Breve Strategica di Paul Watzlawick e Giorgio Nardone
  • IN MORTE DI GIOVANNI LIOTTI
  • ALL THAT GLITTERS IS NOT GOLD. APOLOGIA DELLA PLURALITÀ IN PSICOTERAPIA ATTRAVERSO UN ARTICOLO DI LEICHSERING E STEINERT
  • COMMENTO A:  ON BEING A CIRCUIT PSYCHIATRIST di JA Gordon
  • KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE, PARTE 2
  • IL PRIMATO DELLA MANIA SULLA DEPRESSIONE: “LA MANIA È IL FUOCO E LA DEPRESSIONE LE SUE CENERI”.
  • IL CESPA
  • COMMENTO A LUTTO E MELANCONIA DI FREUD
  • LA DEFINIZIONE DI SOTTOTIPI BIOLOGICI DI DEPRESSIONE FONDATA SULL’ATTIVITÀ CEREBRALE A RIPOSO
  • BORSBOOM: PER LA SEPARAZIONE DEI MODELLI DI CAUSALITÀ RELATIVI AL MODELLO MEDICO E AL MODELLO PSICHIATRICO, E SULLA CAUSALITÀ CIRCOLARE CHE REGOLA I RAPPORTI TRA SINTOMI PSICOPATOLOGICI
  • IL LAVORO CON I PAZIENTI GRAVI: IL QUADRO BORDERLINE E LA DBT
  • INTERNET ADDICTION, ALCUNI SPUNTI DAL LAVORO DI KIMBERLY YOUNG
  • EMDR: LO STATO DELL’ARTE
  • PTSD, UNA DEFINIZIONE E UN VIDEO ESPLICATIVO
  • FLASHBULB MEMORIES E MEMORIE TRAUMATICHE, UN APPROFONDIMENTO
  • NUOVA PSICHIATRIA, RDoC E NEUROPSICOANALISI
  • JACQUES LACAN, LA CLINICA PSICOANALITICA: STRUTTURA E SOGGETTO di Massimo Recalcati, 2016
  • DGR 29: alcune riflessioni su quello che sembra un passo indietro in termini di psichiatria pubblica
  • L’ATTUALITÀ DI PIERRE JANET: “La psicoanalisi”, di Pierre Janet
  • PSICOPATIA E AGGRESSIVITÀ PREDATORIA, LA VERSIONE DI GIOVANNI LIOTTI (da “L’evoluzione delle emozioni e dei Sistemi Motivazionali”, 2017)
  • LA GESTIONE DEL CONTATTO OCULARE IN PAZIENTI CON PTSD
  • MARZO 2017: IL CONSENSUS STATEMENT SULL’UTILIZZO DI KETAMINA NEI CASI DI DISORDINI DELL’UMORE APPARENTEMENTE NON TRATTABILI
  • IL CERVELLO TRIPARTITO: LA TEORIA DI PAUL MACLEAN
  • IL CIRCUITO DI RICOMPENSA NELL’AMBITO DEI PROBLEMI DI DIPENDENZA
  • OTTO KERNBERG: UN AUTORE IMPRESCINDIBILE
  • TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SULLE MNEMOTECNICHE (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)
  • LA CURA DEL SE’ TRAUMATIZZATO di Lanius e Frewen, 2017
  • EFFICACIA DI UN BREVE INTERVENTO PSICOSOCIALE PER AUMENTARE L’ADERENZA ALLE CURE FARMACOLOGICHE NELLA DEPRESSIONE
  • PSICOTERAPIE: IL DIBATTITO SU FATTORI COMUNI E SPECIFICI A CONFRONTO

IL BLOG

Il blog si pone come obiettivo primario la divulgazione di qualità a proposito di argomenti concernenti la salute mentale: si parla di neuroscienza, psicoterapia, psicoanalisi, psichiatria e psicologia in senso allargato:

  • Nella sezione AGGIORNAMENTO troverete la sintesi e la semplificazione di articoli tratti da autorevoli riviste psichiatriche. Vogliamo dare un taglio “avanguardistico” alla scelta degli articoli da elaborare, con un occhio a quella che potrà essere la psichiatria e la psicoterapia di “domani”. Useremo come fonti articoli pubblicati su riviste psichiatriche di rilevanza internazionale (ad esempio JAMA Psychiatry, World Psychiatry, etc) così da garantire un aggiornamento qualitativamente adeguato.
  • Nella sezione FORMAZIONE sono contenuti post a contenuto vario, che hanno l’obiettivo di (in)formare il lettore a proposito di un determinato argomento.
  • Nella sezione EDITORIALI troverete punti di vista personali a proposito di tematiche di attualità psichiatrica.
  • Nella sezione RECENSIONI saranno pubblicate brevi e chiare recensioni di libri inerenti la salute mentale (psicoterapia, psichiatria, etc.)

A CURA DI:

  • Raffaele Avico, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale,  Torino, Milano
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